15. Henry

Il sole rosso e gonfio illuminava un mondo quasi vuoto e privo di erba e di altra vegetazione, a parte l'albero solitario che si alzava davanti a Henry. Raggruppando le sue scintille come se avesse paura di quel mondo scostante. Henry si avvicinò alla pianta. Ma non aveva paura, perché, in tutti i suoi anni di vagabondaggi, aveva visto troppe cose di cui avere paura.

Il cielo era scuro, come se stesse per avvicinarsi una tempesta, anche se nulla faceva pensare che si stesse avvicinando davvero.

La fine del mondo, si disse. L'inizio della fine, con un sole ormai morente, instabile, pronto a trasformarsi in una gigante rossa.

L'albero di fronte a lui non gettava ombra. E per la prima volta nella sua vita Henry si trovava immerso in un assoluto silenzio. Nessun uccello gridava nel cielo, nessun insetto friniva a terra, non soffiava un alito di vento. Ogni cosa era assolutamente immobile.

Poi, all'interno della sua mente, una voce domandò: “Sei nuovo, qui”?

Se avesse ancora posseduto un corpo, avrebbe fatto un sobbalzo. Ma ora non poteva fare gesti di sorpresa. Rispose, con calma: “Sì, sono nuovo. Sono appena arrivato. Con chi parlo?”

La voce interiore disse: “Sono l'albero. Perché non vieni a riposare sotto la mia ombra”?

“Non hai ombra!” esclamò Henry. “Questo sole troppo gonfio non manda ombre”.

“Ho parlato per forza dell'abitudine” disse l'albero. “L'abitudine presa all'epoca in cui avevo un'ombra da offrire. È passato molto tempo dall'ultima volta in cui ho avuto occasione di parlare con qualcuno, e me n'ero dimenticato. A volte, fermo nella mia solitudine, mi metto a fare discorsi a voce alta, privi di senso. Parlo con me stesso, visto che non c'è nessun altro con cui parlare”.

“Non mi occorre la tua ombra” disse Henry. “Ma mi occorre la tua compagnia e mi occorrono le informazioni che puoi darmi, se sei disposto a concedermele”.

Così dicendo si accostò maggiormente all'albero.

“Che informazioni desideri”? gli chiese l'albero. “Può darsi che quelle che posso darti non siano molte, ma ti dirò quello che so”.

“Tu sei un albero intelligente” disse Henry. “E costituisci la concreta dimostrazione di una credenza condivisa da molti antichi esseri umani. Mia sorella, che non vedo da molto tempo, credeva fermamente… e assurdamente, secondo noi… che gli alberi fossero destinati a succedere all'uomo. Adesso, incontrandoti, vedo che aveva ragione. Era una persona molto sensibile”.

“Tu sei forse un umano”? domandò l'albero.

“In parte” rispose Henry. “Un umano sconfitto. E questo mi porta a un'altra domanda. Che cosa è successo a quei grandi sciami di scintille che un tempo si trovavano nel cielo? Una volta ce n'erano moltissime”.

“Li ricordo ancora” disse l'albero “ma non bene. Devo riandare molto indietro nei miei ricordi. Nel cielo c'erano tante luci. Alcune erano stelle, altre erano quelle che tu chiami scintille. Le stelle ci sono ancora, e a tempo debito le vedrai. Quando il sole scende all'orizzonte occidentale, le puoi vedere all'orizzonte orientale. Ma le scintille non potrai vederle; se ne sono andate via, molto tempo fa. Si sono allontanate. Poche alla volta. Sono sicuro che non sono morte; si sono soltanto allontanate, come per andarsene altrove. Mi puoi spiegare cosa erano gli umani? Erano fatti come te?”

“No, non erano come me” disse Henry. “Io sono un'eccezione. Io dovevo diventare una di quelle scintille, ma non sono arrivato alla fine del processo. È una storia lunga. Se hai tempo, posso raccontartela”.

“Abbiamo tutto il tempo che c'è”.

“Ma il sole”?

“Io sarò morto e secco, e ogni mia traccia sarà sparita, ben prima che il sole costituisca un vero pericolo. In futuro il sole ucciderà il pianeta che è già quasi morto. Ma ci vorrà molto tempo”.

“Lieto di saperlo” disse Henry. “Mi hai chiesto che cos'è un umano. Ne deduco che non ci sono umani”.

“Una volta” disse l'albero “molto tempo fa, c'erano le creature fatte di metallo. Alcuni dicono che non erano umani, ma solo copie degli umani”.

“I robot” disse Henry.

“Non avevano quel nome” disse l'albero. “Non sono neppure certo della loro esistenza. Si dicono tante cose. Una di queste è che le creature di metallo cercarono di eliminare gli alberi tagliandoli tutti. Questa loro attività non ha nessuna spiegazione, e non ci sono prove che li tagliassero davvero”.

“Adesso i robot sono scomparsi?” domandò Henry.

“Neppure il metallo” disse l'albero “dura per sempre. Ma tu e io siamo qui, e ci parliamo. Forse potremmo fare amicizia”.

“Se lo desideri” disse Henry. “Da molto tempo non ho più amici”.

“Allora, siamo amici” disse l'albero. “Mettiamoci comodi a chiacchierare. Dici che alcuni pensavano che gli alberi fossero destinati a succedere all'uomo. Significa prendere il suo posto?”

“Esattamente. Già allora, in quel remoto passato, c'era la convinzione che la razza umana era destinata a finire e che un'altra forma di vita avrebbe preso il suo posto”.

“Ma perché doveva esserci qualcuno a prendere il suo posto?”

“Questo non saprei, dirtelo. Non c'è nessuna spiegazione logica, ma si aveva la convinzione che sul pianeta ci dovesse essere una razza dominante. Prima degli uomini c'erano stati i dinosauri, e prima dei dinosauri le trilobiti”.

“Non conosco né gli uni né le altre”.

“Non è una cosa molto importante” disse Henry. “I dinosauri erano grossi, e forse ce n'erano pochi. Le trilobiti erano piccole e ce n'erano molte. Li ho citati solo per dire che entrambi si sono estinti”.

“E l'uomo ha preso il posto dei dinosauri?”

“Non subito. Non in un colpo solo. Gli è occorso del tempo”.

“E adesso, io, un albero? Sono una specie dominante?”

“Probabilmente, sì.”

“La cosa strana” disse l'albero “è che io non ho mai pensato a me stesso come a una creatura dominante. Forse, così avanti nel tempo, il predominio ha perso molta della sua importanza. Cosa c'era di diverso nel caso delle trilobiti, dei dinosauri e degli uomini?”

“Le trilobiti non saprei” disse Henry. “Erano creature piuttosto stupide. Anche i dinosauri erano un gruppo abbastanza stupido, ma avevano una sorta di fame che li spingeva avanti. Mangiavano tutto quello che vedevano. Anche noi umani avevamo una fame; la fame di comandare tutto”.

“Noi alberi non abbiamo mai avuto fame” disse la pianta. “Abbiamo sempre ricavato il nostro nutrimento dall'aria e dal terreno. Non abbiamo mai dato fastidio a nessuno, non abbiamo mai avuto nemici. Probabilmente, ti sbagli. Se per dominare occorre una grande fame, noi non abbiamo mai dominato”.

“Eppure riuscite a pensare e a parlare”.

“Oh, sì, abbiamo pensato e parlato molto. Un tempo, quando eravamo numerosi, il mondo era avvolto da una tempesta di chiacchiere. Noi eravamo le creature più sagge di tutto il mondo, ma non utilizzavamo la nostra saggezza. Non avevamo modo di usarla”.

“E potresti trasmettermi un po' della tua saggezza”? domandò Henry.

“Sei arrivato tardi” gli disse tristemente l'albero. “Ormai mi sono rincitrullito per la vecchiaia. Ho dimenticato da tanto tempo un mucchio di cose. Forse occorre la propria saggezza. Adesso la comunità non c'è più. Sei arrivato tardi, amico; non posso darti più niente.

“Mi spiace” disse Henry.

Un altro fallimento, si disse. Le trilobiti, i dinosauri e gli uomini almeno su quel pianeta, avevano incontrato un insuccesso. E così pure gli alberi. Anche se gli alberi avevano continuato a esistere e non si erano estinti, il loro era ugualmente un fallimento. La saggezza, da sola, era inutile. Se non poteva agire, non aveva valore.

“Sei turbato” gli disse l'albero.

“Sì” rispose Henry “anche se non ce n'è motivo. Avrei dovuto saperlo che sarebbe andata a finire così”.

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