6. Enid e Boone

La luce fece ritorno: le luci scintillanti del pannello e la debole luce solare proveniente da un piccolo oblò d'osservazione.

Boone riuscì a rimettersi in ginocchio, cercò di alzarsi in piedi. Ma picchiò dolorosamente la testa contro il soffitto evidentemente molto basso.

— Questi veicoli sono molto piccoli — disse Enid, parlando con tranquillità, senza eccitazione. — Bisogna strisciare sulle ginocchia.

— Dove ci troviamo?

— Non lo so con sicurezza. Non ho avuto la possibilità di scegliere un tempo e un luogo. Ho soltanto dato l'ordine: «Via!» a tutta velocità.

— È stato un bel rischio, vero?

— Certo. Ma volevate che rimanessi laggiù, e che lasciassi distruggere il viaggiatore da quel mostro?

— No, certo no. Non volevo criticare.

— Sto controllando — disse Enid, chinandosi sul pannello. — Leggo la misura del tempo. Non so ancora in che anno siamo; è meglio guardare.

— E che valore dà?

— Misurato dal nostro momento di partenza, più di cinquantamila anni nel passato. Per l'esattezza, 54.100.

— Cinquantamila avanti Cristo?

— Proprio così — disse la donna. — Siamo in una pianura vastissima. Lontano s'innalzano delle colline. Colline con una forma strana.

Boone si spinse avanti, si affiancò a lei e guardò nello schermo.

Intorno a loro il terreno era coperto d'erba, e più avanti s'innalzavano colline tozze e brulle. Lontano si scorgevano delle macchie che parevano una mandria intenta a brucare.

— Siamo in America, credo — disse Boone. — Nelle pianure occidentali. In un punto degli Stati Uniti del sudovest, probabilmente. Non posso spiegare come lo so. Ma lo sento. Nella mia epoca è un deserto, ma cinquantamila anni prima era un buon pascolo.

— C'è gente?

— Poco probabile. Le teorie più attendibili dicono che l'uomo è arrivato in queste zone quarantamila anni prima della mia epoca. Forse più tardi. Gli scienziati potrebbero sbagliarsi, naturalmente. Comunque, è l'America dell'Era glaciale. Il settentrione è coperto di ghiacci.

— Siamo abbastanza al sicuro, allora. Non ci sono indigeni assetati di sangue. E neppure carnivori affamati.

— Ci sono carnivori, ma c'è molto cibo a loro disposizione. Non dovrebbero occuparsi di noi. Avete qualche idea di dove siano gli altri?

Enid alzò le spalle. — Ciascuno ha pensato per sé.

— E Timothy? Diceva di non volersene andare.

— Credo che sia partito anche lui. Il vostro amico Corcoran è rimasto indietro. Vedendo cosa vi era successo, si è messo a gridare perché qualcuno vi aiutasse. David lo ha raccolto di peso e lo ha infilato nell'altro viaggiatore piccolo. Poi sono partiti, senza badare a noi.

— Voi mi avete aspettato.

— Non potevo abbandonarvi in balia di quel mostro.

— Credete che sia stato quel mostro a distruggere la base di Atene?

— Probabilmente. Ma non c'è modo di saperlo. Voi conoscete il posto dove ci troviamo?

— Se siamo nel sudovest degli Stati Uniti, ci sono già stato. Un paio di volte, in vacanza. Mi sembra la stessa zona, a meno che non ci siano altri posti che hanno lo stesso tipo di caratteristiche. Ma nel resto del mondo non ho visto zone simili.

— Il cibo e il resto che Horace ha collocato nei viaggiatori dovrebbero trovarsi nel fondo. In ciascun viaggiatore ha messo delle scorte, ma aveva fretta e probabilmente non ha prestato molta attenzione alla cosa. Mi pare che abbia messo proprio nel nostro viaggiatore il fucile di Timothy, quello acquistato da David a New York.

— Intendete uscire, adesso?

— Credo che dovremmo farlo. Qui dentro si soffoca. Usciamo a sgranchirci le gambe, diamo un'occhiata in giro, decidiamo con calma il da farsi.

— Avete qualche idea di cosa possiamo fare?

— Nessuna. Ma in un posto come questo dovremmo avere un po' di tempo, prima che riescano a trovarci. Anche se forse è impossibile trovarci.

Strisciando all'interno del viaggiatore, Boone trovò il fucile, uno zaino, alcune coperte, qualche altro pacchetto sistemato a casaccio. Li raccolse tutti insieme mentre Enid apriva il portello.

Accovacciato sulla soglia, Boone esaminò il fucile. C'era un colpo in canna, e altri cinque nel caricatore. Si augurò che nei pacchi ci fossero altre munizioni.

— Rimanete qui per il momento — disse a Enid. — Datemi la possibilità di controllare cosa c'è fuori.

Balzò a terra, e si raddrizzò non appena i suoi piedi toccarono il terreno. Sollevò il fucile, pronto a sparare. Ma era una sciocchézza, si disse. Là non c'era niente. Se si trovava davvero nel sudovest del Nordamerica del 50.000 avanti Cristo, attorno a lui c'erano soltanto le mandrie e i predatori in agguato. Era molto improbabile che facessero la posta a qualche essere umano disperso, che probabilmente non valeva molto, come cibo.

Aveva ragione. Non c'era niente. Il territorio era vuoto, a parte le macchie lontane da lui già viste in precedenza, e che, come aveva già supposto erano animali selvatici al pascolo.

Il viaggiatore si era fermato ai piedi di una delle collinette che s'innalzavano qua e là nella pianura. Un poco più in alto si scorgeva un boschetto di alberi stentati: ginepri, probabilmente. A parte gli alberi e qualche fazzoletto d'erba, la collina era brulla. Di tanto in tanto, sul fianco, si scorgevano stratificazioni di arenaria.

Enid uscì dal viaggiatore e venne accanto a lui, senza parlare.

— È tutto nostro — disse Boone. — Il viaggiatore ha scelto bene. A parte qualche deserto non avrebbe potuto scegliere un posto altrettanto fuori mano.

— Il viaggiatore non c'entra — disse lei. — È stato tutto un caso.

Il sole era a tre quarti del suo corso. Almeno, Boone si disse che doveva essere a tre quarti, e non a un quarto. Era convinto che fosse pomeriggio. Il motivo di questa convinzione gli sfuggiva.

Nel cielo volteggiava un uccello solitario, che non muoveva le ali e che si lasciava trasportare dalle correnti d'aria; un becchino alla ricerca del pasto. Qua e là spuntava qualche grosso masso. Da uno di essi si affacciò una creatura che strisciava. Strisciò sulla sabbia ai piedi del masso e si allontanò da loro.

— Da lui e dai suoi compagni dobbiamo guardarci — disse Boone.

— È un serpente? Di che razza?

— Sonagli. Velenoso.

— Non li conosco. Le mie conoscenze sui serpenti sono molto limitate. Penso di averne visti solo due o tre in tutta la mia vita.

— Alcuni possono essere pericolosi. Non dico mortali, ma pericolosi sì.

— E il serpente a sonagli?

— Molto pericoloso. Quasi letale. Ma avverte sempre la vittima con il suono del sonaglio che ha sulla coda. Almeno, se non sempre, gran parte delle volte.

— Avete chiesto cosa dobbiamo fare. E io ho detto di non averne idea. Voi, invece, ne avete?

— È ancora presto — disse Boone. — Siamo appena arrivati. Con la vostra azione ci avete messo a disposizione un po' di tempo.

— Intendete rimanere qui?

— Non per molto. Qui non c'è niente che ci trattenga: anzi, non c'è niente, e basta. Ma possiamo fermarci tranquillamente per un po'; per raccogliere i nostri pensieri e per esaminare tutta la situazione. Nel frattempo possiamo guardarci attorno.

Si avviò lungo la base della collinetta. Enid lo seguì.

— Che cosa cercate?

— Niente di preciso, a dire il vero. Voglio solo controllare l'aspetto generale della zona, per avere un'idea della regione in cui ci troviamo e di ciò che possiamo trovare. È possibile che ai piedi di questa collinetta ci sia una sorgente. Un po' più in alto c'è dell'arenaria, che è una roccia permeabile. A volte, se incontra uno strato meno poroso, l'acqua sgorga all'aperto.

— Conoscete le cose più strane.

— Semplici conoscenze da boy scout. Ho imparato come funziona la natura.

— Siete un barbaro, Boone.

Lui rise. — Certo, sono un barbaro. Che cosa vi aspettavate?

— Anche i miei familiari erano dei barbari, nella nostra epoca d'origine. Ma barbari diversi da voi. Avevamo già perso il contatto con quella che voi chiamate natura. Alla nostra epoca, la natura che rimane è molto poca. Natura selvaggia, intendo dire.

Dal fianco della collinetta sporgeva uno spezzone tagliente di roccia calcarea. Quando si avvicinarono, da dietro la roccia balzò fuori un animale grigio, che corse per una quindicina di metri e poi si fermò, voltandosi nella loro direzione per guardarli.

Boone rise. — Un lupo! — esclamò. — Uno dei grandi lupi delle praterie. È perplesso, non capisce cosa siamo.

E il lupo aveva davvero un'aria perplessa. Si allontanò da loro con cautela, danzando una sorta di balletto bizzarro, e poi, accertatosi evidentemente che non rappresentavano un pericolo, si sedette con molto sussiego, avvolgendosi comodamente la coda sulle zampe. Sorvegliandoli attentamente, sollevò il labbro superiore, come per ringhiare, ma poi lo riabbassò, nascondendo nuovamente le zanne.

— Qui attorno — disse Boone — ce ne devono essere altri. Di solito i lupi non viaggiano da soli.

— E sono pericolosi?

— Se sono affamati, suppongo di sì. Ma questo sembra ben nutrito.

— Lupi e serpenti a sonagli — commentò Enid. — Non sono certa che il posto mi piaccia.

Quando giunsero all'estremità dello spuntone di roccia, Boone sì fermò di scatto, ed Enid, che lo seguiva a un passo di distanza, gli finì contro la schiena.

Lo spuntone faceva una curva verso l'interno della collinetta, e poi si protendeva di nuovo verso l'esterno, formando una sorta di nicchia. All'interno della rientranza c'era una bestia enorme.

Una grande testa nera, pelosa, con due corna massicce che misuravano almeno un metro e mezzo da punta a punta: questo fu ciò che Boone scorse. La testa era piegata verso il basso. Una lunga barba che spuntava dalla mandibola strisciava sul terreno.

Boone prese Enid per il braccio e indietreggiò lentamente. In mezzo ai ciuffi intricati dei peli, gli occhi della bestia, bordati di rosso, li fissavano minacciosi.

— State calma — avvertì Boone. — Niente mosse brusche. Potrebbe gettarsi alla carica su di noi. I lupi lo hanno inferocito. È un animale vecchio e disperato.

Raggiunto lo spuntone di roccia da cui iniziava la rientranza, Boone si fermò. Lasciò Enid e sollevò i fucile, senza prendere la mira.

— Un bufalo — disse. — Un bisonte. Gli americani lo chiamano bufalo.

— È enorme!

— Un vecchio maschio. Peserà una tonnellata, forse più. Non è il bisonte del ventesimo secolo. È una razza più antica. Forse è il Latifrons. Non so.

— Avete parlato dei lupi. Ma i lupi non possono essere una minaccia per lui.

— È vecchio, e probabilmente è malato. Alla fine, i lupi riusciranno a stancarlo. I lupi sono pazienti, sanno attendere. Ormai il bisonte è con le spalle al muro, e questa è la sua ultima linea di resistenza.

— Dietro di lui ci sono un paio di lupi. Un altro è salito sulla collinetta.

— Ve l'ho detto — disse Boone. — Cacciano in gruppo.

— Povero bisonte — disse Enid. — Non possiamo fare niente per aiutarlo?

— Il miglior favore che possiamo fargli è quello di ucciderlo, ma adesso non posso farlo. Può avere ancora una possibilità di cavarsela, anche se ne dubito. Vedete quell'uccello, lassù in alto?

— L'ho visto prima. Vola in cerchio.

— Sta aspettando. Sa già quale sarà la conclusione. Quando i lupi avranno finito, resterà ancora qualcosa per lui. Andiamo via. Cercheremo l'acqua da qualche altra parte.

Poco più tardi riuscirono a trovare l'acqua, un piccolo rigagnolo che usciva da uno strato di arenaria. L'acqua sgorgava e non andava lontano: presto veniva assorbita dal terreno asciutto; formava una piccola macchia umida che spariva nel suolo. Boone scavò una pozza che le permettesse di raccogliersi, poi fece ritorno con Enid al viaggiatore per procurarsi un recipiente. L'unica cosa che riuscirono a trovare fu un secchio. Quando fecero ritorno al foro, l'acqua che si era raccolta era sufficiente per riempire il secchio.

Boone guardò il sole ed ebbe la conferma delle sue supposizioni. Era pomeriggio. L'astro si era notevolmente abbassato sull'orizzonte.

— Tra quegli alberi di ginepro ci sarà certo della legna da ardere — disse. — Ci occorrerà un fuoco.

— Purtroppo non abbiamo un'ascia — disse Enid. — Ho controllato l'equipaggiamento lasciato nel viaggiatore da Horace. Cibo, coperte, il secchio, una padella, un accendino, ma non un'ascia.

— Cercheremo di farne a meno — disse Boone.

Con un paio di viaggi fino alla macchia di ginepro si procurarono legna a sufficienza per le esigenze di una notte. Verso il tramonto Boone accese il fuoco, mentre Enid frugava nello zaino per prendere il cibo.

— Penso che possiamo mangiare il prosciutto — disse Enid. — C'è anche del pane. Cosa ne dite?

— Ottimo, direi — disse Boone.

Seduti accanto al fuoco, mangiarono pane e prosciutto mentre si faceva buio. In un punto indeterminato, vicino a loro, un lupo alzava il suo lamento, e da zone più lontane giungevano altri suoni che Boone non riusciva a riconoscere. Quando l'oscurità divenne più profonda spuntarono le stelle, e Boone, sollevando lo sguardo al cielo, cercò di capire se ci fossero stati cambiamenti nelle costellazioni. In un paio di casi gli parve di scorgerne, ma le sue conoscenze di astronomia erano troppo limitate per averne la certezza. Dietro il fuoco, a una certa distanza, si scorgevano macchie di luce, vicine tra loro a due a due.

— Sono lupi? — domandò Enid.

— Probabilmente. È possibile che non abbiano mai visto un fuoco. E non hanno mai visto un uomo, non lo hanno mai fiutato. Sono curiosi, e probabilmente sono un po' spaventati. Apprensivi, se non altro. Si avvicineranno furtivamente e ci sorveglieranno. Non credo che faranno altro.

— Ne siete sicuro?

— Sì, abbastanza — disse Boone. — Hanno già allontanato il bisonte dal branco. Quando saranno affamati, si getteranno su di lui. Forse morirà un lupo o due, ma gli altri mangeranno. Aspettano che si indebolisca ancora un poco, prima di saltargli addosso.

— È orribile — disse lei. — Questo modo di mangiarsi uno con l'altro.

— Non sono diversi da noi. Il prosciutto che abbiamo mangiato…

— Certo. Certo. Ma nel caso del prosciutto c'è una differenza. Quel maiale è stato allevato apposta per essere macellato.

— Ma quando si arriva alla radice della cosa, una creatura muore perché un'altra possa sopravvivere.

— Quando si arriva alla radice della cosa — disse lei — nessuno di noi è davvero civile. Ma c'è un'altra cosa che mi lascia perplessa. Quando vi siete liberato del cespuglio di rose, e vi siete messo a correre verso il viaggiatore, con il mostro alle spalle, ero convinta di vedervi sparire.

— Sparire? E perché dovevo sparire?

— Ce l'avete detto voi, ricordate? Che riuscite a sparire dietro gli angoli…

— Ah, quello. Forse non ero convinto che il mostro fosse un pericolo mortale. C'eravate voi ad aspettarmi, e il portello era aperto. Questo «girare dietro gli angoli» è probabilmente l'ultima risorsa in caso di pericoli gravi.

— E qualcos'altro. A New York avete girato l'angolo, portando con voi Corcoran, e vi siete trovato nel viaggiatore di Martin. Ma le altre volte, dove siete andato a finire?

— Strano — rifletté lui. — Non ricordo. Probabilmente ci sono rimasto soltanto per poco tempo. Qualche attimo, e poi sono ritornato indietro nel mio mondo.

— Credo si sia trattato di più di «qualche attimo» — disse Enid. — Ci siete rimasto per tutto il tempo necessario perché passasse il pericolo.

— Sì, avete ragione, ma non ho mai cercato di spiegarmi la cosa. Credo di avere cercato di cancellarla dalla mente. Era una cosa molto strana, sconvolgente. Ricordo di essermi detto, una volta, che forse era da attribuire a uno sfasamento del tempo, ma poi ho lasciato perdere questo tipo di riflessioni. Erano troppo inquietanti.

— Ma dove vi trovavate? Dovete avere avuto qualche impressione del luogo.

— È sempre stata un'esperienza molto confusa, come se fossi in mezzo a una fitta nebbia. Nella nebbia c'erano degli oggetti, ma non è che io li vedessi veramente. Avevo solo la sensazione che ci fosse qualcosa, ed era proprio questa sensazione a spaventarmi. Ma, ditemi, perché la cosa vi interessa?

— Il tempo, è questo l'aspetto che mi interessa. Ho pensato che probabilmente vi muovete nel tempo.

— Non sono certo che si tratti del tempo. È solo un'impressione. Ma mi forniva la spiegazione di una cosa impossibile. Siamo sempre portati a cercare delle risposte, che di solito sono risposte facili e poco complicate. Anche se a volte sono incomprensibili.

— Noi abbiamo il viaggio nel tempo — disse lei — ma nessuno di noi, ne sono certa, lo capisce pienamente. È una conoscenza che abbiamo rubato agli Infiniti. Rubare il viaggio nel tempo era l'unica possibilità di colpirli, l'unica che ci permettesse di fuggire. La razza umana disponeva del viaggio nello spazio interstellare prima che gli Infiniti facessero la loro comparsa. Credo che sia stato proprio il viaggio interstellare a richiamare su di noi la loro attenzione. Spesso mi sono chiesta se quel che ha reso possibile il nostro viaggio interstellare a velocità molto superiore a quella della luce non sia uno dei principi fondamentali del viaggio nel tempo. Il tempo è sempre collegato allo spazio, ma non ho mai capito bene in che modo.

— Questo viaggio nel tempo che voi utilizzate lo avete rubato agli Infiniti. Eppure dite di essere barbari. Accidenti, non siete affatto barbari! Chi è in grado di rubare concetti temporali e di tradurli in pratica…

— Là nel futuro, ne sono certa, c'erano altri che avrebbero potuto usare il viaggio nel tempo meglio di noi. Ma a loro non interessava. Non si interessavano più dei meccanismi, neppure di meccanismi complicati come quelli dei viaggi nel tempo. Avevano raggiunto un piano superiore.

— Erano dei decadenti — disse Boone. — Avevano rinunciato alla loro umanità.

— Che cos'è l'umanità? — domandò lei.

— Non mi credereste. Ma adesso siete qui, e non lassù, tra un milione di anni.

— Capisco. Eppure, come si può essere certi di qualcosa? Horace è sempre assolutamente sicuro di tutto ciò che dice, ovviamente, ma Horace è un fanatico. Ed Emma è certa che Horace abbia ragione, ma questa è una fede stupida e cieca da parte sua. Quanto a David, non so. È una sorta di ragazzone spensierato. Non so fino a che punto si interessi veramente di quanto lo circonda.

— Io penso che se ne interessi — disse Boone. — Nel momento cruciale, quando si tratta di prendere una decisione importante, non è più così spensierato.

— C'erano tante altre cose che la razza umana avrebbe potuto fare — rifletté Enid. — E tante che si potrebbero ancora fare. E poi, se la storia non mente, all'improvviso l'umanità ha perso ogni interesse e non ha più voluto fare niente. È possibile che nella sua intelligenza ci fosse una sorta di sistema frenante, che l'ha portata a rallentare il ritmo del suo progresso? Ci ho pensato e ripensato infinite volte. Ma è come un serpente che si morde la coda. Io ho la disgrazia di non poter fare a meno di osservare e di considerare tutti i lati di un problema, tutte le impostazioni che si presentano.

— Fareste meglio a rallentare il ritmo — disse Boone. — Non potete risolvere tutto questa notte stessa. Dovreste ritornare nel viaggiatore, dormire un poco. Accanto al fuoco resterò io, e lo terrò acceso.

— I lupi vi salteranno addosso.

— No, ho il sonno leggero. Mi sveglierò a intervalli regolari per alimentare il fuoco; e finché vedranno le fiamme, i lupi si terranno a distanza.

— Preferirei rimanere con voi. Mi sentirei più tranquilla.

— A voi la scelta — disse Boone. — Nel viaggiatore sareste più al sicuro.

— Nel viaggiatore mi sentirei soffocare. Andrò a prendere delle coperte. Voi la volete, una coperta, vero?

Boone annuì. — Con la notte, qui, può scendere il freddo.

La luna stava sorgendo: un grande disco giallastro e maculato che rimaneva sospeso sopra le colline nude e grigie. La terra sembrava vuota. Non c'era niente che si muoveva, niente che emetteva un suono. Anche i lupi che lo sorvegliavano da lontano si erano ritirati; dal bordo della zona illuminata non c'erano occhi luccicanti che riflettevano la luce delle fiamme. Poi, alla luce della luna, Boone scorse un'ombra che si muoveva. I lupi erano ancora là, capì, come ombre galleggianti. Gli parve che quella terra divenisse immediatamente meno vuota e meno sola.

Enid fece ritorno, dopo essersi recata nel viaggiatore, e gli diede una coperta.

— Una coperta sarà sufficiente? — domandò.

— Sì. Me la metterò sulle spalle.

— Volete dire che dormirete seduto?

— Non è la prima volta — disse Boone. — Serve a tenersi sveglio. Se uno si addormenta, la posizione lo fa subito svegliare.

— Non ho mai sentito tante sciocchezze — commentò Enid. — Voi siete davvero un barbaro.

Lui rise.

Mezz'ora più tardi, quando si alzò per mettere altra legna sulle braci, Boone vide che la donna si era addormentata, avvolta nelle coperte.

Riattizzato il fuoco, Boone si rimise a sedere, si tirò la coperta sulle spalle, si infagottò per bene, e si posò il fucile sulle ginocchia.

Più tardi, quando si svegliò, la luna era alta nel cielo. Il fuoco si stava spegnendo, ma rimaneva ancora un po' di legna. Boone chinò la testa e si addormentò per qualche istante; poi, destandosi all'improvviso, scorse una figura, seduta dirimpetto a lui, dall'altra parte del fuoco. La figura indossava quello che sembrava un mantello di foggia imprecisata, e portava un cappello conico, che le copriva la faccia. Boone rimase tranquillamente a sedere, senza muoversi, ancora ottenebrato dal sonno. Socchiudendo gli occhi, osservò la figura seduta davanti a lui, chiedendosi vagamente se c'era davvero qualcuno o se era un'allucinazione del sonno. La figura non si mosse. Era un lupo, così distorto dalle nebbie deformanti del sonno da sembrare un uomo seduto? Un lupo che sedeva a tenergli compagnia, dall'altra parte del fuoco? No, non era un lupo, si disse Boone, per rassicurarsi. Costringendosi a uscire dal sonno, si alzò faticosamente in piedi. Ma al primo movimento, la cosa al di là del fuoco si dileguò. Laggiù non c'era niente, si disse Boone; era stato soltanto un sogno a occhi aperti.

Usando un lungo bastone per riunire in un solo mucchio le braci sparse qua e là e i rami mezzi bruciati, riattizzò la fiamma. Poi, avvolgendosi strettamente nella coperta, si addormentò di nuovo.

Si svegliò gradualmente, come ci si desta di solito, ma con una sorta di avvertimento nel cuore. Perplesso aprì leggermente le palpebre e vide un lupo, seduto davanti a lui, quasi faccia a faccia. Aprendo gli occhi un poco di più, si trovò a fissare un paio di pupille gialle, bestiali, che lo fissavano senza battere.

Tutta la sua mente gli gridava di fare qualcosa, ma Boone si mantenne immobile. Al primo movimento brusco, lo sapeva, quelle pesanti mascelle potevano portargli via metà della faccia.

Il lupo sollevò il labbro superiore come se avesse intenzione di ringhiare, ma poi lo lasciò ricadere. Fu l'unica sua parte che si mosse.

Stranamente, Boone provò un folle desiderio di ridere di quella folle situazione, in mezzo a una regione primordiale. Un lupo e un uomo che sedevano con la faccia dell'uno pressocché a contatto con il muso dell'altro. Parlò a voce bassa, quasi senza muovere le labbra: — Ehi, bello. — Al suono della sua voce, il lupo indietreggiò di qualche decina di centimetri.

Il fuoco era quasi spento, vide Boone. La sveglia che credeva di avere nel cervello non aveva funzionato, e lui si era addormentato.

Le labbra del lupo si mossero come per ringhiare, ma l'animale non ringhiò. Gli orecchi, che fino a quel momento erano rimasti piegati all'indietro, si spostarono in avanti, come quelli di un cane curioso. Boone provò la tentazione di allungare la mano per accarezzargli la testa, dato che il lupo sembrava abbastanza amichevole. Ma ebbe il buon senso di rimanere immobile. Il lupo indietreggiò ancora un poco, scivolando sull'erba.

Leggermente discosti rispetto al fuoco c'erano altri lupi, che osservavano attentamente, con gli orecchi in avanti, per vedere cosa succedeva.

Con un movimento elegante, il lupo si alzò e si allontanò. Boone rimase a sedere, stringendo le dita sulla canna del fucile, anche se si disse, non aveva bisogno dell'arma. L'incidente era terminato. Sia lui che il lupo avevano dimostrato la loro freddezza, e ormai non c'era più pericolo, sempre ammesso che ce ne fosse stato.

Probabilmente, il lupo non aveva mai avuto intenzione di fargli del male. Il fuoco si era spento, e il lupo si era avvicinato, incuriosito da quella nuova specie di animale che era comparsa nella sua zona di caccia. La curiosità canina lo aveva spinto a controllare che specie di creatura fosse.

Il lupo si stava ormai ritirando, tranquillamente, muovendosi di lato. Poi, con eleganza, gli girò le spalle e si allontanò balzelloni per unirsi ai compagni.

Boone lasciò scivolare a terra la coperta e si alzò in piedi. Il fuoco non si era ancora spento del tutto. Scostò lo strato superficiale di cenere e raggiunse un tizzone ancora acceso: se ne servì per accendere dei piccoli rametti di ginepro. Quando vide una fiamma, gettò altra legna sul fuoco. Alla fine si rialzò in piedi, e vide che i lupi erano scomparsi.

Esplorando il contenuto dello zaino, trovò un pacco di farina d'avena. Aveva ancora dell'acqua nel secchio, e la versò nell'altro recipiente. Versò la farina, la stemperò nell'acqua, trovò un cucchiaio e cominciò a girare l'impasto. Quando Enid si svegliò e si mise a sedere, Boone era inginocchiato accanto al fuoco, e faceva bollire il suo semolino d'avena. Il cielo cominciava a rischiararsi a oriente, e l'aria era quasi fredda.

Enid si avvicinò al fuoco e tese le mani per riscaldarsele. — Che cosa bolle in pentola? — domandò.

— Semolino d'avena. Spero che vi piaccia.

— Di solito mi piace. Ma suppongo che non ci siano né latte né zucchero. Horace non si sarà certamente ricordato di metterli.

— C'è ancora del prosciutto, e forse anche dell'altro. Quando ho trovato la farina, ho smesso di cercare.

— Penso che potrò mandare giù il semolino. Almeno sarà caldo.

Quando si fu raffreddato abbastanza lo mangiarono così com'era. Enid aveva ragione: non c'erano né latte né zucchero.

Terminata la colazione, Boone disse: — Vado alla fonte a lavare la pentola, e a prendere un po' d'acqua.

— Mentre andate a prendere l'acqua io rimetto tutto nel viaggiatore. Non vorrete lasciare le cose in giro.

— Volete che vi lasci il fucile?

Lei fece una smorfia. — Non so neppure usarlo. Inoltre, non credo che ci sia pericolo.

Boone esitò un attimo, poi disse: — Non lo credo neanch'io. Ma se succede qualcosa, entrate nel viaggiatore e chiudete il portello.

Alla fonte trovò due lupi, che leccavano l'acqua nella pozza che aveva scavato. Si tirarono educatamente indietro, e aspettarono che Boone finisse di lavare la pentola e di riempirla d'acqua. Quando si allontanò, Boone si guardò alle spalle. I due lupi erano ritornati alla fonte e avevano ripreso a leccare coscienziosamente l'acqua.

Al campo, Enid era seduta accanto al fuoco. Agitò la mano per salutare Boone quando lo vide arrivare. Giunto accanto a lei, Boone domandò: — Avete qualche piano.

Lei scosse la testa. — Non ho ancora pensato a niente. Se sapessi dove sono finiti gli altri, potremmo raggiungerli. Ma probabilmente hanno fatto come noi: sono scappati con la massima fretta; un posto valeva l'altro, pur di andarsene.

— Il tempo da esaminare è davvero grande, se non abbiamo idea di dove andare — disse Boone. — Non vale la pena di allontanarci da qui, mi pare, se non abbiamo una destinazione precisa.

— Prima o poi, Henry ci troverà. Penso che sia salito su uno degli altri due viaggiatori.

— «Prima o poi» potrebbe essere un tempo molto lungo — disse Boone. — Non ho voglia di passare la vita in un continente privo di esseri umani. E credo che anche voi la pensiate come me. Potremmo andare in qualche posto più interessante.

— Sì, potremmo farlo — disse lei. — Ma non subito. Se abbiamo lasciato una traccia da seguire, non dobbiamo interromperla. Dovremmo rimanere ad aspettare Henry.

Boone si sedette accanto al fuoco, davanti a lei. — Ci sono posti peggiori — ammise. — Qui non corriamo pericoli. Ma ho l'impressione che presto la vita diventerebbe noiosa. Un po' di pianura e una collinetta, qualche avvoltoio che gira nel cielo, i lupi, i bisonti e l'erba. E non succede mai niente.

— Finiremo il cibo — disse Enid.

— C'è un mucchio di cibo. — Disse Boone. — I bisonti e gli altri animali selvatici. — Sollevò il fucile. — Vivremo finché avremo colpi. Dopo l'ultima cartuccia potremmo fare delle lance, o forse arco e frecce.

— Non ci sarà bisogno di arrivare a questo — disse lei. — Partiremo prima.

Boone allungò la mano verso la pila di legna da ardere, prese alcuni rametti e li gettò sul fuoco. — Dobbiamo andare a procurarci altra legna. Quella che abbiamo sta per finire.

— Questa volta — disse lei — facciamone una buona scorta. Non voglio andare lassù di continuo.

Un basso brontolio, proveniente da un punto vicino a loro, li indusse ad alzarsi in piedi. Il brontolio cessò, poi riprese e divenne un muggito.

— Un bisonte — disse Boone. — Dev'essere nei guai.

Enid rabbrividì. — I lupi lo incalzano.

— Vado a vedere — disse Boone. Si avviò in quella direzione e la donna lo seguì.

— No — le disse lui. — No, voi rimanete qui. Non so cosa potrò trovare laggiù.

Camminando rapidamente, giunse al costone di roccia, fece il giro ed entrò nella rientranza dove aveva trovato il bisonte. L'animale si era addossato alla roccia. Fronteggiava cinque o sei lupi, che si gettavano su di lui con brevi corse, per poi fermarsi improvvisamente e gettarsi di lato, sfuggendo alle cornate con cui cercava di colpirli. Il bisonte muggiva rabbiosamente, ma nella sua collera c'era già una punta di disperazione. Teneva bassa la testa; i suo muggiti erano brevi e aspri. Continuava a ruotare la testa da una parte all'altra per difendersi dalla minaccia dei lupi. Con la barba spazzava il terreno. I fianchi gli tremavano, ed era chiaro che non sarebbe riuscito a resistere ancora per molto, e che presto i suoi nemici sarebbero riusciti ad avvicinarsi.

Boone sollevò il fucile, e attese un attimo prima di portarselo alla spalla. Il bisonte si girò a guardarlo, e Boone scorse il luccichio dei suoi occhi, in mezzo al pelo. Poi abbassò il fucile.

— Non ancora, amico — disse. — Non ancora. Quando si avvicineranno di più, tu riuscirai a colpirne uno o due, e non posso negarti questa soddisfazione.

Il bisonte lo fissava senza battere ciglio. Il suo muggito si ridusse a un mormorio. I lupi, disturbati dall'intrusione di Boone, si allontanarono.

Boone indietreggiò lentamente, sorvegliato dai lupi e dal bisonte. Qui, pensò, sono un intruso. Sono un fattore ignoto e imprevedibile che si è intromesso nel loro ambiente. E qui non c'è niente che mi riguardi, non ho diritto di interferire. Per innumerevoli secoli i vecchi maschi di bisonte, privi di forze, intorpiditi dagli anni, sono stati cibo per i lupi. Qui i lupi sono predatori autorizzati, e i vecchi bisonti le vittime predestinate. Era lo schema prefissato della vita, il modo in cui si svolgevano le cose, e non occorreva la presenza di un arbitro che giudicasse gli uni e gli altri.

— Boone!

Nell'udire il grido, Boone girò sui tacchi e fece il giro del costone, di corsa. Enid era ferma accanto al fuoco e indicava un punto sulla collina: lassù, intento a scendere di gran carriera lungo la pendice, e diretto verso il loro accampamento, c'era l'incredibile mostro che li aveva costretti a fuggire da Hopkins Acre. La ragnatela luccicava sotto i raggi del sole e del mattino. Dall'orlo della rete, l'occhio luccicante si sporgeva a spiare e stava emergendo dalla rete una sorta di scuro meccanismo.

Boone capì di non avere alcuna possibilità di percorrere la distanza che lo separava dal fuoco. Non poteva fare niente per fermare il mostro.

— Correte! — gridò. — Nel viaggiatore, presto!

— Ma, Boone…

— Salvate il viaggiatore! — gridò Boone. — Salvate il viaggiatore!

Enid corse verso il viaggiatore e si tuffò all'interno. Il mostro era quasi giunto all'accampamento: non più di un centinaio di metri lo separavano dal veicolo.

Ansimando, Boone sollevò il fucile. Quell'occhio, pensò. Quell'occhio, grande, rotondo, luccicante. Probabilmente non era il modo migliore, ma non gliene venivano in mente altri.

Il suo dito indice si avvicinò al grilletto, e, mentre stava per sparare, il viaggiatore scomparve. Lo spazio occupato dal veicolo era vuoto. Boone abbassò l'arma. Il mostro raggiunse l'area dove fino a pochi istanti prima c'era stato il viaggiatore, poi girò su se stesso, in modo da trovarsi davanti a Boone. Il grande occhio, che ora sporgeva completamente dalla rete, lo fissava; la rete scintillava al sole. Poi il meccanismo rientrò lentamente all'interno della rete luminosa.

— Bene — disse Boone. — Te la sei voluta.

Aveva sei colpi, e poteva spararne almeno quattro prima che il mostro meccanico lo raggiungesse. Prima l'occhio, poi la rete…

Ma il mostro non cercò di avvicinarsi. Non si mosse affatto. Boone sapeva che il mostro l'aveva visto; aveva la netta sensazione di essere osservato.

Aspettò che il mostro si muovesse, ma quello continuava a rimanere fermo. Il mostro sapeva che Boone era lì, e l'aveva riconosciuto. Ma sapeva, si domandò Boone, che lui non era uno di coloro che doveva cercare? Se il mostro era ciò che sembrava, un robot cacciatore, allora forse era programmato per colpire una limitata quantità di bersagli. Ma poi si disse che la cosa era poco probabile. La via più logica consisteva nell'includere fra i suoi bersagli tutti gli esseri umani che si accompagnavano alle persone provenienti dal futuro.

Boone fece un passo avanti, e attese ancora. Il mostro non si mosse. Che volesse divertirsi come il gatto con il topo, aspettando che fosse sufficientemente vicino per afferrarlo di scatto prima che Boone potesse difendersi?

Non c'era bisogno di avvicinarsi al fuoco, pensò. Laggiù erano rimasti soltanto il secchio e la pentola. Mentre lui era alla fonte, Enid aveva riportato nel viaggiatore il resto delle provviste: il cibo, le coperte, lo zaino. A lui erano rimasti soltanto il fucile e le munizioni.

A questa considerazione, si sentì come nudo. Era abbandonato a se stesso. Enid avrebbe fatto il possibile per ritornare a prenderlo. Ma ne avrebbe avuto la possibilità? Boone non conosceva il funzionamento di un viaggiatore, e non sapeva fino a che punto Enid fosse capace di manovrarlo.

Il mostro si decise a muoversi, ma non nella sua direzione. Si mosse lentamente, in modo indeciso, in direzione della pianura, come se non sapesse cosa fare. Forse, si disse Boone, era preoccupato. Aveva fatto fiasco, questo era certo. Prima ad Hopkins Acre, e di nuovo adesso.

Il mostro si allontanò dal fuoco e si diresse verso la pianura: era simile a uno scintillante gioiello sullo sfondo opaco del terreno e delle collinette polverose.

Continuando a tenerlo d'occhio, Boone ritornò accanto al fuoco e vi gettò altra legna. Nel prossimo futuro doveva andare a raccoglierne ancora nel boschetto di ginepri, in cima alla collina. C'erano punti migliori per accamparsi, ma non poteva allontanarsi troppo. Al ritorno di Enid (ammesso che ritornasse) doveva trovarsi lì, in attesa del viaggiatore.

Si inginocchiò accanto al fuoco, posò il fucile e passò in rassegna il contenuto delle sue tasche. Dalla tasca posteriore dei calzoni estrasse un fazzoletto e lo posò in terra, poi vi appoggiò sopra gli oggetti trovati nelle altre tasche. Un accendino, una pipa, una busta di tabacco quasi finita, un coltello a serramanico che portava con sé da anni per motivi d'affezione, un piccolo taccuino, una penna a sfera, un mozzicone di matita, un paio di graffette metalliche, una manciata di monete, il portafoglio con qualche banconota, carte di credito, la patente. Nient'altro. Quando si era recato all'Hotel Everest con Corcoran non aveva voluto appesantirsi, e aveva lasciato in casa dell'amico le altre cose che normalmente portava con sé. Ma almeno aveva due oggetti utili: l'accendino, da usare con estrema moderazione, e il coltello. Un coltello che non valeva molto, ma che almeno aveva una lama.

Si rimise in tasca le sue proprietà e si alzò in piedi, spazzolandosi il fondo dei calzoni.

Il mostro, vide, aveva cambiato direzione. Aveva descritto un cerchio, e adesso ritornava verso di lui. Boone raccolse il fucile, augurandosi di non doverlo usare. Aveva soltanto sei cartucce, e non poteva permettersi di sprecarle. Ma dove bisognava colpire un robot per abbatterlo?

Dalla rientranza tra le rocce, dove i lupi assediavano il bisonte, giungeva di tanto in tanto qualche muggito. I lupi avevano ripreso il loro carosello.

Tutta quella scena pareva irreale, pensò Boone. Pur avendo la certezza di essere pienamente desto, aveva difficoltà a credere a ciò che vedeva. Da un momento all'altro la scena, si disse, era destinata a sparire, e lui si sarebbe ritrovato in un mondo che conosceva, tra amici e senza doversi preoccupare di un robot omicida, di un bisonte inferocito, o di un lupo che veniva a guardarlo negli occhi accanto a un fuoco spento.

Il mostro era molto vicino, e questa volta si dirigeva verso di lui. Era molto più grande di quanto gli era sembrato, e sempre incredibile. Il mostro non pareva avere fretta. I muggiti provenienti dalla rientranza tra le rocce divennero più forti, pieni di rabbia disperata.

Boone si bilanciò sulle gambe, cercando una posizione ben salda. Sollevò il fucile, ma non se lo portò alla spalla. Era pronto, si disse. Adesso era pronto a tutto. Prima avrebbe colpito il grande occhio, e poi, se necessario, il centro della rete.

In quel momento, da dietro il costone, comparve il grande bisonte, lanciato al galoppo. Aveva smesso di muggire. Teneva la testa sollevata, e il sole brillava sulle punte lucide delle sue corna. I lupi gli venivano dietro senza fretta, senza avvicinarsi. Sapevano che era spacciato; una volta giunto all'aperto, poteva essere attaccato da tutti i lati.

All'improvviso, il bisonte cambiò direzione e abbassò la testa. Il mostro cercò di scansarsi, ma non fece abbastanza in fretta. Il bisonte lo colpì in pieno e lo sollevò in aria. Con una brusca torsione del collo, lo infilzò con un corno prima che ricadesse a terra. Il mostro girò su se stesso, e il bisonte mosse la testa nel senso opposto, e lo colpì con l'altro corno. L'occhio luccicante si ruppe in mille pezzi, la ragnatela si lacerò. Il mostro cadde a terra, e il bisonte lo schiacciò sotto gli zoccoli, fracassandolo ancora di più.

Poi il bisonte barcollò e cadde in ginocchio. Con grande sforzo si rimise sulle zampe e si allontanò, muggendo impaurito. Dietro di lui, il mostro era ridotto a un mucchio di rottami. Il bisonte si fermò, girando la testa prima da un lato e poi dall'altro per cercare i lupi che lo tormentavano. I lupi, che si erano ritirati quando il bisonte aveva colpito il mostro, erano fermi a una certa distanza e attendevano gli eventi, con la lingua a penzoloni. Fremevano per l'impazienza. Il bisonte tremava, barcollava, era debole e pronto a cadere. Una delle gambe posteriori si piegò all'improvviso: per poco l'animale non cadde a terra, ma poi raddrizzò la gamba e riuscì a rimettersi in piedi.

Boone sollevò il fucile, mirò al cuore, e schiacciò il grilletto. Il bisonte cadde a terra di schianto e parve quasi rimbalzare sul terreno. Boone ricaricò l'arma. Disse, rivolto al bisonte: — Quel proiettile ti era dovuto, amico. Almeno non ti divoreranno vivo. — I lupi si tenevano a distanza, spaventati dal rumore dello sparo. Ma in breve tempo sarebbero ritornati; quella notte, nel buio ai margini del suo fuoco, si sarebbe banchettato.

Boone si avvicinò lentamente al mostro, scostando con i piedi i piccoli frammenti che giacevano davanti a lui. Era un rottame indescrivibile. Osservandolo, non riuscì a ricostruire mentalmente la forma che aveva posseduto in passato. L'urto iniziale del bisonte e le cornate successive l'avevano completamente fracassato. L'occhio scintillante era scomparso, la rete era strappata senza possibilità di recupero. Qua e là c'erano pezzi di metallo contorto che forse, in precedenza, erano appendici operative.

Il mostro si rivolse a lui, nell'interno della sua mente.

“Pietà” disse.

— Va' al diavolo — fece Boone, sovrappensiero. Poi tacque per lo stupore.

“Non lasciarmi qui” implorò il mostro. “Non lasciarmi in questo deserto. Io ho fatto soltanto il mio lavoro. Sono soltanto un robot. Non sono fondamentalmente cattivo”.

Boone si voltò dall'altra parte e ritornò al fuoco. Tutt'a un tratto si sentiva esausto. La tensione che l'aveva sorretto si era spezzata, e lui era senza forze. Il mostro era morto, eppure, dalle nebbie della sua morte, gli parlava. Per qualche istante, Boone rimase fermo accanto al fuoco, incapace di prendere una decisione, poi si avviò sulla collinetta in direzione del boschetto di ginepri. Fece tre viaggi, e accumulò una buona quantità di legna. La spezzò perché i pezzi fossero più maneggevoli, e ne fece un mucchietto ordinato. Soltanto allora si sedette accanto al fuoco e cominciò a pensare alla sua situazione.

Era isolato nel Nordamerica primitivo, e gli esseri umani più vicini si trovavano sulla costa asiatica del Giappone, al di là di un ponte di terra che in seguito doveva diventare lo Stretto di Bering. Se era destinato a rimanere in quel segmento temporale, poteva forse percorrere a piedi quelle migliaia di chilometri per trovare altri esseri umani… ma a che scopo? L'alternativa era se sarebbe stato ucciso o fatto prigioniero.

C'era un'altra possibilità. Attendere che qualcuno di Hopkins Acre venisse a cercarlo. Enid, ne era certo, sarebbe venuta, se la cosa le fosse stata possibile. E Jay avrebbe mosso cielo e terra per salvarlo, ma Jay aveva bisogno dell'aiuto degli altri.

Anche a essere ottimisti, comprese, la sua situazione era tutt'altro che rosea. Tutto sommato, la sua vita non aveva molta importanza per gli uomini del futuro. Lui, in fin dei conti, era solo un intruso che si era imbattuto casualmente in loro.

Il mostro gli parlò di nuovo, con voce debole e lontana.

“Boone! Boone, ti chiedo pietà!”

— Va' a darti la caccia da solo — brontolò Boone, parlando più a se stesso che al mostro, perché dubitava ancora dell'esistenza del mostro. La voce che gli pareva di sentire, si disse, era probabilmente frutto della sua immaginazione, e nient'altro.

Frattanto, i lupi si erano di nuovi avvicinati al bisonte: Boone li contò, ed erano sette, mentre prima gli pareva che fossero al massimo sei. Cercavano di addentare la carcassa.

— Buon appetito — mormorò loro. Sia la pelle, sia la carne di quel vecchio animale dovevano essere dure. I lupi avrebbero dovuto faticare un poco per lacerare la pelle e arrivare alla carne, che del resto non era certo la più gustosa che si potesse immaginare. Ma a un lupo poteva andare bene per riempirsi la pancia.

E prima che la giornata fosse finita, pensò Boone, anche lui avrebbe avuto bisogno di un po' di quella carne, perché non aveva proprio niente altro da mangiare.

Sarebbe stato pericoloso avvicinarsi alla carcassa e allontanare i lupi per tagliarsi qualche pezzo di carne. L'unico strumento di cui disponeva era il coltello a serramanico, che rischiava di rompersi sotto lo sforzo. Meglio attendere che i lupi fossero meno affamati, e dunque meno possessivi. Forse i lupi stessi gli avrebbero evitato la fatica di tagliare la pelle, lacerandola in modo da lasciare libera qualche zona di carne. Avrebbe mangiato, si disse ironicamente, gli avanzi dei lupi.

Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro tra il fuoco e il costone di arenaria. E passeggiando cercò di formulare un piano di sopravvivenza. La sua capacità di girare dietro agli angoli si presentava soltanto nei momenti di grande tensione, ma probabilmente, dopo un periodo indeterminato di tempo, lo riportava esattamente al punto di partenza. Soltanto per un caso fortuito la sua strana abilità aveva portato lui e Jay nel viaggiatore di Martin. Non poteva aspettarsi che la cosa si ripetesse.

Aveva ancora cinque colpi, e con ogni proiettile poteva abbattere un animale di dimensioni ragguardevoli. Ma una volta abbattuto, avrebbe dovuto proteggerlo, o nasconderlo, perché i carnivori non glielo portassero via, e presto la carne sarebbe andata a male. Poteva affumicarla, naturalmente, ma non conosceva l'arte di affumicare la carne; poteva salarla, ma non aveva sale. Ignorava tutte le tecniche per sopravvivere in un territorio come quello. Forse avrebbe potuto cercare radici e frutti commestibili, ma quali si potevano mangiare, e quali rischiavano di avvelenarlo? Il problema si riduceva quindi a questo; come poteva, un giorno dopo l'altro, procurarsi una quantità di cibo sufficiente a farlo sopravvivere?

Gli occorrevano delle armi. E se le armi erano l'unica possibilità che gli rimaneva, doveva cominciare subito, per imparare a fabbricarle e a usarle prima di finire i colpi. Il primo passo consisteva nel trovare della pietra lavorabile. L'arenaria intorno a lui non serviva a nulla. Ma c'erano altri posti dove avrebbe potuto trovare le pietre.

Alla fine cessò di camminare e ritornò a sedere accanto al fuoco. I lupi banchettavano: avevano aperto un varco nella cotenna dell'animale e continuavano ad allargarlo. Di tanto in tanto sollevavano il muso sporco di sangue e fissavano Boone per qualche istante e poi ritornavano a mangiare. Ancora un paio d'ore, si disse lui, e avrebbe potuto prendere la sua parte di carne. Il sole era allo zenit, o poco più avanti. Gli avvoltoi cominciavano a radunarsi. Nel cielo se ne vedeva già una decina, che a ogni giro scendeva un poco più in basso.

Il mostro parlò nuovamente: “Boone, cerca di essere ragionevole. Ascoltami”.

— Ti ascolto — disse Boone.

“Ho perso tutti i miei organi di senso. Non posso né vedere né udire. L'unica cosa che percepisco sono le parole che tu mi rivolgi, e finora non sono state parole gentili. Io non sono niente. Sono una nullità immersa nella nullità. Eppure sono cosciente di esistere. Potrei andare avanti così per migliaia di anni, sapendo di non essere niente, incapace di entrare in contatto con il mondo. Tu sei la mia unica speranza. Se non avrai pietà di me, io dovrò sopravvivere così in eterno, sepolto sotto la sabbia e la terra, e nessuno conoscerà la mia esistenza. Sarò un sepolto vivo”.

— Sei davvero eloquente — commentò Boone.

“E non mi dici altro?”

— Non mi viene in mente niente.

“Tirami fuori” implorò il mostro. “Tirami fuori dai rottami, e portami con te. Dovunque tu vada. Pur di non essere solo”.

— Vuoi che io ti salvi?

“Si, ti prego di salvarmi”.

— Sarebbe soltanto una soluzione provvisoria — disse Boone, rivolto al mostro. — A causa delle tue azioni, forse io sono destinato a rimanere qui: in questo deserto, come lo chiami tu. Potrei morire qui, e lasciarti di nuovo solo, abbandonato allo stesso destino che ti attende ora.

“Sia come sia, per un po' di tempo staremo insieme. Non saremo soli”.

— Ho l'impressione — disse Boone — di preferire la solitudine.

“Ma le speranze non muoiono mai. Può sempre succedere qualcosa che ci può salvare tutti e due”.

Boone non rispose.

“Non mi hai risposto” disse il mostro, petulante.

— Non ho niente da dire. Non ti voglio, capito? Non voglio avere niente a che fare con te.

Avere pietà per il nemico sconfitto: certo, questo era certamente nobile e umano. Ma nel suo caso non si trattava di un normale nemico. Cercando di immaginarsi che tipo di nemico era, scoprì di non sapere come qualificarlo.

Poteva essere una trappola, disse a se stesso, e si sentì meglio dopo averlo pensato. Laggiù, in quella massa di rottami che un tempo costituiva il mostro, c'era un piccolo componente che poteva essere il suo cervello, o il computer incredibilmente complesso che era l'essenza del mostro. Mettendosi a cercare fra i rottami per trovare questo piccolo componente, rischiava di cadere vittima del mostro, perché forse rimaneva tra quei rottami qualche parte letale che funzionava ancora.

“Grazie tante” mormorò a se stesso. “Avevo ragione a non volermene occupare”.

I lupi avevano terminato il loro primo e vorace pasto. Alcuni erano già sdraiati sul terreno e parevano sazi, mentre altri erano ancora intenti ad addentare il bisonte, ma senza grande impegno. Gli avvoltoi erano molto bassi. Il sole era sceso notevolmente nel cielo.

Boone raccolse il fucile e si diresse verso il bisonte. I lupi sorvegliarono con interesse i suoi passi; quando si avvicinò troppo si allontanarono di qualche metro, poi si fermarono e ringhiarono piano verso di lui. Boone mosse leggermente il fucile nella loro direzione, e i lupi si allontanarono ancora di più. Alcuni si sedettero tranquillamente a terra per osservare.

Giunto al bisonte, Boone appoggiò il fucile contro la carcassa e aprì il coltellino. I lupi avevano sventrato la bestia e avevano strappato un po' di pelle da una delle cosce. La coscia, si disse Boone doveva essere piuttosto dura. Ma con quel coltellino non poteva tagliare la pelle dell'animale fino a giungere alle parti più tenere. Doveva prendere ciò che aveva a portata di mano.

Afferrò con entrambe le mani la pelle, nel punto dove era lacerata, e tirò con tutte le sue forze. La pelle si staccò con difficoltà. Fece forza anche con i piedi, e questa volta riuscì a staccarne una buona porzione. Poi, con un certo stupore, si accorse che il coltello era abbastanza utile. Tagliò una grossa fetta di carne e la mise da un canto; poi ne tagliò una seconda. Era ben più di quanta ne potesse mangiare in una sola volta, ma probabilmente era la sua unica occasione di fare rifornimento. Presto sarebbero arrivati gli altri lupi, richiamati dall'odore del sangue, e sarebbero giunti anche gli avvoltoi. Al sorgere del sole sarebbe rimasto ben poco.

Un enorme lupo, più grosso degli altri, si avvicinò al bisonte e ringhiò. Altri si rizzarono in piedi. Boone prese il fucile e lo agitò nella loro direzione, ruggendo minacciosamente. Il grosso lupo si fermò, e gli altri lo imitarono. Boone posò il fucile e si tagliò un'altra fetta di carne.

Senza staccare gli occhi dai lupi, Boone raccolse la carne e cominciò ad allontanarsi. Si mosse lentamente. Se fai mosse brusche, si disse, i lupi ti saltano addosso.

I lupi lo sorvegliarono senza muoversi, in attesa della sua mossa successiva. Boone continuò a indietreggiare. Quando giunse a metà distanza tra lui e i fuoco, i lupi si gettarono contro il bisonte morto, ringhiando tra loro e mostrandosi i denti. Non prestarono più attenzione a Boone.

Giunto accanto al fuoco, cercò una zona di erba pulita e posò a terra la carne. Una porzione sufficiente per dieci pasti. Rimase a fissarla per qualche momento, domandandosi cosa farne.

Non si conserverà, pensò. In un paio di giorni andrà a male. La cosa più sensata era farla cuocere tutta, mangiarne una parte, avvolgere i resto nella camicia, seppellire il pacchetto e poi rimanere seduto sul buco dove l'aveva sepolto. Se non l'avesse protetto, i lupi l'avrebbero estratto dal terreno, una volta finita la carcassa del bisonte.

Si mise all'opera. Scelse qualche ramo robusto e ne appunti le estremità. Poi tagliò la carne in pezzi più piccoli e la infilò sui bastoncini appuntiti, usandoli come spiedini. Il fuoco si era ridotto a un mucchietto di carboni. Isolò i pezzi ancora accesi e se ne servì per accendere un altro fuoco. Infilò in terra i bastoni in modo che la carne rimanesse al di sopra del letto di carboni accesi.

Si sedette accanto ai carboni e sorvegliò la cottura, girando di tanto in tanto gli spiedi. All'odore della carne che cuoceva si sentì venire l'acquolina in bocca. Ma per quanto fosse appetitosa, non poteva essere molto saporita. Non aveva sale per condirla.

I lupi stavano ancora disputandosi la carcassa del bisonte. Alcuni avvoltoi erano già scesi a terra, ma i lupi li avevano allontanati. Adesso attendevano ingobbiti, a una certa distanza, il loro turno. Il sole sfiorava l'orizzonte. La notte era ormai prossima.

Laggiù sulla pianura giaceva la carcassa di un bisonte che all'epoca di Boone era conosciuto soltanto come fossile. E più avanti c'erano altri fossili viventi: mastodonti, mammut, cavalli primitivi e forse anche cammelli. Anche i lupi che azzannavano la carcassa del bisonte appartenevano a una specie estinta.

Seduto accanto ai carboni accesi, Boone continuò a controllare con attenzione la cottura della carne. Sentiva i morsi della fame: dopo il semolino pressoché immangiabile della mattina, non aveva più mangiato niente.

Salendo sul viaggiatore di Enid, ricordò, era convinto di andare nel futuro, e non in quel mondo di fossili viventi. Poi la fretta degli ultimi istanti passati a Hopkins Acre gli aveva fatto scordare la destinazione.

Nel futuro c'erano certamente molte cose interessanti, ma laggiù nel passato c'era ben poco. Pensò al futuro di cui gli avevano parlato a Hopkins Acre: un mondo quasi privo di esseri umani visibili, anche se l'umanità era ancora presente come entità incorporee, come intelligenze pure; un mondo in cui il fattore di sopravvivenza che aveva dato all'uomo il dominio del pianeta si era infine ridotto a un microscopico granello di polvere, o era sparito del tutto.

Le trasformazioni, si disse. La Terra aveva conosciuto moltissime trasformazioni nel corso dei cinque miliardi di anni della sua esistenza. Quelli che all'inizio parevano elementi trascurabili, con il tempo erano diventati soverchianti, ma nessuno era stato capace di intervenire, prima che fosse tardi, per invertire la tendenza.

Anche se fossero stati intelligenti, i grandi rettili non sarebbero stati in grado di capire che erano avviati all'estinzione, sessanta e più milioni di anni prima. E anche altre forme di vita si erano estinte per cause imprevedibili. A quanto ricordava di aver letto, la prima grande estinzione aveva avuto luogo due miliardi di anni prima, quando le piante verdi, capaci di convertire in ossigeno l'anidride carbonica, avevano trasformato l'atmosfera terrestre. Fino a quel momento, l'atmosfera si era comportata chimicamente come un riducente, mentre da quel momento in poi aveva preso a comportarsi come un ossidante, e questo aveva distrutto le precedenti, primitive forme di vita per le quali l'ossigeno era un veleno.

C'erano già stati molti casi di morte in massa. Le specie morte nel passato erano cento volte più numerose di quelle attualmente viventi. E infine, lassù nel futuro, era morta la razza umana. Forse ancora esisteva, ma in forma ormai indifferente alla futura evoluzione della Terra.

Enid gli aveva detto che gli alberi avrebbero preso il posto dell'umanità, una volta scomparso l'uomo. Era un concetto ridicolo, naturalmente. Grazie a quale processo, a quale capacità, gli alberi potevano sostituirsi all'uomo? Eppure in un certo senso, se l'umanità doveva scomparire, era bene che fossero proprio gli alberi a prendere il suo posto. Per tutto il corso della storia, gli alberi erano stati amici dell'uomo… mentre l'uomo si era comportato nei loro confronti sia come amico sia come nemico. A volte aveva abbattuto per capriccio grandi foreste; altre volte aveva coltivato amorevolmente gli alberi, o li aveva addirittura trasformati in oggetti di culto.

Uno dei bastoni su cui aveva infilato la carne si inclinò e cadde sul carbone. Con un'imprecazione, Boone si affrettò a sollevarlo e a ripulire la carne sporca di cenere. Pareva sufficientemente cotta, e Boone staccò uno dei pezzi, cercando di non scottarsi. Quando la carne si fu leggermente raffreddata, ne assaggiò un pezzo. A causa della mancanza di sale non aveva molto gusto, ma era calda, ed era meno dura del previsto. Masticò a lungo, con soddisfazione. Quando fu sazio posò il bastone sull'erba e si tolse la giacca, la camicia e la canottiera. Stese la canottiera sull'erba, andò a recuperare gli altri bastoni e staccò i vari pezzi di carne, ammucchiandoli sulla canottiera. Infilò sui bastoni il resto della carne, li rimise al loro posto sui carboni, infilò nuovamente camicia e giacca e tornò a sedere accanto al fuoco in attesa che la carne cuocesse.

Ormai si avvicinava l'oscurità. Boone riusciva a malapena a distinguere la sagoma dei lupi che si raccoglievano ancora intorno al bisonte. Verso est, il cielo era rischiarato dalla luna che stava sorgendo.

Continuò a sorvegliare la carne finché non gli parve cotta, poi staccò i pezzi e li posò sulla canottiera, avvolse bene il pacchetto, scavò un foro, collocò nel foro il pacchetto, e infine ricoprì di terra il tutto, spianò la superficie e vi si sedette sopra. Chi vuole portarsi via questa carne, promise a se stesso, dovrà passare sul mio cadavere.

Provava una certa allegria e si sentiva orgoglioso di sé. Qualsiasi cosa gli riservasse il futuro, fino a quel momento lui si era condotto bene. Aveva cibo per vari giorni. Forse era stato un errore sprecare quel proiettile, ma non rimpiangeva di avere sparato. Aveva dato al bisonte una morte rapida e pulita. Se non lo avesse fatto, i lupi avrebbero assalito il vecchio animale e avrebbero cominciato a divorarlo mentre era ancora vivo.

E forse un proiettile in più o in meno non aveva importanza. Forse da un momento all'altro sarebbe giunta Enid a prelevarlo. Pensò per qualche tempo a questa possibilità, cercando di dirsi che era prossima a realizzarsi, ma non riuscì a coltivare a lungo la sua illusione. C'era una forte possibilità che Enid ritornasse, ma c'era anche una forte possibilità che non ritornasse più.

Si rialzò il bavero della giacca per proteggersi dal freddo della notte. La sera precedente aveva avuto a disposizione una coperta, ma adesso non l'aveva più. Aveva soltanto i vestiti che indossava. Annuì tra sé, sonnecchiando, e poi si ridestò con un sobbalzo, e si accorse di non essere solo. Di fronte a lui, dall'altra parte del fuoco, c'era un uomo che indossava una sorta di mantello che lo copriva tutto, e un cappello conico che gli copriva la faccia. E accanto a lui sedeva il suo lupo: il suo lupo, non un lupo qualsiasi, perché Boone era certo che fosse lo stesso animale che era venuto ad annusarlo la notte prima e che lui, svegliandosi, si era visto a pochi centimetri dalla faccia. Il lupo gli sorrideva, e Boone non aveva mai saputo che i lupi sapessero sorridere.

Fissò la figura con il cappello e le domandò: “Chi sei? Che cosa succede?”

Formulò la domanda nella propria mente, come parlando con se stesso, e non con la figura con il cappello. Non parlò a voce alta per non spaventare il lupo.

Il Cappello disse: “È la fratellanza di tutte le vite. La mia identità non importa. Sono qui esclusivamente per fare da interprete”.

“Interprete per chi?” domandò Boone.

“Per te e il lupo” rispose il Cappello.

“Ma il lupo non parla”.

“Non parla, ma pensa. È molto soddisfatto, ed è perplesso”.

“Che sia perplesso” disse Boone “posso capirlo. Ma perché è soddisfatto?”

“Sente una somiglianza fra lui e te. In te, sente qualcosa che lo fa pensare a se stesso. E si chiede cosa sei”.

“Col passare del tempo” disse Boone “vivrà con noi. Diventerà un cane”.

“Se glielo dicessi” spiegò il Cappello “non ne sarebbe molto soddisfatto. Adesso ritiene di essere uguale a te. I cani non lo sono”.

“A volte i cani sono molto simili a noi”.

“Sì, ma non sono uguali. Avevate ancora un passo da fare, ma non l'avete mai fatto. L'uomo avrebbe dovuto farlo molto tempo fa. E adesso è troppo tardi”.

“Senti” disse Boone “il lupo non è uguale a me”.

“La differenza non è così grande come credi tu”.

“Il lupo mi è simpatico” disse Boone. “Ho una certa ammirazione per lui, ma soprattutto posso capirlo”.

“E lui prova gli stessi sentimenti per te. È rimasto a sedere davanti a te, naso contro naso, in un momento in cui avrebbe potuto facilmente tagliarti la gola. Prima che uccidessi il bisonte. In quel momento era affamato. Con la tua carne si sarebbe potuto riempire la pancia”.

“Puoi dirgli, allora, che lo ringrazio di non avermi tagliato la gola”.

“Penso che lo sappia già. Era il suo modo di dire che voleva fare amicizia con te”.

“Allora digli che accetto la sua amicizia e che desidero essergli amico”.

Ma Boone parlava al vento. Il cappello era scomparso. Lo spazio da lui occupato era libero.

Non c'è più, si disse Boone, perché non c'è mai stato. Era un'illusione. C'era soltanto il lupo.

Ma, quando guardò, anche il lupo era sparito.

Boone si alzò in piedi. Era indolenzito dal freddo. Gettò legna sul fuoco per riscaldarsi alle nuove e vigorose lingue di fiamma.

Aveva dormito a lungo. La luna era ormai bassa sull'orizzonte, a ovest. La sua luce illuminava i rottami del mostro meccanico. Era passato molto tempo da quanto il mostro gli aveva parlato… sempre ammesso che lo avesse fatto. Anche le parole del mostro potevano essere un'illusione, come la figura da lui chiamata il Cappello.

Era avvenuto un cambiamento in lui, pensò. Poche ore prima, era un giornalista prosaico, che si interessava soltanto dei fatti. Ma adesso si lasciava andare alle fantasticherie. Parlava con un cappello, litigava con un mostro morto, vedeva un amico in un lupo. La solitudine, lo sapeva, poteva portare un uomo a comportarsi in modo aberrante, ma così in fretta? Nel luogo dove si trovava, comunque, la solitudine poteva essere diversa da quella a lui nota: poteva salire esponenzialmente a causa del fatto di essere l'unico essere umano di due grandi continenti. Gli scienziati della sua epoca pensavano che i primi esseri umani non avrebbero messo piede in quell'emisfero per altri diecimila anni. Nell'Asia c'erano tribù barbariche che ne percorrevano gli immensi tenitori, e più a ovest c'erano gli uomini che, ventimila anni più tardi, avrebbero dipinto ritratti di animali nelle caverne dell'Europa orientale. Laggiù in America, invece, lui era un essere umano fuori posto, isolato tra bestie selvagge.

Riscaldatosi alle fiamme, si alzò in piedi e cominciò a passeggiare avanti e indietro, accanto al fuoco. Cercò di riflettere, ma i suoi pensieri non avevano né capo né coda. Come i suoi passi, così anche i suoi pensieri continuavano ad andare avanti e indietro.

I lupi litigavano per la carcassa del bisonte, ma lo facevano senza troppa convinzione. Lontano c'era un animale che ululava: un singolo richiamo, ripetuto e monotono. Sulla collinetta, nel bosco di ginepri, un uccello lanciava il suo richiamo lugubre. Il disco della luna sfiorava l'orizzonte occidentale, il cielo a levante cominciava a rischiararsi: sorgeva un nuovo giorno.

Quando ritornò la luce, Boone recuperò il pacchetto sepolto e prese un po' di carne. Seduto accanto al fuoco, masticò lungamente ogni boccone. Quando si sentì sazio si recò alla fonte per prendere l'acqua, poi risalì la collina per procurarsi la legna.

Cominciò a pensare che poteva essere difficile trovare qualche attività che gli riempisse le giornate. Cercò di immaginare lavori capaci di tenerlo occupato. Non gliene venne in mente nessuno che avesse senso. In futuro poteva mettersi in viaggio per esplorare il territorio circostante, ma la cosa non era urgente. Forse ne avrebbe avuto bisogno, prima o poi, ma per il momento doveva rimanere in quella zona ad aspettare il gradito ritorno di Enid.

Si recò al costone di roccia dietro cui aveva visto per la prima volta il bisonte, e portò al campo dei pezzi di pietra: i più grossi che riuscì a sollevare. Poi li accumulò sul foro dove aveva sepolto la carne. Forse qualche divoratore di carogne, sentendo l'odore, poteva spostare le pietre per raggiungerla. Ma i suoi lupi avevano la pancia troppo piena per occuparsene.

Poi, salì in cima alla collinetta. Da lì si guardò attorno, esaminando tutta la zona circostante. Ma non c'era molto da vedere. A qualche chilometro di distanza, una mandria di erbivori brucava; probabilmente, bisonti. Altri gruppi di animali correvano sul terreno, come ombre. Per il momento, Boone le classificò tra le gazzelle. Quello che doveva essere un grosso orso era intento ad attraversare il letto asciutto di un torrente. Il resto era soltanto una distesa di terra vuota, interrotta qua e là dai torrenti asciutti e dalle collinette brulle. Occasionalmente si scorgevano boschi di pioppi, e sulle collinette si scorgevano macchie scure che potevano essere alberi.

Boone si sedette ad attendere che passasse il tempo. Passarono quattro giorni e non giunse nessun viaggiatore. Boone si mantenne occupato come meglio poté. Varie volte si recò a esaminare il mostro fracassato, girandogli attorno a distanza di sicurezza. Cercò di ricostruirselo nella mente, di collegare tra loro i rottami. Avrebbe potuto studiarlo meglio se si fosse avvicinato, se avesse preso in mano le parti rotte e le avesse esaminate. Ma non si fidò. Il mostro non gli parlò più, e Boone alla fine si convinse che non gli aveva mai parlato, che i suoi ricordi della conversazione erano un'aberrazione mentale.

Alla fine del quarto giorno, rimaneva ancora qualche porzione di carne cotta, ma cominciava a guastarsi. E Boone era ancora troppo civile per mangiare la carne guasta.

La mattina del quinto giorno prese una pagina del taccuino e scrisse: Vado a caccia. Torno presto.

Posò il messaggio sulla montagnola di pietre che proteggeva il pacchetto della carne; per impedire che il vento lo portasse via, lo protesse con un'altra pietra.

Quando s'incamminò, armato di fucile, sentì in sé una strana leggerezza di spirito. Finalmente si dedicava a un compito necessario, e non a un lavoro fatto unicamente per passare il tempo.

Dopo un paio di chilometri, comparve il lupo: scendeva dalla collinetta verso di lui. Si mise alla sua destra, a una cinquantina di metri di distanza, un poco alle sue spalle: pareva bene intenzionato, e lieto di trovarsi in sua compagnia. Boone provò a rivolgergli qualche parola, ma il lupo non gli prestò attenzione e si limitò a procedere affiancato a lui.

Dopo un'oretta, Boone avvistò un piccolo gruppo di gazzelle, che brucavano a una certa distanza. Alla sua sinistra c'era un torrente asciutto, e Boone se ne servì per nascondersi, camminando silenziosamente. Il torrente si dirigeva a destra, e lo portava vicino alla preda. Anche il lupo era sceso nel letto asciutto del torrente e seguiva Boone. Per due volte Boone si fermò e si affacciò al di sopra della sponda per controllare le gazzelle, ma gli animali rimanevano dove li aveva visti inizialmente, intenti a brucare la salvia e qualche occasionale ciuffo d'erba. Parevano tranquilli, ma erano ancora lontani da lui; doveva avvicinarsi di più. Ritornò nel centro del torrente e continuò ad avanzare, con cautela, badando a dove metteva i piedi. Bastava il rumore di un ciottolo caduto per mettere in fuga le gazzelle. Come se avesse capito che Boone aveva scelto una preda, anche il lupo lo seguì silenziosamente. Dieci minuti più tardi, Boone si affacciò nuovamente sull'argine del fiume. Le gazzelle erano molto più vicine di quanto avesse calcolato. Si portò il fucile alla spalla, scelse uno degli animali, prese la mira e sparò. La gazzella fece un balzo nell'aria e ricadde pesantemente. Il resto del branco si allontanò di corsa, e si fermò a un centinaio di metri di distanza. Lì si voltò a guardare indietro. Quando Boone scavalcò l'argine del ruscello, le gazzelle fuggirono di nuovo.

Con il lupo seduto a guardarlo, Boone si caricò sulle spalle la preda e si diresse all'accampamento. Il lupo gli trotterellava accanto, con l'aria soddisfatta di chi ha fatto bene il suo lavoro.

Giunto all'accampamento Boone spellò faticosamente la gazzella, poi allargò la pelle sull'erba e vi posò i pezzi di carne. Sventrò l'animale, mise da una parte il fegato, poi trascinò fino alla carcassa del bisonte le interiora e gli altri organi interni. Il lupo si dedicò a quei regali. Boone tagliò a fette il fegato, infilò le fette su un bastone e mise il tutto sopra i carboni. Poi proseguì la macellazione della sua preda. Si tenne una coscia e il lombo. Prese il resto e lo portò lontano dall'accampamento. Il lupo lasciò perdere le interiora e si dedicò al resto della carne, che era molto più buona.

Ritornato accanto al fuoco, Boone mangiò il fegato e fece cuocere il resto, come scorta per i giorni seguenti. Non poteva andare avanti così, si disse. Viveva alla giornata, e la sua capacità di continuare quel tipo di esistenza era legata alle quattro cartucce che gli rimanevano. Prima che finissero, doveva procurarsi qualche strumento che gli permettesse di sopravvivere. Gli occorrevano del legno per farsi un arco, del tendine per la corda, dei ramoscelli diritti per le frecce, delle pietre taglienti per le punte delle frecce e per farsi un coltello, poiché il suo coltellino non poteva resistere a lungo.

Le sue conoscenze sull'arte di fabbricare un arco erano pressoché inesistenti. Comunque, conosceva la teoria e poteva forse bastare per provare. Domani, si disse, mi metterò alla ricerca del legno e delle pietre, Per un attimo pensò al boschetto di ginepri dove aveva preso la legna da ardere, ma rinunciò subito all'idea. Il ginepro era un legno che valeva poco; in tutto il boschetto non avrebbe trovato un solo pezzo di legno utilizzabile per costruire un arco.

Fecero capolino altri due lupi. Osservandoli, Boone cercò di riconoscere il suo lupo, ma non riuscì a capire quale fosse. Al tramonto, tutta la carne da lui lasciata per i lupi era sparita, e anche i lupi erano scomparsi.

Poco dopo il tramonto del sole, il lupo fece ritorno e si sedette accanto al fuoco, dirimpetto a Boone.

Boone si rivolse al lupo: — Domani — disse — vado in giro a cercare del legno e delle pietre. Se vieni con me, mi fai un piacere. Può essere un viaggio faticoso. Non posso portare acqua con me, ma posso portare della carne e possiamo dividercela.

Era ridicolo, pensò. Il lupo non poteva capire una sola parola, ma parlare con lui gli serviva per sentirsi più tranquillo. Era bello avere qualcuno a cui rivolgersi, e un lupo era meglio che niente. Il lupo poteva tenergli compagnia accanto al fuoco.

Si destò nel corso della notte, e il lupo era ancora lì. Lo osservò attentamente mentre metteva legna sul fuoco. Quando si riaddormentò, il lupo era sempre lì a guardarlo.

La mattina dopo, Boone scrisse un altro messaggio, questa volta più lungo del precedente: Mi allontano per fare un viaggio che durerà tre o quattro giorni, ma ritornerò. Aspettatemi. Può darsi che ci sia con me un lupo. Se lo vedete, non fategli del male. È un amico.

Lo posò sulla pila di pietre, coprendolo con un sasso tondo, e si allontanò accompagnato dal lupo. Si diresse verso ovest, in direzione della collina dove gli era parso di vedere degli alberi. Pensava di poterla raggiungere in una giornata di cammino.

Invece la collina era più lontana. Nel tardo pomeriggio Boone capì che non sarebbe riuscito a raggiungerla prima di sera. Era stanco e assetato. Non aveva incontrato acqua. Forse, pensò, ci sarà acqua sulla collina. Poteva resistere per tutta la notte senza bere. Si calò in un torrente asciutto e procedette lungo il letto fino ad arrivare a un punto dove faceva una curva, e formava una sorta di rientranza dalle alte pareti.

Con la legna caduta dai pioppi Boone si accese il fuoco. Prese tre pezzi di carne e li gettò al lupo. Mentre il lupo li mangiava avidamente, Boone si sedette accanto al fuoco e mangiò la sua porzione. La carne era tenera: assai più di quella del bisonte. Il lupo terminò la sua razione e attese speranzosamente di averne ancora. Boone gliene gettò un altro pezzo.

— Basta — disse. — Metà per uno, e tu ne hai mangiato più di me.

Stanchissimo, si addormentò al tramonto del sole, e il lupo si stese davanti a lui, dall'altra parte del fuoco. Si destò poco prima dell'alba. Il fuoco si era spento, ma Boone non si curò di riaccenderlo. Diede un po' di carne al lupo e ne mangiò un poco anche lui. Quando ripartirono, il sole non si era ancora alzato.

Raggiunsero la collina prima di mezzogiorno e cominciarono a salire. L'altura era molto più grande di quella dove si erano accampati lui ed Enid; la salita fu lunga e faticosa. Giunto a metà strada, il lupo trovò l'acqua. Quando ritornò indietro, aveva il muso bagnato e sgocciolante.

— Acqua — disse Boone. — Fammi vedere dov'è.

Il lupo continuò a fissarlo perplesso.

— Acqua! — esclamò Boone. Tirando fuori la lingua, fece finta di leccare dell'acqua.

Il lupo trotterellò verso destra, fermandosi di tanto in tanto per guardarsi alle spalle. Possibile, si domandò Boone, che il lupo avesse capito? Era una follia pensarlo, eppure, visto che lui aveva condiviso con il lupo la carne, forse il lupo avrebbe condiviso con lui l'acqua.

Gli pareva di essere assetato da ore; aveva cercato di togliersi il pensiero dalla mente, ma adesso che sapeva che l'acqua era vicina, la sete gli era tornata. Aveva la bocca e la gola asciutte, e faceva fatica a trangugiare.

Davanti a lui, sul pendio, sporgeva un grosso costone di roccia. Boone cercò di fare in fretta, ma la roccia era scivolosa e ripida. Dovette procedere camminando a quattro zampe, afferrandosi a ogni appiglio.

La roccia, poté vedere, era calcare e non arenaria. Il calcare doveva giacere al di sopra dello strato di arenaria che costituiva l'altra collinetta. Il calcare era inutile per costruire attrezzi, ma poteva contenere qualche vena di quarzo o di silice.

La parete di roccia s'innalzava sopra di lui. Qua e là spuntavano sparuti alberi di cedro. Continuò a strisciare sulle pietre ripide, alla base della parete. Non vedeva più il lupo, ma gli pareva di udire il rumore dell'acqua corrente.

Poi mise un piede in fallo e scivolò. Quando infine si fermò, sentì che qualcosa gli imprigionava la caviglia destra. In tutta la gamba sentiva un dolore così atroce da mozzargli il fiato.

Rimase immobile per lunghi momenti, mentre il dolore lentamente diminuiva. Poi cercò di mettersi a sedere, ma non ci riuscì. La cosa che gli teneva la gamba lo costringeva a girarsi per vedere cosa gli fosse successo, ma non appena si mosse, la gamba gli fece di nuovo male. Semisvenuto per il dolore, ricadde a terra. Quando ritrovò le forze, provò di nuovo ad alzarsi, con molta attenzione. Riuscì a girare la testa e vedere cosa era successo. Il piede gli era finito in uno stretto crepaccio, nel punto dove lo strato calcareo affiorava alla superficie. Nella caduta, la caviglia destra si era incastrata in una fessura.

Che incidente stupido, pensò. Sentì salire la paura e cercò di ricacciarla indietro. Era sufficiente, si disse, sfilare la gamba con la massima dolcezza.

Cercò di muoverla. I muscoli si flettevano, e la gamba si muoveva, ma gli faceva male. Probabilmente se l'era slogata; non gli pareva di essersela rotta. E probabilmente c'erano anche dei brutti graffi.

Il lupo discese cautamente lungo la pila di pietre e si fermò davanti a lui, uggiolando e fissandolo.

— È tutto a posto — gli gridò Boone, con la gola dolorante. — Tra un attimo sarò libero. Devo solo trovare il modo.

Ma non riuscì a liberarsi in un attimo. Nonostante i suoi sforzi la gamba rimaneva serrata nella fessura. La posizione in cui era caduto Boone, steso su una ripida scarpata, con la testa verso il basso, rendeva difficile il compito. Quando cercò di spostarsi per mettersi in una posizione più comoda, il dolore alla gamba lo lasciò spossato e coperto di sudore. Alla fine, troppo indebolito, rinunciò a provare ancora. Mi riposo un poco, disse a se stesso.

Dopo essersi riposato, provò di nuovo. Ma ormai era quasi buio. Il lupo si era allontanato chissà dove, e lui era rimasto solo. Ancora una volta cercò attentamente di liberare la gamba; poi, non riuscendo a farlo, provò a dare un violento strattone. Si sentì correre per la gamba una lingua di fuoco. Strinse i denti e provò ancora. Ma la gamba non si mosse. Non ebbe il coraggio di provare una terza volta. Era esausto. Udiva chiaramente il rumore dell'acqua corrente. Il dolore era feroce; la sete lo soffocava.

Cercò di ragionare. Cercò di fare dei piani, ma non ne trovò. Fece per afferrare l'involto che portava sulla spalla e che conteneva la carne. L'involto era scomparso. E così pure il fucile.

Boone serrò i denti. Già altre volte, in precedenza, si era trovato in momenti difficili ed era riuscito sempre a sopravvivere. Come ultima risorsa, poteva sempre girare dietro un angolo e trovarsi libero. Cercò di farlo. Serrò strettamente gli occhi, tese tutto il corpo e cercò di comandare al proprio cervello.

— L'angolo! — gridò. — L'angolo! Dov'è quel maledetto angolo?

Ma non c'era nessun angolo. Lui si trovava sempre nello stesso posto. Allora si rilassò e ricadde di peso sul terreno.

Si svegliò dopo molto tempo. Le stelle splendevano ne cielo. Dal basso saliva un vento gelido: era mezzo congelato. Per un momento non capì dove si trovasse, poi gli riaffiorò in mente la sua situazione. Era intrappolato su quella collinetta. Non riusciva a liberarsi. Era destinato a morire laggiù. Era immobilizzato laggiù, ferito e assetato, e gelato fino alle ossa.

Una forma grigia, illuminata dalle stelle, si mosse accanto a lui. Era il lupo. Lo guardò ed emise un gemito.

— Promettimi una cosa — gli disse Boone. — Una cosa sola ti chiedo. Aspetta che sia morto, prima di mangiarmi.

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