"Così ha avuto inizio la cosa" pensava Enoch "quasi cento anni fa." La fantasticheria davanti al fuoco all’aperto si era dimostrata reale, e ora sulle carte galattiche la Terra era segnata come stazione di transito per i viaggiatori interstellari. Stranieri, una volta, ma adesso non più. I visitatori non erano estranei perché sapeva che, sotto qualunque forma si presentassero, erano creature viventi.
Tornò ad abbassare lo sguardo sulla pagina datata "16 ottobre 1931" e la scorse rapidamente. Verso la fine aveva scritto:
Ulisse dice che i thubani del VI pianeta sono forse i più grandi matematici della galassia. A quanto pare hanno creato un sistema di numerazione superiore a tutti gli altri ed estremamente utile, specie nel campo della statistica.
Richiuse il quaderno e si mise a sedere sulla sedia, domandandosi se gli esperti di statistica di Mizar X fossero al corrente del lavoro svolto dai thubani. Probabilmente sì, perché, sotto alcuni aspetti, la loro matematica era completamente diversa dalle altre.
Spinse da parte il diario e aprì un cassetto per tirare fuori un diagramma che stese sulla scrivania. Se avesse potuto esserne certo… se avesse conosciuto meglio la statistica di Mizar… Da dieci anni si affaticava sul diagramma, controllando e ricontrollando gli elementi contrari al sistema dei Mizar, provando e riprovando per vedere se i dati da cui partiva fossero quelli giusti.
Alzò il pugno e lo batté sulla scrivania. Se avesse potuto essere sicuro, parlarne con qualcuno… Ma si era sempre guardato dal farlo, perché sarebbe equivalso a mettere a nudo la vulnerabilità della razza umana.
E lui era ancora un uomo. Buffo che si sentisse così profondamente umano, anche dopo più di un secolo di incontri con esseri che venivano da tutte le parti dell’universo. Ma restava una creatura della Terra.
Sotto molti aspetti, certo, i legami che l’univano alla Terra erano stati tagliati: il vecchio Winslowe Grant era l’unico che gli rivolgesse la parola, ormai. I vicini lo evitavano e non c’era nessun altro nella regione deserta, eccezion fatta per quelli che lo spiavano e che intravedeva di quando in quando, per brevissimi istanti.
Solo il vecchio Winslowe Grant, Mary e gli altri esseri che venivano dal regno delle ombre interrompevano la solitudine di Enoch, legandolo alla Terra: loro e i campi incolti che circondavano la casa, ma non la casa stessa, divenuta ormai estranea.
Chiuse gli occhi per rivedere l’immagine della fattoria com’era un tempo. In quella stessa stanza c’era stata la cucina: in un angolo la mostruosa stufa di ferro nero, con la grata che pareva una bocca aperta in un sogghigno. Contro la parete c’era il tavolo su cui mangiavano in tre e di cui ricordava perfettamente l’aspetto: l’ampolla con l’aceto, il bicchiere che conteneva i cucchiai e persino, in mezzo alla tavola, la donnina di terraglia che conteneva senape, rafano e salsa chili sulla tovaglia a scacchi rossi.
Ricordava una sera d’inverno, quando lui aveva tre o quattro anni. La mamma stava preparando la cena e lui se ne stava seduto in mezzo alla cucina, giocando con alcuni cubi di legno. Fuori soffiava un vento gelido che s’ingolfava per la grondaia e quando il babbo era tornato dalla stalla, una folata di vento aveva portato dentro un mulinello di neve. Ma, una volta richiusa la porta, vento e neve erano rimasti fuori, nelle tenebre di quella gelida notte. Suo padre aveva posato il secchio del latte sull’acquaio ed Enoch aveva notato che aveva la barba e le sopracciglia incrostate di neve, i baffi coperti di ghiaccio.
L’immagine di loro tre riuniti in cucina, nella sera tempestosa, gli era rimasta fissa nella memoria come un gruppo di statue da museo: il padre con la barba bianca di neve e i grandi stivali di feltro che gli arrivavano alle ginocchia, la madre col viso arrossato dalla vampa della stufa, la cuffia di pizzo in testa, e lui, seduto per terra a giocare con i cubi.
Ma c’era una cosa che ricordava meglio di tutto: sul tavolo stava una grossa lampada e alla parete era appeso un calendario, preso in pieno dalla luce. Il calendario raffigurava il vecchio Babbo Natale sulla slitta e gli abitanti del bosco che si voltavano a guardarlo passare. Una luna enorme pendeva sugli alberi e il terreno era coperto di neve. Due conigli, seduti, fissavano Babbo Natale accanto a un daino e un procione, con la folta coda raccolta intorno alle zampe; su un ramo, uno scoiattolo e un uccellino si stringevano uno all’altro. Babbo Natale alzava la frusta in segno di saluto, mentre sulla faccia arrossata la bocca si apriva in un sorriso; le renne che trainavano la slitta avevano un aspetto vispo e riposato.
Per tutti quegli anni, un Babbo Natale che risaliva più o meno alla metà del XIX secolo aveva continuato a guidare la slitta attraverso gl’innevati corridoi del tempo, la frusta levata in un gesto di saluto verso gli animali della foresta. E la lampada d’oro aveva corso con lui, illuminando la parete e la tovaglia a scacchi.
Quindi, pensò Enoch, alcune cose durano nel tempo. Il ricordo, l’esperienza dell’intimo calore della cucina della sua infanzia, in una tempestosa sera d’inverno…
Ma duravano solo nell’animo e nella mente, perché al di fuori niente sopravvive. Cucina e soggiorno non esistevano più, con il divano antiquato e la sedia a dondolo, e lo stesso valeva per il salotto buono ma un po’ rigido, tutto seta e broccato, e la camera degli ospiti al pian terreno, o quelle dei familiari al primo.
Tutto era sparito tranne una stanza; il pavimento del primo piano e le pareti divisorie erano stati eliminati e la casa constava ormai di un unico, enorme locale che da una parte conteneva la stazione galattica e dall’altra l’addetto alla stazione. In un angolo c’erano un letto e una stufa che funzionava secondo un sistema sconosciuto a Enoch, oltre a un frigorifero altrettanto strano. Lungo le pareti si allineavano armadi e scaffali zeppi di riviste, libri e giornali.
Una sola cosa era rimasta, perché Enoch non aveva permesso che la squadra aliena venuta a installare la stazione la portasse via: il massiccio camino in mattoni e pietra locale che troneggiava nell’ex soggiorno. Il camino esisteva ancora ed era l’unico ricordo del passato, l’unico oggetto terrestre dell’ambiente, con la gran mensola di quercia grezza che il padre di Enoch aveva ricavato da un immenso ciocco tagliato con l’accetta grande, e che aveva levigato e piallato con le sue mani.
Sulla mensola, sul tavolo e gli scaffali stavano numerosi oggetti che di terrestre non avevano neppure il nome: l’accumulo di doni che i viaggiatori di passaggio avevano portato in tanti anni. Alcuni erano oggetti utili, altri solo ornamentali; altri ancora erano di scarsa utilità per un appartenente alla razza umana, oppure non potevano essere adoperati sulla Terra. Infine, c’erano regali di cui Enoch non riusciva a immaginare il senso, ma che accettava imbarazzato, balbettando qualche ringraziamento alle creature gentili che li avevano portati.
All’estremità opposta del locale era installato il poderoso e complesso macchinario che raggiungeva l’altezza del primo piano: grazie a esso arrivavano i viaggiatori dello spazio interstellare.
Una locanda, ecco cos’era la sua casa; un posto di transito, un incrocio galattico.
Enoch spinse la sedia contro la scrivania e infilò la giacca che teneva appesa allo schienale. Prese il fucile dal supporto a muro e, ritto davanti alla parete, pronunciò la parola che doveva pronunciare. La parete scivolò su se stessa silenziosamente, ed Enoch passò nel ripostiglio disadorno. Alle sue spalle la sezione scorrevole tornò a posto e non rimase la minima traccia che indicasse un’apertura nella solida parete.
Enoch uscì dal capanno, nella bella giornata di fine estate. Ancora poche settimane e l’aria avrebbe cominciato a rinfrescarsi. Fiorivano le prime dalie selvatiche e il giorno prima aveva notato che alcuni degli astri cresciuti lungo la vecchia staccionata avevano cominciato a sbocciare, in molti colori.
Girò l’angolo della casa, dirigendosi verso il fiume, attraverso il vasto campo in pendenza, dove ciuffi di noccioli e arbusti avevano sostituito le antiche colture.
"Ecco la Terra" pensava Enoch. "Un pianeta creato per l’uomo. Ma non per l’uomo soltanto: è fatto anche per la volpe, per il serpente, per la cavalletta e il pesce. Insomma, per tutte le creature che riempiono il mondo, l’aria e l’acqua. E neppure è stato creato soltanto per le creature che vi sono nate, ma anche per gli esseri che vivono su pianeti lontani anni-luce e che sono fondamentalmente simili alla Terra: per Ulisse, per gli splendenti e per tutti quelli che sono in grado di viverci.
"I nostri orizzonti sono vasti" seguitava a pensare "ma le nostre conoscenze rimangono ristrette. Anche adesso che da Cape Canaveral partono i razzi fiammeggianti destinati a infrangere le antiche barriere, noi ne sappiamo poco."
Il dolore era sempre in lui, il vecchio dolore nato dal desiderio di raccontare all’umanità tutte le cose che aveva imparato. Non certo i particolari, benché alcuni avrebbero potuto essere utili, ma i principi generali, la realtà per niente tecnica, e anzi centrale, per cui esistevano altre creature intelligenti nell’Universo. L’uomo non era solo, e se avesse trovato la sua strada non lo sarebbe stato mai più.
Attraversò il campo e la striscia di bosco, uscì sul costone di roccia sporgente che sovrastava il pendìo davanti al fiume. Come migliaia di altre mattine, rimase a guardare i riflessi azzurro-argentei dell’acqua in mezzo alla piana boscosa.
"Vecchia, antica acqua" disse rivolgendosi silenziosamente al fiume "tu hai visto tutto: ghiacciai enormi formarsi e sciogliersi di nuovo, ritirandosi verso il polo centimetro per centimetro, mentre l’acqua riempiva la valle con un effetto di marea senza precedenti. Tu hai visto il mammuth, la tigre dai denti a sciabola e il castoro grande quanto un orso che vivevano sulle antiche colline e riempivano la notte di urla, clamori; tu hai osservato piccoli gruppi di uomini silenziosi che avanzavano cautamente nei boschi, si arrampicavano per le colline o remavano sulla tua superficie, verso il bosco e verso il largo, deboli nel fisico ma forti nello spirito e tenaci come nessun’altra specie. E prima di loro, un’altra razza di uomini con la testa piena di sogni e le mani capaci di grandi crudeltà, e la tremenda sicurezza di uno scopo nobile nel cuore. E ancor prima, perché questa terra è antica più degli antichi ritrovamenti, altre forme di vita che si sono succedute a seconda dei climi e dei mutamenti cui è andata incontro la Terra. Cosa pensi di tutto questo?" chiese al fiume. "Tuo è il ricordo, tuo l’avvenire, tuo il tempo, e ormai dovresti conoscere la risposta, almeno in parte.
"Anche l’uomo saprebbe rispondere, se fosse vissuto milioni di anni fino a questa calda giornata d’estate. E io potrei essere d’aiuto all’umanità. Non saprei dare le risposte, ma potrei aiutarla nella sua affannosa ricerca. Potrei darle fede, speranza e un nuovo scopo."
Ma sapeva che non avrebbe osato.
In basso, un falco si librava in ampi cerchi sul nastro del fiume e l’aria era così limpida che Enoch immaginò, aguzzando la vista, di poter vedere ogni penna di cui erano composte le ali distese.
Il luogo gli pareva immerso in un incantesimo. Il panorama sconfinato, l’aria limpida e il senso di distacco sconfinavano nel sublime, come in uno di quei posti speciali che ogni uomo deve cercare da sé e ritenersi fortunato se lo trova, perché ci sono quelli che cercano senza trovare. E ci sono quelli, ancora più sfortunati, che non si mettono neppure alla ricerca.
In piedi sul masso continuò a guardare il fiume, il falco che volava pigro sulla superficie dell’acqua e il verde manto dei boschi, finché la sua mente si innalzò verso altri luoghi lontani e speciali, e ne ebbe le vertigini. Ma era casa sua.
Si voltò lentamente, scese dal masso e s’inoltrò fra gli alberi, seguendo il sentiero che lui stesso aveva aperto, passando di lì per anni.
Mentre scendeva il pendìo, pensò a come avrebbe potuto proteggere il ciuffo di violaciocche che sarebbe rifiorito a giugno, ma concluse che era inutile preoccuparsi: era nascosto in un punto isolato e non correva alcun pericolo. Cent’anni prima le violaciocche fiorivano ovunque, in collina, e lui ne coglieva a bracciate per portarle a sua madre che le sistemava in una gran brocca; per un paio di giorni la casa era piena del loro buon profumo. Adesso era difficile trovarle, perché gli animali da pascolo e la gente che ne andava in cerca avevano finito per sterminarle.
Un giorno, si ripromise Enoch, prima che cominciassero le gelate sarebbe andato a vederle, per assicurarsi che in primavera ce ne fossero ancora.
Si fermò un poco a guardare uno scoiattolo che giocava su una quercia; si chinò per seguire una lumaca che attraversava il sentiero e osservò i disegni del muschio cresciuto sul tronco di un grosso albero, mentre un uccello volava silenzioso di ramo in ramo.
Uscito dal bosco camminò lungo il margine del campo finché arrivò alla sorgente che scaturiva dal fianco della collina. Seduta vicino alla sorgente c’era una donna, Lucy Fisher, la figlia sordomuta di Hank Fisher che abitava laggiù in riva al fiume.
Enoch si fermò a guardarla e pensò come fosse piena di grazia e bellezza, la naturale grazia e bellezza di una creatura primitiva e solitaria.
La ragazza se ne stava vicino alla sorgente e teneva alzata una mano dalle dita lunghe e affusolate, su cui era appoggiato qualcosa che splendeva di colori. Lucy aveva la testa ritta e sembrava un po’ tesa, come all’erta; il corpo snello ed eretto tradiva la stessa tensione, un discreto stare in guardia.
Enoch si avvicinò lentamente e quando fu a non più di un metro vide che sulle dita della ragazza poggiava una delle bellissime farfalle rosse e dorate che arrivano alla fine dell’estate. L’insetto teneva un’ala dritta, ma l’altra sembrava rotta e aveva perduto in parte la polvere sottile che ne faceva splendere il colore.
Ma Lucy non stringeva la farfalla, si rese conto Enoch; le si era semplicemente posata sulle dita, facendo fluttuare l’ala sana per tenersi in equilibrio.
Poi guardò meglio: l’altra ala non era rotta, solo ripiegata e accartocciata in modo insolito. Enoch la vide stendersi e notò che il pulviscolo colorato, se mai era scomparso, tornava a risplendere. L’insetto ricongiunse le ali e lui avanzò di qualche passo per farsi vedere. Quando Lucy si accorse della sua presenza non trasalì: un fatto abbastanza naturale, pensò Enoch, perché era abituata a veder comparire la gente senza preavviso.
Aveva gli occhi scintillanti e un’espressione di beatitudine, come se avesse vissuto un’estasi spirituale. Enoch si domandò, come sempre quando la vedeva, come fosse vivere in un mondo due volte silenzioso, un mondo col quale era impossibile comunicare. O forse non proprio impossibile, ma che certo la escludeva dal flusso di comunicazione cui hanno diritto l’essere umano e animale.
Come Enoch sapeva, avevano tentato più volte di farle seguire i corsi di una scuola per sordomuti, ma inutilmente. Una volta Lucy era scappata e aveva vagato per giorni prima che la trovassero e la riportassero a casa; un’altra volta si era fermamente rifiutata di ubbidire e di seguire gli insegnamenti dei maestri.
Guardandola con la sua farfalla, Enoch credette di capirne il motivo. Aveva un mondo tutto suo, cui si era abituata e in cui sapeva come comportarsi. In quel mondo non era una minorata, come invece sarebbe stata nella normale società degli uomini.
A che le sarebbe servito imparare l’alfabeto o saper leggere le labbra degli altri, se questo le avesse tolto la sua misteriosa serenità di spirito?
Lucy era una creatura dei boschi e delle colline, dei fiori primaverili e degli uccelli che migrano in autunno. Conosceva queste cose, viveva insieme a loro e in un certo senso ne faceva parte. E viveva da sola in un vecchio appartamento sperduto del mondo naturale, occupando un posto che l’uomo aveva abbandonato da tempo, se pure l’aveva mai conosciuto.
Se ne stava con la sua farfalla rossa e d’oro posata sulle dita, con un senso di attenzione speciale, aspettativa e forse di soddisfazione dipinta in faccia. Era viva, pensò Enoch, come nessun’altra creatura era stata viva.
La farfalla tese le ali e si staccò dalle dita della ragazza, volando leggera e senza preoccupazioni sull’erba incolta e i fiori gialli del campo.
Lucy si girò per seguirla con gli occhi, finché scomparve sulla sommità della collina dove il vecchio campo si arrampicava. Poi si rivolse a Enoch e sorrise, agitando le mani come le ali rosse e dorate della farfalla: ma nel gesto c’era qualcos’altro, un’espressione di felicità e benessere per dire che il mondo era bello.
"Se potessi insegnarle la pasimologia dei miei amici galattici" pensò Enoch "potremmo parlare quasi come se usassimo le parole della lingua umana." Avendone il tempo non sarebbe stato difficile, perché il linguaggio galattico dei gesti seguiva uno schema logico e naturale che lo rendeva istintivo non appena se n’era afferrato il principio fondamentale.
Anche sulla Terra, ai primordi, l’uomo si era espresso a gesti. Il più sviluppato di quei sistemi apparteneva agli aborigeni dell’America settentrionale, gli amerindi, che riuscivano a farsi capire da molte tribù di lingua diversa.
Ma persino il linguaggio dei segni indiano non era che una gruccia alla quale l’uomo si appoggiava quando non poteva correre, mentre quello galattico era una vera e propria lingua, adattabile a diversi mezzi e sistemi di espressione. Era venuto elaborandosi per millenni, con il contributo dei popoli più diversi, e si era affinato, snellito e perfezionato attraverso i secoli, fino a diventare uno strumento di comunicazione che veniva apprezzato per i suoi meriti intrinseci.
Ormai era un mezzo indispensabile, perché la galassia era una babele. Neppure la scienza della pasimologia poteva superare tutti gli ostacoli e garantire, in certi casi, una minima base di reciproca comprensione; non solo esistevano milioni di lingue, ma alcune non si esprimevano in suoni, perché vi erano razze incapaci di emetterne. D’altra parte, nemmeno il suono serviva a molto quando una razza comunicava per mezzo di ultrasuoni che gli altri non riuscivano a captare. Naturalmente esisteva la telepatia: ma per ogni specie telepatica ce n’erano mille in cui tale funzione era bloccata. C’erano razze che comunicavano solo a gesti, altre invece mediante ideogrammi, fra cui alcune che avevano una lavagna chimica inserita nel corpo. E c’era una misteriosa razza cieca, sorda e muta che viveva nelle stelle sconosciute ai margini della galassia: il suo sistema di comunicazione era forse il più complesso e si valeva di segnali in codice trasmessi direttamente dal sistema nervoso.
Enoch faceva quel lavoro da cento anni, si serviva del linguaggio universale e del traduttore semantico (attrezzatura pietosa anche se complicatissima); eppure, a volte non riusciva a capire quello che i visitatori dicevano.
Lucy Fisher raccolse una tazza di scorza di betulla che aveva posato al suo fianco, l’immerse nella sorgente e la porse a Enoch che si avvicinò, inginocchiandosi a bere. La tazza non era del tutto impermeabile, perdeva un rivoletto d’acqua che gli bagnò il polso della camicia e la giacca.
Quando ebbe finito di bere, Enoch restituì la scodella. Lei la prese con una mano e allungò l’altra in una lieve carezza sulla fronte dell’uomo, pensando forse di benedirlo.
Lui non disse niente. Aveva smesso da tempo di parlarle, intuendo che i movimenti della bocca, da cui uscivano suoni che la ragazza non poteva sentire, la mettevano in imbarazzo.
Piuttosto, allungò una mano e appoggiò il largo palmo sulla guancia di Lucy, lasciandovelo per un rassicurante momento. Un gesto d’affetto, poi si alzò e rimase a guardarla; per un momento si fissarono reciprocamente negli occhi, quindi Enoch riprese il cammino.
Attraversò il ruscello che scendeva dalla sorgente, seguì la pista che portava dall’orlo del bosco al crinale della collina, attraverso il campo. A metà pendio si fermò per voltarsi a guardarla e vide che anche Lucy lo fissava. Alzò una mano in un gesto di saluto e lei rispose allo stesso modo.
Ricordava di averla vista per la prima volta circa dodici anni prima. Era una creatura selvatica di non più di dieci anni, una creatura che correva nei boschi come le fate. Erano diventati amici diverso tempo dopo, sebbene l’incontrasse spesso perché lei vagava nel bosco e la valle come se fossero il suo campo di giochi: il che, a pensarci bene, era vero.
L’aveva vista crescere anno per anno, incontrandola nel corso delle sue quotidiane passeggiate, e fra loro era nata la comprensione che può stabilirsi soltanto fra chi vive ai margini del mondo e chi è solo. Ma l’intesa reciproca si basava anche su qualcos’altro: sul fatto che ciascuno avesse un suo mondo, grazie al quale vedeva cose che gli altri ignoravano. Nessuno dei due aveva mai accennato al proprio mondo interiore, ma sapeva che l’altro ne possedeva uno e questo era un solido fondamento per il nascere dell’amicizia.
Enoch ripensò al giorno in cui l’aveva trovata inginocchiata vicino alle violaciocche in fiore, in muta contemplazione; e ricordò di essersi fermato, felice che non facesse il gesto di coglierle, consapevole che nel guardarle avevano trovato tutti e due soddisfazione e appagamento senza desiderio di possesso.
Raggiunta la cima del colle, Enoch imboccò la strada coperta d’erba che portava alla cassetta della posta.
Ripensandoci, si convinse che la sua prima impressione non fosse sbagliata, anche se poi era sembrato che le cose stessero diversamente. L’ala della farfalla era veramente rotta e opaca, e l’insetto non poteva volare. Eppure, un attimo dopo era tornata intatta e la farfalla aveva ripreso la sua strada.