8. Corcoran

Jay Corcoran scese dal viaggiatore e si trovò in una meravigliosa fioritura di fine aprile. Il viaggiatore si era fermato su un piccolo prato di montagna. In basso c'era una stretta valle, in cui scorreva un fiumiciattolo argenteo. In alto si scorgevano montagne altissime con cime aguzze. Gli alberi erano coperti di foglie verdi, e tra l'erba si scorgevano fiori di campo dai vivaci colori.

David si avvicinò a lui. — Il viaggio è stato più lungo del previsto — disse. — Non ho avuto il tempo di stabilire una rotta. Mi sono limitato a fuggire da Hopkins Acre.

— Dove siamo? — domandò Corcoran. E aggiunse: — Non che la cosa abbia molta importanza…

— Non ha molta importanza neppure per me — disse David. — Ma siamo vicini all'epoca da cui proviene la mia famiglia, e questo mi piace poco. In cifre tonde, secolo più, secolo meno, siamo nell'anno 975.000 del vostro calendario. E quanto alla località, probabilmente siamo in qualche punto di quella che voi chiamereste colonia della Pennsylvania. Forse la conoscete.

— Nella mia epoca — disse Corcoran — non è più una colonia.

— Datemi un po' di tempo, e troverò il chilometro esatto e l'anno esatto del nostro punto d'arrivo, se vi interessa.

Corcoran scosse la testa. Indicò il profilo della collina, al di sopra del prato dove si erano fermati.

— Lassù c'è qualcosa di strano — disse. — Una certa irregolarità. Che sia una rovina?

— Potrebbe esserlo — disse David. — Così avanti nel tempo, tutta la Terra è piena di luoghi antichi e dimenticati. Città dimenticate, strade sopravvissute alla loro funzione, templi e altri luoghi di culto abbandonati quando sono cambiate le religioni. Volete salire a vedere?

— Si potrebbe farlo — disse Corcoran. — Da lassù potremmo vedere l'intero territorio.

Si trattava effettivamente di un'antica rovina: la cosa divenne chiara non appena giunsero a mezza costa.

— Ne resta poco — disse David. — Ancora qualche secolo, e non ne resterà più niente. Soltanto una montagnola come tante altre che s'incontrano dappertutto. E nessuno scoprirà mai la sua origine. Ormai, all'epoca in cui ci troviamo, non ci sono più archeologi. La razza ha perso l'interesse per il proprio passato. La massa della storia è ormai troppo pesante. Da qualche parte, ne sono convinto, c'è la descrizione di questa rovina e di tutta la sua storia, ma nessuno la leggerà mai. Ormai non ci sono più storici.

Giunti alla sommità incontrarono un muro, o quel che restava di un muro. Era crollato, e la massima altezza delle parti rimaste in piedi non superava i tre metri. Per raggiungerlo dovettero farsi strada con attenzione in mezzo a blocchi di pietra semisepolti sotto la terra.

— Ci dev'essere una porta, in un punto del muro — disse Corcoran.

— È più grosso di quanto mi pareva dal di sotto — commentò David.

Procedendo a fianco del muro, giunsero finalmente alla porta. Lì accanto videro un vecchio, seduto in terra, che appoggiava la schiena contro il muro. Indossava abiti stracciati che si agitavano al soffio del vento. Era senza scarpe. La barba bianca gli scendeva fino a metà del petto; i capelli, altrettanto bianchi, gli coprivano le spalle. Le uniche parti visibili della sua faccia erano la fronte, il naso e gli occhi.

Nel vederlo, i due viaggiatori del tempo si immobilizzarono. Lui li guardò senza mostrarsi sorpreso. Non accennò ad alzarsi. L'unico suo movimento fu quello di agitare le dita dei piedi.

Poi il vecchio parlò. — Vi ho sentito arrivare da lontano — disse. — Siete creature molto goffe.

— Ci spiace di avervi disturbato — disse Corcoran. — Non sapevamo che foste qui.

— Non mi avete disturbato — rispose il vecchio. — Non permetto a niente di disturbarmi. Da anni non c'è più niente che mi disturbi. Un tempo ero un cercatore minerario. Giravo su queste montagne con il sacco e la pala, cercando i tesori che contenevano. Alcuni li trovai, ma non molti, e alla fine compresi che i tesori sono inutili. Adesso parlo con le pietre e con gli alberi: i migliori amici che possa avere un uomo. Nel mondo ci sono troppe persone. Persone inutili. Non fanno che parlare tra loro, senza altro scopo che udire il suono della propria voce. Ogni cosa viene fatta dai robot. Io non ho robot; io vivo senza il loro aiuto. E i discorsi li faccio con gli alberi e con le pietre. Ma non parlo molto. Diversamente dagli altri, non sono innamorato del suono della mia voce. Invece di parlare, ascolto gli alberi e le pietre.

Mentre parlava, era pian piano scivolato a terra: all'inizio era seduto, ma adesso era quasi sdraiato. Si rimise a sedere e cambiò tono di conversazione.

— Un tempo — disse — viaggiavo tra le stelle e parlavo con gli alieni, e i discorsi degli alieni, ve lo garantisco, sono tutte sciocchezze. Io e i miei compagni giudicavamo i nuovi pianeti e scrivevamo ponderosi rapporti, pieni di dati faticosamente raccolti, da portare al nostro pianeta d'origine. Ma quando ritornammo sulla Terra, scoprimmo che coloro che erano interessati alle nostre scoperte erano ben pochi. Tutti ci avevano voltato la schiena. Perciò io voltai la schiena a loro. Nello spazio avevo incontrato gli alieni. Ne avevo incontrati troppi. Alcuni vi diranno che gli alieni, nonostante il loro aspetto diverso, sono nostri fratelli. Ma vi dico in tutta sincerità che gli alieni, per la maggior parte, sono una brutta razza…

— Durante i vostri viaggi nello spazio — domandò David, interrompendolo — o qui sulla Terra, poiché non fa molta differenza, avete mai incontrato una razza che si fa chiamare gli Infiniti, ne avete mai sentito parlare?

— No, non mi pare, anche se da anni non mi capita di passare molto tempo con gli altri. Non sono quella che definireste una persona socievole…

— C'è qualcuno, qui nelle vicinanze, che può avere sentito parlare degli Infiniti?

— Non saprei — rispose il vecchio. — Ma se cercate qualcuno maggiormente disposto a chiacchierare di me, a poco più di un chilometro da noi, lungo la valle, troverete un gruppo di vecchi che non sono mai stati capaci di stare fermi. Fate loro una domanda, e quelli vi risponderanno subito. Non sanno stare zitti. Una volta addentata una domanda, quelli non se la lasciano più scappare dalle mandibole.

— Vi portate bene anche voi, in questo campo — disse Corcoran. Si rivolse a David: — Visto che siamo qui, potremmo dare un'occhiata alle rovine, prima di scendere nella valle a parlare con quelle persone.

— Non c'è niente da vedere — lo avvertì il vecchio. — Solo mucchi di pietre e vecchie lastre di pavimentazione. Andate pure, se ne avete voglia, ma non c'è niente che ne valga la pena. Io preferisco stare qui al sole. Gli alberi e le pietre sono per me dei vecchi amici, e un amico è il sole. Anche se con il sole non si può parlare. Ma mi dà calore e allegria, e non chiede niente in cambio; questo è senza dubbio un comportamento da amico.

— Vi ringraziamo del tempo che ci avete concesso — disse David.

Così dicendo, si voltò verso la porta e si avviò in quella direzione. Non c'era nessun sentiero, ma tra le pietre cadute c'erano delle zone da cui si poteva passare. Il vecchio aveva ragione; non c'era molto da vedere. Qua e là qualche muro rimaneva ancora in piedi, e si indovinava ancora la forma di alcune delle vecchie strutture, ma non si riusciva a capire la natura esatta delle rovine.

— Qui — disse David — sprechiamo solo il tempo. Non c'è niente che ci interessi.

— Oltre a sprecarlo — ribatté Corcoran, acido — che cosa possiamo farcene?

— Vero — ammise David.

— Pensavo a una cosa — disse Corcoran. — Noi due ci troviamo qui, a un milione di anni di distanza dalla mia epoca. Tra voi e me ci sono un milione di anni. A voi, io devo sembrare un primitivo ignorante e superstizioso; mentre voi invece dovreste apparirmi come un sofisticato aristocratico. Eppure, nessuno di noi trova niente di strano nell'altro. Che cosa è successo? La razza umana non è progredita, in tutto questo milione di anni?

— Dovete tenere presente — spiegò David — che la mia famiglia è composta di gente arretrata. L'equivalente dei vostri contadini più zotici. Resistevamo attaccandoci disperatamente ai vecchi valori e ai vecchi modi di vita. Forse abbiamo esagerato, perché lo facevamo per protesta, e correvamo il rischio dell'eccesso. Ma nella nostra epoca c'è anche gente estremamente sofisticata. Abbiamo anche risolto tutti i problemi politici. Non ci sono più le antiche nazioni che lottano tra loro. Siamo arrivati a una piena coscienza sociale. Nel mondo in cui ci troviamo adesso a nessuno manca un posto dove dormire, cibo da mangiare, cure mediche, anche se ormai non ce n'è più necessità. Dalla vostra epoca a questa, la durata della vita umana si è più che raddoppiata. Dando una buona occhiata a questa società, potreste essere tentato di definirla un'utopia.

Corcoran sbuffò.

— Bell'utopia! La vostra epoca ha creato l'utopia, e adesso si è chiusa su se stessa. Mi chiedo se non sia proprio l'utopia, il vostro male peggiore.

— Forse sì — disse David, tranquillamente. — Ma più che l'utopia in se stessa, il fatto di averla accettata.

— Vi riferite alla convinzione — disse Corcoran — di avere ormai raggiunto tutte le mete e di non avere più nulla a cui aspirare?

— Forse. Ma non ne sono del tutto sicuro.

Continuarono per qualche tempo a passeggiare tra le rovine, e infine Corcoran domandò: — E gli altri? Pensate di poterli raggiungere?

— Voi e io non possiamo fare molto, ma Horace ha l'apparecchio di Martin, che contiene il sistema di comunicazione. Potrebbe fare delle ricerche, anche se dovrebbe usare molta attenzione. Senza dubbio c'è un certo numero di gruppi come il nostro, dispersi un po' dappertutto, lungo la corrente del tempo. Ma nessuno di questi gruppi è in una situazione migliore della nostra. Chi ha mandato contro di noi il mostro assassino può averne mandati altri contro gli altri gruppi. Se qualcuno degli altri gruppi è ancora vivo, probabilmente cercherà di evitare le comunicazioni.

— Credete che siano stati gli Infiniti a inviare quei mostri?

— Sospetto di sì. Non so chi altri potrebbe averlo fatto.

— Ma per quale motivo? Gli Infiniti vi hanno cacciato via, armi e bagagli, nella corrente del tempo. Non potete costituire una grave minaccia per loro.

— È possibile — disse David — o può sembrare possibile agli Infiniti, che ci raggruppiamo tra noi e che facciamo ritorno per costruire una nuova società. Per farlo, però, dobbiamo aspettare la scomparsa degli Infiniti, e questo, per loro, è un grave pericolo. Se rimanesse qualcuno di noi, ci sarebbe sempre la possibilità, almeno nella loro mente, di un nostro ritorno per distruggere quello che loro hanno fatto.

— Ma il loro lavoro è già terminato — disse Corcoran.

— No. Sarà terminato soltanto quando tutti gli uomini saranno morti, o avranno raggiunto uno stato di smaterializzazione.

Camminando, avevano ormai raggiunto la parte più alta delle rovine senza incontrare niente di particolarmente interessante. Il terreno era pieno di pietre cadute, e tra l'una e l'altra erano cresciuti cespugli e alberelli. Nelle piccole zone sgombre spuntavano fiori selvatici. Alcuni erano comuni fiori di campo, altri provenivano dai giardini di qualche antica città: qua e là una viola del pensiero, alcuni tulipani nell'angolo formato da due muri ancora in piedi, un lillà nodoso carico di fiori profumati…

Corcoran si fermò accanto ai lillà. Ne strappò un rametto e lo annusò con profonda soddisfazione.

Era come una volta, pensò. Non c'erano stati molti cambiamenti in quel mondo di un milione di anni nel futuro. La regione era come quella di una volta. C'erano ancora fiori e alberi, e appartenevano alle specie a lui note. La gente non era cambiata. Anche se poteva sembrare lunghissimo, un milione di anni era un periodo troppo breve perché si potesse riscontrare un'evoluzione fisica. Ma doveva esserci qualche cambiamento intellettuale, pensò poi. Lui non aveva visto molti uomini dell'epoca: soltanto David, la sua famiglia e il vecchio accanto alla porta.

Si allontanò dal cespuglio di lillà e proseguì costeggiando un breve tratto di muro. Quando il muro s'interruppe, si accorse che era giunto sulla vetta dell'altura. Ma in quella vetta c'era qualcosa di strano: una sorta di nebbia che s'innalzava dalla fila di rovine. Si fermò a guardare la nebbia, e vide che assumeva la forma di una scala a chiocciola che saliva verso il cielo.

Dapprima gli parve che la scala fosse priva di sostegni, ma presto si accorse che al centro c'era un albero. E che albero!

La nebbia si diradava sempre più, e Corcoran riuscì a vederlo chiaramente. L'albero spuntava dalla vetta della collina e saliva al cielo, senza aprirsi in rami e fronde, ma continuando a montare a perdita d'occhio, sempre circondato dalla scala a chiocciola. Fino a perdersi nel cielo, fino a diventare un'unica linea sottile e a svanire nello sfondo turchino.

David gli domandò: — C'è qualcosa, lassù?

Corcoran ritornò bruscamente alla realtà. Si era dimenticato dell'esistenza di David.

— Come? — gli domandò. — Mi dispiace, mi ero distratto per un attimo. Non vi ho sentito.

— Chiedevo se c'era qualcosa lassù in alto. Ho visto che guardavate nel cielo.

— Niente d'importante — disse Corcoran. — Mi era parso di vedere un falco. Ma poi è passato davanti al sole e l'ho perso.

Guardò di nuovo la vetta. L'albero era ancora lì. La scala era ancora avvolta attorno al tronco.

— Potremmo tornare indietro, a questo punto — disse David. — Qui non c'è niente da vedere.

— Avete ragione — disse Corcoran. — Venire quassù è stato uno spreco di tempo.

Pur avendo osservato al pari di lui la cima della collina, David non aveva visto l'albero e la scala. E io, pensò Corcoran, non gli ho detto niente. Per quale motivo? Perché temevo che non mi credesse? O perché non c'era bisogno di dirglielo? Era il vecchio gioco di non dare mai niente per niente, di tenere per sé le informazioni, in attesa del giorno in cui utilizzarle.

Comunque, era un ulteriore esempio della strana capacità di Corcoran di vedere le cose in modo diverso dagli altri: la capacità che gli aveva permesso di individuare il viaggiatore di Martin invisibile a tutti. Il viaggiatore era là, e anche l'albero era là, ma erano informazioni che aveva soltanto lui, e per questo se le era tenute per sé.

David si era avviato lungo la discesa che portava ai piedi della collina. Dopo un'ultima occhiata per accertarsi che l'albero fosse ancora lì, Corcoran si affrettò a seguirlo. Quando giunsero alla porta, il vecchio non c'era più. Proseguirono fino a raggiungere il prato su cui era fermo il viaggiatore.

— Cosa facciamo? — domandò David. — Dobbiamo cercare quel villaggio di cui parlava il vecchio?

— Sì — disse Corcoran. — Dobbiamo capire la situazione locale. Ora come ora, lavoriamo nel vuoto.

— A me — disse David — interessa soprattutto sapere se gli Infiniti sono già comparsi. Il loro arrivo risale pressappoco a quest'epoca, ma la data esatta non la so.

— Credete che gli abitanti di un piccolo villaggio possono darvi informazioni utili? Questa zona sembra alquanto isolata.

— Qualche voce sarà arrivata. Ci basta sapere se gli Infiniti sono già arrivati. Basta un minimo accenno per saperlo.

Dal prato partiva un sentiero che portava verso la valle, fino a un allegro torrentello. David, che era in testa, seguì la direzione del corso d'acqua. Il percorso era agevole. La valle era aperta, e lungo la sponda del fiume correva un sentiero ben tracciato.

— Potete darmi un'idea del tipo di insediamento che troveremo? — domandò Corcoran. — Per esempio, com'è l'organizzazione economica?

David rise. — Rimarrete sorpreso. Per prima cosa, non esiste un'economia. I robot fanno tutto il lavoro, e non c'è denaro. Suppongo che dal vostro punto di vista, equivale a dire che l'economia è completamente nelle mani dei robot. Si occupano di tutto e comandano tutto. Nessun umano deve preoccuparsi di come vivere.

— In un sistema come questo — domandò Corcoran — che cosa fanno gli esseri umani?

— Pensano — disse David. — Pensano a lungo e bene, e quando occorre parlare, parlano con grande eloquenza.

— Alla mia epoca — disse Corcoran — i contadini si recavano in città e andavano in un bar a bere un caffè. Laggiù trovavano qualche piccolo commerciante, e si sedevano con lui a un tavolo per discutere i destini del mondo; ciascuno era sicuro delle proprie idee. Naturalmente, parlavano tutti a vanvera, e la cosa faceva poca differenza. Nella propria nicchia, ciascuno può essere un filosofo… Ma la vostra famiglia, invece…

— Noi eravamo una minoranza — disse David. — Gli arretrati, gli stupidi che non capivano e che non volevano seguire gli altri. I polemici, la spina nel fianco delle persone per bene, la minoranza rumorosa…

— Eppure, a quanto mi pare di capire — disse Corcoran — voi non eravate dei veri e propri rivoluzionari.

— No — disse David. — Ci limitavamo a dare il cattivo esempio.

Erano giunti a una leggera salita. Quando fu in cima, David si fermò e attese che Corcoran lo raggiungesse. Indicò il territorio davanti a loro.

— Laggiù c'è il villaggio — disse.

Era un villaggio piccolo ed elegante. Alcune delle case avevano dimensioni più che rispettabili, altre erano molto piccole. In tutto pareva composto di una quindicina di edifici: certo non più di venti. La via principale era costituita da una strada piuttosto stretta. C'era un ponte che portava sull'altra sponda del torrente, e la strada proseguiva serpeggiando tra campi e giardini, su un terreno piano. In fondo si scorgeva nuovamente la sagoma delle montagne.

— Una comunità chiusa in se stessa — commentò Corcoran. — Isolata. Immagino che siano i robot a coltivare e ad allevare le bestie.

— Esattamente. Eppure, nonostante la limitatezza delle loro possibilità, hanno tutto ciò che desiderano.

Entrarono nel villaggio. Si vedeva soltanto un vecchio, che camminava lentamente, facendo attenzione a ogni passo. Non si vedevano altre persone in giro.

Da un piccolo edificio ai confini del villaggio uscì un robot. Si diresse verso i due nuovi venuti, camminando in fretta. Giunto davanti a loro, si fermò a osservarli. Era un robot senza particolari caratteristiche, sbrigativo e senza grilli per la testa.

— Benvenuti al nostro villaggio — disse, senza perdere tempo in preamboli. — Lieti di avervi tra noi. Volete per favore aggregarvi per mangiare con noi una buona scodella di minestra? Oggi non abbiamo preparato altro: minestra e onesto pane casareccio, ma ne abbiamo in abbondanza. Da qualche tempo manchiamo di caffè, ma possiamo offrirvi un boccale della nostra birra migliore.

— Accettiamo con profonda gratitudine la vostra ospitalità — disse David. — Abbiamo molto desiderio di compagnia. Stiamo facendo un lungo viaggio a piedi e abbiamo incontrato poche persone. Quando abbiamo sentito parlare del vostro villaggio, ci siamo allontanati dalla nostra strada per venirvi a trovare.

— Qui ci sono gentiluomini — disse loro il robot — che saranno lieti di parlare con voi. Il nostro è un posto tranquillo e isolato, che ci permette di dedicarci a profonde speculazioni filosofiche. I nostri pensatori sono in grado di competere con chiunque, in questa regione.

Si voltò e li accompagnò verso il piccolo edificio da cui era uscito. Tenne aperta la porta per farli entrare.

Lungo una delle pareti c'era un bancone con sgabelli. Al centro della stanza c'era un grosso tavolo rotondo, su cui erano posate numerose candele accese. Attorno al tavolo sedevano cinque o sei persone che bevevano birra. Da un lato si vedeva una pila di tazze vuote. Nonostante la presenza delle candele, la stanza era scura e soffocante. In tutto l'edificio c'erano solo due piccole finestre per lasciar passare la luce.

— Signori — disse il robot, in tono estremamente serio e grave — abbiamo degli ospiti. Vi prego di far loro posto.

Gli uomini seduti al tavolo si scostarono per fare posto ai due ospiti.

Per qualche tempo, dopo che David e Corcoran si furono accomodati, nessuno parlò. Le persone sedute alla tavola continuarono a fissarli con attenzione e con leggero sospetto. A sua volta, Corcoran studiò le tacce davanti a lui. Molte erano di vecchi, e con la barba. Ma erano persone rispettabili, pulite. Gli parve di fiutare odore di sapone; i vestiti indossati dai vecchi erano puliti e di taglio semplice, e rattoppati qui e là.

Un vecchio, caratterizzato da un ciuffo di capelli bianchi come la neve e da una barba color della brina, tutt'a un tratto disse loro: — Stavamo dibattendo la fuga dell'umanità da sotto il tallone degli antichi condizionamenti economici e sociali. Ognuno di noi è convinto che la fuga sia giunta appena in tempo, ma questo sembra essere il solo punto su cui siamo tutti d'accordo, perché ciascuno di noi ha un'opinione diversa sulle sue origini e sulle sue cause. Il mondo, ne siamo tutti convinti, era divenuto così artificiale, condizionato, sterilizzato e confortevole che l'uomo non era più un essere umano, ma un animale da salotto tenuto dai computer. Qualcuno di voi signori ha forse delle opinioni a questo riguardo?

Tombola, pensò Corcoran. Di punto in bianco. Senza preamboli, senza domandare chi siete e cosa fate, come siamo lieti di vedervi qui, senza presentazioni. Questi sono dei fanatici, si disse: eppure non c'era segno di fanatismo: né occhi fiammeggianti, né mani che tremavano. Anzi, sembravano le persone più tranquille e pacifiche del mondo.

— Naturalmente, abbiamo pensato a queste cose, di tanto in tanto — disse David, parlando con una tranquillità che rivaleggiava con quella del vecchio dalla barba color della brina. — Ma soprattutto ci siamo chiesti perché l'umanità si sia incamminata verso la trappola stessa in cui è caduta. Ne abbiamo cercato le cause, ma i fattori sono troppi, e talmente intrecciati tra loro da rendere problematica qualsiasi affermazione. Negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare di una nuova scuola di pensiero che suggerisce la smaterializzazione come risposta definitiva a tutti i problemi dell'umanità. Per noi, questa è una prospettiva nuova, ma dato che siamo rimasti isolati a lungo, può darsi che l'idea sia già in circolazione da molto tempo. Desidereremmo giungere a comprendere questa nuova idea.

Tutti i presenti si voltarono verso di lui con interesse.

— Diteci cosa sapete — lo pregò l'uomo dalla barba color della brina. — Cosa avete sentito?

— Quasi niente — disse David. — Soltanto qualche accenno, qua e là. Ma nessuna spiegazione. Nessun particolare di ciò che sta succedendo, e la cosa ci rende perplessi. Abbiamo anche sentito uno strano nome: gli Infiniti. Ma non sappiamo che cosa indichi.

Un uomo completamente calvo, ma con un gran paio di baffi castano scuro, disse: — Ne abbiamo sentito parlare anche qui, e probabilmente ne sappiamo quanto voi. Ce ne hanno parlato dei viandanti che si sono fermati qui da noi. Uno di loro sosteneva che la smaterializzazione conferirà finalmente all'uomo l'immortalità che ha sempre cercato.

Il robot portò due grandi tazze di minestra e le posò davanti a Corcoran e David. Corcoran prese il cucchiaio e la assaggiò. Era calda e gustosa. C'era carne, probabilmente di bue, pasta, carote, patate e cipolle.

Un altro uomo, questa volta uno con la barba ricciuta, disse: — Non è difficile capire perché il concetto sia tanto attraente. La morte è sempre stata giudicata dagli uomini un evento negativo. I vari tentativi di giungere alla longevità sono una parziale protesta contro questa deprecabile fine della vita.

— Da come mi pare di avere capito — disse un uomo un poco più giovane — la smaterializzazione comporta il rischio di una perdita di individualità. — Nelle sue parole c'era un tono di disapprovazione.

— Perché, che cos'hai contro l'unitarietà? — domandò Barba Riccia.

Barba di Brina riprese: — L'argomento della nostra conversazione era la mente umana. Se fosse possibile ottenere la smaterializzazione, la mente umana sopravviverebbe e il corpo verrebbe eliminato. E se si pensa attentamente alla proposta, si vede come sia la mente umana, l'intelligenza umana, l'unica cosa che abbia importanza.

L'uomo più giovane domandò: — Ma che cosa è la mente, senza un corpo? La mente ha bisogno di un veicolo che la porti.

— Non ne sono del tutto sicuro — disse Barba di Brina. — La mente è forse qualcosa di totalmente estraneo all'universo fisico. Noi siamo capaci di spiegare tutto, con le sole eccezioni della mente e del tempo. Quando è posto di fronte a questi concetti, il pensiero umano vacilla.

Il robot portò boccali di birra anche per David e Corcoran. Poi posò sul tavolo un tagliere di legno e un coltello e depose sul tagliere una grossa pagnotta. — Mangiate — disse. — È un cibo buono, salutare. C'è ancora della minestra, se ne volete.

Corcoran tagliò due fette di pane, una per sé e una per David. Inzuppò la sua fetta nella minestra e ne assaggiò un boccone. Era eccellente. E la birra era squisita. Tutt'a un tratto, e senza nessuna ragione, si sentì immediatamente felice.

David aveva ripreso a parlare. — C'è questa faccenda degli Infiniti. Abbiamo udito il nome, ma non sappiamo che cosa siano.

Il vecchio dalla barba color della brina rispose. — Anche noi abbiamo udito soltanto voci. Sembra che sia un movimento religioso, ma ci sono indicazioni che non sia del tutto umano. Si parla di missionari alieni.

— Non ci sono prove che ci permettano di arrivare a una conclusione — disse Barba Riccia. — Le idee nascono, fioriscono per qualche tempo e poi svaniscono. La smaterializzazione, dite: ma come si fa per ottenerla?

— Credo che se l'umanità volesse smaterializzarsi, un modo lo troverebbe — disse Baffone. — Già molte volte l'uomo ha ottenuto dei grandi risultati che avrebbe fatto meglio a non ottenere.

— Tutto si riaggancia — disse Barba di Brina, parlando con un tono da giudice del tribunale — a una caratteristica umana che abbiamo molto meditato nelle nostre lunghe sere. L'insaziabile tendenza dell'uomo verso uno stato di felicità.

Corcoran non ascoltò la conversazione. Raccolse con un pezzo di pane le ultime gocce di minestra, poi vuotò il boccale. Si raddrizzò e si appoggiò allo schienale: era sazio.

Si guardò attorno e vide per la prima volta come fosse fatta la stanza: era poco più di una stalla. Era piccola e spoglia, senza ornamenti, senza lussi. L'idea di abitazione che poteva venire in mente a un robot: uno spazio riparato dal freddo. La costruzione era ben fatta: ottima fattura, se era stata fatta dai robot. Il tavolo e le sedie erano di legno robusto e capace di durare per secoli, ma a parte l'onesto lavoro e l'onesto legno, non c'era molto. Le tazze e i boccali erano di terracotta; le candele erano fatte a mano. Perfino i cucchiai erano di legno scolpito e lucidato.

Eppure quegli uomini di villaggio che sedevano attorno a un rustico tavolo, in quella stanza disadorna, dibattevano problemi che andavano assai al di là della loro possibilità d'intervento, facendo seriamente le loro considerazioni, anche quando non avevano alcun dato su cui basarsi. Comunque, si disse, non poteva essere lui a scagliare la prima pietra. Non c'era niente di strano, nel comportamento di quei vecchi. Era un'antica e onorata tradizione che riandava agli albori della storia. Nell'antica Atene gli sfaccendati si riunivano nell'agorà per dedicarsi ad alate discussioni; secoli più tardi, negli Stati Uniti, altri sfaccendati sedevano sotto il porticato, davanti ai negozi di campagna, e facevano discorsi altrettanto pomposi quanto quelli degli ateniesi. Nei club londinesi ulteriori sfaccendati facevano lo stesso tipo di discorsi davanti a un bicchiere di liquore.

L'ozio portava alla chiacchiera, si disse, e gli uomini si lasciano ipnotizzare dall'intelligenza dei loro pensieri. Gli uomini di quel villaggio erano sfaccendati: li aveva resi tali la loro società dominata dai robot.

David si alzò, dicendo: — Temo che sia giunto il momento di andarcene. Ci fermeremmo di più, se potessimo, ma dobbiamo riprendere il cammino. Vi ringraziamo del cibo, della birra e della conversazione.

Gli uomini della tavola non si alzarono. Non tesero la mano e non dissero addio. Sollevarono lo sguardo e annuirono, poi si immersero nuovamente nelle loro interminabili discussioni.

Corcoran si alzò a sua volta e si avviò verso la porta. Il robot li precedette e aprì loro il battente.

— Grazie della minestra e della birra — disse David.

— Tornate pure quando volete — disse il robot. — Siete i benvenuti.

E si trovarono nella strada, con il robot che chiudeva la porta dietro di loro. In strada non c'era nessuno.

— Abbiamo saputo quello che volevamo — disse David. — Adesso sappiamo che gli Infiniti sono già qui e che hanno già dato inizio alla loro missione.

— Mi spiace per quei poveretti — disse Corcoran. — Non hanno niente da fare, solo starsene laggiù seduti a parlare.

— Non c'è bisogno di compatirli — disse David. — Forse non lo sanno, ma sono felici.

— Può darsi, ma è un brutto modo di finire, per la razza umana.

— Forse è la fine che la razza umana ha sempre cercato. Per tutta la storia, l'uomo ha sempre cercato qualcuno che lavorasse al posto suo. Prima il cane, il bue, il cavallo. Poi le macchine, e infine i robot e i computer.

La sera cominciava ad allungare le sue ombre sulla valle, quando raggiunsero il prato dove si era posato il viaggiatore.

Quando furono accanto alla macchina una nebbiolina di punti scintillanti si avvicinò a loro. Corcoran fu il primo a notarla, e si fermò. Sentì che gli si rizzavano i capelli per un'atavica paura, poi capì cos'era.

— David — disse, parlando piano — abbiamo un ospite.

David rimase senza fiato per la sorpresa, poi disse: — Henry, siamo lieti di vederti. Ci auguravamo che ci trovassi.

Henry attraversò il prato e si avvicinò a lui.

“Avete lasciato una lunga scia” disse. “Ho dovuto fare molta strada”.

— Dove sono finiti gli altri? In che viaggiatore eri?

“Non ero in nessun viaggiatore” disse Henry. “Sono rimasto a Hopkins Acre. Sapevo che sareste andati tutti in posti diversi e che avrei dovuto trovarvi”.

— Perciò, sei partito da zero.

“Proprio così. E ho fatto bene, perché sono sorte complicazioni”.

— Comunque, ci hai trovato. E questo può essere l'inizio. Ma perché sei venuto a cercare proprio noi? Sapevi che eravamo in grado di badare a noi stessi. Invece avresti dovuto seguire Enid. È quella che ha meno esperienza e che corre più rischi.

“È quello che ho fatto” disse Henry “ma è scomparsa”.

— Come può essere? Enid ti avrà aspettato. Sa che la cerchi.

“No, non ha aspettato. Ha raggiunto la sua prima destinazione, e poi se n'è andata. Ho l'impressione che sia scappata via perché era minacciata dal mostro. Nel luogo della sua prima destinazione c'è il mostro, ed è distrutto”.

— Distrutto? Chi può averlo distrutto?

— Forse Boone — disse Corcoran. — Boone era con lei. L'ho visto che correva verso il viaggiatore di Enid, con il mostro alle calcagna. Intendevo aiutarlo, ma voi mi avete afferrato di peso e mi avete portato nel vostro viaggiatore.

“Lasciatemi finire” disse Henry. “Non interrompetemi con le vostre chiacchiere. C'è dell'altro”.

— E allora, parla — disse David irritato.

“Enid, quando è partita, era sola. Ne sono certo. Boone è rimasto laggiù”.

— Non riesco a crederci. Enid non lo avrebbe abbandonato in nessun caso.

“Non ne sono certo” disse Henry. “Sono soltanto mie deduzioni. Ho raggiunto la sua prima destinazione, nel lontano passato. Cinquantamila anni prima di Hopkins Acre nella parte sudovest del Nordamerica. Il viaggiatore era sparito, ma c'era ancora la sua scia. Il viaggiatore era partito circa una settimana prima”.

— La scia? — domandò Corcoran. — Cosa fa, vede la scia del viaggiatore?

— Non lo so — disse David. — E non lo sa neppure lui, secondo me, e quindi non vale la pena di chiederglielo. Ha delle facoltà che noi due non possediamo, e io non mi azzarderei a descriverle.

“Riesco a farlo” disse Henry. “Non so come faccio; non me lo sono mai domandato. Ma, adesso, mi lasciate continuare?”

— Prego — disse David.

“Mi sono guardato attorno. C'erano le tracce di un fuoco, molto recenti; due giorni, massimo quattro. E accanto c'era un tumulo di pietre. Sul tumulo c'era un foglio di carta, tenuto fermo da una pietra. Non ero in grado di sollevare la pietra e non ho potuto inserirmi tra pietra e carta per leggere ciò che era scritto. Suppongo che fosse un messaggio per eventuali nuovi arrivati. A poca distanza dal tumulo c'erano i resti del robot assassino, e poco più in là lo scheletro di una grande bestia: a quanto pareva, un bovino. Aveva un enorme paio di corna”.

— Non c'era segno di Boone? — domandò Corcoran.

“No, l'ho cercato, ma onestamente, devo confessare, non l'ho cercato molto. Ero troppo preoccupato per Enid. La scia era lunga e difficile, ma alla fine ho trovato la seconda destinazione del suo viaggiatore”.

— Ed Enid non c'era — disse David.

“Non ho trovato né lei né il viaggiatore. Il viaggiatore non era partito: era stato portato via. Ho trovato dei segni sul terreno: segni di ruote, e scie di un corpo trascinato. L'hanno preso e l'hanno caricato su un veicolo. Ho cercato di seguire le tracce, ma dopo un poco le ho perse”.

— E hai cercato Enid?

“L'ho cercata tutt'intorno, girando in cerchi sempre più larghi. L'ho cercata in ogni angolo, ma non ho notato la sua presenza. Se ci fosse stata, l'avrei trovata”.

— Quindi si dev'essere perduta. E qualcuno ha un viaggiatore che non gli appartiene.

— È assai probabile — disse Corcoran — che non sappia cosa ha in mano. Qualcuno l'ha trovato, si è incuriosito e se l'è portato via in fretta, prima che arrivasse il proprietario. Senza dubbio si sarà proposto di esaminarlo più tardi.

David scosse la testa.

— Sentite — disse Corcoran — quanti viaggiatori temporali ci sono al mondo? E quanti sono, prima della vostra epoca, coloro che sanno che il viaggio nel tempo è possibile?

“Forse Corcoran ha ragione” disse Henry. “Dovresti dargli retta, David”.

— Al momento — disse David — non è il caso di discutere. Per ora, Enid è fuori portata. Il suo viaggiatore è sparito, ed è sparita anche lei. Non sappiamo dove cercarla.

“Suggerisco di ritornare nel posto preistorico” disse Henry. “Laggiù potremo cercare Boone. Può darsi che ci possa indicare come rintracciare Enid. Forse Enid gli ha comunicato le sue intenzioni”.

— Ci puoi portare laggiù? Hai le coordinate?

“Vi posso portare molto vicino. Ho le coordinate. Quelle spaziali le ho calcolate esattamente prima di allontanarmi. E quelle temporali sono pressoché esatte”.

— Hai ragione — disse David. — Laggiù possiamo trovare qualche elemento su cui lavorare. Altrimenti dovremmo girare a vuoto.

— Sono d'accordo — disse Corcoran, annuendo.

David entrò nel viaggiatore e tese la mano a Corcoran per aiutarlo a salire.

— Chiudete il portello — disse — e preparatevi alla partenza. Una volta che Henry mi avrà dato le coordinate, partiremo.

Corcoran chiuse il portello e tornò accanto a David, che era intento a scrivere le coordinate nel suo libro di bordo. David allungò la mano verso il pannello degli strumenti. — Tenetevi forte — disse, e le sue parole furono seguite dalla scossa e dall'oscurità, profonda e spietata. Un istante più tardi, David esclamò: — Ci siamo.

Corcoran tornò al portello, lo aprì e si precipitò all'esterno. Nel cielo limpido ardeva la macchia arroventata del sole. Sullo sfondo del cielo si scorgevano le colline brulle. La salvia luccicava al sole. Sul piano giaceva lo scheletro bianco di un grosso animale.

— Sei sicuro che sia il posto giusto? — domandò David a Henry.

“Sì, è il posto giusto. Va' direttamente davanti a te, e troverai i resti del fuoco”.

— Non c'è nessun tumulo — disse Corcoran. — Hai detto che ce n'era uno, con un foglio tenuto fermo da una pietra.

“Hai ragione. Il tumulo non c'è più. Ma ci sono le pietre, sul terreno. Sono state gettate a terra”.

Corcoran fece un passo avanti. Le pietre erano sparse in giro, e in mezzo alle pietre c'era un foro scavato nel terreno. Si scorgevano le ceneri bianche del fuoco da campo.

— Le volpi, o i lupi — disse Corcoran. — Hanno gettato a terra le pietre per prendere qualcosa che era nascosto sotto il tumulo.

— Carne — disse David. — Boone deve avere nascosto della carne sotto le pietre per proteggerla dai lupi.

Corcoran annuì. Sembrava un'ipotesi ragionevole.

— Anche il messaggio dovrebbe essere qui attorno — disse David. — Tutto quadra. I resti del fuoco. Lo scheletro del grosso animale. E quel mucchio di rottami è ciò che resta del robot assassino.

Ma cercarono il messaggio senza riuscire a trovarlo.

— È inutile cercare — disse David. — Il vento l'ha portato via. Ormai è impossibile trovarlo.

Corcoran si guardò attorno, esaminando la pianura che lo circondava. Lontano si vedeva una tromba d'aria che ondeggiava come un serpente danzante. Al limite della zona visibile c'erano dei puntini neri che tremolavano dietro il velo dell'aria calda. Bisonti, pensò Corcoran, anche se questa era poco più di una supposizione. A occhio nudo non aveva modo di accertarsene. Lo scheletro apparteneva a un bisonte preistorico. Il teschio era appoggiato a terra, e un corno si alzava nell'aria. Solo un bisonte può avere corna come quelle, si disse.

Era stato Boone a ucciderlo? Se era stato lui, doveva avere avuto a disposizione un fucile di grosso calibro, perché nessun'altra arma avrebbe potuto abbattere una bestia del genere. Ed era stato lui ad abbattere il robot assassino? Corcoran scosse la testa. Non aveva modo di saperlo.

— Che cosa facciamo? — domandò David.

— Diamo un'occhiata in giro — gli disse Corcoran. — Può darsi che incontriamo Boone che fa ritorno all'accampamento. O possiamo trovarlo morto, anche se è difficile immaginare che cosa possa averlo ucciso. Ha rischiato tante volte la pelle, quel pazzo, che ormai dovrebbe essere morto da decenni. Ma ha un suo sortilegio che lo tiene in vita.

— Io voglio salire in cima a quella collinetta — disse David. — Da lassù potrò forse scorgere qualche indicazione.

— Bisognerebbe avere un binocolo.

— Ma non l'abbiamo. Vado a vedere se per caso c'è.

David ritornò al viaggiatore. Corcoran si diresse verso il mucchio di rottami che era tutto ciò che rimaneva del mostro assassino. Cercò di non avvicinarsi troppo, anche se in quei resti metallici non pareva esserci niente di pericoloso. Eppure, qualcosa lo avvertiva di stare lontano.

David uscì dal viaggiatore. — Niente binocolo — disse. — Horace ha caricato in fretta l'equipaggiamento; non ha badato a ciò che metteva.

— Salgo in cima io, se voi non avete voglia — disse Corcoran.

— Non preoccupatevi. Mi piace arrampicarmi sui monti.

— Io faccio il giro della collinetta — disse Corcoran. — Ma non penso di trovare molto. Qui c'è qualcosa che non quadra. Comincio a pensare che Boone si sia allontanato con Enid.

— Henry dice di no.

Corcoran stava per dire qualcosa a proposito di Henry e di cosa poteva farsene delle sue certezze, ma si limitò a chiedere: — Dov'è Henry? Da un po' di tempo non lo sento più e non sono più riuscito a vederlo.

— Neanch'io, adesso che ci penso. Ma questo non vuol dire niente. Ritornerà. Probabilmente sta esplorando qui attorno.

David aveva con sé un fucile da caccia. Doveva averlo preso quando era entrato nel viaggiatore a cercare il cannocchiale. Lo tese a Corcoran, tenendolo per il calcio. — Ecco, servirà più a voi che a me.

Corcoran scosse la testa. — Non penso di correre rischi. Farò attenzione. E voi badate bene a non sparare sul bersaglio sbagliato. Probabilmente qui ci sono delle creature a cui un colpo di fucile a pallini non fa nemmeno il solletico.

David s'infilò il fucile sotto il braccio: pareva contento che Corcoran non l'avesse voluto. — Non ho mai sparato, né con questo né con altri fucili — disse — ma nelle mie passeggiate a Hopkins Acre ho preso l'abitudine di portarne uno. Questo fucile è divenuto una parte di me. Mi sento meglio, se l'ho sotto il braccio. Questo fucile non è mai carico, quando lo porto io.

— Ascoltate me — disse Corcoran, un po' disgustato. — Caricatelo. Penso che abbiate le cartucce.

David si toccò una tasca della giacca. — Le ho qui. Due manciate. Anche a Hopkins Acre avevo sempre le cartucce: due. Le toglievo dal fucile, dato che Timothy voleva che fosse carico quando era nella rastrelliera.

— È inutile portare un fucile, se non si ha intenzione di usarlo. — disse Corcoran. — È inutile portarlo se non è carico. Mio padre me lo diceva sempre. «Non puntare mai il fucile contro qualcuno» diceva «se non hai intenzione di ucciderlo, uomo o animale». Mi è parso un buon consiglio, e da allora l'ho sempre seguito.

— Io ho puntato molte volte questo fucile — disse David — ma non ho mai ucciso. L'ho puntato contro centinaia d'uccelli stanati da cani, ma non ho mai voluto schiacciare il grilletto.

— Che cosa volete dimostrare? — domandò Corcoran. — Che siete finalmente civili?

— Me lo sono chiesto anch'io — disse David.

Esaminando la base della collina, Corcoran trovò un affioramento d'acqua: qualcuno aveva scavato e si era formata una pozza. Giunse all'improvviso davanti a un tasso, che soffiò verso di lui prima di fuggire. Si accorse di essere seguito da un lupo, ma non gli prestò attenzione. Il lupo continuò a seguirlo, senza avvicinarsi e senza allontanarsi.

Non successe altro. Non trovò niente di interessante. Dopo qualche tempo, ritornò sui suoi passi e seguì la curva della collinetta fino a ritornare nuovamente al viaggiatore. Già prima che tornasse indietro, il lupo era sparito.

Il sole era quasi all'orizzonte. Con pezzi di legno presi dal mucchietto accanto al vecchio fuoco da campo, accese un falò. Si recò alla fontanella e prelevò un secchio d'acqua. Quando David fece ritorno dalla cima della collina, friggeva prosciutto da una parte e frittelle dall'altra.

David si sedette in terra e appoggiò il fucile sulle ginocchia. — Non c'è niente — comunicò. — Qualche animale che bruca l'erba, lontano nella pianura, e nient'altro. È il posto più solitario che ho visto.

— Prendete del caffè — disse Corcoran. — Ho già pronte le frittelle per voi. Prendete anche il prosciutto. Piatti e tazze sono sulla tovaglia.

Dopo avere assaggiato le frittelle, David chiese — C'è qualche segno di Henry?

— Niente.

— È strano. Se n'è andato senza avvertire. E non è ancora ritornato.

— Forse ha avuto un'idea ed è andato a controllare.

— Lo spero — disse David. — À volte non sono sicuro di capire Henry. È mio fratello e tutto il resto, ma anche se cerco di vederlo come carne della mia carne e sangue del mio sangue, lui non è né carne né sangue. È ancora mio fratello, ma è assai inconsueto, come essere umano. Si è lasciato convincere dagli Infiniti, dalle loro chiacchiere astute. Ma su di lui il processo di conversione non è giunto alla fine. Forse la personalità di Henry era troppo nodosa e contorta.

Corcoran cercò di consolarlo: — Non preoccupatevi per lui. Non gli può succedere niente. Niente può toccarlo.

David non rispose. Qualche momento più tardi domandò: — Cosa facciamo, adesso? Vale la pena di fermarsi qui?

— È troppo presto per dirlo — disse Corcoran. — Siamo arrivati da poche ore. Aspettiamo fino a domani; può darsi che domani ci venga qualche buona idea.

Una voce che non faceva rumore domandò loro: “Cercate un uomo chiamato Boone?”

Corcoran rimase sorpreso per un momento, poi domandò a David: — Avete sentito anche voi?

— Sì. Ho sentito. Non è Henry. È qualcun altro.

“Sono la mente” disse la voce “della creatura che voi chiamate mostro assassino. Posso aiutarvi a trovare questo Boone”.

— Potete dirci dov'è? — domandò Corcoran.

“Posso dirvi dov'è andato. Ma prima dobbiamo fare un patto”.

— Che patto, mostro?

“Non chiamatemi mostro. È già brutto pensare a me come a un mostro, ma dirmelo in faccia è maleducazione”.

— Se non sei un mostro, allora cosa sei?

“Sono un fedele servitore che si limita a eseguire la volontà del padrone. Non spetta a me decidere se i suoi ordini siano giusti e saggi”.

— Non perdere tempo a scusarti — disse David. — Ti conosciamo bene. Sei in mezzo ai rottami che una volta erano un mostro assassino.

“Ecco, mi avete di nuovo chiamato mostro! E io non intendevo affatto scusarmi”.

— Mi era parso di sì — disse Corcoran. — Sentiamo il patto.

“Molto semplice. Io vi dico dove cercare Boone, ma voi prima dovete togliermi dai rottami della mia precedente esistenza e promettermi di portarmi da qualche altra parte, lontano da questa terribile desolazione”.

— Be' — disse David — è un patto che si può accettare facilmente.

— Calma — lo avvertì Corcoran. — Pensate: quanta fiducia si può accordare alla voce del rottame?

— Sembra una cosa da poco — disse David. — Lui sa dove si trova Boone ed è disposto a…

— Proprio qui vi volevo. Non afferma di sapere dov'è Boone. Dice che ci indicherà dove cercarlo. Sono due cose diverse.

— In effetti, sì. Cosa ne dici, tu? Che esattezza hanno le tue informazioni?

“Sono disposto ad aiutarvi come posso. L'aiuto che vi offro non si limita alla ricerca di Boone”.

— Che altro tipo di aiuto? Come ci puoi aiutare?

— Lasciate perdere — brontolò Corcoran. — Non dategli retta. Si trova nei guai ed è disposto a promettere qualsiasi cosa per uscire.

“Per la carità umana” piagnucolò il mostro “dovete avere pietà di me. Non dovete condannarmi a interminabili epoche di privazione di stimoli esterni. Non posso vedere; a parte questa comunicazione telepatica, non posso udire. Non sento né il caldo né il freddo. Anche il trascorrere del tempo mi sembra irregolare. Non riesco a distinguere un secolo da un anno”.

— Sei davvero messo male — disse Corcoran.

“Sì, sì. Gentile, signore, cercate di provare un po' di simpatia per me!”

— Non sono disposto ad alzare una mano per aiutarti. O un dito.

— Siete molto duro con lui — disse David.

— Meno di lui ad Atene. Meno di lui se ci avesse trovato… se non avesse combinato un pasticcio.

“Non ho combinato nessun pasticcio. Sono un meccanismo efficiente. Solo, non ho avuto fortuna”.

— Esatto — disse Corcoran. — E continui ad averne sempre di meno. Adesso chiudi il becco. Non vogliamo più sentirti.

Il mostro tacque. Non sentirono più la sua voce.

Dopo qualche tempo, David disse: — Henry non è ancora tornato. Noi due siamo soli. Il mostro telepatico dice di avere delle informazioni. Credo che si possa ragionevolmente dargli retta. Era qui nel periodo in cui c'era anche Boone. Può avergli parlato.

Corcoran brontolò qualcosa di inudibile. — Non state a convincervi della necessità di mostrarvi magnanimo verso un nemico sconfitto, di agire nobilmente, da gentiluomo. Comunque, il collo è vostro, se volete rischiarlo. Io me ne lavo le mani. Fate quel che volete.

Il sole era tramontato ed era sceso il buio. In qualche punto di quelle terre desolate, un lupo ululò, e un altro gli fece eco. Corcoran finì di mangiare. — Datemi il piatto e le posate — disse a David. — Vado alla fonte a lavarli.

— Volete che venga con voi per coprirvi le spalle?

— No, non c'è pericolo. Sono pochi passi.

Curvo accanto alla fonte, Corcoran sciacquò i piatti. A est stava alzandosi la luna. Lontano, cinque o sei lupi si lamentavano in coro di quella vitaccia grama e triste.

Quando ritornò accanto al fuoco, vide che David aveva portato le coperte. — È stata una giornata lunga — disse — e dovremmo dormire un poco. Io farò la guardia per primo. Penso che sia preferibile che uno di noi stia di guardia.

— Sono d'accordo — disse Corcoran.

— Sono preoccupato per Henry — continuò David. — Sa che in una situazione come questa non dovremmo dividere le nostre forze.

— Probabilmente si sarà fermato per qualche suo motivo — disse Corcoran. — Domattina sarà qui, e tutto ritornerà a posto.

Piegò la giacca per usarla come cuscino e si coprì la faccia con la coperta. Qualche istante più tardi, dormiva.

Quando si svegliò, era steso sulla schiena. In alto, il cielo era rischiarato dalla prima luce dell'alba, e David non l'aveva chiamato alla fine del suo turno di guardia.

Accidenti a lui, pensò Corcoran. Non doveva comportarsi n modo così infantile. Non doveva dimostrare a nessuno di riuscire a fare la guardia per tutta la notte, o di essere migliore degli altri.

— David! — gridò. — Maledizione, cosa volete combinare?

Sulla collinetta, gli uccelli cantavano per annunciare l'alba, salutando la prima luce che rischiarava la parte orientale del cielo. A parte quel canto, non c'era alcun suono, e il tremolio delle ultime fiamme del falò era l'unico movimento visibile. Sul pianoro, le ossa bianche del bisonte erano rischiarate dalla luce dell'aurora; poco più a destra si scorgevano i rottami del mostro assassino.

Corcoran scostò la coperta e si alzò in piedi. Si diresse verso il fuoco, prese un pezzo di legno per riunire le braci e si inginocchiò accanto a esse. Fu in quel momento che udì un suono che lo fece rabbrividire per il terrore. Una sorta di risucchio che non aveva mai udito in precedenza e che non avrebbe saputo definire, ma che conteneva una minaccia. Il suono si ripeté, e questa volta Corcoran riuscì a girare la testa per vederne l'origine.

Per un momento, l'unica cosa che riuscì a vedere fu una macchia chiara, curva sopra una macchia scura distesa sul terreno. Cercò di vedere meglio, ma non riuscì a scorgere altro finché la macchia pallida non sollevò la testa e non lo fissò. Allora la riconobbe: muso felino e piatto, orecchi sormontati da ciuffi di peli, luccichio di zanne lunghe come il palmo di un uomo. Era una tigre dai denti a sciabola, curva sulla preda, intenta a divorarla con quel terribile risucchio che indicava quanto giudicasse gustoso il pasto.

E Corcoran conosceva la preda di quella tigre. Laggiù sotto le zanne e gli artigli della belva, c'era David!

Stringendo in mano un bastone raccolto in mezzo al mucchio di legna da ardere, Corcoran si alzò lentamente in piedi. Impugnò meglio la sua arma. Era un'arma ridicola, ma non aveva altro. Anche la tigre si sollevò sulle zampe. Era molto più grossa di quanto gli fosse sembrato. Era spaventosa. Posò la zampa sulla macchia scura che era David e fece qualche passo in avanti. Poi si fermò e ringhiò, e le lunghe zanne scintillarono nella luce fioca. Le zampe anteriori del felino erano più lunghe di quelle posteriori: l'animale aveva la schiena inclinata e sembrava seduto anche quando era ritto. Ormai la luce era sufficiente, e Corcoran riuscì a scorgere la sua pelliccia maculata: cerchietti color marrone scuro sullo sfondo del mantello fulvo.

Corcoran non si mosse. Dopo i primi passi anche la tigre rimase ferma. Poi, lentamente, come se non fosse ancora sicura delle proprie azioni, la bestia girò su se stessa. Ritornò alla sua preda, abbassò la testa, afferrò con i denti la macchia scura distesa sul terreno e mosse un poco la mandibola per afferrarla più saldamente. I denti affondarono nella preda, la testa del felino si sollevò: poi la tigre si allontanò lentamente dall'uomo accanto al fuoco, portando la sua preda con sé.

Corcoran dovette limitarsi ad assistere, senza riuscire a muovere neppure un muscolo. La tigre si allontanò trotterellando. Teneva la testa sollevata, per evitare che la sua preda toccasse il terreno. Ma una delle gambe scivolò a terra, e per due o tre volte la tigre inciampò. Poi arrivò alla base della collinetta, sparì dietro una parete di roccia… e non ricomparve più.

Soltanto dopo avere visto allontanarsi la tigre, Corcoran riuscì finalmente a muoversi. Si inginocchiò accanto al fuoco e lo alimentò con altri pezzi di legno. Presto le fiamme si alzarono di nuovo. Si guardò attorno, e vide che il viaggiatore era sempre al suo posto. A una decina di metri dal fuoco c'era anche il fucile. Non lo aveva notato fino a quel momento, sia perché era buio, sia perché aveva avuto occhi soltanto per la tigre. Ma non si alzò per andare a prenderlo. Era ancora paralizzato dalla paura.

Lentamente, cominciò a capire l'assurdità di quanto era successo. Ucciso da una tigre! Ucciso e divorato da una tigre! Ucciso né per rabbia né per difesa, e neppure in un accesso di furia omicida, ma ucciso per il suo valore alimentare.

David era morto. David… e poi? Con sorpresa, Corcoran ricordò solo in quel momento che non conosceva il cognome di David. A Hopkins Acre, nessuno aveva mai pensato di dirlo, e lui non lo aveva mai chiesto. Li elencò mentalmente: David, Enid, Timothy, Emma e Horace. Anche se l'elenco non era esatto: il cognome di Horace era diverso.

Invece di chiamarlo, David l'aveva lasciato dormire. Se mi avesse chiamato, pensò Corcoran, la tigre avrebbe ucciso me al posto suo.

Cercò di immaginare l'accaduto. Forse David aveva udito un rumore, proveniente dall'oscurità al di là del cerchio rischiarato dal fuoco, ed era andato a vedere. Forse era stato preso di sorpresa, e forse aveva visto la tigre. Comunque, non aveva sparato.

Se ci fossi stato io, pensò Corcoran, avrei sparato. Se avessi visto una tigre avrei usato il fucile. Forse una doppietta a pallini non era l'arma più adatta contro una tigre, ma a bruciapelo, anche se non l'avesse ucciso, una scarica della doppietta avrebbe messo in fuga anche un animale così grosso. David non aveva usato il fucile forse perché non era abituato a usarlo, forse perché era troppo civile per farlo, anche se ne avesse avuto la possibilità. Per lui il fucile non era un'arma: era un bastone da passeggio.

Povero sciocco, si disse Corcoran. Che sfortuna.

Andò a prendere il fucile. In canna c'erano due cartucce. David non aveva sparato. Se lo infilò sotto il braccio e seguì le tracce della tigre. Sul terreno c'era uno stivale, e nello stivale c'era un piede. Le ossa erano spezzate, maciullate dai denti di un animale da preda. Poco più avanti incontrò una giacca lacerata. Là vicino c'erano alcune cartucce, e Corcoran le raccolse e se le infilò in tasca. Di David non restava altro. Ritornò dove c'era lo stivale e rimase per lungo tempo a fissarlo. Non si chinò a raccoglierlo. Si giustificò dicendosi che non voleva sporcarsi.

Ritornò accanto al fuoco e si sedette in terra. Doveva mangiare qualcosa, pensò, ma in quel momento non aveva voglia di cibo. In bocca si sentiva un sapore amaro.

Che cosa doveva fare, a quel punto?

Era sicuro di riuscire a manovrare il viaggiatore. Sapeva dove si trovava il libro di bordo di David. E aveva osservato David mentre programmava il pannello di controllo per il balzo nel tempo.

Ma dove andare? Ritornare nel suo ventesimo secolo, lavandosi le mani dell'intera faccenda? L'idea aveva i suoi lati positivi, ma lo attirava poco. A tornare nel suo secolo si sentiva un disertore. Boone era in qualche punto di quel folle segmento di tempo, e prima di andarsene Corcoran voleva aiutare l'amico.

Pensò alla tigre e alla solitudine di quel luogo abbandonato, e il pensiero gli piacque poco. Ma lui doveva rimanere laggiù, nel caso di un ritorno di Boone, e forse anche di Henry, anche se questi non aveva bisogno di un viaggiatore per muoversi nel tempo e nello spazio.

Pensò alla tigre, e giunse alla conclusione che non costituiva un grave problema. Forse la tigre non sarebbe ritornata, e se anche l'avesse fatto, lui era una persona armata e decisa a usare la sua arma. Con il fucile, si disse, lui non era vulnerabile come David. Di notte poteva dormire nel viaggiatore, chiudendo il portello per proteggersi dai carnivori. Aveva cibo per qualche tempo, e poteva prendere acqua alla pozza. Poteva fermarsi laggiù per tutto il tempo necessario.

Ormai era mattino, e Corcoran si alzò in piedi. Andò a prendere acqua alla fonte, poi cibo nel viaggiatore. Ritornò accanto al fuoco per cuocersi frittelle di granturco, farsi un caffè e friggersi il prosciutto. Diavolo, si disse, è come essere al campeggio.

Cercò di sentirsi triste per David, ma non riuscì a rattristarsi più che tanto. L'orrore della sua morte, o meglio, l'orrore delle circostanze della sua morte, lo faceva rabbrividire, ma cercò di non ripensarci. Doveva toglierselo molto in fretta dalla sua testa.

Sentì nella mente una sorta di solletico. Veniva dall'esterno.

“Eh, eh, eh” rideva scioccamente.

Si sentì prendere dalla collera.

— Va' all'inferno! — gridò al mostro.

“Eh, eh, eh” continuò a ridacchiare il mostro. “Il tuo amico è morto, mentre io sono ancora vivo”.

— Ti augurerai un milione di volte di essere morto, prima che tutto sia finito.

“Anche tu morirai” continuò il mostro “e molto prima di me. Sarai polvere e ossa”.

Corcoran non rispose. Era stato colto da un sospetto. Che fosse stato il mostro a inviare contro David la tigre assassina?

Era una sciocchezza, pensò poi. Doveva essere paranoico, per avere questi sospetti. Fece colazione, poi lavò e asciugò piatti e padelle, usando come strofinaccio un pezzo di tela strappato dalla sua camicia. Pòi si recò al viaggiatore e trovò una pala. Scavò un buco e vi seppellì lo stivale con il piede dentro. Per motivi igienici, disse a se stesso; non intendeva trasformare la cosa in una cerimonia.

Prese le frittelle che aveva avanzato e le avvolse in un fazzoletto, che poi si infilò in tasca. Cercò tra le provviste contenute nel viaggiatore, per vedere se ci fosse una borraccia, ma non ne trovò. Privo di borraccia, riempì d'acqua il secchio. Era scomodo da portare, ma non aveva altro.

Munito del fucile e del secchio, si avviò lungo il piano; dopo qualche chilometro girò a sinistra e cominciò a muoversi in cerchio, girando attorno alla collinetta. Studiò attentamente il terreno per scorgere eventuali tracce di Boone.

Per due volte trovò quella che gli sembrava una traccia umana. Le seguì entrambe, ma non poté avere la sicurezza che fossero quelle giuste. Tutt'e due le volte, dopo qualche tempo perse la pista. Era inutile, si disse. Lo sapeva fin dall'inizio, ma in ogni caso era un tentativo da fare. Lui e Boone si conoscevano da molto tempo. Di tanto in tanto si erano dati una mano. Boone era una sorta di amico per lui. E lui aveva sempre avuto pochi amici.

Ogni tanto incontrò qualche lupo che, brontolando, si tolse dalla sua strada, sedendosi da parte, in attesa che lui passasse. Da dietro un cespuglio saltò fuori un animale simile a un daino che scappò via. Passò a qualche centinaio di metri da una piccola mandria di bisonti. In lontananza, scorse quello che doveva essere un gruppo di mastodonti, anche se erano troppo lontani da lui per accertarsene. Potevano essere benissimo dei mastodonti si disse; l'epoca era giusta.”

Quando il sole giunse nel punto più alto, Corcoran si fermò a riposare all'ombra di un albero. Mangiò le frittelle e bevve l'acqua tiepida del secchio.

Probabilmente, si disse, era meglio ritornare alla collinetta. Era partito con l'intenzione di fare un giro completo attorno a essa, e aveva già fatto mezzo giro nella parte ovest. A est non c'era niente, soltanto la pianura, che si stendeva fino a confondersi con l'orizzonte e che era del tutto vuota. Boone non poteva essere andato che a ovest. Corcoran rifletté per qualche istante, chiedendosi se non fosse il caso di ripercorrere in senso inverso la strada fatta fino a quel momento, ma controllando con maggiore attenzione.

Terminò le frittelle e bevve un'altra sorsata d'acqua tiepida. Stava per ripartire, quando sentì una presenza. Tese l'orecchio. Non c'era niente di udibile, ma il senso di una presenza era sempre più forte.

Parlò con esitazione, dubbioso: — Henry?

“Sì, sono io” disse Henry.

— Hai saputo di David?

“Sì. L'ho saputo quando sono ritornato. E non ti ho più visto. Sono venuto a cercarti”.

— Mi spiace per David.

“Spiace anche a me. Un fratello insostituibile. Un uomo nobile”.

— Sì. Nobilissimo.

“È stato ucciso da una tigre” disse Henry. “Ho seguito le tracce della bestia e alla fine l'ho trovata, ancora intenta a divorarlo. Ne restava ben poco. Com'è stato?”.

— Era di guardia. Quando mi sono svegliato ho scoperto cos'era successo. Non ho sentito rumori. La tigre l'ha portato via.

“Ho visto una tomba. Molto piccola”.

— Un suo stivale. Con il piede dentro. L'ho sepolto.

“Grazie di ciò che hai fatto. Hai fatto quello che avrebbe fatto uno della famiglia”.

— Tu sai dove si trova il corpo. Potrei portare la pala e allontanare la tigre.

“Sarebbe inutile. Un gesto vuoto. Vedo che hai il fucile. Lui non l'ha usato?”

— Deve essere stato colto di sorpresa.

“In qualsiasi caso” disse Henry “David non avrebbe sparato. Era troppo gentile per questo mondo. Il viaggio è andato male. Per tutti. Prima abbiamo perso Enid, e poi Boone”.

— Sai qualcosa di Boone? Hai notizie di lui?

“Ho scoperto dov'era andato, ma non c'è più. C'erano un pacco e un fucile, ma lui era sparito. Credo che ci fosse anche un lupo. Mi spiace, Corcoran”.

— Credo di capire che cosa gli è successo. Ha girato dietro uno dei suoi angoli. Spero solo che rimanga nel luogo d'arrivo e non torni indietro di nuovo.

“Che cosa intendi fare? È inutile rimanere qui”.

Corcoran scosse la testa. Aveva già pensato a possibili destinazioni, per prima cosa ritornare alla sua New York, e aveva scartato l'idea perché voleva trovare Boone. Ma adesso si erano perse le possibilità di trovarlo.

Ripensò al ventesimo secolo, ma anche ora lo rifiutò. In tutta la sua vita non aveva mai voltato la schiena davanti a un'avventura, finché non si era conclusa. E questa avventura, pensò, era lungi dall'esserlo.

Poteva ritornare a Hopkins Acre. Le coordinate erano sul libro di David. La vita a Hopkins Acre sarebbe stata piacevole. Laggiù c'erano ancora i servitori e i contadini. Era un posto dove poteva fermarsi in tutta sicurezza a riflettere sulla sua situazione e a fare un piano di azione. Ed era possibile che qualcuno degli altri ritornasse laggiù.

Ma c'era un altro luogo, con le rovine di una città, e sopra a quelle un albero altissimo circondato da una scala elicoidale. Laggiù ci doveva essere qualche mistero, ed era meglio andare a dare un'occhiata.

Henry aspettava una risposta. Corcoran riusciva a vedere il suo luccichio, una nube di faville che scintillava al sole.

Invece di rispondere alla domanda di Henry, Corcoran gli chiese: — A quanto ho capito, ti sei fermato a pochi passi dalla smaterializzazione. Puoi spiegarmi com'è successo?

“Si è trattato di un errore di giudizio da parte mia” disse Henry. “Mi sono lasciato convincere dagli Infiniti. Mi ero messo a frequentarli per curiosità, chiedendomi che razza di creature fossero veramente. Ed erano davvero strane, capisci. Sono lontanamente umanoidi. Ma di solito non si lasciano guardare. Entrano ed escono come spettri. Comunque, visibili o no, senti sempre la loro voce. Predicano, ti presentano i loro ragionamenti, ti implorano. Ti mostrano la via dell'immortalità e ti elencano gli interminabili piaceri, gli interminabili trionfi dell'immortalità. E l'immortalità intellettuale, così ti dicono, è l'unica strada che si possa scegliere. Tutto il resto è grossolano, approssimativo, vergognoso. Nessuno desidera vergognarsi”.

— E sono riusciti a convincerti?

“Mi hanno convinto” disse Henry “Ma mi hanno convinto in un momento di debolezza. Superato quel momento, mi opposi a loro. Rimasero molto stupiti, nel vedere la temerarietà con cui resistevo loro, e si misero a lavorare duramente su di me per convincermi. Ma quanto più insistevano, tanto più mi ostinavo io. Mi sono infine liberato di loro, o forse sono stati loro a cacciarmi via, disgustati. Forse mi avevano già dedicato troppo tempo. Ma quando me ne andai, il processo era ormai già arrivato a un punto troppo avanzato; ero giunto a metà strada dalla smaterializzazione. Ero come mi vedi adesso”.

— Non mi sembri preoccupato della cosa.

“Ci sono vantaggi e svantaggi, e io ritengo che i primi superino i secondi. Almeno, questo è ciò che mi dico. Ci sono molte cose normalissime che non posso fare, ma ho capacità che nessun essere umano possiede. Io cerco di approfittarne, lasciando perdere quello che ho perso”.

— E, adesso, cosa intendi fare?

“Devo ancora rintracciare alcuni componenti della mia famiglia, Horace ed Emma… e Timothy, che è stato portato di forza nel viaggiatore da quel prepotente di Horace”.

— Sai dove cercarli?

“No. Dovrò seguire le loro tracce”.

— Puoi serviti del viaggiatore per seguirli? Io potrei mettermi ai comandi.

“No, devo servirmi delle mie forze. Devo ritornare a Hopkins Acre e seguire la traccia da laggiù. Sarà debole e sottile, ma sarà ancora presente. Dici che sei capace di usare il viaggiatore?”

— Sì. So dov'è il giornale di bordo e ho guardato David mentre inseriva le coordinate, quando siamo venuti qui.

“Forse, la cosa più consigliabile è che tu ritorni a Hopkins Acre. Credo che il posto sia sicuro. Qualcuno di noi potrebbe poi ritornare a prenderti. Le coordinate sono scritte sul libro di bordo. Sei sicuro di essere in grado di far funzionare il viaggiatore?”

— Sì — disse Corcoran. — Ma non voglio ancora andare a Hopkins Acre. Prima voglio recarmi di nuovo nel posto dove hai trovato me e David. Devo esaminare una cosa che c'è laggiù.

Diversamente da quanto si aspettava Corcoran, Henry non gli chiese spiegazioni. Anzi, Corcoran ebbe l'impressione che l'altro gli rivolgesse un'alzata di spalle.

“Come vuoi” gli disse. “Tu sai dove vai, e anch'io so dove vado. Meglio affrettarci”.

E all'improvviso, Henry sparì.

Corcoran si alzò in piedi. Boone non si trovava più in quel tempo e in quello spazio, e non c'era motivo di rimanere laggiù. Sapeva dove andare, e, come aveva detto Henry, era meglio non perdere tempo.

Quando raggiunse il campo, la zona era completamente deserta. Non c'era segno della tigre, e nemmeno dei lupi. Corcoran depose tutte le stoviglie sulla tovaglia, ne fece un fagotto e se lo mise in spalla.

Una voce gli parlò nella mente: “Eh, eh, eh” gli disse.

Nell'udirla, Corcoran girò sui tacchi e si voltò verso il mucchio di rottami. La risata continuò.

Corcoran si avviò verso i rottami.

— Smettila! — gridò. — Non ridere, maledetto!

La risata s'interruppe e cominciò il piagnucolio.

“Caro signore, voi siete pronto alla partenza. State raccogliendo le vostre cose per andarvene. Vi prego, portatemi con voi. Non ve ne pentirete. Posso fare molte cose per voi. Posso ripagarvi della vostra gentilezza. Sarò eternamente vostro amico. Portandomi con voi non vi darò nessun fastidio. Peso poco e non occupo molto spazio. Non c'è neppure bisogno di cercarmi. Sono dietro i rottami del mio corpo. Sono una scatola cerebrale, una sfera lucida, sopra una mensola faccio un gran figurone, nell'arredamento. E inoltre sono un eccellente argomento di conversazione. Potete usarmi in molte maniere. Quando siete solo e desideroso di compagnia, noi due potremmo conversare in modo simpatico e istruttivo. Ho un buon cervello e sono molto bravo nella logica. In certi momenti posso anche essere un utile consigliere. E sarò sempre vostro amico, in fedeltà e gratitudine…”

— No, grazie — disse Corcoran, girando sui tacchi e dirigendosi verso il viaggiatore.

Dietro di lui, il mostro assassino continuò a piagnucolare, a implorare e a promettere. Poi il piagnucolio cessò e si levò una ventata d'odio.

“Maledetto figlio di puttana, non mi dimenticherò mai di questo affronto. Riuscirò a prenderti, prima o poi. Verrò a ballare sulla tua tomba”.

Corcoran, per niente impressionato, salì sul viaggiatore.

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