Continuava a sentire come un'aberrazione, qualcosa di fuori posto e d'incongruo, un fattore non coerente, la presenza di un angolo. Ma Boone non riusciva a individuarlo; pareva non esserci modo di raggiungerlo.
Corcoran continuava a scrutare la parete dell'ultima stanza, tutto curvo, con la lampadina a pochi centimetri dal muro, alla ricerca di qualche discontinuità nella liscia superficie. Poi si fermò e spense la torcia, girandosi verso Boone. La luce proveniente dalla strada rischiarava leggermente l'ambiente, ma non abbastanza, e Boone non riusciva a vedere la faccia del compagno.
— È inutile — disse Corcoran. — Qui non c'è niente. Eppure so che dietro queste finestre c'è una struttura di qualche genere, appiccicata all'esterno dell'edificio. Non posso sbagliarmi. L'ho vista.
— Ti credo, Jay — disse Boone. — Qui c'è qualcosa che non mi convince. Lo posso sentire.
— E sapresti indicarmelo?
— Non ancora.
Si avvicinò a una delle finestre e osservò la strada. Con sorpresa, si accorse che era deserta. Non c'erano taxi che correvano rapidamente, non c'erano persone sul marciapiede. Scrutando con maggiore attenzione, vide un movimento nel buio di un portone, nell'edificio dirimpetto a loro; e poi una seconda sagoma, ancora più scura. Per un attimo, su una delle sagome, si rifletté un raggio di luce.
— Jay — domandò — quando hai detto che devono far saltare l'albergo?
— Domenica mattina. Presto.
— Domenica mattina è già adesso. Dall'altra parte della strada ci sono dei poliziotti. Ho visto un riflesso di luce su un distintivo.
— Alle quattro o alle cinque. All'alba. Ho già visto altre operazioni come questa. Sempre alla prima luce dell'alba, prima che possa unirsi la folla. Mezzanotte è appena passata. Abbiamo ancora parecchie ore.
— Non ne sono molto sicuro — disse Boone. — Potrebbero batterci sul tempo, farlo saltare prima di quanto immaginiamo. Questo albergo è un edificio famoso, storico e con una certa rilevanza sociale. Puoi essere certo che la fine dell'Hotel Everest è destinata a richiamare una folla. Ma facendo saltare in anticipo, prima che la gente se lo aspetti…
— Impossibile — disse Corcoran, avvicinandosi a lui. — Non possono certo…
Un urto sordo li gettò a terra, facendoli cadere in ginocchio, e l'intonaco della stanza cominciò a screpolarsi: le crepe partivano dagli angoli del soffitto e correvano obliquamente lungo le pareti. Il pavimento s'inclinò.
Boone abbracciò disperatamente Corcoran.
Un istante più tardi si trovarono inspiegabilmente in un altro luogo, in un altro appartamento dove l'intonaco non si rompeva e dove il pavimento non era inclinato.
Corcoran si staccò rabbiosamente da Boone. — Che diavolo è successo? — gridò. — Perché mi hai afferrato così?…
— L'albergo crolla — disse Boone. — Guarda dalla finestra. Guarda la polvere.
— Impossibile. Siamo ancora nell'albergo.
— No — disse Boone. — Siamo nella scatola che hai visto tu. Abbiamo girato dietro l'angolo.
— Diavolo! — esclamò Corcoran. — Intendi dire che…
— C'è voluta una crisi, Jay. Dovevo capirlo. Riesco a farlo solo all'ultimo istante, nel momento critico, quando non c'è più speranza.
Corcoran fissò Boone e disse, in tono d'accusa: — Mi hai voluto fare uno scherzo. Non mi hai avvertito.
— Non lo sapevo neppure io. Questa mia abilità da baraccone è una caratteristica di sopravvivenza. Non entra in gioco finché non c'è pericolo. È sempre successo così. È una risposta istintiva.
— Ma le altre volte, a quanto dici, sparivi solo per qualche istante. Poi ritornavi al punto di partenza. E adesso, invece? Ritorneremo indietro?
Boone scosse la testa. — Non credo. Le altre volte sono ritornato soltanto quando il pericolo era scomparso. Qui ci troveremmo sospesi a mezz'aria, in un edificio che ci crolla sotto i piedi. Se ritornassimo al punto di partenza, cascheremmo anche noi. E le altre volte non avevo nessun posto dove andare. Le altre volte mi trovavo in un limbo, un mondo piatto e grigio, senza connotati visibili. Ma questa volta siamo in un posto reale… in questa scatola.
— Allora ci siamo — disse Corcoran. — Siamo nel nascondiglio di Martin. Che cosa facciamo, adesso?
— Decidi tu — rispose Boone. — Mi hai chiesto di recarmi dietro un angolo. Io l'ho fatto e ti ho portato con me. Tu sei sempre quello che fa le domande. Adesso comincia a cercare le risposte.
Diede un'occhiata alla stanza in cui erano capitati. Il mobilio era strano: forma e funzione sembravano familiari, ma la disposizione era diversa da quanto ci si aspettava. Contro la parete, di fronte a loro, c'era quello che sembrava un caminetto, ma che probabilmente non lo era. Al di sopra del caminetto c'era una grossa forma rettangolare che forse era un quadro. Ma se lo era, pensò Boone, andava assai al di là delle concezioni più arzigogolate dell'arte moderna, e lui incontrava molta difficoltà a farlo rientrare fra le opere d'arte.
La stanza pareva galleggiare nell'aria senza difficoltà: non si scuoteva e non ondeggiava. Boone si domandò come fosse possibile. Era attaccata in qualche maniera all'albergo che si stava progressivamente trasformando in un mucchio di calcinacci. Eppure rimaneva al suo posto, anche senza il sostegno dell'edificio, a una trentina di metri di altezza.
Boone passò rapidamente a un'altra finestra. Alla debole luce dei lampioni stradali, si alzava sulla strada una bianca nuvola di polvere, e rimbalzava sul marciapiede una pioggia di mattoni rotti, di travi scheggiate e di pezzi di marmo. Non c'era dubbio: il vecchio Hotel Everest era caduto.
La stanza sobbalzò all'improvviso sotto i piedi di Boone e s'inclinò bruscamente; poi riprese la stabilità, mentre veniva percorsa da un fremito. Boone lasciò la finestra e si girò verso Corcoran, tenendo il respiro.
Il sobbalzo aveva sganciato uno dei lati del quadro, o di quel che sembrava un quadro, e dietro la cornice si scorgeva un pannello scuro incassato nella parete. Il pannello era coperto di strumenti scintillanti, e nel suo centro si scorgeva una luce rossa intermittente.
Corcoran era fermo a gambe divaricate e guardava il pannello. La luce rossa continuava ad accendersi e spegnersi.
All'improvviso, dal pannello giunse una voce che pronunciava frasi incomprensibili, parlando in fretta e in tono irritato.
— Parlate inglese! — gridò Corcoran. — Non potete parlare inglese?
La luce rossa si spense e la voce continuò in inglese, anche se con una strana pronuncia: — Certo, conosco la lingua. Ma perché in inglese? Sei Martin, vero? Dove sei stato? Perché non hai risposto?
— Non sono Martin — disse Corcoran. — Martin non c'è.
— Se non siete Martin, allora chi siete? Perché rispondete se la cosa non vi riguarda? Perché vi trovate in casa di Martin?
— Amico, chiunque siate — disse Corcoran — è una storia lunga e non c'è tempo di raccontarla. L'albergo è stato demolito, e noi siamo qui in casa di Martin, sospesi nell'aria, rischiando di cadere da un momento all'altro.
L'uomo che parlava dall'altra parte del pannello rimase senza fiato per la sorpresa. Poi disse: — Non vi agitate. Possiamo mettere a posto ogni cosa.
— Io non mi agito affatto — disse Corcoran. — Solo, credo che sia necessario il vostro aiuto.
— Vi aiuteremo. Ascoltate con attenzione.
— Ascolto con attenzione.
— Davanti a voi c'è un pannello. Impossibile non vederlo. Si accende quando la copertura viene tolta. E adesso dev'essere senza copertura.
— Maledizione, certo che è senza. Piantatela con queste bambinate, e ditemi che cosa devo fare. Il pannello è qui davanti a me. A che cosa serve? Come funziona?
— In basso a sinistra c'è una tastiera, un gruppo di pulsanti. Nella fila in basso; partite da destra, contate tre pulsanti e spingete il terzo.
— L'ho spinto.
— Adesso due pulsanti in su, a partire da quello che avete appena premuto, e spingete il secondo.
— Fatto — disse Corcoran.
— Adesso… non dovete fare niente, fino a mio ordine. In diagonale, verso l'alto e verso destra, contate tre pulsanti. Capito bene?
— Capito bene. Ho un dito sul pulsante prescelto.
— Aspettate a premerlo. Devo sapere il momento esatto in cui lo premete. Premendolo, passate a me il controllo, e io vi porto via dal posto dove siete.
— Volete dire che prendete il controllo del luogo dove ci troviamo e che lo portate da un'altra parte?
— Voglio dire proprio questo. Avete qualcosa in contrario?
— La cosa mi piace poco — disse Corcoran. — Ma noi non siamo in condizione di discutere.
— È già la seconda volta che dite “noi”. In quanti siete?
— Due.
— Siete pericolosi? Avete armi?
— No, naturalmente. Perché dovremmo avere armi?
— Ah, non lo so. Ma a volte…
— Qui stiamo sprecando del tempo prezioso — gridò Corcoran. — Da un momento all'altro possiamo sfracellarci.
— Avete a portata di mano il pulsante giusto?
— Sì.
— Allora, schiacciatelo.
E lo schiacciò. L'oscurità calò su di loro come una cappa di piombo: un'oscurità che scombussolò il loro senso d'orientamento, come se fossero stati strappati via dalla realtà. Non provarono alcun senso di movimento… non provarono niente.
Poi ci fu un urto leggero. L'oscurità si diradò e cominciò a filtrare la luce dalle finestre e da una porta (o portello) che si apriva in modo da costituire una sorta di passerella incernierata nella parte bassa.
— Suppongo — disse Boone — che questo sia il punto di arrivo.
Si avvicinò alla porta. Al di là si scorgeva un prato, e in fondo al prato una casa: antica e di notevoli dimensioni, costruita di pietre grigie sulle quali cresceva il muschio.
Sul prato c'era un uomo vestito da cacciatore, che correva nella loro direzione. Sotto il braccio aveva un fucile. Al suo fianco, a destra, correva un cagnone allegro, un bellissimo setter dorato. A sinistra c'era invece un mostro a forma di globo, alto quanto lui. Il mostro rotolava senza fretta accanto all'uomo, e procedeva alla stessa velocità. Aveva la superficie completamente coperta di lunghe siine acuminate che luccicavano al sole, ma che, nonostante fossero appuntite, non affondavano nel terreno.
Per un istante, Boone ebbe la sensazione che il mostro camminasse in punta di piedi, ma poi capì che galleggiava nell'aria, e che nel procedere girava lentamente su se stesso.
Boone si avviò lentamente lungo la porta-passerella; quando fu giunto in fondo, scese sul prato. Dietro di lui, Corcoran si era fermato a guardare la scena, e girava la testa prima da una parte e poi dall'altra per godersela tutta.
Intanto erano uscite dalla casa varie altre persone. Si erano fermate sugli ampi scalini di pietra dell'edificio, senza scendere sul prato, e guardavano i nuovi venuti.
L'uomo col fucile, ancora affiancato dal cane e dal mostro, si fermò a una decina di metri da Boone e disse: — Benvenuti a Hopkins Acre.
— Allora, Hopkins Acre è questo?
— Ne avete sentito parlare?
— Qualche giorno fa — disse Boone. — Per essere esatti, l'altro ieri.
— E che cosa ne sapete?
Boone alzò le spalle. — Non molto, anzi, proprio niente. Semplicemente, qualcuno cercava informazioni su questo posto.
— Io mi chiamo David — disse l'uomo. — Questo grottesco alieno si chiama Spike. Sono contento del vostro arrivo. Horace non è il tipo di tecnico a cui affiderei la mia vita. È un po' approssimativo.
— Horace è l'uomo con cui abbiamo parlato?
David annuì. — Sono mesi che cerca di mettersi in contatto con Martin. Quando si è acceso l'allarme sul nostro pannello, questa mattina, ha pensato che Martin volesse mettersi in comunicazione con lui.
Corcoran scese dalla passerella e si mise a fianco di Boone. — Mi chiamo Corcoran. E il mio amico si chiama Boone. Entrambi siamo curiosi di sapere cosa ci è successo. Mi chiedo se potete spiegarcelo.
— Per curiosi che siate, sarete sempre meno curiosi di noi — disse David. — Andiamo tutti in casa a parlare. Credo che Nora servirà presto in tavola. Potremmo bere un bicchiere prima di sederci a mangiare.
— Mi pare un'ottima idea — gli disse Boone.