All’interno della stazione, la macchina mandò un sibilo lamentoso.
Enoch riappese il fucile, posò la posta e la statuetta sulla scrivania e si avvicinò all’apparecchio. Premette il bottone, spinse la leva e il sibilo cessò.
Sulla lastra apparve il seguente messaggio:
DA N. 406302 A STAZIONE 18321. ARRIVERÒ PRIME ORE SERA, TEMPO LOCALE. TIENI PRONTO CAFFÈ CALDO. ULISSE.
Enoch sorrise. Ulisse e il suo caffè! Era l’unico visitatore che avesse mostrato di apprezzare cibi o bevande terrestri. Altre li avevano assaggiati, ma non più di una o due volte.
Ulisse era uno strano tipo. Lui ed Enoch erano andati d’accordo fin dal primo momento, fin dal pomeriggio tempestoso in cui s’erano seduti sui gradini del portico e la maschera di fattezze umane era caduta dal volto del nuovo venuto.
Era un volto orribile, repulsivo e senza grazia. Quello di un crudele pagliaccio, si era detto Enoch, e subito il paragone gli era sembrato strano, perché i pagliacci non sono crudeli. Eppure eccone uno: i colori strani della faccia rappezzata, la mascella dura e prominente, la bocca sottile come una ferita…
Poi aveva notato gli occhi e la prima impressione era stata cancellata. Erano occhi grandi, dolci e pieni di una luce di comprensione che equivaleva a una sincera offerta di amicizia. Occhi che lo cercavano.
La pioggia aveva improvvisamente incominciato a sferzare la terra, picchiettando sul tetto e rovesciandosi improvvisa su di loro. Martellava rabbiosa la polvere dell’aia e le galline, stupite e spaventate, scappavano al coperto.
Enoch era balzato in piedi e aveva afferrato l’altro per un braccio, per tirarlo con sé al riparo del portico.
Là, in piedi uno di fronte all’altro, Ulisse aveva finito di togliersi la maschera, rivelando il volto dipinto e la testa appuntita, senza un capello. Un volto da indiano selvaggio e violento dipinto con i colori di guerra: ma qua e là vi erano i tocchi da pagliaccio, come se il lavoro di pittura fosse stato fatto per mettere in evidenza la grottesca assurdità di ogni guerra. Poi, guardando meglio, Enoch si era accorto che non si trattava di trucco, ma del colorito naturale di un essere non di questa Terra.
Perché, a parte ogni altro dubbio o interrogativo, lo straordinario visitatore non era umano. Dell’uomo aveva l’aspetto a due gambe, due braccia, una testa e una faccia, ma da lui emanava un che di estraneo, quasi la negazione dell’umanità.
In altri tempi avrebbe potuto far pensare a un demone, ma quei tempi erano ormai passati (anche se ne. restava traccia in qualche angolo del paese) e nessuno credeva più ai demoni, agli spiriti o alle orribili creature che, nell’immaginazione dell’uomo, avevano infestato la Terra.
Aveva detto di venire dalle stelle e probabilmente era vero, anche se non spiegava niente. Nessuna fantasia avrebbe potuto inventare un personaggio simile, neanche la più accesa. Non c’era niente cui aggrapparsi, niente a cui tenersi. Sfuggiva al metro comune, alle regole accettate, apriva un vuoto nella mente che sarebbe stato possibile colmare solo col passar del tempo, ma che, per il momento, restava un tunnel lanciato nell’ignoto.
— Prendi tempo — disse lo sconosciuto. — So che non è facile e non posso fare nulla per aiutarti. Non posso provare in nessun modo che vengo dalle stelle.
— Ma parli così bene…
— La tua lingua, vuoi dire? Non è stato difficile. Se sapessi quante lingue ci sono nella galassia… La tua non è affatto difficile; è semplice e solida, ma non può esprimere tutti i concetti. Magari non ne ha bisogno.
Enoch ammise che poteva esser vero.
— Se vuoi posso andarmene e tornare fra un paio di giorni — propose l’alieno. — Così avrai tempo di pensarci.
Enoch sorrise, con uno sforzo, e sentì che l’effetto non era naturale.
— Avrei anche il tempo di dare l’allarme — ribatté Enoch — e al tuo ritorno potresti trovarti in trappola.
L’altro scosse la testa. — Sono sicuro che non lo faresti, perciò sono disposto a rischiare. Quindi, se vuoi che…
— No — l’interruppe Enoch con una calma che stupì lui stesso. — No. Quando si deve affrontare una cosa è meglio farlo subito. L’ho imparato in guerra.
— Tu andrai bene. Andrai benissimo — disse l’alieno. — E sono fiero di non averti mal giudicato.
— Come, giudicato?
— Non credererai che sia arrivato qui per caso, eh? So tutto di te, Enoch, forse più di quanto ne sappia tu stesso.
— Quindi conosci il mio nome.
— Naturalmente.
— Be’, meglio così — continuò Enoch. — Qual è il tuo?
— Questa domanda mi mette in imbarazzo — confessò lo sconosciuto. — Non ho nome. Naturalmente possiedo un mezzo di identificazione, come avviene fra la mia gente, ma non può essere detto a parole.
Allora, inspiegabilmente, Enoch ricordò lo strano uomo alto e magro che, con un coltello in una mano e un bastoncino nell’altra, spenzolato sul bordo di una trincea, affilava placidamente il fuscello mentre le cannonate rombavano sopra la sua testa e i moschetti crepitavano nel polverone sollevato dalla battaglia.
— Quand’è così devo trovarti un nome adatto. Ti chiamerò Ulisse, devo pur rivolgermi a te in qualche modo.
— Mi pare bello — disse lo straniero. — Ma perché l’hai scelto?
— Perché — rispose Enoch — è il nome di un grande della mia razza.
Certo era stata un’idea assurda: non c’era la minima somiglianza fra il dinoccolato generale dell’Unione che tagliuzzava, placido, ramoscelli in trincea e l’essere che gli stava davanti, sotto il portico.
— Sono contento del mio nome — disse il novello Ulisse, immobile dov’era. — Alle mie orecchie suona nobile e dignitoso, e, sia detto fra noi, sono fiero di portarlo. Io ti chiamerò familiarmente Enoch, lavoreremo insieme per molti dei vostri anni.
Ormai Enoch cominciava a vederci chiaro ed era una prospettiva stupefacente. Forse, pensò, era meglio che ci fosse voluto un po’ di tempo, che non avesse capito tutto e subito in un singolo istante.
— Magari — disse per temporeggiare, per respingere la rivelazione che precipitava su di lui troppo in fretta — potrei offrirti qualcosa da mangiare. O un caffè.
— Caffè? — ripeté Ulisse facendo schioccare le labbra sottili. — Ne hai?
— Certo, ne farò un bricco grande. E potrei friggere un uovo, se ti va.
— Delizioso — rispose Ulisse. — Di tutte le bevande assaggiate nei pianeti che ho visitato, il caffè è la migliore.
Entrarono in cucina, dove Enoch attizzò il carbone e mise nuova legna sul fuoco. Riempì d’acqua la caffettiera, attingendo al secchio, e la mise a bollire; quindi prese le uova dalla dispensa e scese in cantina per procurare il prosciutto.
Ulisse rimase a sedere rigido, guardandolo.
— Ti piacciono le uova al prosciutto? — chiese Enoch.
— Mangio di tutto — rispose Ulisse. — La mia è una razza molto adattabile. Per questo sono stato inviato sul tuo pianeta in qualità di… come lo chiamate, voi? Osservante, direi.
— Osservatore — corresse Enoch.
— Proprio così, osservatore.
Era facile parlare con lui, pensò Enoch. Quasi come con un altro uomo, anche se Dio solo sapeva quanto fosse diverso da un uomo. In realtà, sembrava la brutta caricatura di un essere umano.
— Hai vissuto in questa casa per molto tempo — riprese Ulisse. — Immagino che tu le sia affezionato.
— Ci sono nato e sempre vissuto. Sono stato via per quattro anni, ma questa restava casa mia.
— Anch’io sono contento perché presto tornerò a casa — dichiarò Ulisse. — Sono via da troppo tempo. Una missione come la mia richiede sempre troppo tempo.
Enoch posò il coltello di cui si era servito per affettare il prosciutto e si lasciò cadere su una sedia, fissando Ulisse che gli sedeva di fronte.
— Come, torni a casa? — domandò.
— Ma certo — ribatté Ulisse. — Ormai la mia missione è quasi compiuta. Anch’io ho una casa, pensavi di no?
— Non lo so — rispose Enoch, confuso. — Non ci avevo pensato.
Era vero: non gli era sembrato possibile associare una creatura come quella all’idea di casa. Solo gli esseri umani ne avevano una.
— Un giorno ti parlerò di casa mia — proseguì Ulisse. — E magari verrai a trovarmi.
— Lassù, fra le stelle? — chiese Enoch.
— Ora ti sembra strano e ci vorrà del tempo prima che ti abitui all’idea. Ma quando mi conoscerai, quando conoscerai noi tutti, capirai. Spero che ti piaceremo. Non siamo cattivi, sai? Nessuna razza è cattiva.
Enoch pensò che le stelle erano lassù, nell’immensa solitudine dello spazio, a una distanza che lui nemmeno riusciva a immaginare. Non sapeva cosa fossero e perché ci fossero. Eppure esisteva un altro mondo… no, si corresse, molti altri mondi. Su ogni stella viveva una razza diversa, forse erano moltissime, e uno di quegli esseri si trovava con lui in cucina, in attesa che il caffè bollisse e le uova al prosciutto fossero pronte.
— Ma perché? — domandò. — Perché?
— Perché — spiegò Ulisse — noi siamo un popolo di viaggiatori e ci serve una stazione di transito in questo luogo. Vogliamo trasformare la tua casa in stazione, e tu sarai il guardiano.
— Questa casa?
— Non possiamo costruirne una nuova, lo verrebbero a sapere tutti. Siamo costretti a servirci di un edificio che già esista, facendo i cambiamenti necessari. Ma solo all’interno. Lasceremo intatto l’esterno, almeno in apparenza, in modo che non sembri cambiata. Nessuno deve sapere né fare domande.
— Ma dove… viaggiate?
— Da una stella all’altra — spiegò Ulisse. — Più veloci del pensiero. Più ràpidi di un battere di ciglia. Tutto questo grazie a delle… Voi le chiamereste "macchine", ma non sono macchine, almeno nel senso che intendete qui.
— Devi scusarmi — balbettò Enoch. — Sembra tutto impossibile.
— Ricordi quando arrivò la ferrovia a Millville?
— Sì, me lo ricordo. Ero un bambino, allora.
— Prova a pensare che si tratti di una ferrovia, e che la Terra sia una città come un’altra; la tua casa diventerà la stazione di questa nuova e diversa ferrovia. L’unica differenza è che tu sarai l’unico uomo a conoscerne l’esistenza. Sarà un posto di riposo e di transito, nient’altro; nessun terrestre potrà comprare un biglietto per questa linea.
Messa così la cosa pareva semplice, ma Enoch sapeva che, in realtà, si trattava di tutt’altro.
— Si attraversa lo spazio dentro un vagone, come in treno? — domandò.
— Non proprio — corresse Ulisse. — Si tratta di una cosa diversa. Non so come cominciare a spiegarti.
— Forse dovresti scegliere un altro, qualcuno in grado di capire meglio.
— Nessun abitante di questo pianeta è in grado di capire, nemmeno lontanamente. No, Enoch, tu o un altro sarebbe lo stesso. Anzi, meglio tu che un altro, sotto certi aspetti.
— Ma…
— Cosa?
— Niente — disse Enoch.
Quante volte, seduto sui gradini, aveva pensato alla propria solitudine e alla necessità di cominciare una nuova vita, sapendo che non poteva evitarlo e che doveva ripartire da zero. Ed ecco, inaspettatamente, il nuovo inizio, più fantastico e misterioso di quanto avesse osato immaginare.