2. Hopkins Acre: 1745

David vagava nei campi fin dal primo pomeriggio, accompagnato dal suo setter favorito, godendosi il piacere di essere solo in un mondo bello e ordinato.

Dalle stoppie ai suoi piedi si levò un gallo cedrone, con uno stormire d'ali. Automaticamente, David si portò alla spalla il fucile e accostò la guancia al calcio. Quando il mirino si allineò sulla figura del volatile, David assestò un violento scrollone alla canna, verso sinistra. — Bang! — disse. Se nella camera ci fosse stata una cartuccia e lui avesse premuto il grilletto, l'uccello sarebbe caduto a terra.

Il setter, pavoneggiandosi, fece ritorno a lui dal punto dove aveva stanato il gallo; si sedette davanti a David, sollevando lo sguardo e ridendo alla sua maniera, come per dire: «Non è uno spasso?».

C'era voluto molto tempo, ai setter di Hopkins Acre, per adattarsi. Erano stati allevati per puntare gli uccelli e per riportare quelli colpiti. Non avevano capito bene la nuova procedura. Ma adesso, dopo varie generazioni di setter, le cose erano cambiate. Non aspettavano più lo sparo del fucile, e sapevano di non poter trovare uccelli morti.

Così, per la millesima volta, David si domandò perché portava sempre con sé il fucile. Gli piaceva sentire il suo peso, gli piaceva la forma del calcio che si sposava alla sua spalla? O era per confermare a se stesso di essere davvero una creatura civile, benché appartenesse a una stirpe caratterizzata da una lunga storia di crudeltà e di brutalità?

Ma anche quella era solo una posa, e per di più ingiusta. Lui non uccideva le pecore, ma mangiava l'abbacchio. Era pur sempre un carnivoro, e un carnivoro era un uccisore.

Era stata una buona giornata, anche senza prendere alcun uccello, si disse. David era salito sulla collina, e da lassù aveva posato lo sguardo sulle capanne coperte di paglia del villaggio dove abitavano i coltivatori della terra e gli allevatori di pecore e mucche. Nei pascoli aveva visto gli animali, a volte soli, a volte sorvegliati da un ragazzo e da un cane. Nei boschi fitti aveva incontrato delle orde di maiali, selvatici come cervi, intenti alla ricerca di ghiande cadute. Ma non si era avvicinato. Nonostante il tempo passato, non riusciva a provare fratellanza per i pacifici contadini che lavoravano la terra. Aveva visto il colore dei boschi cambiare con l'autunno e aveva respirato l'aria gelida. Era sceso ai ruscelli che scorrevano nei boschi e si era dissetato alla loro acqua, fissando l'ombra guizzante della trota.

Poco prima aveva scorto Spike intento a giocare qualche suo ridicolo gioco, saltando con molta attenzione secondo figurazioni incomprensibili. David si era fermato a osservarlo, e ancora una volta si era chiesto che creatura potesse essere Spike.

Poi, stanco del gioco, Spike si era allontanato, e si era diretto verso una macchia di alberi, saltellando secondo uno schema casuale che era molto più aggraziato e spontaneo del movimento programmato di prima. Il sole del pomeriggio autunnale si rispecchiava sul suo corpo globulare, e le punte aguzze delle sue lunghe spine catturavano i raggi del sole, disperdendoli tutt'intorno sotto forma di scintille. David aveva provato a chiamarlo, ma evidentemente Spike non l'aveva sentito, perché era sparito in mezzo agli alberi.

La giornata era stata piena di avvenimenti, si disse David, e ormai le ombre si allungavano e scendeva il freddo. Era tempo di ritornare a casa.

Quella sera c'era l'arrosto. Sua sorella maggiore, Emma, moglie di Horace, l'aveva avvertito di arrivare in tempo.

— Non arrivare tardi — gli aveva detto. — Una volta cotto, l'abbacchio non può aspettare. Bisogna mangiarlo caldo. E cerca di fare attenzione, con quel fucile. Non so perché continui a trascinartelo dietro. Non porti mai niente a casa. Perché non prendi tre o quattro galletti? Sarebbero buoni.

— Non porto niente perché non uccido — le aveva detto lui. — Nessuno di noi ha mai ucciso. È una caratteristica che è sparita con il tempo.

Ma questo; naturalmente, non era del tutto vero.

— Horace sarebbe capace di uccidere — gli aveva detto lei, seccamente. — Se ci fosse bisogno di cibo, Horace sarebbe capace di uccidere. E una volta portato a casa il cibo, io lo pulirei e lo cucinerei.

Aveva ragione Emma, pensò David. Horace, pratico e prosaico, avrebbe ucciso all'occorrenza, non per divertimento. Horace non faceva niente per divertimento. Doveva sempre attribuire un motivo a quello che faceva.

David aveva riso delle preoccupazioni di Emma. — Con quel fucile non posso farmi niente — le aveva detto. — Non è neppure carico.

— Devi caricarlo, quando lo rimetti nella sua rastrelliera — aveva detto Emma. — Timothy vuole che sia sempre carico. Per conto mio, nostro fratello Timothy è un po' matto.

Ma erano tutti un po' matti. Lui e Timothy, e forse, in un modo diverso, Horace ed Emma. Ma non Enid, la sua sorellina. Tra tutti, era lei lo spirito libero, la pensatrice. I pensieri di Enid erano più lunghi di quelli degli altri del gruppo.

Perciò, ricordando l'abbacchio che non poteva aspettare e che bisognava mangiare caldo, si diresse verso casa. Il cane, sazio di divertimento e di risate, lo seguì senza molto brio.

Dalla cima di un basso colle scorse la casa circondata da un rettangolo di prato verde, in mezzo ai campi scuri. Alberi maestosi, molti dei quali risplendevano nelle loro foglie autunnali, correvano tutt'intorno al perimetro del parco, e al centro del parco sorgeva la casa. Davanti al parco correva una strada polverosa che ormai era ridotta ai due solchi scavati dalle ruote dei carri: una strada che portava da un luogo inesistente a un altro luogo inesistente. Dalla strada partiva il viale d'accesso che raggiungeva la casa, fiancheggiato da filari di altissimi pioppi che nel corso degli anni si erano rinsecchiti e che presto sarebbero caduti e morti.

Seguito dal fedele cane, David discese lungo il fianco del colle, attraversò la scura distesa dei campi, e infine raggiunse il viale d'accesso. Davanti a lui si stendeva la casa, una struttura tozza di pietra grigia, con finestre alte che il sole trasformava in placide colonne di fuoco, specchiandosi su di esse al tramonto.

Salì l'ampia gradinata di pietra e per un attimo lottò con il saliscendi, massiccio e riluttante a muoversi, della grande porta a due ante; poi la porta si aprì senza rumore, ruotando sui cardini bene oliati. Al di là del breve vestibolo si scorgeva la vasta stanza di soggiorno, illuminata da una fila di candele posta sul tavolo dirimpetto a lui, e dopo il soggiorno la camera da pranzo, rischiarata da moltissime candele. Da quest'ultima stanza giungeva un basso mormorio di voci: la famiglia si raccoglieva per il pasto serale.

Entrò nel soggiorno e poi girò a destra per fermarsi nella stanza delle armi, piena di ombre cui dava vita il tremolio di un'unica candela infilata in un candelabro. Si avvicinò alla rastrelliera, aprì la doppietta e prese dalla tasca le due cartucce che aveva con sé; poi le infilò nella camera e chiuse l'otturatore con un singolo movimento. Fatto questo, posò l'arma al suo posto e si voltò. Ferma in mezzo alla stanza c'era Enid, sua sorella.

— La giornata è stata buona, David?

— Non t'ho sentita entrare — rispose. — Hai il passo leggero come le piume dei cardi. C'è qualcosa che devo sapere, prima d'entrare nella tana del leone?

Lei scosse la testa. — Nessun leone, questa sera. Horace è quasi umano; più umano di così non può diventarlo. Oggi ci sono arrivate notizie: Gahan arriverà da Atene.

— Gahan mi piace poco — disse David. — È così professorale dalla cima dei capelli alla suola delle scarpe. E me la fa cadere dall'alto, la sua grande sapienza; mi fa sentire inutile.

— La stessa cosa vale anche per me — disse Enid. — Forse siamo inutili entrambi. Non so. Ma se tu e io siamo inutili, allora essere inutile mi piace.

— Anche a me — rispose David.

— Gahan, comunque, è simpatico a Horace, e se il suo arrivo riesce a rendere Horace sopportabile, la visita sarà una cosa positiva. Timothy è felicissimo. Gahan ha detto a Horace di avere un libro per Timothy; o meglio, qualche sorta di rotolo di pergamena, scritto da Ecateo.

— Eca…? — Non ne ho mai sentito parlare. Maschio o femmina?

— Maschio, e greco — disse Enid. — Ecateo di Mileto. Quinto o sesto secolo. Gli studiosi ritengono che Ecateo sia stato il primo a scrivere autentica prosa storica, a usare un metodo critico per separare i contenuti mitici da quelli storici. Gahan crede che il rotolo in suo possesso sia un libro sconosciuto, un'opera che era andata perduta.

— Se lo è davvero — disse David — allora per qualche tempo non vedremo più Timothy. Si chiuderà a chiave in biblioteca, e si farà portare laggiù i pasti. Ci metterà un anno ad arrivare alla fine del rotolo. E noi non lo avremo tra i piedi.

— Credo — disse lei — che abbia perso l'orientamento, e che si lasci attirare eccessivamente dalla storia e dalla filosofia. Cerca gli errori fondamentali dell'umanità, ed è convinto di poterne trovare le radici nei primi millenni della storia umana. Qualcosa ha trovato, certo, ma non c'è bisogno di studiare la storia per accorgersene; il problema del plusvalore, la spinta del profitto, e le guerre che nascono quando un uomo o una tribù hanno più degli altri; il bisogno di aggregazione e la necessità di tribù, nazioni, e imperi, che rispecchia un senso di insicurezza che fa parte della mente umana. Si potrebbe continuare, naturalmente, ma credo che Timothy illuda se stesso. Il significato che cerca è più profondo, e non lo troverà nella storia.

David chiese, seriamente: — Enid, tu hai qualche idea?

— Non ancora — rispose lei. — E forse non l'avrò mai. L'unica cosa che so, è che Timothy cerca nel posto sbagliato.

— Forse è meglio andare a mangiare — consigliò lui.

— Sì. È vero. Non dobbiamo fare aspettare gli altri. Emma era sulle spine, temeva che tu arrivassi in ritardo. Timothy continuava ad affilare il coltello. Nora, in cucina, era agitatissima. L'arrosto era quasi pronto.

David le porse il braccio, e si avviarono lungo il soggiorno, facendosi attentamente strada fra i mobili, che nella penombra risultavano pressoché invisibili.

— Oh, finalmente! — esclamò Horace, quando entrarono in sala da pranzo. — Mi chiedevo dove eravate finiti. L'arrosto non può aspettare, lo sapete anche voi. Ecco a voi, tutti devono assaggiare questo porto. È il migliore che ho gustato negli ultimi anni. Davvero eccellente.

Versò il vino e fece il giro della tavola, porgendo un bicchiere a ognuno. Era un uomo tozzo, di bassa statura e di corporatura robusta, e la prima impressione che dava era sempre di essere eccessivamente peloso. Aveva i capelli e la barba talmente neri che finivano col sembrare blu scuro.

— Mi sembri in gran forma — gli disse David.

— E lo sono, lo sono — confermò Horace. — Gahan sarà qui domani. Penso che Enid te l'abbia detto.

— Sì, me l'ha detto. Gahan arriverà da solo o accompagnato?

— Non lo so. Ci sono stati dei disturbi di trasmissione. Interferenze di qualche tipo. È una cosa che non si è mai riusciti a evitare. Teddy, giù nel Pleistocene, pensa che sia colpa di certe tensioni nell'allineamento delle durate. Forse c'entrano anche le anomalie direzionali.

Horace non sapeva niente di quei problemi, pensò David. Poteva avere qualche conoscenza delle tecniche temporali, ma certo non conosceva la teoria. Però, qualunque fosse l'argomento, Horace diventava immediatamente un esperto di tutto, e parlava sempre in tono autorevole e convincente.

Horace si accingeva ad approfondire ulteriormente il problema, ma venne interrotto dall'arrivo di Nora, che giungeva dalla cucina inalberando trionfalmente il piatto di portata con l'arrosto. Lo posò davanti a Timothy, e poi ritornò in cucina. Tutti gli altri si sedettero a tavola, e Timothy cominciò a tagliare a pezzi l'abbacchio, con grandi cerimonie, brandendo coltello e forchetta con i suoi soliti svolazzi.

David assaggiò il porto. Era eccellente. Di tanto in tanto, in certe piccole faccende come la scelta di una buona bottiglia di vino, la legge della media, senza intervento da parte dell'uomo, portava Horace a dirla giusta.

Per qualche minuto consumarono il pasto in silenzio. Poi Horace si nettò giudiziosamente le labbra col tovagliolo, infilò di nuovo quel lembo di tela sotto il tavolo, e disse: — Da qualche tempo sono preoccupato per la nostra postazione di New York, nel ventesimo secolo. Mi fido poco di quel Martin. Ho cercato di chiamarlo un mucchio di volte, ma quello scansafatiche non risponde.

— Può darsi che si sia allontanato per qualche tempo — propose Emma — e che poi ritorni.

— Se si tratta di un'assenza temporanea — disse Horace — come nostro sorvegliante ci deve sempre informare. Inoltre ha con sé quella donna, Stella. Se non c'è lui, almeno lei ci deve rispondere.

— Sarà andata via con lui — disse Emma.

— Non deve andarsene con lui. La postazione deve sempre essere custodita da qualcuno.

— Secondo me — disse David — è poco consigliabile cercare di mettersi in contatto con lui. Come misura di sicurezza, dobbiamo sempre ridurre al minimo il numero delle comunicazioni.

— In questo segmento temporale — disse Horace — siamo gli unici a disporre di attrezzature cronologiche. Non c'è nessuno che ci possa intercettare.

— Non ne sono molto sicuro — disse David.

— Che differenza fa? — domandò Emma, cercando timidamente di mantenere la pace, come sua abitudine. — Non vedo perché dobbiamo litigare per queste cose.

— Quel tale, quel Martin, non parla quasi mai con noi — si lamentò Horace. — Non ci dice mai niente.

Timothy posò sul piatto coltello e forchetta, facendo più rumore del necessario. — Nonostante il fatto — disse — che non sappiamo niente di quell'uomo e che non ci fidiamo completamente di lui, può darsi che sappia quello che fa. Stai trasformando in un dramma una cosa senza importanza, Horace.

— Ho conosciuto lui e quella Stella — disse David — quando sono andato nel ventesimo secolo, a New York, alcuni anni fa, per procurarmi dei libri per Timothy. È stata quella volta — aggiunse, rivolto a Timothy — che ho portato anche il fucile e la doppietta per le tue collezioni.

— Bellissimi pezzi, tutt'e due — disse Timothy.

— Quel che non capisco — disse Emma, piccata — è perché li tieni sempre carichi. Non soltanto quei due, ma anche gli altri. Le armi cariche sono pericolose.

— Per completezza — disse Timothy. — Certo anche tu apprezzi la completezza. La munizione è una parte integrante del fucile. Senza munizione, un fucile è incompleto.

— La logica del discorso mi sfugge — disse Horace. — Mi è sempre sfuggita.

— Non volevo parlare di fucili — disse David. — Mi dispiace di averli tirati in ballo. Volevo soltanto dire che ho conosciuto Martin e Stella. Sono stato loro ospite per diverse notti.

— E che tipi sono? — domandò Enid.

— Martin ha la comunicativa di un basilisco. Un basilisco misantropo. Parla poco, e quando parla riesce a non dire niente. L'ho visto poche volte, e per breve tempo. Ne ho ricavato l'impressione che la mia presenza gli desse fastidio.

— E la donna?

— Un altro basilisco anche lei. Ma di tipo diverso. Poco cordiale, certo, e traditrice. Ti guarda senza perderti d'occhio un solo secondo, ma poi finge di non averti osservato.

— E ti sono parsi pericolosi? pericolosi per noi, intendo dire.

— No, pericolosi non direi. Soltanto antipatici.

— Può darsi che abbiamo allentato eccessivamente la sorveglianza — disse Emma, timidamente. — Da vari anni le cose per noi vanno troppo bene, e ci siamo lasciati cullare dall'idea che debbano andare bene sempre. Horace è l'unico che sta ancora all'erta. Lavora tutto il tempo. Penso che gli altri, invece di criticarlo, dovrebbero fare qualcosa anche loro.

— Timothy lavora quanto Horace — disse Enid. — Passa tutto il suo tempo a consultare i libri e i papiri raccolti per lui. E chi li ha raccolti? Li ha raccolti David, recandosi a Londra, Parigi e New York, correndo dei rischi e lasciando Hopkins Acre per cercarli.

— C'è del vero in quello che dici, cara — disse Emma — ma allora spiegami cosa fai tu.

— Cari miei — protestò Timothy — non dovremmo litigare. Ed Enid, a modo suo, lavora quanto gli altri, se non di più.

David sollevò lo sguardo per fissare Timothy, il fratello che parlava piano e che non si scomponeva mai, e si domandò come riuscisse a sopportare Emma e quel villano di suo marito. Anche quando veniva provocato, non alzava mai la voce. Con la sua faccia ascetica, incorniciata dalla barba bianca e rada, rappresentava la pacata voce della ragione durante le tempeste che talvolta scuotevano il loro cerchio familiare.

— Invece di stare a discutere su chi si dà maggiormente da fare, è meglio ammettere che nessuno fa qualcosa che possa risolvere il problema. Ma perché, semplicemente, non ammettiamo di essere dei profughi, nascosti qui, tremebondi, che sperano che nessuno li scopra? Secondo me, nessuno di noi è in grado di risolvere il problema, neppure se fosse questione di vita o di morte.

— Penso che qualcuno di noi sia sulla giusta strada — disse Horace — e comunque ci sono anche altri che cercano la risposta. I nostri compagni di Atene e del Pleistocene…

— Esattamente — disse David. — Noi, quelli di Atene, quelli del Pleistocene, e quelli di New York, se Martin e Stella sono ancora laggiù. Quanti, complessivamente?

— Il fatto è — disse Horace — che devono essercene molti altri. I nostri tre gruppi… o meglio, quattro gruppi… si conoscono tra loro. Ma ci devono essere molti altri gruppi, legati tra loro come i nostri quattro, che non conoscono né noi né gli altri. E la cosa ha senso. I rivoluzionari (e noi, in un certo senso, siamo dei rivoluzioriari) sono sempre isolati sotto forma di cellule, e non si conoscono tra di loro.

— Secondo me — ripeté David, ostinato — siamo dei puri e semplici profughi, siamo dei fuggiaschi.

Ormai avevano finito l'abbacchio; giunse Nora per portare via i piatti, e poi ritornò con un fumante sformato di prugne e lo posò al centro della tavola. Emma allungò la mano e lo avvicinò a sé.

— È già tagliato — disse. — Passatemi i vostri piatti da dessert. Per chi ne vuole, c'è anche della crema.

— Oggi ho visto Spike — disse David. — Mentre ero nei campi. Stava giocando a quel suo stupido gioco dei salti.

— Povero Spike — disse Timothy. — È stato risucchiato insieme con noi. Era venuto a trovarci. Non faceva parte della famiglia, ma era con noi quando è giunto il momento di partire. Non potevamp lasciarlo là. Spero che sia contento di stare con noi.

— Mi sembra abbastanza contento — disse Enid.

— Non potremo mai sapere se lo è — disse Horace. — Non è in grado di parlare con noi.

— Capisce più di quanto pensiamo noi — disse David. — Non commettere l'errore di crederlo sciocco.

— È un alieno — disse Timothy. — Era un animale da compagnia… no, questo termine non è giusto… aveva un sodalizio di qualche tipo con la famiglia che abitava accanto a noi. A quell'epoca c'erano delle strane unioni tra gli uomini e gli alieni, non tutte si lasciavano capire facilmente. Almeno, io non le capivo.

— Nel caso di Henry — disse Enid — la cosa è diversa. Lui fa parte della famiglia. Il legame può non essere molto stretto, ma lui è uno di noi. È stato abbastanza contento di venire.

— A volte mi preoccupo per Henry — disse Timothy. — Lo vedo poco.

— È molto occupato — disse David. — A divertirsi. Gira per la campagna attorno a Hopkins Acre, mettendo una paura del diavolo a villici e campagnoli, e probabilmente anche a qualche gentiluomo talmente arretrato da credere ancora ai fantasmi. Ma ci porta un mucchio di informazioni locali. Grazie a lui, e soltanto a lui, sappiamo ciò che avviene all'esterno di Hopkins Acre.

— Henry non è un fantasma — disse Emma seria. — Non dovreste parlare di lui in questo modo.

— Certo, non è un fantasma — disse David, annuendo. — Ma gli assomiglia; abbastanza da trarre in inganno chi non lo sa.

Per comune assenso, interruppero la conversazione e si dedicarono al budino, che era un po' pesante, ma straordinariamente buono.

“Vi ho sentiti parlare di me” disse nella loro mente qualcosa che non era una voce, ma che era un pensiero così forte e chiaro che tutti coloro che sedevano alla tavola lo sentirono.

— È Henry — gridò Emma, confusa.

— Certo che è lui — disse Horace, con la voce roca. — Si diverte a spaventarci nei momenti meno opportuni. Si allontana per giorni e giorni, e poi te lo trovi dietro la schiena, a gridarti negli orecchi.

— Ricomponiti, Henry — disse Timothy — e accomodati tranquillamente su una sedia. È inquietante conversare con una persona invisibile.

Henry si “ricompose”, o almeno ricompose una parte di sé, quanto bastava per lasciarsi vedere, e si sedette in fondo alla tavola, di fronte a Timothy. Era una forma vagamente nebbiosa, pressappoco simile a quella di un uomo, ma con i contorni poco precisi. Tuttavia quel che Henry aveva “raccolto” per darsi una forma non stava insieme molto bene: continuava a ondeggiare avanti e indietro; la forma della sedia, ancora visibile dietro la sua tenue sostanza, tremolava con lui.

“Avete mangiato un pasto orrendamente pesante” disse loro. “Tutto pesante. L'abbacchio è pesante. Il budino è pesante. È questo mangiar pesante che vi rende pesanti come siete”.

— Io non sono affatto pesante — disse Timothy. — Sono così snello e sottile che il vento mi porta.

“Non esci mai a camminare nel vento” disse Henry. “Non lasci mai la casa. Da anni non senti più il tepore di un onesto raggio di sole”.

— Tu, invece, in casa non ci sei mai — disse Horace. — Di raggi solari ne prendi più della razione che ti spetta.

“Io vivo della luce del sole” gli disse Henry. “Certo lo sapete. L'energia che raccolgo dal sole è quel che mi tiene in vita. Ma non è solo il sole; sono anche altre cose. Il dolce profumo delle rose dei pascoli, il canto degli uccelli, il contatto con la terra nuda, il bisbiglio e l'ululato del vento, la grande, spaziosa volta del cielo, la robusta maestosità degli alberi”.

— Catalogo davvero impressionante — disse David, seccato.

“È anche tuo”.

— In parte — ammise David. — So cosa vuoi dire.

— Hai visto Spike? — domandò Horace.

“Lo vedo di tanto in tanto. Non può uscire dalla bolla che circonda Hopkins Acre. Io sono l'unico di voi che può uscire dalla bolla senza muoversi nel tempo. E vado in giro di qua e di là”.

— Andare in giro va benissimo, se ti piace andare — disse Horace. — Ma vorrei che la piantassi di dare fastidio agli indigeni. Ti credono un fantasma. Sei causa di continui allarmi nelle vicinanze.

“A loro piace allarmarsi” disse Henry. “La loro vita è opaca e priva di interessi. Sono felici di farsi spaventare. Si raccolgono accanto al fuoco e si raccontano l'un l'altro le favole. Se non ci fossi io, che cosa farebbero, non avrebbero favole da raccontarsi. Ma non è questo il motivo che mi ha fatto venire qui”.

— E qual è il motivo, allora?

“C'è gente che ha una grande curiosità per la bolla” rispose Henry. “Non sanno cos'è, non sanno neppure qual è la sua esatta posizione, ma sentono la sua presenza e sono curiosi di sapere la sua natura. Fiutano in giro qui attorno, dappertutto”.

— Non sono certamente gli indigeni. Non vedo come possano essersi accorti della sua presenza. È qui da un secolo e mezzo e…

“Non sono indigeni” disse Henry. “Sono qualcosa d'altro. Qualcosa che viene da… fuori”.

Nella stanza scese un silenzio profondo e pesante, come se ai presenti fosse calata sul petto una macina di mulino. Rimasero immobili, come incollati alle loro seggiole, e si guardarono. Dall'oscurità della casa si alzò un'antica paura, che convergeva in quell'unica stanza bene illuminata.

Alla fine, il primo a scuotersi fu Horace. Si schiarì la gola e disse: — Allora, finalmente ci siamo. Tutti lo sapevamo già da tempo: prima o poi doveva succedere. Dovevamo aspettarcelo. Ci hanno trovati.

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