10. Timothy

Il portello ruotò sui cardini e divenne una rampa, Horace fece per scendere, ma si fermò dopo il primo passo.

Dietro di lui, Emma chiese con voce stridula: — Dove siamo?

— Non lo so — rispose Horace.

Comunque, pensò, la domanda era male formulata. Avrebbe dovuto chiedere non “dove” erano, ma in che anno erano.

Non avrebbe dovuto commettere un errore così grossolano, si rimproverò. Certo, la situazione era critica, ma ci sarebbe stato tempo a sufficienza per impostare le coordinate della destinazione. Ovviamente non avrebbe potuto riflettere con calma come desiderava, ma era stato comunque imperdonabile: si era lasciato prendere dalla smania di fuggire lontano da quel mostro assassino che gli stava alle calcagna.

Ma non l'aveva fatto per paura, si disse. L'aveva fatto per un assennatissimo desiderio di allontanarsi in fretta. Di lui, si disse Horace, si potevano dire molte cose: che era pomposo, probabilmente, perché a volte pareva darsi eccessiva importanza; che era ostinato, anche se in molti casi l'ostinazione era un pregio e non un difetto; che era pignolo, forse, perché stava sempre molto attento a ciò che faceva. Ma l'unica cosa che non si poteva dire di lui era che fosse un codardo.

Dopotutto, pensò, tutto era sempre andato per il meglio finché non erano comparsi sulla scena i due uomini del ventesimo secolo. Probabilmente, comunque, la colpa era di Martin, che avrebbe dovuto sapere cosa succedeva. Ma era chiaro che Martin non se n'era accorto, non aveva avuto alcun sospetto finché Corcoran non gli aveva dato l'imbeccata dicendogli che c'era gente che cercava Hopkins Acre. E a quel punto cosa aveva fatto Martin? Se l'era squagliata, portando Stella con sé. Pensando a questo, Horace cominciò a sentirsi meglio. Aveva trovato qualcuno a cui dare la colpa. Lui, Horace, non aveva alcuna responsabilità.

Fece qualche passo verso il basso, ma senza lasciare la rampa nell'eventualità che si rendesse necessaria una ritirata strategica.

Il viaggiatore era fermo sul fianco di un'altura, poco al di sotto della cima. Sotto di lui si stendeva una piccola valle, dove sorgeva un edificio tozzo e largo, a un solo piano, con molti spigoli e molte ali, come se una volta terminata la costruzione gli architetti avessero aggiunto a caso una serie di ampliamenti.

Osservandola, con una certa sorpresa Horace riconobbe uno dei monasteri costruiti dagli Infiniti. Forse non erano monasteri nel senso rigoroso del termine, ma la gente li chiamava così perché gli Infiniti sembravano piccoli monaci gobbi.

Nella valle non c'era niente che si muovesse. Era vuota. Qua e là crescevano rare macchie d'erba e arbusti; ma non c'erano alberi, anche se rimaneva qualche ceppo consumato dalle intemperie a contrassegnare il punto dove qualche albero era cresciuto in passato.

Il sole era nascosto dietro uno spesso banco di nubi, ma, mentre Horace osservava, le nubi, si aprirono per un istante e l'astro si affacciò. Lungo tutta la cresta dei monti, e dal lì fino al cielo, si scorgevano un tremolio e uno scintillio, come se ci fosse stata una tenda luccicante di lustrini.

Dietro di lui, Timothy disse tranquillamente, come se parlasse di una cosa di tutti i giorni: — Laggiù puoi scorgere ciò che resta di milioni di individui della nostra razza. Ciascuna di quelle scintille è un essere umano smaterializzato, collocato lassù per tutta l'eternità.

— Non sai e non puoi dirlo — obiettò Horace, attirato e insieme respinto da quello spettacolo bellissimo e atroce. — Non abbiamo mai visto un'entità incorporea.

— Ho visto nostro fratello Henry — disse Timothy. — Lui è un gruppo di scintille come quelle, un uomo che non è arrivato fino all'ultima fase della smaterializzazione. Se ci fosse arrivato oggi sarebbe ridotto a una sola scintilla.

Timothy aveva ragione, si disse Horace. Timothy aveva sempre ragione, e la cosa era irritante.

— Se leggo bene i dati — disse Timothy — siamo molto avanti nel futuro, circa cinquantamila anni dopo la nostra epoca.

— Allora — disse Horace — gli Infiniti hanno vinto. Questa è la fine di tutto. Noi umani non siamo riusciti a fermarli.

Dall'interno del viaggiatore si udì la voce di Emma: — Voi due, toglietevi dal passaggio. Arriva Spike. Non c'è spazio per tutt'e tre.

Horace si guardò alle spalle. Spike, sempre più simile a un porcospino girevole, era già sulla rampa. Horace si affrettò a scendere a terra, e Timothy seguì il suo esempio. Spike si avviò lungo la discesa.

— Quello va laggiù a combinare un pasticcio — disse Horace. — È sempre stato un irresponsabile. Gli Infiniti del monastero non ci hanno ancora avvistato.

— Non sappiamo se ci hanno avvistato oppure no — disse Timothy. — Può darsi che non sia rimasto nessun Infinito. A giudicare dai punti di luce nel cielo, hanno finito il lavoro e se ne sono andati. Quello che abbiamo visto, probabilmente, è soltanto uno dei gruppi degli smaterializzati. Nel mondo ce ne devono essere molti altri.

Emma scese dalla rampa per unirsi a loro. — Abbiamo aspettato troppo — disse. — Dovevamo partire prima. Dovevamo scegliere bene il luogo e il momento di destinazione, invece di partire così in fretta, senza sapere dove si arrivava.

— Io conto di tornare indietro alla prima occasione — disse Timothy. — Venire con voi è stato un errore. Ci sono i miei libri e i miei appunti e…

Horace gli disse, in tono glaciale: — Non mi pare che tu abbia perso molto tempo, quando siamo partiti. Per poco non mi hai travolto, tanto scappavi in fretta. La paura di metteva le ali ai piedi.

— Non direi. Soltanto un po' di preoccupazione, forse. Un meccanismo di difesa automatico, nient'altro.

— Non siamo riusciti a dare degna sepoltura a Gahan — disse Emma. — Vergogna. L'abbiamo abbandonato laggiù, avvolto nel suo sudario accanto alla fossa.

Spike era giunto ai piedi della collina e si dirigeva verso il monastero.

Il sole era coperto da un banco di nuvole filacciose. Lo scintillio della rete cristallina che coronava le colline e saliva il cielo era meno intenso.

Timothy fissò le luci e rifletté a voce alta. — Molecole di pensiero — disse. — Filosofi formato granello di polvere. Teorici miniaturizzati che generano sogni di grandezza. Non ci sono funzioni fisiche da considerare, solo le fini operazioni della mente umana…

— Oh, sta zitto! — gridò Horace.

Dalla cima della collina, sopra di loro, si udì un rumore, e un ciottolo cadde lungo il pendio. Tutt'e tre si voltarono verso il punto da cui giungeva il rumore. Un robot scendeva verso di loro. Il suo corpo luccicava debolmente alla luce solare; sulla spalla portava un'accetta.

Alzò una mano per salutarli. — Benvenuti, esseri umani — disse, con una voce in chiave di basso. — Da molto tempo non vedavamo uno di voi.

— “Non vedevamo”? — ripeté Horace. — Allora non sei solo.

Il robot giunse a una posizione leggermente più in basso della loro, poi si voltò a fissarli.

— Siamo numerosi — disse il robot. — Abbiamo passato parola su di voi, e altri stanno arrivando, lieti di potervi vedere.

— Allora qui non ci sono esseri umani?

— Alcuni ci sono, ma sono pochissimi — spiegò il robot. — Ciascuno a grande distanza dall'altro, nascosti. Un gruppetto qui, un gruppetto là, poche persone per gruppo. Noi invece siamo troppi. Pochi di noi hanno la fortuna di poter servire gli esseri umani.

— E come passate il tempo, allora? — chiese Horace.

— Abbattiamo gli alberi — disse il robot. — Abbattiamo tutti quelli che incontriamo. Ma gli alberi sono sempre troppi; non possiamo tagliarli tutti.

— Non capisco perché li tagliate — disse Timothy. — Quando li avete tagliati, cosa fate?

— Li ammucchiamo tutti insieme e quando la legna è abbastanza secca le diamo fuoco. Li distruggiamo.

Lungo la collina giunse intanto un altro robot che si schierò accanto al primo. Si tolse la scure dalla spalla, l'appoggiò a terra e appoggiò le mani sul manico.

Prese a parlare come se avesse terminato la frase lui, e non l'altro robot. — La fatica è grande — disse — perché non disponiamo delle meravigliose macchine che permettono di risparmiare il lavoro manuale e inventate da voi uomini. Un tempo c'erano robot con conoscenze tecniche, ma ora non ce ne sono più. Quando gli uomini si sono dedicati alla vita più elementare per coltivare la propria mente, non c'è più stato bisogno di loro. Agli uomini sono stati sufficienti robot molto semplici: giardinieri, cuochi e così via. E questi sono rimasti, quando gli uomini sono scomparsi.

Altri robot giungevano a sciami, e ognuno aveva un'accetta o un altro arnese di lavoro. Arrivavano da soli, o a gruppi di due o tre, e si raggruppavano dietro i primi due che avevano parlato con gli esseri umani.

— Ma ditemi — chiese Timothy — perché questa profonda dedizione al diboscamento? Il legno non lo usate, dopo averlo tagliato. Non vedo il motivo di una simile ostilità nei riguardi degli alberi.

— Gli alberi sono il nemico — disse il primo robot. — Noi combattiamo contro di loro per rivendicare i nostri diritti.

— Dite delle grandi sciocchezze — esclamò Horace. — dei normali, pacifici alberi, come possono essere vostri nemici?

— Certo saprete — disse il secondo robot — che una volta spariti tutti gli uomini… gli alberi prenderanno il loro posto come razza dominante della Terra.

— Ho già sentito questi discorsi — disse Timothy, rivolto al consesso dei robot. — Sia sotto forma di chiacchiere, sia di riflessioni filosofiche. Non ci ho mai badato, anche se nostra sorella Enid pensava che fosse una splendida idea. Secondo lei, gli alberi, come razza dominante, non sarebbero aggressivi e non darebbero fastidio alle altre forme di vita.

— Tutte parole a vanvera — gridò Horace. — Enid è nota per il suo modo di pensare arzigogolato. Gli alberi non hanno organi di senso. Non possono fare niente. Crescono in un punto e non si muovono mai da lì. Dopo un tempo più o meno lungo cadono a terra e marciscono, e la cosa finisce.

— Ci sono certe leggende… — cominciò Emma, parlando nel suo tono di voce più timido, che era davvero molto timido.

— Le leggende sono delle sciocchezze — gridò Horace. — Tutto questo discorso è una sciocchezza. Solo uno stupido robot può dare retta a queste sciocchezze.

— Noi non siamo affatto stupidi, signore — obiettò il secondo robot.

— Suppongo — s'intromise Timothy — che la vostra ostilità nei confronti degli alberi sia dovuta alla convinzione che dovreste essere voi i successori degli uomini.

— Certo — disse il primo robot. — È esattamente quello che pensiamo. Abbiamo ogni ragione per considerarci gli eredi dell'uomo. Noi siamo un prolungamento della razza. Siamo fatti a immagine della razza. Pensiamo come gli uomini, e il nostro comportamento è stato modellato su quello degli uomini. Siamo gli eredi dell'uomo, ma ci è stata sottratta la sua eredità.

Emma disse: — C'è Spike che fa ritorno. E c'è qualcosa con lui.

— Non lo vedo — disse Horace.

— Dietro l'angolo del monastero. Spike è accompagnato da una cosa che è più grande di lui, e le corre dietro. Vengono verso di noi.

Horace si sforzò di guardare e infine riconobbe le due figure. Riconobbe immediatamente Spike a causa del suo modo di camminare ora in una direzione ora in un'altra, ma per qualche tempo non riuscì a capire chi era l'altro.

Poi un debole raggio di sole colpì un punto particolare, e non ci furono più dubbi. Anche da quella distanza vide la rete simile a una ragnatela e l'unico occhio scintillante.

Emma disse: — È un altro di quei mostri assassini. Spike gioca con un mostro assassino. Giocherebbe con qualsiasi cosa.

— Non gioca — disse Horace, che si sentiva strozzare dalla collera. — Lo spinge verso di noi.

Lungo il pendio, notò in quel momento, c'erano meno robot di prima. Mentre osservava la scena, vide che i robot si allontanavano senza fretta, diretti verso la cima dell'altura.

Domandò a Timothy: — Che fucili abbiamo, nel viaggiatore?

— Non lo so — disse Timothy. — Ti sei occupato tu dell'equipaggiamento. Ti sei preso la mia collezione di armi senza neppure avvertirmi. Le hai portate via come se fossero tue.

Emma strillò: — I robot se ne stanno andando. Scappano. Non ci sono di nessun aiuto.

Horace sbuffò. — E chi ha mai pensato di farsi aiutare? Sono una tribù di fifoni. Io non mi sono mai aspettato niente da loro.

Risalì sulla rampa. — Credo che ci sia un trenta-zero-sei — rifletté. — Non è di grosso calibro, ma con le cartucce ad alta penetrazione dovrebbe essere in grado di abbattere qualsiasi cosa.

— La migliore soluzione — disse Emma — sarebbe quella di risalire sul viaggiatore e partire.

Timothy ribatté con irritazione: — Non possiamo partire senza Spike. Fa parte della famiglia.

— È lui — disse Emma, piccata — la causa di tutti i nostri guai. Ne combina sempre una nuova.

Tutti i robot erano spariti. Il pendio, al di sotto del viaggiatore, era vuoto: non ne rimaneva uno. Non importa, pensò Horace, dopo essersi dato un'occhiata attorno. Anche se fossero rimasti, non sarebbero serviti a niente. Esseri abituati a scappare.

Il mostro, spinto da Spike, ormai era vicino. I due avevano coperto metà della distanza tra il monastero e i piedi della collina.

Horace rientrò nel viaggiatore. I fucili erano nel posto che sapeva, con la canna che sporgeva da sotto la pila delle coperte. Una doppietta e un fucile 30.06.

Prese il 30.06 e tirò indietro l'otturatore. Nella camera c'era una cartuccia e il caricatore era pieno.

Per qualche tempo ci furono dei rumori all'esterno: rumore di piedi che correvano, di ciottoli smossi che rimbalzavano sulla collina. Horace l'aveva notato mentre ispezionava il fucile, ma adesso, improvvisamente, il rumore divenne più forte: un rimbombo. Un sasso molto più grosso di un ciottolo picchiò sul viaggiatore con un forte rumore metallico. Ancora ferma accanto alla rampa, Emma gridava qualcosa. Horace non riuscì a capire le parole.

Si girò verso il portello e uscì. Dall'esterno giungevano non solo le urla di Emma, ma anche il rumore sordo di oggetti pesanti che cadevano al suolo.

Non poteva essere il mostro assassino, spinto verso di loro dal perverso Spike, poiché quando Horace era entrato nel viaggiatore, i due erano ancora lontani.

Quando giunse sulla rampa, vide una scena totalmente assurda, con centinaia di robot carichi di utensili e di tronchi. Quelli che portavano tronchi li andavano a scaricare in punti ben determinanti, poi si voltavano e andavano a prenderne altri.

Altri robot con pale, picconi, palanchini e scuri, si erano messi al lavoro sollevando un grande polverone.

I tronchi venivano infilati in fori profondi, in modo che sporgessero all'infuori. Altri tronchi si trasformavano in assi squadrate sotto i colpi bene assestati delle lunghe scuri. I succhielli mordevano il legno per preparare i fori dei massicci cavicchi, e infine altre squadre di robot mettevano le assi al loro posto, costruendo quelle che a prima vista parevano strutture senza capo né coda.

Timothy disse, piano: — Avete visto, stanno montando quella che in sostanza è una linea di difesa nello stile degli antichi Romani. Fortificazioni basse, su più file, con un fossato davanti a ciascuna fila, collocate in modo da sostenersi tra loro. Quelle altre strutture sono catapulte, destinate a spezzare gli attacchi nemici in massa. La difesa è basata sul classico modello romano. Tuttavia, i nostri robot esagerano.

Su tutte le alture che circondavano la valle circolare in cui sorgeva il monastero, altri gruppi di robot erano al lavoro. Qui e là si alzavano volute di fumo dai falò accesi dai robot. A giudicare da quei segni, la legione dei robot si preparava ad acquartierarsi laggiù.

— Non credo che questi ròbot siano degli studiosi di storia romana — disse Timothy. — L'Impero Romano non è che un granello di storia in mezzo a un mucchio di polvere. Ma il suo modo di pensare e i suoi principi d'ingegneria sono fondamentali, tanto oggi quanto nei tempi antichi.

— Ma perché? — si lamentò Emma. — Perché ci fanno una cosa come questa?

— Non lo fanno contro di noi — gridò Horace. — Lo fanno per noi. Lo costruiscono per noi. Vogliono proteggerci. Senza bisogno. — Scosse il fucile per mostrarlo agli altri. — Se non si fossero messi in mezzo, ci saremmo potuti proteggere con questo.

Nella pianura, un piccolo turbine di polvere si muoveva a zig-zag, prima di un lato e poi dall'altro.

— Sono Spike e il mostro — spiegò Timothy. — Il mostro, vedendo quel che succede, cerca di allontanarsi, probabilmente per tornare all'interno del monastero. E Spike è altrettanto deciso a spingerlo verso di noi.

— Quante sciocchezze! — ruggì Horace. — Perché Spike dovrebbe spingere il mostro verso di noi? Lui sa che razza di macchina sia.

— Spike è sempre stato pazzo — disse Emma. — C'era David, che di tanto in tanto prendeva le sue difese, e anche Henry aveva sempre una buona parola per lui. Ma per me è un grosso pallone gonfiato.

Uno dei robot saliva verso di loro.

Si fermò bruscamente ai piedi della rampa, davanti a Horace. Batté i tacchi metallici e sollevò in un alto la mano destra. Fissando Horace negli occhi, disse: — La situazione è in mano nostra, signore. L'abbiamo in pugno.

— Di che situazione parli? — domandò Horace.

— Come? — fece il robot. — Gli Infiniti. Gli sporchi Infiniti!

— Non siamo neppure sicuri che gli Infiniti ci siano ancora — disse Timothy. — L'unica cosa che abbiamo visto è il mostro assassino.

— C'è il monastero, signore — disse il robot, in tono asciutto, come se fosse seccato nel veder messa in dubbio la sua parola. — Dove c'è un monastero, ci sono degli Infiniti. Noi sorvegliamo questo posto da anni. Siamo rimasti sempre di guardia.

— E quanti Infiniti avete visto? — chiese Horace.

— Neppure uno, signore. Finora non ne abbiamo ancora avvistati.

— E da quanto tempo fate la guardia?

— C'è stata qualche breve interruzione, è comprensibile. Ma all'incirca da duecento anni.

— In due secoli non avete visto Infiniti?

— Sì, questo è vero, signore. Ma se fossimo sempre rimasti in osservazione…

— Oh, piantala — disse Emma. — Non dire altre sciocchezze.

Il robot s'irrigidì. — Mi chiamo Conrad — disse — e sono il comandante di questa esercitazione. Stiamo svolgendo la nostra funzione primaria, la protezione della razza umana e l'assistenza a essa, ed eseguiamo il nostro dovere, mi sia consentito dirlo, con precisione, efficienza e rapidità.

— Benissimo, Conrad — disse Horace. — Ti autorizzo a continuare.

Il mostro e Spike avevano cessato i loro giri di valzer nella polvere ed erano fermi l'uno davanti all'altro: nessuno dei due si muoveva. I robot, che ormai erano numerosissimi, tanto che parevano coprire l'intera collina, stavano ancora alacremente costruendo una robusta linea difensiva, mirante a circondare la valle dove sorgeva il monastero.

— Be', non credo che possiamo fare molto — disse Emma. — Tanto vale che prepari qualcosa da mangiare. Avete fame?

— Io sì — disse Horace. Aveva sempre fame.

Emma si affrettò a entrare, e Horace scese dalla rampa e andò a raggiungere Timothy. — Cosa ne pensi? — gli domandò.

— Mi dispiace per loro — disse Timothy. — Sono qui da secoli, senza nessun umano da servire.

— E all'improvviso arriviamo noi — disse Horace. — Scodellati freschi freschi nel loro grembo.

— Appunto. Nessun essere umano, e poi, all'improvviso tre umani che gli sembrano indifesi e minacciati. Minaccia in parte immaginaria, perché è abbastanza chiaro che gli Infiniti sono scomparsi. Ma il mostro assassino è abbastanza reale, ed estremamente pericoloso.

— Perciò hanno perso la testa.

— Come prevedibile. Erano senza lavoro da centinaia di anni.

— Ma non sono rimasti in ozio. Hanno tagliato tutti gli alberi che hanno trovato, hanno sradicato i ceppi e hanno dato fuoco alla legna così raccolta.

— Lavoro fabbricato su misura per loro stessi — disse Timothy. — Per farlo, per dedicare a esso ogni energia, si sono dovuti convincere che gli alberi seguiranno gli uomini come forza dominante del pianeta.

— Tu non credi a questa faccenda degli alberi, vero?

— A dire la verità, sono ancora indeciso. L'idea che gli alberi siano destinati ad assumere una posizione dominante ha un certo fascino per me. Probabilmente sarebbero migliori degli uomini, dei dinosauri, delle trilobiti: tre specie che non hanno dato buona prova di sé.

— È un'idea pazza — disse Horace. — Gli alberi stanno in un posto e non si muovono mai. Non vanno né avanti né indietro.

— Dimentichi — disse Timothy — che hanno miliardi di anni a disposizione. Possono attendere gli sviluppi dell'evoluzione, senza fretta. È stato questo il guaio della specie umana. Noi non abbiamo mai avuto la pazienza di aspettare, e così abbiamo messo in corto circuito l'evoluzione. Ma è sbagliato pensare che l'evoluzione sia troppo lenta. Guarda cos'ha fatto in meno di un miliardo di anni, dalla prima pulsazione di vita a un animale intelligente. Uno che a causa della sua intelligenza si è scavato da solo la fossa sotto i piedi.

— Eccoti di nuovo — disse Horace — a parlare male della tua razza.

Timothy alzò le spalle. Forse, si disse, Horace aveva ragione. Lui parlava male della sua razza. Ma la prima a denigrarsi era sempre stata la razza stessa. L'uomo era un gruppo turbolento di scimmie terricole. Nel corso della storia umana, c'erano stati la gloria e il successo, ma c'erano stati anche molti errori fatali. L'uomo aveva commesso tutti gli errori possibili.

Il sole scendeva dietro le alture. Timothy si avviò lentamente in direzione della valle, lasciando Horace. Quando raggiunse la prima fortificazione, i robot posarono la scure e si misero sull'attenti.

— Riposo — disse Timothy. — Non prestate attenzione a me. Continuate pure a lavorare. Il vostro comportamento è assai lodevole. State lavorando molto bene.

I robot ripresero il lavoro. Conrad, scorgendo Timothy, si affrettò a correre da lui.

— Signore — disse — ormai li abbiamo circondati da tutti i lati. Possiamo scorgere il bianco dei loro occhi. Che facciano soltanto un movimento, e noi caleremo su di loro.

— Ottimo lavoro, capitano — disse Timothy.

— Signore — disse Conrad — non sono capitano, sono colonnello.

— Scusate — disse Timothy. — Non volevo offendervi.

— Scuse accettate — disse il colonnello.

Dalla porta del viaggiatore Emma comunicò che la cena era pronta.

Timothy si affrettò a fare ritono. Aveva fame; non mangiava da diverso tempo.

Emma aveva messo in tavola un piatto di formaggio, un piatto di prosciutto, un grosso barattolo di marmellata e una pagnotta.

— Cercate di accontentarvi — disse ai due uomini — È tutta roba fredda. Il fornello non funziona, o, almeno, non riesco a farlo funzionare. Ho provato in tutti i modi.

— Andrà bene — disse Horace.

— Dovrete bere acqua — disse Emma. — C'è del tè e del caffè, ma senza il fornello…

— Non importa — la consolò Timothy. — Non pensarci più.

— Ho cercato della birra. Ma non ne ho trovata.

— L'acqua andrà bene — disse Horace.

Si sedettero e cominciarono a mangiare. Poteva andare peggio. Il formaggio era saporito e il prosciutto era stagionato. La marmellata era di more, ed era profumata, anche se piena di semi. Il pane era soffice, con una crosta croccante.

Emma assaggiò una fetta di formaggio e mangiò una fetta di pane e marmellata. Tra un morso e l'altro, domandò: — Cosa facciamo adesso?

— Per il momento — le disse Horace — restiamo qui. Questo viaggiatore è molto comodo. Servirà come rifugio e come base di operazione.

— Per quanto tempo? — chiese Emma. — Questo posto non mi piace.

— Resteremo qui finché non sapremo come stanno le cose. La situazione qui fuori mi sembra caotica, ma entro pochi giorni si può risolvere, e allora potremo prendere una decisione.

— Per quanto riguarda me — disse Timothy — intendo ritornare quanto prima.

— Ritornare dove? — chiese Emma.

— A Hopkins Acre. Non ho mai avuto intenzione di andarmene. E se avessi avuto il tempo di pensarci non sarei venuto via.

— Ma il mostro! — esclamò Eroma, inorridita.

— Quando ritornerò, il mostro se ne sarà andato.

— Ma perché vuoi ritornare? — domandò Emma. — Non capisco. Laggiù può essere pericoloso.

— Laggiù ci sono i miei libri — disse Timothy. — E anni e anni di appunti. Ho ancora del lavoro da fare.

— Il tuo lavoro è finito — gli disse Horace, seccamente.

— Non è finito affatto. C'è ancora molto da fare.

— Tu lavoravi per un futuro nel quale speravi. Pensavi di trovare un modo per fare tornare indietro gli uomini, per imparare dai vecchi errori per ricominciare su altre basi. Non capisci che il tuo lavoro è stato inutile? Questo è il tuo futuro, e l'umanità si è trasformata in scintille di luce. Gli Infiniti hanno terminato il loro compito e se ne sono andati.

— Ma qui ci sono ancora alcune persone — disse Timothy. — Si potrebbe ricominciare.

— Non sono sufficienti — obiettò Horace. — Alcuni qui, altri là, nascosti. Alcuni nel passato, altri nel presente. Il patrimonio genetico complessivo è troppo limitato per ripartire.

— È inutile parlarne con lui — disse Emma. — È il più ostinato della famiglia. Quando si mette in testa un'idea, non la lascia più. Per quanto tu ne discuta con lui, non riuscirai a convincerlo.

— Ne riparleremo domani — disse Horace. — Dopo un buon sonno.

Timothy si alzò. — Ci sono delle coperte? Vorrei passare la notte fuori. Il clima è ancora caldo, e dormirò sotto le stelle.

Emma gli portò le coperte. — Non allontanarti troppo — gli disse.

— Non ho bisogno di allontanarmi — disse lui.

Era caduta la notte. L'oscurità del monastero era stata inghiottita dall'oscurità che lo circondava. Su tutte le alture si scorgevano i falò dei robot, sovrastati dallo scintillio proveniente dai puntini nel cielo. Osservando attentamente, Timothy riuscì a individuare alcune stelle, ma soltanto le più luminose, poiché tutte quelle luci facevano scomparire le stelle più deboli.

Trovò un piccolo terrazzino sul fianco della collina: era sufficientemente piano e poteva servirgli per passare la notte. Posò in terra una delle coperte per non essere a contatto con il terreno e poi si coprì con l'altra.

Disteso sulla schiena, fissò i piccoli punti di luce nel cielo. Lassù c'era la fase finale della razza umana. Come segmenti di pensiero puro, gli esseri umani potevano sopravvivere all'estinzione del tempo e dello spazio alla fine dell'universo. L'intelligenza umana sarebbe rimasta intatta nel vuoto e sarebbe esistita per sempre. Esistita per cosa fare? Cercò di immaginare cosa poteva succedere dopo la fine del tempo e dello spazio. Ma non riuscì a immaginare niente.

Aveva detto a Horace che gli uomini avevano voluto accelerare l'evoluzione, che non avevano voluto attendere. Si era forse sbagliato? Le opere create dall'uomo, i sogni da lui coltivati, erano parti dell'evoluzione, alla stessa stregua del lento processo biologico che aveva portato dal primo battito di vita fino all'uomo? L'intervento degli Infiniti si era limitato a spingere l'uomo sulla strada evolutiva già a lui destinata? La prima scintilla di vita sorta nel mare primordiale era già irrevocabilmente diretta verso quelle luci che ardevano nel cielo? Che l'universo, con tutta la sua gloria e le sue meraviglie, non fosse altro che la serra in cui doveva spuntare l'intelligenza?

Se questo era vero, allora la razza umana era il popolo eletto. Eppure, il popolo eletto doveva essere più d'uno. Per non dover fare affidamento su una sola razza, doveva esserci stato il tentativo di far nascere molte forme intelligenti diverse, perché nessuna singola razza poteva essere sicura della sopravvivenza. A causa di errori, molte di queste forme di vita intelligente dovevano essersi estinte senza arrivare alla meta. Altre dovevano avere preso un indirizzo sbagliato e dovevano essere state eliminate.

Come certe creature della terra che disseminavano migliaia di uova per essere certe che almeno una parte della loro discendenza giungesse alla condizione adulta, così l'evoluzione doveva avere fatto nascere grandi quantità di razze intelligenti, per essere certa che alcune di esse, alla fine, giungessero allo sviluppo completo.

No, si disse Timothy, non poteva essere così. Erano sciocchezze, considerazioni insostenibili.

Ma perché l'umanità aveva fatto un simile passo in un momento in cui aveva saldamente in pugno le stelle e in cui era pronta a godersi i frutti del suo viaggio lungo la comoda strada della tecnologia? Perché si era fermata? Era subentrata una stanchezza razziale, un desiderio di allontanarsi dalle responsabilità che, a quel punto, l'uomo si doveva assumere? Giunto ad affacciarsi sullo spazio, e sulle possibilità senza limite che si stendevano davanti a lui, l'uomo si era tirato indietro per paura del fallimento? O per paura di qualcosa di diverso?

Timothy cercò di fermare i suoi pensieri e di svuotarsi la mente, perché riusciva soltanto a confondersi le idee e non aveva elementi per giungere a una soluzione. Chiuse gli occhi, cercò di eliminare dal suo corpo la tensione, e anche il tumulto dei suoi pensieri si fermò. Si addormentò, ma ebbe un sonno agitato. Si destò varie volte, chiedendosi dove si trovava, tendendo l'orecchio ai rumori della legione d'automi al lavoro, disturbato dalle luci nel cielo. Poi, ricordando dove si trovava, si riaddormentava.

Infine qualcuno lo svegliò scuotendolo per una spalla e gridando: — Timothy! Svegliati! Spike è scomparso!

Si mise a sedere, chiedendosi perché Emma fosse così preoccupata. Era perplesso. Spike spariva sempre. Quando erano a Hopkins Acre, Spike scompariva per buona parte del tempo. Non lo vedevano per giorni, ma non si erano mai preoccupati della cosa, poi, quando lo decideva lui, si rifaceva vivo, spensierato come sempre, e l'assenza non pareva avergli fatto male.

La Terra assumeva un colore argenteo sotto la prima luce della luna. Il fondo della valle era ancora avvolto nell'oscurità. Dai fuochi accesi tra le fortificazioni saliva un filo di fumo. Perché, si domandò Timothy, i robot amavano tanto accendere fuochi? Certo non li usavano per cucinare, perché non mangiavano. Probabilmente accendevano i fuochi per il loro eterno desiderio di scimmiottare il loro creatore, l'uomo.

Horace era fermo a un centinaio di metri di distanza e parlava con Conrad e altri robot. Horace gridava e faceva la voce dura, ma la cosa non aveva molta importanza. Horace gridava sempre, e faceva sempre la voce dura: la faceva apposta per dimostrare che era un uomo rude.

Emma riprese, con il suo consueto tono lamentoso: — Spike sta di nuovo combinando dei pasticci. Spike ne combina sempre. Non so come abbiamo fatto a sopportarlo per tutti questi anni.

Timothy si alzò in piedi. Sollevò le mani per fregarsi gli occhi, poi si diresse lentamente verso Horace e i robot.

Sentendo che si avvicinava Horace si voltò verso di lui. — È di nuovo Spike — gridò. — Si è rimesso a giocare. Si nasconde da qualche parte, e crede che andremo a cercarlo. Gioca a nascondino.

Conrad parlava più piano di Horace, ma le sue parole si udivano chiaramente. — L'unico posto dove può trovarsi è nel monastero. Sia lui che il mostro sono spariti. Sono dentro.

— Allora — gridò Horace — perché continuate a scocciarci? Perché non andate a controllare nel monastero?

— Non io — disse il comandante dei robot. — Il monastero non è una cosa che ci riguardi. Riguarda gli uomini. Se voi entrerete, allora entreremo anche noi, ma noi da soli non entriamo.

Timothy si unì al gruppo. — Siete certo — domandò, rivolto a Conrad — che non sia scivolato tra le vostre linee?

— Impossibile. Abbiamo montato la guardia per tutta la notte. Li abbiamo avuti sott'occhio costantemente fino a un certo istante; l'istante successivo erano scomparsi.

— E che cosa hanno fatto, mentre li guardavate?

— Giocavano, a quanto pareva. Si rincorrevano: a volte uno rincorreva l'altro, altre volte il contrario. Sembrava che lo facessero secondo dei turni.

— Spike va pazzo per il rimpiattino — disse Horace. — Non intendo perdere altro tempo per causa sua. Tra un po' si stancherà e farà ritorno qui, con la coda tra le gambe.

— Ci ha preso in giro per anni — disse Emma, che si era unita a loro. — Saremmo sciocchi, se andassimo ancora una volta a cercarlo.

Timothy disse: — Questa volta la situazione sembra completamente diversa. Penso che dovremmo andare. Questa volta può essere in pericolo.

— No! — latrò Horace. — Nemmeno un passo! Accidenti, non intendo muovere un dito per lui.

— Forse Timothy ha ragione — disse Emma, piano, come se non fosse certa di avere l'autorizzazione a parlare. — Dopotutto è uno della famiglia. È sempre stato con noi.

— Se non vuoi andare tu — Timothy disse a Horace — andrò io da solo. Voi due rimanete qui. Dammi il fucile.

Horace fece un passo indietro. — No, non te lo do. Non sei capace di usarlo. Ti spareresti in un piede.

— Il fucile è mio, Horace.

— Sì, il proprietario sei tu, ma questo non significa che tu sappia usarlo.

— Allora andrò disarmato.

— No, non ci andrai! — gridò ancora Horace. — Non ti permetterò di andare da solo. Ti ficcherai in chissà quale pasticcio e nessuno potrà aiutarti a uscirne fuori.

— Se decidi di andare con lui — disse Emma — allora vengo anch'io con voi. Non voglio restare da sola in questo deserto.

— Ti ringrazio — disse Timothy, rivolto a Horace. — Sarò lieto di averti con me.

— Organizzerò un drappello — disse Conrad — per darvi appoggio. Siamo qui per proteggervi.

— Non ce n'è bisogno — disse Horace, rigido.

— Mi permetto di insistere — disse Conrad. — Qui vi abbiamo protetto. Continueremo a proteggervi anche fuori.

Conrad si voltò verso gli altri robot e cominciò a impartire ordini. I robot si misero in fila, disponendosi rigorosamente sull'attenti e mettendosi a spalla l'attrezzo che portavano: qui una vanga, là un palanchino, un'ascia, un martello pesante, un piccone…

— Visto che vuoi farci fare una stupidaggine — disse Horace, rivolto a Timothy — facciamola.

Timothy si avviò lungo la discesa, con Horace da un lato ed Emma dietro. Horace portava a tracolla il suo fucile da caccia grossa. Dietro di loro veniva la chiassosa legione dei robot, che marciava alla cadenza scandita dei sottufficiali o dai loro equivalenti.

Timothy continuò a scendere, attento a non scivolare su quel terreno ripido. Accanto a lui cadeva di tanto in tanto qualche ciottolo scalzato dai piedi dei legionari, che sollevava piccole nubi di polvere.

Dov'era Henry? si domandò. Se ci fosse stato, si sarebbe potuto infiltrare nel monastero per spiare all'interno. Così, se fosse stato necessario entrare, gli altri non avrebbero dovuto entrare alla cieca.

Giunsero insieme ai piedi della collina e la compagnia di robot si divise in due file, che procedettero affiancate, con gli umani in mezzo, in direzione del monastero.

Conrad, che camminava in testa a tutti, gridò un ordine, e le due file di robot si fermarono. Poi ritornò al gruppetto degli umani. — Restate qui — disse loro. — Invierò degli esploratori.

Gridò un altro ordine, e quattro robot si lanciarono di corsa verso il monastero. — Ci dev'essere una porta — disse Conrad. — Forse più di una. Ci deve essere il modo di entrare.

— È una sciocchezza — disse Horace. — Non c'è nessun pericolo.

— Certo — disse Conrad. — Nessun pericolo visibile. Ma in ogni situazione nuova c'è sempre un elevato fattore di rischio. Potrebbe addirittura essere un deliberato tentativo di nascondere la minaccia: farci credere che non c'è pericolo. In ogni caso, la cautela non fa mai male.

Timothy si guardò attorno. Altri robot si dirigevano verso di loro. Uscivano dalle postazioni di difesa che avevano costruito sulle colline e correvano come pazzi. Altri sciamavano sulla pianura, affrettandosi per raggiungere la squadra di Conrad.

— Anche gli altri si uniscono a noi — disse a Horace. — L'intero gruppo.

Horace si voltò a guardare ed emise un brontolio per indicare cosa pensava dei robot.

Attesero che arrivassero le informazioni. Cadde un pesante silenzio. Non si udiva un soffio di vento, non si udivano frinire gli insetti. Alla fine, uno degli esploratori fece ritorno. Si presentò a Conrad e disse: — Signore, abbiamo trovato un accesso. Una porta aperta. Ci sono altre porte, ma sono bloccate; non abbiamo cercato di forzarle, per evitare qualsiasi rischio. Poi abbiamo trovato quella aperta.

— E siete entrati?

— No, anche ora per non correre rischi. Gli altri aspettano che giunga il resto della compagnia.

— Benissimo, grazie Toby — disse Conrad. — Avete agito saggiamente. — Poi, rivolto a Horace: — Siete pronti a proseguire?

— Eravamo pronti fin dal momento della partenza — disse Horace. — Non abbiamo deciso noi di starcene qui fermi a perdere tempo.

La colonna si rimise in movimento; i tre umani ripresero il cammino in mezzo alle due file dei robot, e l'esploratore che aveva portato il messaggio ritornò di corsa in avanscoperta. Giunti al monastero, procedettero a fianco di una delle pareti. Visto da vicino, l'edificio sembrava alquanto malridotto. Le pareti esterne, di lega metallica, cominciavano a coprirsi di ruggine. Non c'erano finestre, soltanto porte, disposte a intervalli regolari, e tutte chiuse.

Giunsero alla porta che era ancora aperta. Dava accesso all'ala principale dell'edificio.

— Attendiamo qui — disse Conrad. — Invierò una squadra a controllare, e poi potremo entrare anche noi.

Attesero a lungo. Infine, un robot si affacciò sulla soglia e fece segno di avvicinarsi.

— Entriamo, ma, per favore nessuna disdicevole fretta — disse Conrad.

Entrarono senza disdicevole fretta. Il gruppo di robot si allargò per perlustrare l'edificio.

L'interno era rischiarato da una luce verde, pallida e fredda. Timothy cercò la fonte luminosa, ma non riuscì a individuarla. La luce, si disse, era emessa dalle pareti e dal soffitto.

All'interno del monastero non c'era molto da vedere. La vasta sala in cui erano entrati sembrava coprire l'intera larghezza dell'edificio principale ed era vuota. Qua e là, alcune porte conducevano alle sale che erano state aggiunte in un secondo tempo alla struttura originale. I robot entravano in ognuna e facevano ritorno quasi subito, come a indicare che non avevano trovato niente.

Quando la sua vista si abituò alla debole luce verde, Timothy notò una parte del pavimento segnata da depressioni più o meno grandi, simili a cerchi asimmetrici o a fori scavati con il cucchiaio di una pala meccanica. Ma non si vedeva alcun tipo di arredamento: né scrivanie, né sedie, né cestini, né archivi, né macchine.

Certo! si disse Timothy. Lui aveva pensato in termini umani, mentre quello in cui erano entrati era un edificio alieno, costruito a misura degli alieni. Non poteva aspettarsi di trovare scrivanie e sedie. Ma avrebbe dovuto trovare altri oggetti: oggetti alieni, mentre invece non ne scorgeva nessuno.

Emma richiamò la sua attenzione. — Guarda in alto — gli disse. Lui guardò nel punto indicato e vide alcune strane forme che pendevano dal soffitto. Ce n'erano a centinaia, appese a corde e funi. Dondolavano lentamente, sospinte dalla debole corrente d'aria che circolava nell'edificio.

— Assomigliano agli Infiniti — disse Emma.

— Se lo sono — disse Conrad, fermo a pochi passi di distanza — non hanno vita. Non riesco a percepire vita. Se ce ne fosse, i miei sensi me lo direbbero. Se sono Infiniti, sono morti e li hanno appesi perché si mummificassero.

Dal momento in cui avevano messo piede nell'edificio, non si erano allontanati dall'ingresso. Ora, dall'interno della costruzione, giunse un brusio di voci agitate.

— I ragazzi hanno trovato qualcosa — disse Conrad. — Andiamo a vedere.

I tre uomini e il robot corsero verso il punto da cui giungevano i rumori. Videro che gli altri robot avevano formato un cerchio intorno a qualcosa che destava i loro mormoni di stupore.

— Andiamo avanti — disse Conrad, brusco. — Che cosa succede? Fate largo.

I robot si spostarono per lasciarli passare. In mezzo alla sala c'erano Spike e il mostro, intenti a danzare una sorta di strano balletto aggraziato. Ma non si capiva se fosse una vera danza o un duello in cui ciascuno attendeva che l'avversario calasse la guardia. Facevano piccoli passi e accennavano movimenti, velocissimi, fintando e poi spostandosi immediatamente.

— Indietro, tutti quanti! — gridò Horace. — Me ne occupo io!

Si portò il fucile alla spalla, ma in quell'istante l'edificio oscillò violentemente. Gli umani e parte dei robot caddero a terra. Timothy scivolò sul pavimento inclinato, e proprio allora sentì chiudersi una porta.

Finì in uno dei fori del pavimento. Quando cercò di uscirne, si accorse che la sua superficie era talmente liscia da non permettergli la presa.

Bruscamente, l'edificio cessò di tremare e Timothy si guardò attorno. Il foro in cui era caduto era uno di quelli che parevano scavati da un cucchiaio. Era grosso come il suo corpo; pensò che se si fosse raggomitolato avrebbe potuto dormirvi comodamente. E forse era proprio quella la funzione dei fori: i letti degli Infiniti. Dato che erano più piccoli degli umani, potevano starci comodamente.

— Non riuscite a uscire? — domandò Conrad, curvandosi su di lui.

— Scivolo. Per favore, datemi una mano.

Conrad gli tese la mano e lo aiutò a rimettersi in piedi.

— Forse siamo nei guai — disse il robot. — Sospetto che ci sia stato uno spostamento.

— Spostamento?

— L'edificio si è mosso.

— Sono finito a terra.

— Credo che sia stato più di un sussulto — disse il robot. — Credo che ci siamo spostati nello spazio.

Qualcuno aveva aperto la porta da cui erano entrati, e i robot si precipitavano in quella direzione con l'intenzione di uscire dall'edificio. Horace era stato tra i primi a precipitarsi fuori, ma ora si fece strada in mezzo alla corrente di robot in uscita e ritornò verso Timothy. Brandendo il fucile, gridò: — L'edificio era una trappola. Ci ha attirati al suo interno per portarci in un altro luogo. — Si rivolse a Conrad: — Hai idea di dove ci troviamo?

Conrad scosse la testa. — Purtroppo, no — disse.

Timothy era confuso, non capiva cosa succedesse, cosa avesse detto Horace. — Altro luogo? — domandò. — Non dovrebbe esserci problema. Tutt'al più, qualche chilometro…

— Sciocco — disse Horace, irritato. — Non è quello che volevo dire. Non chilometri. Anni luce, probabilmente. Non siamo più sulla Terra. Da' un'occhiata fuori.

Così dicendo, lo afferrò per il braccio e lo spinse in direzione della porta.

— Va' a vedere!

Timothy, sospinto da Horace che premeva contro la sua schiena, raggiunse la porta, barcollando.

Era il tramonto. O l'alba. L'aria era fresca e frizzante, e il cielo aveva un aspetto strano. Il territorio intorno a loro pareva formare una serie di pieghe: una fila di collinette tonde terminava in un'altra fila di collinette più alte, e così via, fino all'orizzonte. Sull'orizzonte era sospesa un luna giallastra e rigonfia.

Chissà perché, si domandò Timothy, Horace l'aveva scambiato per un paesaggio alieno? A lui sembrava un posto come tanti altri, tranquillo e senza particolari caratteristiche. L'aria era respirabile e la gravità era quella solita della Terra.

Uno dei robot domandò: — Siete usciti tutti? Tutti fuori del monastero?

— Sono usciti tutti — rispose un altro robot.

— I comandi — gridava Horace. — Qualcuno ha visto il quadro dei comandi?

— Comandi?

— Sì, qualcosa che metta in azione il monastero. Per guidarlo e per farlo muovere.

— Nessuno li ha visti, ne sono certo — disse Conrad. — Non è un veicolo. È un edificio. Non ci sono comandi.

— Si è mosso da un posto all'altro — gridò Horace. — Si è spostato. Altrimenti non saremmo qui.

— Comincia a rompersi — esclamò un altro robot. — Si spezzano le giunture. Ascoltate.

Tesero l'orecchio, e si poté udire distintamente il cigolio della struttura: il rumore del metallo arrugginito che cede.

— Ne è rimasto in piedi appena a sufficienza per portarci qui — disse Conrad. — Ma adesso è finito. Ancora qualche anno, e non si sarebbe più mosso.

— Maledizione! — ruggiva Horace. — Maledizione!

— Sono d'accordo con voi — disse Conrad, parlando senza fretta. — Ci sono dei momenti in cui va tutto storto.

Timothy si allontanò dalla folla di robot che guardavano lo spettacolo del monastero che crollava. Meglio così, si disse. Se il monastero era una sorta di viaggiatore funzionante, chissà quali pazzeschi piani potevano venire in mente a Horace. Se non altro adesso erano provvisoriamente al sicuro, e in un ambiente che gli piaceva. L'aria era buona, potevano andare dove volevano, il clima era sopportabile, e probabilmente avrebbero trovato del cibo.

In quel momento, vide, era fermo su una collinetta coperta d'erba, ma era troppo buio per vedere che tipo di erba. Vide che il cielo si stava rischiarando, alla sua destra. Horace aveva detto che si trovavano su un altro pianeta, ma fino a quel momento non gli aveva dato alcuna spiegazione. Le colline sembravano quelle della Terra. Era troppo buio per distinguere i particolari.

Qualcuno si dirigeva verso di lui: Emma. Scese a raggiungerla. — Stai bene? — le disse.

— Sto bene — rispose lei — ma ho paura. Horace dice che non siamo più sulla Terra. Dice che ci sono due lune, e la Terra non ha due lune. Io non so come sia successo.

— Due lune? Ne vedo solo una. È sull'orizzonte, a ovest. O quello che mi sembra l'ovest…

— Ce n'è un'altra sulla nostra testa — disse Emma. — Una luna più piccola.

Piegando il collo, riuscì a vederla: proprio sulla sua testa. Come aveva detto Emma era una luna piccola, meno di metà di quella terrestre. Ecco come Horace aveva capito di trovarsi su un altro pianeta…

Il monastero non aveva smesso di cigolare. A est il cielo era sempre più chiaro. Ancora pochi minuti e sarebbe spuntato il sole.

— Hai visto Spike? — domandò Emma.

— Nemmeno un segno.

— Si sarà stancato di fare con quel mostro imbecille i suoi stupidi giochi.

— Non so se erano giochi — disse Timothy.

— Che cosa potevano essere, se non giochi? Spike è sempre occupato in qualche stupido gioco.

— Già, è vero — le disse lui.

La compagnia dei robot si era raccolta in una posizione al di sotto del monastero, ma poi si era ritirata. Adesso si era recata in una zona dove il terreno era piano. Echeggiò un ordine, e i robot si schierarono subito in formazione militare.

La luce dell'alba era adesso più chiara ed era possibile guardarsi attorno. Il profilo delle colline perse la rigidezza notturna e si ammorbidi. Guardandole in precedenza, quando era ancora buio, Timothy aveva supposto che fossero colline verdi, ma ora vide che avevano un colore del tutto diverso. Erano rossicce come il mantello di un leone o di un puma, e il cielo era violaceo. Come poteva essere viola? si domandò Timothy. Non solo una parte, ma tutto il cielo?

Horace salì faticosamente fino a loro. Si fermò un po' più in basso, con il fucile imbracciato.

— Ce l'hanno fatta — disse con rabbia. — Ci hanno rapito e ci hanno portato qui, dovunque siamo.

— Ma non siamo soli — disse Emma. — Ci sono con noi i robot.

— Bella banda di imbecilli — disse Horace. — Un mucchio di pasticcioni.

— Ci potranno essere d'aiuto — disse Timothy. — Conrad mi sembra competente… riesce a produrre dei risultati.

— Abbiamo perso tutto quello che avevamo — piagnucolò Emma. — Tutta l'attrezzatura che c'era nel viaggiatore. Le coperte! E il resto! I piatti e le casseruole!

Horace le mise un braccio attorno alle spalle. — No, i robot hanno portato le coperte e un po' di equipaggiamento — disse. — In un modo o nell'altro, ce la faremo.

Singhiozzando, Emma si strinse a lui, e lui la abbracciò impacciato, battendole la mano sulla spalla. Timothy guardò la scena, anche lui imbarazzato. Era la prima volta, in tutta la sua vita, che vedeva da parte di Horace un gesto affettuoso verso sua sorella.

A est il cielo era ormai chiaro, e scorgeva che la valle era percorsa da un fiume e che sulle sue sponde sorgevano degli alberi, che salivano fino ai piedi delle colline. Si trattava di alberi alquanto particolari: sembravano felci, giganti, o giunchi, di proporzioni colossali. Sulle colline, il vegetale di colore fulvo che era l'equivalente locale dell'erba si muoveva al soffio della brezza. Sembrava un ottimo pascolo, pensò Timothy, ma a portata d'occhio non c'erano animali erbivori, né in mandrie né isolati.

Dal monastero si staccò una lastra metallica che scivolò lungo il pendio. La struttura si era ormai afflosciata su se stessa ed era ridotta a un cumulo di rottami.

Nella valle, la formazione militare dei robot si era sciolta. Rimaneva soltanto una falange: il quadrato vuoto in centro, pensò Timothy, della tradizione militare, a partire dai macedoni di Alessandro fino all'ultima resistenza di Napoleone a Waterloo. Gli altri robot correvano in tutte le direzioni come formiche uscite dal formicaio. A quanto pareva, partivano come ricognitori per esplorare la zona.

Tre di essi si diressero verso gli umani. Si disposero intorno a loro, in modo da circondarli parzialmente. Uno parlò: — Signori, signora, Conrad ci ha incaricato di scortarvi fino al nostro campo, dove sarete al sicuro.

— Secondo voi — ruggì Horace — quel quadrato vuoto sarebbe un campo?

— Stiamo cercando combustibile per accendere un fuoco. Altri sono incaricati di portare acqua e il resto che occorre.

— Va bene — brontolò Horace. — Non so gli altri, ma io ho fame.

Si avviò verso il gruppo dei robot. Emma si mise al suo fianco e Timothy gli tenne dietro.

Il sole si era ormai alzato al di sopra dell'orizzonte. Guardandosi alle spalle, Timothy notò che assomigliava al sole della Terra: tutt'al più poteva essere un po' più grande e un po' più luminoso, ma la cosa era difficile da giudicare. Per molti aspetti, il pianeta era assai simile alla Terra. Abbassando gli occhi vide che il terreno color vinaccia era coperto di erba dai fili sottili.

Dal quadrato dei robot si levò un filo sottile di fumo.

— Hanno trovato qualcosa da bruciare — disse Horace. — Forse riusciremo a fare un pasto caldo.

Quando furono all'interno del quadrato protettivo, Conrad disse loro come si erano procurati il combustibile. — Legno degli alberi di felce. Non è la migliore legna da ardere che ci sia, ma brucia, e dà luce e calore. In centro è cava, ed è circondata da una polpa fibrosa, ma questa polpa è abbastanza densa. Inoltre, abbiamo trovato del carbone.

Sollevò la mano per mostrare il carbone: alcune piccole lastre nere e lucenti.

— L'abbiamo trovato in una formazione rocciosa, accanto all'argine del fiume. Non è carbone di grande qualità; è una sorta di lignite. Viaggiando, cercheremo altro carbone, e forse potremo trovarlo migliore. Comunque, tra legno di cattiva qualità e carbone di cattiva qualità, un fuoco siamo riusciti a farlo. Sulla Terra, tutto il carbone è già stato estratto e bruciato da tempi immemorabili.

— Viaggiare? — domandò Emma. — Dove dobbiamo andare?

— Dobbiamo allontanarci da qui — disse Conrad. — Qui non possiamo rimanere. Dobbiamo trovare un posto che offra cibo e riparo.

— Cibo?

— Sì, signora, cibo. Quel poco che avete non sarà sufficiente.

— Ma potrebbe essere avvelenato!

— Lo controlleremo — disse Horace.

— Non abbiamo modo di controllarlo.

— Certo — disse Horace. — Non abbiamo laboratorio. Non abbiamo reagenti, e anche e li avessimo, non conosciamo la chimica. Ma c'è sempre un modo. Dobbiamo fare da cavia noi stessi.

— Dovrete farlo voi — disse Conrad. — In questo, noi robot non possiamo aiutarvi.

— Prenderemo un minuscolo pezzo di cibo — disse Horace. — Lo assaggeremo. Se ha gusto cattivo, se brucia la lingua, se lega i denti, lo sputeremo. Se invece avrà gusto soddisfacente, ne inghiottiremo un piccolo pezzo, e poi staremo a vedere.

Uno dei robot lanciò un grido d'avvertimento, e indicò in cima alle colline. C'era un veicolo volante, di metallo lucido, che scendeva verso di loro. Volava a un metro d'altezza sul livello del suolo. Passò sulle loro teste e proseguì, poi svoltò, dopo aver oltrepassato il fiume, per procedere parallelamente alla collina. Poi cambiò di nuovo rotta e riattraversò il fiume poco al di sopra della loro altezza, seguì di nuovo la corrente del fiume, questa volta a tre metri dal suolo, e sorvolò il quadrato dei robot. Seguì ancora il corso del fiume per qualche centinaio di metri, poi, senza fretta, salì oltre la cima delle montagne e scomparve per la stessa strada da cui era venuto.

— Siamo sotto osservazione — disse Conrad. — E adesso sono venuti a controllarci.

— Cosa possiamo fare? — domandò Horace. — Come possiamo proteggerci e difenderci?

— Faremo la guardia — disse Conrad. — Andremo a cercarli.

Verso la fine del pomeriggio, gli esploratori che avevano seguito la corrente del fiume fecero ritorno per riferire che il fiume sfociava in un'ampia palude. Durante la notte ritornarono quelli che erano stati inviati a monte. La montagna, riferirono, lasciava il posto, a qualche chilometro di distanza, a un altipiano. Si scorgevano alte catene montuose in lontananza.

— È quanto volevamo sapere — commentò Conrad. — Ci dirigeremo verso il monte.

Partirono la mattina seguente. Quando i monti divennero più alti, l'avanzata si fece più faticosa. Sulle rocce accanto al fiume si scorgevano spesse vene di carbone. Anche la vegetazione cambiò. Felci e giunchi scomparvero, sostituiti da piante di altro genere, più vicine a quelle della Terra. Le colline parevano non terminare mai. Si alzavano sotto forma di catene, l'una parallela all'altra, sempre più alte, e tra l'una e l'altra c'erano strette valli. Conrad non cercò di accelerare il passo. Lui e Horace si rimbeccavano di tanto in tanto, ma la cosa non andava più in là di questo.

Trovarono del cibo adatto all'uomo: due tipi di tuberi, un frutto giallo che era assai abbondante, fagioli contenuti nei grossi baccelli di un rampicante. Ogni cibo venne assaggiato con molta cautela. Alcune possibilità vennero immediatamente scartate perché avevano odore cattivo o gusto cattivo. Horace ebbe qualche bruciore di stomaco dopo avere assaggiato alcune bacche, ma fu l'unico incidente. I robot catturarono piccoli animali; tutti, all'infuori di uno, risultarono commestibili. I pesci che nuotavano nel fiume avevano un odore così nauseabondo che nessuno ebbe il coraggio di assaggiarli.

I robot costruirono armi da caccia, ma gli archi erano poco maneggevoli e le frecce volavano storto. Provarono con le punte di selce, ma a causa della loro imperizia e del materiale inadatto le punte risultarono troppo pesanti. I robot riuscirono comunque a portare un po' di selvaggina.

Il tempo continuò a rimanere bello. Nel cielo violaceo non si formò alcuna nube. Le giornate erano molto calde; le notti leggermente più fresche.

Infine le montagne terminarono: giunsero su un altipiano largo e asciutto, punteggiato qua e là di montagnole, che terminava all'orizzonte dove si alzavano montagne bianche e azzurre. Portando con sé dei secchi fatti con legno locale, per trasportare l'acqua, il gruppo s'incamminò lungo la pianura. L'impazienza e l'irritazione erano le emozioni dominanti.

Non ci furono ulteriori avvistamenti del velivolo che era sceso su di loro il giorno del loro arrivo, anche se Timothy aveva l'impressione di essere costantemente spiato.

A volte scorgevano sul fianco di una montagna Spike e il mostro. Anche se non ne era certo, Timothy aveva l'impressione che Spike avesse ottenuto un vantaggio, e che fosse lui a spingere il mostro, dove voleva.

L'altipiano pareva interminabile. Continuarono a camminare un giorno dopo l'altro, e niente cambiò. Le montagne mantennero la loro distanza, senza mai sembrare più vicine. Non si aveva alcuna percezione delle distanze. Ai piedi di una delle montagnole, trovarono una fonte e poterono riempire i secchi vuoti. Il rigagnolo che nasceva da quella fonte correva per poche centinaia di metri prima di essere assorbito dal terreno asciutto. Horace brontolava ormai senza interruzione; Emma continuava a fregarsi nervosamente le mani. Conrad non si occupava di loro; continuava a marciare, penetrando sempre di più all'interno di quel territorio brullo.

Un pomeriggio il paese cambiò, la pianura venne interrotta da un canyon. Dal ciglio del precipizio videro in fondo al canyon un fiume, accompagnato da strisce di vegetazione molto folta su entrambi i lati. Alla loro sinistra sorgeva un'alta collina, il cui fianco occidentale era stato eroso nelle epoche geologiche dal fiume che aveva scavato anche il canyon. Tra la collinetta e il canyon si stendeva un breve tratto piano su cui sorgevano le rovine di un'antica città.

Non persero molto tempo tra le rovine. I robot trovarono uno stretto sentiero che conduceva al fondo del canyon e che si snodava sul fianco di un'alta parete di roccia rossa. Alla fine del sentiero, la roccia rientrava su se stessa, e formava un largo tetto, da cui giungeva un soffio d'aria più fresca: un sollievo, dopo il sole cocente.

Conrad, seguito dai tre umani, si mise al riparo sotto la tettoia naturale.

— Qui — disse Conrad — ci fermeremo per un po'. Non è proprio ciò che speravo di trovare, ma saremo protetti mentre prepariamo la nostra prossima mossa. L'acqua del fiume è poco distante. E lungo la riva possiamo trovare cibo adatto agli umani.

Emma si sedette in terra. — Mi piace — disse. — Possiamo toglierci dal sole fino al tramonto. E non ci sarà bisogno di razionare l'acqua. Forse potrò fare il bagno.

— È meglio che niente — disse Horace, brontolando. — Meglio che stare là fuori all'aperto.

Il giorno seguente, un robot mandato in esplorazione trovò i rottami. Erano alla base del monte da cui aveva origine il canyon. Il mucchio era largo di base e si spingeva fino a metà della montagna. Il robot ritornò di corsa, annunciando la notizia. Tutti corsero a vedere la scoperta.

La maggior parte dei rottami era di metallo. In origine, senza dubbio, doveva esserci molto altro materiale, ma nel corso dei millenni le parti meno robuste si erano consumate. Solo il metallo, alcune pietre bizzarramente sagomate e qualche grosso pezzo di legno erano rimasti. La cosa strana era che il metallo non si era deteriorato. Era ancora liscio e lucido; non c'era segno di ruggine.

— Una lega — disse Conrad — sconosciuta sulla Terra. Questa roba sembra ancora nelle condizioni di quando l'hanno gettata via.

I pezzi metallici avevano ogni forma e dimensione: c'erano minuscole piastrine, parti isolate lavorate a macchina, strumenti e utensili rotti, metallo modellato secondo forme complicate e in blocchi massicci. Qualche pezzo era genericamente riconoscibile; altri sfidavano l'immaginazione. I robot distesero sul terreno le parti maggiormente accessibili e continuarono a esaminarle, perplessi.

— Una tecnologia aliena — disse Conrad. — Potremmo impiegarci tutta la vita, per capire che cosa sia questo materiale.

Era chiaro che i rottami erano stati scaricati dal ciglio del canyon, forse dagli abitanti della città abbandonata che adesso era ridotta a un cumulo di rovine.

— È un mucchio di rottami molto grande, per una città così piccola — disse Horace.

— Poteva essere la discarica pubblica di una zona più grande. — Disse Timothy. — Un tempo, nella pianura che abbiamo attraversato, potevano esserci molte altre città. Forse era una zona agricola assai popolata. Poi venne la siccità e la base economica della zona scomparve…

— Possiamo utilizzare il metallo — gli disse Conrad. — Possiamo costruire le macchine che ci occorrono.

— Intendi dire che dobbiamo starcene qui nascosti mentre voi pensate alle macchine? Che genere di macchine? — chiese Horace.

— Utensili, per prima cosa.

— Avete i vostri utensili. Avete zappe e vanghe, asce e seghe, picconi e palanchini…

— Armi — disse Conrad. — Armi migliori di quelle che abbiamo adesso. Archi migliori. Frecce che vanno dritto. Questo metallo è forte ma flessibile. Eventualmente, balestre. Aste e lance. Catapulte.

— Ti diverti! — esclamò Horace. — Hai trovato un mucchio di oggetti nuovi, e ti vuoi divertire a…

— Insieme — continuò Conrad — possiamo costruire un carro per portare l'acqua e il cibo che raccogliamo. I nostri robot possono tirare il carro e un'eventuale carrozza. E potremmo anche costruire una motrice a vapore…

— Tu sei pazzo! — esclamò Horace.

— Penseremo a tutto — disse Conrad. Metteremo al lavoro il cervello.

Nei giorni successivi lo misero al lavoro. Fecero dei conciliaboli. Tracciarono disegni sulla sabbia. Andarono a scavare il carbone in un giacimento posto a un chilometro di distanza, prepararono una forgia e si misero all'opera. Horace era più nervoso che mai. Emma, ricordando le giornate passate sull'altopiano, era contenta di starsene in un posto dove c'era l'acqua e non batteva il sole. Timothy si recò in giro a esplorare.

Risalì il sentiero che portava all'altopiano e passò lunghe ore nell'esplorazione delle rovine della città. Frugando nella sabbia e nella polvere trovò di tanto in tanto qualche manufatto: armi primitive; sbarre lunghe fino a un metro fatte di metallo, con tracce di ruggine; ceramiche dalla forma strana, che potevano essere idoli. Si sedette a guardare ciò che aveva trovato, ma non riuscì a cavarne un senso. Comunque, le rovine esercitavano su di lui uno strano fascino, e vi ritornò varie volte.

Laggiù, chissà quanti millenni prima, era vissuta una forma di vita intelligente che aveva avuto una società e un'economia evoluta. Che tipo di intelligenza fosse stata le rovine non lo lasciavano capire. Le porte degli edifici erano circolari e talmente piccole che Timothy vi entrava a malapena. Le stanze erano talmente basse da costringerlo a camminare carponi per esplorarle. Non c'erano scale che conducessero ai piani superiori, ma soltanto pertiche metalliche troppo lisce per arrampicarsi.

Alla fine si decise a salire sulla massiccia collinetta tronca. I suoi fianchi erano pieni di massi in equilibrio precario, che quando li sfiorava minacciavano di cadergli addosso. Tra un masso e l'altro c'era della ghiaia scivolosa, su cui doveva salire con attenzione, per non smuovere i massi.

Forse, si era detto, gli abitanti della città avevano messo in cima alla collina un posto di guardia, a scanso di possibili invasioni da parte di popolazioni straniere, o per controllare le mandrie, o per scopi che non riusciva a immaginare. Ma in cima trovò solo una distesa di rocce, sabbia e argilla su cui non cresceva nessuna pianta; sulla roccia non c'era nessun lichene. Il vento fischiava attorno a Timothy, che giudicò quella vetta il fazzoletto di terra più desolato che avesse visto.

Sotto di lui si stendeva un panorama affascinante sui colori giallastri dell'altopiano che avevano attraversato si stagliavano altre montagnole come la sua, più scure del piano; a ovest si scorgeva il canyon, rosso come una ferita, e al di là del canyon il profilo spezzato di una catena di montagne azzurrine.

Raggiunse il bordo occidentale della spianata rocciosa e studiò il canyon sotto di lui, cercando qualche traccia del lavoro dei robot. Ma non riuscì a vedere alcun segno di attività. La lunga striscia blu del fiume serpeggiava sul fondo del canyon, in mezzo a due piccoli bordi verdi di vegetazione. Dietro il fiume, la parete rossa del canyon saliva fino a confondersi con l'intenso colore giallo dell'altipiano.

Ormai era il momento di scendere dalla montagnola: doveva scendere con molta attenzione, poiché la discesa poteva essere più pericolosa della salita.

Udì alle sue spalle il rumore di una pietra smossa, e si affrettò a voltarsi. Il cuore gli balzò in gola. Il mostro assassino correva verso di lui, e dietro il mostro c'era Spike, che si muoveva velocemente in direzioni casuali.

Timothy si affrettò a scansarsi per non farsi scorgere dal mostro. Questi, che probabilmente non aveva visto l'abisso che si spalancava sotto di lui, si lanciò a sua volta di lato, puntando sull'umano. Rapidamente, Spike si mosse in modo da spingerlo altrove, e il mostro si voltò nella nuova direzione. Timothy inciampò e cadde. Con la coda dell'occhio vide che il mostro, benché lottasse disperatamente per fermarsi, oltrepassava il ciglio del precipizio e cadeva. Per un attimo parve rimanere sospeso a mezz'aria, poi scomparve.

Timothy si rialzò e corse al ciglio del precipizio in tempo per vedere il mostro piombare contro un masso, sul fianco della montagnola, rimbalzare nell'aria, e infine frantumarsi. I frammenti volarono in tutte le direzioni e caddero in fondo al canyon, suddividendosi in pezzi sempre più piccoli.

Timothy si voltò verso Spike, che era a pochi passi da lui: lo vide intento a danzare una danza di vittoria, girando su se stesso, balzando nell'aria, scivolando sul terreno.

— Tu e i tuoi maledetti giochi! — gridò, pur sapendo che se era stato un gioco, era stato un gioco mortale.

— Dunque — proseguì poi — finalmente l'hai fatto fuori. Non hai mai abbandonato la tua preda. Quel primo giorno lo hai spinto verso di noi, sperando che Horace gli sparasse. Poi, anche quando quel piano è andato in fumo, hai continuato a dargli la caccia.

Spike si era fermato, e si limitava a oscillare avanti e indietro.

— Spike — gli disse Timothy. — Ti abbiamo sottovalutato. In tutti questi anni ti abbiamo sempre preso per un pagliaccio. Vieni, scendiamo a raggiungere gli altri. Saranno lieti di vederti.

Ma quando si avviò verso la strada da cui era salito, Spike si mise davanti a lui. Timothy si diresse da un'altra parte, ma Spike gli bloccò la strada anche questa volta.

— Maledizione, Spike — gridò Timothy. — Adesso ti metti a spingere me? Non lo sopporto.

Udì un debole ronzio e si voltò per, vedere che cosa fosse. Era un lucente velivolo che scendeva nella loro direzione: era simile a quello che li aveva spiati il giorno del loro arrivo. Toccò delicatamente terra e non si mosse più. La parte superiore si sollevò con lentezza, e Timothy poté vedere la creatura che lo pilotava: un mostro. Testa molto piccola, spalle esageratamente larghe. Quello che sembrava un naso si suddivideva in due antenne gemelle. Dalla nuca spuntavano alcune penne di colore rosso che sembravano la cresta di un uccello. Un singolo occhio composito sporgeva tra il naso e la cresta rigida. L'alieno si voltò verso Timothy ed emise una serie di pigolii.

Timothy fece qualche passo in direzione del velivolo, per vedere il suo mostruoso pilota. Provava una forte curiosità. Di fronte a lui c'era una forma di vita intelligente, di ordine superiore a quello degli abitanti della città in rovina. Spike raggiunse Timothy e si mise al suo fianco, poi passò rapidamente dietro di lui e si mise dall'altra parte, per spingerlo in avanti.

— Non c'è bisogno di spingermi — disse Timothy, ma Spike continuò a spingere e a girare su se stesso. Timothy fece qualche passo, dicendosi che era lui a volersi avvicinare per vedere il pilota: non era Spike a costringerlo…

Raggiunse la parte posteriore del velivolo e toccò il metallo. La superficie era tiepida e liscia. All'interno sotto la calotta sollevata, c'era quello che sembrava uno scompartimento per passeggeri. Non c'erano sedie, ma il pavimento e le pareti erano imbottiti e si scorgevano dei tubi metallici che potevano servire come mancorrenti.

Comunque, Timothy non aveva intenzione di entrare nel velivolo. Si voltò a guardare cosa facesse Spike, e vide che si precipitava contro di lui. Inciampò contro il bordo dell'apparecchio e cadde all'indietro. Svelto come il fulmine, Spike balzò dentro, il portello si chiuse e l'apparecchio si staccò da terra.

Catturato, si disse Timothy. Rapito da Spike e da quell'orrendo pilota, che lo stavano portando in un posto dove non aveva avuto alcuna intenzione di andare. Provava un po' di timore, ma non molto. Soprattutto, era offeso per il modo.

Si rialzò in piedi, e tenendosi alla ringhiera, guardò fuori. Scorse la parete del canyon illuminata dal sole, le sue rocce rosse.

La famiglia si era dispersa e adesso si era dispersa ancora di più. Si domandò vagamente se fosse mai destinata a ricostituirsi, e temette di no. I suoi familiari venivano spostati in giro come pedine di una scacchiera. Qualcuno o qualcosa si stava servendo di loro.

Gli ritornò in mente Hopkins Acre, e ripensò a quanto gli piaceva quel luogo: l'antico edificio nobiliare, il suo studio con le pareti tappezzate di libri, la scrivania coperta dai suoi scritti, l'ampio prato, gli alberi, il ruscello. Era stata una vita piacevole, e laggiù lui aveva svolto il suo lavoro; ma, ripensandoci, si domandò quale fosse il suo lavoro. A quell'epoca gli era parso importante, ma lo era stato davvero? Tutto sommato, che risultati aveva ottenuto?

Il canyon era scomparso dietro l'orizzonte, e adesso volavano a bassa quota sopra l'interminabile deserto dell'altopiano. Sotto lo sguardo di Timothy, comunque, parte del colore marrone scomparve gradualmente, e ricomparve il colore giallo della prateria, inframmezzato da ruscelli e boschi. L'aridità del deserto si era allontanata alle loro spalle.

Davanti al velivolo s'innalzavano le montagne, molto più alte di quanto gli erano parse in precedenza: picchi che trafiggevano il cielo, facce di roccia nuda che fissavano la pianura. Per un attimo ebbe l'impressione che l'apparecchio andasse a schiantarsi contro la parete della montagna, ma all'ultimo momento si aprì davanti a loro uno spazio, con alte pareti di roccia ai lati. Per qualche istante l'aereo volò tra pareti rocciose; poi la roccia si aprì bruscamente e lasciò il posto a una valle verde e ampia, chiusa tra gli alti monti. Nel fondo della valle correva un'alta catena rocciosa, e sui fianchi di questa catena, a metà altezza, sorgeva una parete bianca che sembrava fatta di madreperla. In cima c'era un gruppo di palazzi bianchi e altissimi, oltre ad alberi e ad altri edifici che sembravano abitazioni. Alcuni avevano la forma di capannoni, altri sembravano bungalow, altri ancora semplici baracche, e infine ce n'erano molti che non assomigliavano ad alcun edificio a lui noto.

L'aereo volò sulla catena interna e raggiunse la sua parte più alta: qui si diresse verso un prato verde, accanto al quale sorgeva una casa. Toccò terra, e la calotta trasparente si sollevò. Il pilota disse qualcosa, e Spike scese a terra. Un po' confuso, Timothy lo seguì e si fermò a poca distanza dall'apparecchio. Poi osservò la casa… e rimase senza fiato per la sorpresa. A parte poche differenze, era la casa di Hopkins Acre.

Una creatura deambulante che aveva corpo sottile, gambe arcuate, braccia ciondolanti, era intanto uscita dalla casa e si dirigeva verso di loro. Si fermò davanti a Timothy e gli disse nella sua lingua: — Sono il vostro interprete e accompagnatore, e spero di essere in futuro anche vostro amico. Potete chiamarmi Hugo; naturalmente, non è il mio nome, ma credo possiate pronunciarlo senza difficoltà.

Timothy trangugiò a vuoto. Quando fu nuovamente in grado di parlare, domandò: — Potete spiegarmi cosa succede?

— Tutto a tempo debito — disse Hugo. E aggiunse. — Prima, permettetemi di accompagnarvi alla vostra abitazione. È stato preparato un pasto per voi.

Si avviò verso la casa, seguito da Timothy e da Spike che correva qui e là al loro fianco. Alle loro spalle, il velivolo si alzò nuovamente in volo.

C'era qualche piccola differenza, ma l'edificio sembrava sotto tutti gli aspetti una buona copia di Hopkins Acre. L'erba era tagliata, gli alberi erano al posto giusto, il profilo del terreno era molto simile. C'era una sola differenza: dovunque si posassero gli occhi si scorgeva una parete di montagne, mentre a Hopkins Acre la montagna più vicina distava centinaia di chilometri.

Giunti alla casa salirono gli scalini di pietra fino alla porta massiccia. Spike li aveva lasciati e ruzzolava allegramente sul prato.

Hugo aprì una delle porte e lo fece entrare. C'erano senza dubbio delle differenze, ma occorreva un po' di tempo per notarle. Davanti a lui c'era il soggiorno, ancora buio, con sagome scure che erano mobili, e subito dopo la sala da pranzo con la tavola apparecchiata.

— C'è un arrosto di abbacchio — disse Hugo. — A quanto sappiamo è uno dei vostri piatti favoriti. Non ce n'è molto, ma siamo soltanto in due a mangiare.

— Abbacchio… qui!

— Quando facciamo una cosa quaggiù — disse Hugo — la facciamo nel modo migliore possibile. Abbiamo un grande rispetto per le varie culture che risiedono in questa comunità.

Timothy entrò in camera da pranzo. La tavola era apparecchiata per due, e dalla cucina giungeva rumore di stoviglie.

— Naturalmente — disse Hugo — non troverete i fucili di Horace nella stanza delle armi, anche se la stanza delle armi c'è. C'è anche il vostro studio, ma, ahimè, è vuoto. Non abbiamo potuto duplicare i vostri libri e i vostri appunti, e la cosa ci spiace, ma c'erano delle limitazioni che non siamo riusciti a superare. Sono certo comunque che potremo fornirvi del materiale adatto a sostituire i vostri libri.

— Ma… aspettate un attimo — disse Timothy. — Come potete sapere di Horace e dei fucili, del mio studio e dei miei libri, e dell'abbacchio? Come lo sapete?

— Riflettete un attimo — gli disse Hugo — e poi cercate di indovinare…

— Spike! Per tutti questi anni ci siamo allevati la serpe in seno!

— Non una serpe. Un osservatore molto diligente. Se non fosse stato per lui, non sareste qui.

— E gli altri, Horace ed Emma? Voi mi avete rapito. Non potete andare a prendere anche gli altri?

— Penso che la cosa si potrebbe fare. Ma per ora non è nei nostri programmi. La persona che ci interessa siete voi.

— Io? Perché vi servo proprio io?

— Lo saprete a tempo debito. Comunque, vi assicuro che non correte alcun pericolo.

— Anche gli altri due sono umani. Se vi occorrono umani…

— Non solo umani. Un certo tipo di umani. Riflettete bene e ditemi la verità. Vi piace Horace? Ammirate il suo modo di pensare?

— Be' no. Ma Emma…

— Non sarebbe felice senza Horace. È diventata molto simile a lui.

Era vero, fu costretto ad ammettere Timothy. Emma amava Horace, ed era arrivata a pensarla come lui. Ma, anche così, non era giusto lasciare quei due nell'arido deserto mentre, a quanto pareva, lui era destinato a vivere laggiù.

— Vi prego, accomodatevi — gli disse Hugo. — Il vostro posto è a capotavola, poiché siete il signore della tenuta, e da signore dovete condurvi. Io siederò alla vostra destra, poiché sono il vostro braccio destro. Forse vi sarete accorto che sono un umanoide; il mio sistema organico funziona pressappoco come il vostro e anch'io ingerisco il cibo, pur se ammetto di avere incontrato qualche difficoltà ad abituarmi al vostro tipo di cibo. Ma ora sono giunto ad apprezzare molti dei vostri piatti. L'abbacchio è il mio preferito.

— Ma noi mangiamo anche altre cose — disse Timothy, un po' seccato.

— Oh, lo so. Spike, vi devo dire, non ha trascurato nessun particolare. Ma ora sedete; avvertirò in cucina che siamo arrivati e che abbiamo fame.

Timothy si sedette a capotavola. Notò che la tovaglia era pulita, bianca come la neve, e che i tovaglioli erano piegati nella maniera giusta. Chissà perché, la cosa lo tranquillizzò. Hugo suonò il campanello e si sedette alla destra di Timothy. — Qui — disse — abbiamo del porto eccellente. Volete assaggiarlo?

Timothy annuì. Tre altri umanoidi, copie quasi esatte di Hugo, uscirono dalla cucina. Uno di loro portava il piatto con l'arrosto. Vide che parte della carne era stata tagliata a fette, e quella, pensò con soddisfazione, era una dimenticanza di Spike. Arrosti e volatili non si devono tagliare a fette in cucina; il taglio della carne è un rito da consumare sulla tavola. Un altro umanoide portò una zuppiera di minestra e la servì, versandola nei piatti fondi. Il terzo posò sulla tavola un grande piatto di verdura cotta.

La minestra era ottima, con verdura, pezzi di prosciutto e pasta. Al primo cucchiaio si accorse di avere fame. Dimenticando ogni regola dell'etichetta, la consumò con quella che Conrad avrebbe certo definito una fretta disdicevole.

— Squisita, vero? — domandò Hugo. — Quella Becky è diventata un'ottima cuoca, ma ci abbiamo messo molto tempo.

Continuò a chiacchierare: — La vostra servitù non ha la mia padronanza della lingua. Capisce qualche parola semplice e può dare delle risposte elementari, ma non è in grado di sostenere una conversazione. È un vero peccato che non siate telepatico, ma in tal caso avrei dovuto fare a meno del piacere di servirvi.

— Gli individui di questa comunità sono telepatici? — domandò Timothy.

— Non tutti, ma la maggior parte sì, e inoltre abbiamo il basico. Ma voi non lo conoscete, e ci vorrebbe del tempo per insegnarvelo.

— Il basico?

— Una lingua comune. Una lingua artificiale creata unendo parole facili, provenienti da molte lingue diverse. Con una grammatica rudimentale, naturalmente e priva di eleganza, ma chi parla basico riesce a farsi capire. Ci sono molte razze che non comunicano mediante i suoni, e neppure con la telepatia. Comunque, si è trovato il modo di farsi capire da tutti.

Finirono di mangiare e si appoggiarono allo schienale della seggiola.

— E adesso — disse Timothy — volete spiegarmi esattamente dove ci troviamo? Che tipo di posto è questo?

— Questo potrebbe richiedere delle spiegazioni molto lunghe — disse Hugo. — Per ora, diciamo che siamo in un centro galattico composto da molte culture provenienti da pianeti assai lontani tra loro. Siamo pensatori e ricercatori. Cerchiamo di capire il senso dell'universo. Qui, in questo centro, ci incontriamo per conversare su un piano di parità. Mettiamo in comune il nostro pensiero, le nostre teorie e le nostre scoperte. Si formulano delle domande, si cercano le risposte.

— Allora — disse Timothy — nel mio caso avete preso un abbaglio. Non sono un grande pensatore, e sono molto lento. Devo rimuginare a lungo i miei pensieri prima di metterli sulla carta. Per me la matematica è un totale mistero, e non conosco la scienza. Quel poco che sono riuscito a capire, l'ho imparato da solo. Non ho seguito nessun corso regolare. Non ho titoli di studio. Mi affascinano la storia e la filosofia. Ho cercato, nel corso di molti anni, di comprendere i motivi che hanno indotto la mia razza a seguire una certa strada, ma le risposte che ho trovato sono molto limitate. Non riesco a capire come Spike…

— Spike — disse Hugo — ha visto in voi più cose di quante ne vediate voi stesso.

— Non riesco a crederlo. Spike ha sempre dato l'impressione di essere sciocco. Si divertiva con giochi stupidi. Ne aveva uno, per esempio, in cui saltava da un quadrato all'altro, salvo che non c'era nessun quadrato. Erano quadrati immaginari.

— Molto di ciò che vediamo nell'universo — disse Hugo — comincia nel campo dell'immaginario. Spesso occorre immaginare una cosa prima di poterla affrontare.

— Continuiamo a girare in cerchio — disse Timothy. — Non approdiamo a niente. Se questo posto è come lo descrivete voi, allora non sono adatto a viverci. Perciò, spiegatemi perché mi trovo qui.

— Siete qui per fornirci delle prove.

— Che genere di prove? Che cosa ci si aspetta da me?

— Non posso dirvi altro — spiegò Hugo. — Mi è stato ordinato di non dirvelo. Domani vi condurrò dove siete atteso. Ma adesso è tardi e devo ritirarmi.

Per ore, a letto, Timothy non riuscì ad addormentarsi. Continuò a pensare alle parole di Hugo.

Era ragionevole, naturalmente, che esistesse un centro galattico dove le razze intelligenti della galassia potevano unire le loro conoscenze e lavorare insieme per il bene reciproco. Ma quali potevano essere i problemi, quali le domande? Pensandoci sopra, riuscì a immaginarne molte, ma esaminandole a una a una, alcune non gli parvero abbastanza profonde, altre gli parvero ridicole. Le sue prospettive umane erano troppo ristrette; la cultura umana era sempre vissuta con il paraocchi. Anche se lo stesso doveva valere per ogni cultura rappresentata laggiù, almeno nel suo periodo più primitivo.

Alla fine si addormentò. Poi sentì che qualcuno lo scuoteva per svegliarlo. — Spiacente, signore — diceva Hugo, chino su di lui. — Dormivate così bene che sembra un peccato svegliarvi. Ma la colazione è pronta e dobbiamo partire. Ho un veicolo di superficie ed è un tragitto molto simpatico.

Benché trovasse sgradevole l'idea di alzarsi, Timothy si mise a sedere sulla sponda del letto e prese gli abiti che aveva lasciato sulla spalliera della sedia.

— Scendo subito — disse.

Per la colazione c'erano uova e prosciutto fatti come piacevano a lui. Il caffè era tollerabile.

— Qui cresce il caffè? — domandò.

— No — disse Hugo. — Abbiamo dovuto cercarlo in uno dei pianeti colonizzati da voi umani, millenni fa.

— Quelle colonie esistono ancora? — domandò Timothy.

— Sono ricche, oggi. Hanno superato il periodo iniziale di difficoltà.

— E questo cibo l'avete ottenuto dalle colonie?

— Ne abbiamo ottenuto una quantità che sarà sufficiente per un certo periodo — disse Hugo. — Inoltre abbiamo mucche, maiali, polli, e semi per coltivare mais, frumento e molti altri vegetali. Abbiamo lo spazio necessario e anche le informazioni occorrenti. Abbiamo avuto l'ordine di non risparmiare gli sforzi. E non li abbiamo risparmiati.

— E tutto questo per nutrire un solo uomo? Oppure ci sono altri umani quaggiù?

— Voi siete l'unico — disse Hugo.

La vettura lì aspettava davanti alla casa. Salirono e Hugo si mise al volante. Lungo la strada si scorgevano altre abitazioni, quasi tutte nascoste dietro una folta vegetazione. Sul prato di una che pareva costruita in prevalenza sottoterra, una decina di creature pelose saltavano e si rotolavano allegramente, giocando come bambini.

— Qui incontrerete ogni tipo di persone — gli disse Hugo. — Vi sorprenderete della velocità con cui vi abituerete ai vostri vicini.

— Parlate come se dovessi diventare un residente permanente. Avevo l'impressione che intendeste sbattermi fuori, una volta fatto ciò che devo.

— Niente affatto. Una volta terminato il colloquio, vi forniremo materiale informativo perché possiate riprendere il vostro lavoro. Il vostro lavoro consisterà probabilmente nel pensare nuovi problemi e nel risolverli, o nel suggerire nuove impostazioni per affrontarli.

Timothy mormorò qualcosa tra sé.

— La prospettiva non vi piace? — domandò Hugo con ansia.

— Mi avete rapito… voi e quell'indescrivibile Spike che deve averci spiati per anni.

— Non siete stato scelto a caso. Noi cerchiamo informazioni e persone di talento su vari pianeti. Da quasi tutti i pianeti si possono ricavare informazioni, ma il talento è raro.

— E pensate che io abbia del talento?

— Potreste averlo.

— Ma i talenti da voi trovati potrebbero risultare diversi dalle previsioni. Che cosa fate, in questo caso?

— Li teniamo. Siamo in debito verso di loro. E paghiamo sempre i nostri debiti.

Passarono davanti a un castello in miniatura, di colore rosa, appollaiato in cima a una collina: tutto torri e feritoie, con pennoni svolazzanti alla brava.

— Il castello delle fate — disse Hugo. — Credo sia la definizione giusta. In quel castello abita gente molto avanzata che vede l'universo come una struttura matematica complessa e che sta lavorando su questa idea. Si spera che col tempo riesca a giungere alla chiave di tutto.

La strada portava a una carrozzabile lastricata su cui correvano altri veicoli, ma non molti. Niente di paragonabile al traffico cittadino. Lontano si scorgeva un gruppo di edifici molto alti e severi, senza niente di fantasioso, pratici.

— Andiamo laggiù? — domandò Timothy, indicandoli.

Hugo annuì. — Nella vostra lingua lo chiamereste un centro amministrativo. È laggiù che si svolge gran parte del lavoro, anche se molti di noi lavorano nelle proprie case o in ritiri tra i monti. Ma è laggiù che converge tutto. Ci sono le officine, gli osservatori, le biblioteche, i laboratori e le stanze di riunione. E inoltre certi servizi che non saprei definire nella vostra lingua.

Giunsero al centro amministrativo e si avviarono lungo uno dei grandi corsi alberati. Lungo le strade si vedevano molte automobili parcheggiate. Tra un edificio e l'altro si stendevano grandi parchi. Sui marciapiedi camminavano vari mostri, alcuni dei quali indossavano vesti assurde e coloratissime, mentre altri ignoravano qualsiasi tipo di abito. Taluni saltellavano, strisciavano, scivolavano, camminavano. Altri portavano borse e valigette; uno si trascinava un carrettino pieno di aggeggi incomprensibili.

— Questo posto — disse Timothy — mi sembra uguale alla Terra… le strade, i parchi, gli edifici…

— Il problema di suddividere tra loro le aree di lavoro è semplice — disse Hugo. — Si prendono tanti metri cubi di spazio e si chiudono entro una struttura che li contenga. Qui gli edifici, sono stati costruiti in base a un'unica considerazione: di essere quanto più possibile semplici e funzionali. Se avessimo rinunciato alla semplicità, avremmo potuto incontrare lo sfavore di alcune delle culture qui rappresentate. Non c'è modo di soddisfare tutti, e perciò abbiamo fatto del nostro meglio per non venire incontro a nessuno in particolare, usando un'architettura monotona con linee rette e profili semplici.

Accostò al marciapiede e si fermò davanti all'entrata di uno degli edifici. — Ecco la vostra destinazione. Vi accompagno al luogo dell'appuntamento, ma non posso proseguire con voi. Dovete entrare da solo. Troverete una piccola stanza con una sola seggiola. Sedete e aspettate. Non preoccupatevi. Dopo qualche momento, vi sembrerà la cosa più semplice del mondo.

La stanza era a poca distanza dall'entrata. L'edificio sembrava quasi vuoto. Si fermarono davanti a una porta, e Hugo ritornò indietro. Timothy spinse la porta, che si aprì senza difficoltà.

Una piccola stanza, aveva detto Hugo; ed era davvero una piccola stanza, ma molto accogliente. Sul pavimento c'era un tappeto, e tutte le pareti erano decorate. Di fronte alla sedia c'era una parete interamente coperta di decorazioni. Timothy attraversò la stanza, andò a sedersi, e si mise a studiarle. Erano disegni astratti, di colore tenue, formati da minuscoli motivi decorativi intrecciati tra loro. Non si capiva dove iniziasse un motivo e terminasse l'altro.

Udì una voce che si rivolgeva a lui, e che pareva provenire dalla parete. — Benvenuto al Centro. Vi chiamate Timothy. Avete anche un cognome?

— Sì, ma da tempo non è più usato. Bastava il nome. Il cognome è Evans.

— Benissimo, signor Evans — disse la voce — questa è un'inchiesta su fatti a proposito dei quali ci potete recare testimonianza. Abbiamo ascoltato molti testimoni, ma nessuno di loro può avere la vostra importanza. Per favore rispondete con sincerità e senza divagazioni.

— Come meglio potrò, certo — rispose Timothy.

— Benissimo. Allora, procediamo. A verbale, voi siete Timothy Evans, umano del pianeta Terra. Su questo pianeta voi siete vissuto fino a poco tempo fa.

— Giusto. Perché non vi mostrate? Non mi piace parlare a un muro.

— Non mi lascio vedere direttamente da voi per non turbarvi, signor Evans. Siete qui da poco tempo e avete visto soltanto Hugo. Anche se posso assicurarvi di essere una creatura amichevole e sensibile, il mio aspetto vi sembrerebbe mostruoso. Ce ne sono altri come me, e vi stiamo ascoltando, anche se io sono l'unico che parla con voi. Molti dei miei compagni vi sembrerebbero altrettanto mostruosi. Una fila di mostri che vi guarda. Capite la ragione del nostro comportamento.

— Sì — disse Timothy. — Vi ringrazio.

— Proseguiamo con l'interrogatorio. Conoscete certi missionari, che la vostra gente chiama Infiniti. Che cosa predicavano e che cosa sostenevano questi missionari?

— Cercavano di convincere la gente — disse Timothy — che era consigliabile rinunciare al proprio corpo materiale per raggiungere uno stato incorporeo.

— E nei casi in cui riuscivano a convincere qualcuno, erano capaci di effettuare la trasformazione?

— Sì.

— Lo dite come se aveste la sicurezza.

— Ce l'ho. Recentemente mi sono trovato in un posto dove numerose entità smaterializzate sembravano appese a un reticolo nel cielo. Inoltre, un mio fratello è stato sottoposto al processo di trasformazione, ma non è giunto alla fine.

— Volete dire che gli Infiniti hanno registrato un insuccesso nel caso di vostro fratello?

— O è un loro insuccesso, o si è sottratto lui al procedimento prima che fosse finito. Non ho mai capito come sia accaduto. Lui dice una volta una cosa, una volta l'altra.

— Che effetto ha avuto su vostro fratello?

— È divenuto una persona d'ombra, composta da molte scintille luminose. A quanto capisco, se la trasformazione fosse proseguita, si sarebbe condensato in una sola scintilla.

— Gli esseri incorporei che avete visto sul reticolo da voi citato erano singole scintille?

— C'erano molte scintille singole. Erano collocate al di sopra di un vecchio edificio degli Infiniti. Quello che noi chiamavamo monastero.

— Per favore, spiegatevi.

— I monasteri sono abitazioni occupate da ordini religiosi di persone chiamate monaci. I monaci indossano abiti diversi da quelli degli altri, e gli Infiniti assomigliavano a piccoli monaci, per questo noi chiamavamo monasteri i loro luoghi di residenza.

— Potremo ritornare in seguito ad approfondire specifici argomenti — disse la voce. — Ora vorrei ritornare all'argomento cruciale. Da quanto abbiamo appreso, pare che la maggior parte della popolazione umana della Terra sia davvero divenuta incorporea. Ma la vostra famiglia non lo ha fatto. Come è successo?

— Noi siamo fuggiti, allontanandoci dagli Infiniti. Ci siamo rifugiati nel passato. La mia famiglia non è stata la sola. Ce ne sono state molte altre. Non so quante.

— Vi siete rifugiati nel passato. Questo significa che avevate una macchina del tempo.

— Abbiamo sottratto agli Infiniti il processo di costruzione della macchina. Non siamo stati noi a sviluppare il viaggio nel tempo. Noi abbiamo semplicemente seguito delle istruzioni. Non sapevamo niente della tecnologia.

— Perché siete fuggiti? La grande maggioranza della popolazione della Terra non è fuggita.

— Noi eravamo diversi dagli altri, vedevamo le cose in modo diverso. Eravamo gli esclusi: i retrogradi, se vi è chiaro il termine.

— Sì. La gente che, per motivi ambientali e culturali, era rimasta indietro rispetto al fronte avanzante del progresso. Forse con ragione.

— Con ragione sì — disse Timothy. — Abbiamo continuato a rispettare i vecchi valori, che invece erano stati abbandonati dal resto della popolazione.

— E perciò non potevate accettare la filosofia degli Infiniti.

— La loro filosofia ci soffocava. Era contraria ai nostri sentimenti.

— Eppure la maggior parte della popolazione terrestre l'aveva accettata.

— Gli altri avevano abbandonato i vecchi valori. Avevano rifiutato la tecnologia, che sotto molti aspetti era stata loro utile, e che avrebbe potuto essere ancora più utile se si fossero dati un codice morale più elevato. Si erano allontanati dal progresso. In tutta onestà devo confessare che il progresso, in alcuni casi, era negativo. Eppure ci aveva sollevato dalla condizione animale, portandoci a una società abbastanza razionale e decente. Ci eravamo sbarazzati del nazionalismo, avevamo vinto quasi tutte le malattie, ed eravamo arrivati a una politica economica equa.

— Eppure — disse la voce dal muro — le altre persone si sono staccate da quelli che voi chiamate gli antichi valori, e proprio nel momento in cui avrebbero potuto dare origine a una società quasi perfetta. Che cos'è successo? La razza è divenuta vecchia e stanca?

— Di tanto in tanto me lo sono chiesto anch'io — disse Timothy. — Credo che non ci siano gli elementi per giungere a una risposta. La cosa più strana è che non pareva esserci nessuno che diffondesse questa idea; nessuno predicava un cambiamento di atteggiamento, nessuno chiedeva nuovi modi di vivere. L'idea si presentava occasionalmente, finché, a un certo punto, tutti non facevano altro che starsene seduti a chiacchierare. Erano convinti di fare grandi discussioni filosofiche, ma in realtà erano solo chiacchiere. In tutta la storia dell'umanità ci sono stati movimenti di tipo pseudo-religioso. Nascevano senza un disegno preciso e per breve tempo fiorivano, e alla fine scomparivano. Ma la rinuncia al progresso non fu un movimento di tipo religioso. Sembrò che ogni uomo avesse deciso per proprio conto, all'improvviso, che il progresso era inutile e che la tecnologia non valeva la fatica. Fu come lo scoppio di un'epidemia.

— E non potrebbe essere stata una sorta di epidemia?

— Nessuno ha mai pensato che lo fosse. In realtà, nessuno si preoccupò del cambiamento di atteggiamento. Fu una cosa accettata da tutti, e basta.

— Quindi la società era pronta per la venuta degli Infiniti?

— Sì, a quanto pare. All'inizio non si prestò loro molta attenzione. Poi la filosofia cominciò a prendere piede. Non si parlò molto della cosa. Tutto si svolse lentamente, ma acquistò sempre più forza con il passare del tempo. Fu, si potrebbe dire, una lenta catastrofe. La razza umana, nel corso della sua storia, ha dovuto affrontare molte potenziali catastrofi. C'è stato un periodo in cui abbiamo rischiato di avvelenare l'ambiente fisico del nostro pianeta a causa dell'uso eccessivo di sostanze chimiche, ma abbiamo messo giudizio in tempo. Abbiamo rischiato di essere spazzati via dalle guerre, ma all'ultimo momento abbiamo sempre trovato la via della pace. Invece, nella catastrofe degli Infiniti, ci siamo messi in fila e ci siamo avviati volontariamente alla fine.

— Alcuni — disse la voce dal muro — non si sono avviati volontariamente.

— Sì — disse Timothy — ma non molti. Qualche migliaio di individui è partito per lo spazio, alla ricerca di nuovi pianeti. Altri sono fuggiti nel passato. Quando siamo fuggiti noi gli Infiniti cominciavano a stringere i tempi. Avevano visto la possibilità, secondo me, di convertire un'intera razza. Quando sono nato io, la situazione cominciava a farsi difficile per i dissidenti come noi. Quel che vi ho descritto fino a questo momento sono cose che ho imparato sui libri di storia.

— La storia poteva essere stata alterata da pregiudizi.

— Sì, in parte. I miei contemporanei stavano molto sulla difensiva…

— E che argomenti usavano, gli Infiniti, per convincere i membri della vostra razza ad accettare la trasformazione?

— Offrivano una sorta di immortalità. Una creatura incorporea, dicevano, non può morire. Può sopravvivere alla fine dell'universo. È immune da tutti i mali fisici. Libera dal corpo, la mente può salire sempre più in alto. E questa, dicevano gli Infiniti, era la meta suprema di ogni creatura cosciente. L'intelligenza era l'unica caratteristica che contava. Perché rimanere vincolati al mondo fisico, dicevano, a tutti i suoi pericoli e a tutte le sue delusioni? Liberatevi della parte materiale, dicevano, e sarete veramente liberi.

— Per molti — disse la voce dal muro — doveva essere un discorso assai logico e convincente.

— Per la stragrande maggioranza della razza umana — ammise Timothy.

— Ma non per voi e per i vostri familiari. A voi non sembrava giusto?

— È difficile dire con esattezza quale fosse il nostro pensiero. Mi limito a dire che nel complesso provavamo una forte repulsione per l'attività degli Infiniti.

— Li temavate e li odiavate? Li consideravate nemici?

— Sì.

— E cosa ne pensate, adesso che tutto sembra finito, e che gli Infiniti hanno terminato il compito che si erano prefissi?

— No — disse Timothy — non è ancora finito. La razza umana è ancora viva. Ci sono colonie umane su altri pianeti, e avete detto che prosperano. Inoltre ci sono ancora dei dissidenti nascosti nel passato.

— Che sentimenti provate nei riguardi degli esseri umani che hanno seguito la via indicata dagli Infiniti?

Timothy esitò a lungo, e infine disse: — Forse se lo sono meritato. In fondo, è quanto chiedevano. Hanno girato la schiena ai successi conseguiti dalla razza.

La voce dal muro non fece commenti.

Timothy attese, poi domandò: — È di questo che volevate parlarmi? Posso chiedere qual è il vostro interesse?

La voce disse: — Questa è un'inchiesta sulle finalità e le motivazioni degli Infiniti. Noi abbiamo interrogato anche molti altri.

— Altre razze che sono state vittime degli Infiniti?

— Alcune di esse sì.

— E gli Infiniti sono ancora dediti al loro tentativo di fare proseliti?

— Da qualche tempo no. Li abbiamo chiusi nel loro pianeta. Sono in quarantena, mentre procediamo nella nostra inchiesta. Dovete sapere che noi del Centro, benché rispettiamo la volontà di ogni popolo, dobbiamo cautelarci, se questa volontà è eccessivamente aggressiva.

— Le creature che noi chiamiamo robot assassini — domandò Timothy. — Che cosa sono?

— Mercenari. Poliziotti — disse la voce — che gli Infiniti, nella loro arroganza, hanno pagato perché eseguissero la loro volontà. Gli assassini non sono stati messi in isolamento: vengono progressivamente distrutti. Alcuni sono ancora in libertà, ma noi diamo loro la caccia. Il vostro amico Spike ha distrutto uno degli ultimi.

— L'ho visto — disse Timothy.

— È stata l'arroganza degli Infiniti a portare su di loro la nostra attenzione. In questa galassia non c'è posto per gli arroganti. Si può tollerare quasi tutto, ma non l'arroganza.

Cadde nuovamente il silenzio.

— Nient'altro? — chiese Timothy.

— Per ora — disse la voce. — Più tardi potremo parlare ancora. Adesso siete uno di noi. Da tempo aspettavamo di avere con noi un umano. Ritornate alla vostra abitazione: laggiù troverete del materiale informativo che vi spiegherà dettagliatamente chi siamo e come agiamo. Di tanto in tanto vi chiameremo per discutere con voi qualche argomento.

Dopo qualche istante, Timothy si alzò e fece lentamente ritorno alla porta. In strada c'era Hugo, che, appoggiato all'automobile, aspettava il suo ritorno.

Timothy Evans, umano, ultimo entrato fra i membri del Centro Galattico, si affrettò a raggiungere l'auto che lo attendeva.

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