9. Boone

Il contatto di un naso freddo svegliò dal sonno Boone, che cercò di rialzarsi di scatto. Dalla gamba si irradiò una fitta; emise un grido soffocato. Uggiolando, il lupo si affrettò a scostarsi. Sopra la linea dell'orizzonte, in direzione sud, le stelle scintillavano su di lui con la loro luce gelida. Si accorse di avere i vestiti umidi di rugiada.

Dal punto dove era immobilizzato, Boone scorgeva la pianura che aveva attraversato, brulla e deserta, anche se si scorgeva qualche macchia d'erba e di cespugli adatta a piccoli erbivori. Lontano, a est, dovevano esserci grandi pianure erbose dove si formavano immense mandrie. Ma in quella zona le mandrie erano piccole, e i predatori erano pochi.

— Qui non è il tuo posto — mormorò, rivolto al lupo. — In altre zone potresti trovare maggiore quantità di cibo.

Il lupo lo fissò con occhi ardenti, e ringhiò.

— Non è questo il modo di fare conversazione — gli disse Boone. — Io non ti ho mai ringhiato. Abbiamo viaggiato assieme e abbiamo condiviso il cibo e siamo amici.

Fino a quel momento si era tenuto sollevato sui gomiti, ma ora si lasciò cadere a terra, girando la testa verso il lupo: non perché temesse l'animale, ma soltanto per tenersi in contatto con l'unico compagno che aveva.

Come poteva avere dormito in una situazione come la sua, con la gamba intrappolata in un crepaccio e un lupo che attendeva la sua morte per mangiarselo? Ma forse, si disse, questa era una calunnia nei riguardi del lupo, perché loro due erano amici.

La gamba gli faceva male. Non più un dolore acuto, ma una pulsazione sorda. Si sentiva malissimo: gli faceva male la gamba, aveva lo stomaco vuoto, la gola gli bruciava e la bocca asciutta. E a poca distanza da lui c'era l'acqua corrente.

Il lupo si era seduto, con la coda ordinatamente avvolta sulle zampe, la testa piegata di lato, gli orecchi in avanti.

Boone chiuse gli occhi. Appoggiò la guancia contro il terreno. Cercò di cancellare dalla mente il dolore. A parte il rumore dell'acqua corrente, tutto taceva. Cercò di non pensare a quell'acqua.

Che schifosa maniera di morire, pensò. Poi dormì un poco.

Era caduto a terra, non aveva alcuna arma a portata di mano. E su di lui piombava al galoppo un cavaliere uscito dal profondo dei suoi ricordi, un uomo gigantesco in sella a un cavallo piccolo e nervoso. Il cavallo gli mostrava i denti ed era altrettanto feroce e deciso quanto l'uomo che lo montava.

La bocca del cavaliere era aperta in un grido di trionfo, i suoi denti mandavano bagliori alla luce di un fuoco invisibile. I lunghi baffi ondeggiavano al vento della corsa, e la lucida, pesante spada che teneva sollevata al di sopra della testa cominciava a scendere.

Poi comparve il lupo, che con la bocca schiumante spiccò un balzo per afferrare il cavaliere per la gola. Ma ormai era troppo tardi. La spada stava calando su di lui, e non c'era niente al mondo che potesse fermarla.

Boone toccò terra pesantemente e faticò a riprendere fiato. La sua vista era piena di grigio. Giaceva su una superficie piana. Quando provò a muoversi, si accorse di avere la gamba liberata. Era libero, e si trovava in un luogo diverso: non era più ai piedi di una montagnola, con le rocce dietro di lui e in basso l'acqua corrente.

Udiva ancora il rumore dell'acqua, e si mosse in quella direzione. Quando raggiunse l'acqua, si stese sulla pancia e abbassò la testa per bere, ma si costrinse a berne soltanto pochi sorsi, per evitare una congestione. Poi si allontanò.

Si stese sulla schiena a fissare il cielo grigio. Ma non erano nubi: era il colore di quel cielo. Tutto era grigio. Si tastò la gamba che era rimasta imprigionata: gli faceva male, ma non era rotta. Si era dissetato. Aveva fame. Tutto il resto sembrava a posto.

Era successo ancora una volta: aveva girato dietro l'angolo. Si era salvato ancora una volta.

Ma cosa significava il cavaliere armato di spada, con quei baffi sventolanti e quel suo galoppo? Non c'era nessun cavaliere: non poteva essere, così lontano nel passato. Era stato il suo subconscio a immaginarlo, si disse: la parte astuta e misteriosa della mente umana. Non c'era alcun pericolo immediato, e dunque non poteva entrare in azione la sua capacità di «girare dietro l'angolo». Ma il suo subconscio, per salvargli la vita, aveva fatto comparire nella sua immaginazione il guerriero a cavallo, il barbaro, e il suo cervello aveva reagito automaticamente. Pensando a ciò che gli era successo, sembrava la risposta logica. Comunque, logica o no, la cosa aveva poca importanza. Lui era lì, dovunque fosse quel posto, e soltanto questo era importante. Adesso il problema era capire se era destinato a rimanere laggiù o se sarebbe stato di nuovo trasferito nel mondo della preistoria. In passato aveva sempre fatto ritorno al luogo d'origine, tranne l'ultima volta, allorché era entrato con Corcoran nel viaggiatore di Martin ed era rimasto laggiù, anziché fare ritorno alla stanza dell'Hotel Everest, che nel frattempo era crollata. Forse, pensò, la serie s'era interrotta. Era in quel luogo già da diverso tempo.

Ritornò all'acqua per bere di nuovo. L'acqua era buona, fresca, pulita. Poi, lentamente, si alzò in piedi. Si appoggiò sulla gamba che era rimasta incastrata nel crepaccio e vide che riusciva a reggerlo. Gli faceva male, ma fondamentalmente era in condizioni normali. Era stato fortunato, pensò.

Si guardò attorno. Sembrava un luogo abbastanza concreto. In altri casi, con la sola eccezione dell'Hotel Everest, che era stato un caso speciale, il posto dietro l'angolo era sempre stato nebuloso e indistinto. Ma qui non c'era nebbia. Era sempre un luogo grigio, ma il grigiore aveva forma e struttura.

Era fermo in mezzo a un piano. Senza dubbio, quel piano giungeva fino all'orizzonte, ma non c'era modo di determinarlo perché il grigiore del cielo si fondeva con quello della pianura e non si scorgeva la linea di demarcazione. Il ruscello a cui si era dissetato correva serpeggiando lungo la pianura: non aveva origine e sembrava non aver fine. Sulla pianura si scorgeva una strada: dritta, e non serpeggiante. Anch'essa era grigia, ma sulla sua superficie si scorgevano due righe più scure, che dovevano essere i segni lasciati dalle ruote dei veicoli. Questi solchi erano precisi e regolari, più diritti di quelli lasciati a caso dalle ruote dei carri.

— Che diavolo di posto è questo? — si domandò Boone, parlando ad alta voce, ma senza aspettarsi nessuna risposta.

La strada poteva essere percorsa nell'una o nell'altra direzione, e probabilmente lui avrebbe fatto bene a seguirla, ma quale direzione prendere?

L'intera situazione era assurda, si disse. Non aveva idea del luogo dove si trovava, e non sapeva dove andare. Non sapeva da quanto tempo era arrivato. C'era acqua, ma non c'era cibo.

Si allontanò dal ruscello e andò a osservare la strada. Inginocchiandosi, toccò quelli che gli erano sembrati solchi. Non riuscì a distinguere, con lo sguardo, la loro altezza rispetto al livello del suolo, ma le sue dita gli dissero che sporgevano di due o tre centimetri. Al tatto, parevano fatti dello stesso materiale di cui era fatta la pianura, ma sporgevano. Che si trattasse di una specie di rotaie? si domandò. Forse, aspettando abbastanza a lungo, poteva giungere qualche veicolo, ma lui non poteva certo affidarsi a un'eventualità come quella.

Poi prese la decisione di seguire la strada nella direzione in cui correva il ruscello. Seguire il corso dell'acqua. L'acqua, aveva detto qualcuno, molto tempo prima, correva verso la civiltà. Segui un fiume, e prima o poi incontrerai gente. Forse, in quel luogo, il ragionamento non era giusto. Forse non c'era nessun posto dove arrivare.

Proseguì per qualche tempo lungo la strada, e non accadde niente. Il ruscello a volte si avvicina alla strada, a volte se ne allontanava; c'erano solo la strada e il ruscello.

Udì un leggero rumore dietro di sé e si affrettò a voltarsi. Sembrava il rumore che fanno le unghie di un animale su una superficie dura, e lo era davvero. C'era un lupo che lo seguiva. Che fosse proprio quel lupo? Gli diede un'occhiata, ma non riuscì a determinarlo. Il lupo era grigio come quello di prima, ma la cosa non significava niente. Laggiù ogni cosa era grigia. Prima era sempre stata marrone.

Il lupo si era fermato e si era seduto a meno di due metri da lui: Si avvolse la coda sulle zampe e osservò Boone, piegando la testa. Aprì le labbra e mostrò i denti.

— Sono lieto che il posto ti piaccia — disse Boone. — Forse puoi dirmi dove ci troviamo.

Il lupo non disse niente. Si limitò a rimanere seduto e a sorridere.

— Sei il lupo che conosco — disse Boone. — Se lo sei, ringhia contro di me.

Il lupo sollevò il labbro per ringhiare, poi ritornò a sorridere. Quando ringhiò, mostrò a Boone un'impressionante quantità di denti.

— Sei proprio il mio vecchio amico — disse Boone. — E quindi è ora che ci muoviamo.

Riprese il cammino, e il lupo si mise al suo fianco. Boone era lieto di avere il lupo con sé. Dopotutto, era meglio camminare con un amico che con un estraneo.

Non successe niente. Il panorama rimase sempre uguale. Boone continuò a camminare, e il lupo continuò a seguirlo, ma tra camminare e stare fermi non c'era molta differenza. Per quanta strada facessero, niente cambiava.

Si domandò dove fosse Enid e perché non fosse ritornata. Che cosa poteva esserle successo?

— Ti ricordi di Enid? — domandò al lupo. Il lupo non gli rispose.

Sulla strada comparve un puntino che si avvicinava a loro. Divenne sempre più grande.

— C'è qualcuno in arrivo — spiegò Boone al lupo.

Il lupo sbadigliò. Come se dicesse: “Che importa? Come capire qual è la strada giusta?”

— Vero — convenne Boone.

Il punto divenne una vettura tramviaria: una vettura molto strana, aperta alle intemperie, con due panche coperte da una specie di baldacchino. Una delle panche guardava in una direzione, e l'altra nella direzione opposto. Non c'era manovratore; il tram funzionava in modo automatico.

Il tram rallentò, ma non si fermò.

— Salta — disse Boone al lupo.

Il lupo saltò e si sedette su una delle panche. Anche Boone saltò sulla piattaforma e andò a sedere su una delle panche, accanto al lupo, su quella che guardava in avanti. La vettura accelerò.

La vettura, come prevedibile, era grigia. Il baldacchino era a strisce, ma solo nel senso che c'erano strisce di grigio più scuro che si alternavano a strisce di grigio più chiaro. Il tram grigio si lanciò sempre più velocemente lungo la pianura, con a bordo il lupo grigio e l'uomo grigio.

Infine, dopo molto tempo, a fianco del binario si cominciò a scorgere un cubo che diventò sempre più grande. La vettura rallentò, e il cubo rivelò la propria natura: un edificio, con un piccolo spiazzo su cui si vedevano tre tavolini circondati da sedie. Su una delle sedie c'era una figura seduta: quando la vettura si fermò, Boone vide che era il Cappello: la strana sagoma che si era seduta accanto al fuoco, davanti a lui, e che gli aveva parlato della fratellanza di lupo e uomo. Il grande cappello conico non era cambiato: tanto grande che gli finiva sulle spalle e gli copriva la faccia.

Il lupo saltò a terra e trotterellò accanto al tavolino del Cappello, si sedette a terra e fissò la strana figura. Boone scese più lentamente e raggiunse anche lui il tavolino, per sedersi infine davanti al Cappello.

“Vi aspettavo. Mi è stato detto che sareste arrivato” disse il Cappello.

— Chi ve l'ha detto?

“Il nome non ha importanza. L'unica cosa importante è che siete arrivato e che avete portato con voi il vostro amico”.

— Non sono stato io a portarlo — disse Boone. — È venuto da solo. È stato lui a seguirmi.

“Siete fatti l'uno per l'altro” disse il Cappello. “Ve l'ho detto che voi due eravate amici”.

— Questo posto mi ricorda una tavola calda del mio paese — disse Boone. — Come si fa per procurarsi qualcosa da mangiare?

“Le vostre esigenze non sono ignote. Si sta già provvedendo”.

— Per tutti e due?

“Naturalmente. Per tutt'e due”.

Un tozzo cameriere robot si affacciò alla porta dell'edificio. La parte più alta della sua testa era piatta, e vi era appoggiato un vassoio. Si fermò accanto al tavolo, sollevò le braccia e fece scivolare un ben fornito vassoio sul tavolo.

— Questo piatto è per il carnivoro — disse il robot. — Come lo devo servire?

— Posatelo sul pavimento — disse Boone. — Per lui è il modo più semplice di mangiare.

— Non ho fatto cuocere la carne per lui.

— Perfetto. Gli piace cruda e sanguinolenta.

— E l'ho tagliata a pezzi per renderla più maneggevole.

— È stato un pensiero gentile — disse Boone. — Vi ringrazio entrambi delle vostre premure.

Il robot posò a terra il piatto contenente la carne cruda, e il lupo cominciò a trangugiarla alacremente. Era affamato; la mandò giù in fretta, senza preoccuparsi di masticarla.

— Aveva davvero fame — commentò il robot.

— Ce l'ho anch'io — disse Boone.

Rapidamente il robot posò l'altro piatto davanti a Boone: una bistecca fumante, una patata bollita, con salsa allo yogurt, insalata di verdure cotte, pezzetti di formaggio, fagiolini, una fetta di torta di mele, una tazza di caffè.

Boone disse al Cappello: — È il primo pasto civile che faccio da una settimana. Sono sorpreso di trovare la mia cucina americana del ventesimo secolo in un posto come questo.

“Conosciamo i nostri clienti” disse il Cappello. “Adattiamo la nostra cucina alle loro esigenze. Sapevamo che voi e il lupo sarete stati nostri ospiti”.

Boone lasciò perdere per il momento la verdura e si dedicò alla bistecca. Versò la salsa sulla patata. Domandò, con la bocca piena: — Potete dirmi dove ci troviamo? O siete votato al silenzio per qualche stupida segretezza?

“Niente affatto” disse il Cappello. “Visto che volete tanto saperlo, siamo sulla Strada dell'Eternità”.

— Mai sentito parlarne.

“Certo, che non ne avete mai sentito parlare. Sono cose che non dovete sapere. Né voi né alcun altro essere umano”.

— Eppure siamo qui. Io e il lupo.

Il Cappello disse, tristemente: “Avevamo ogni motivo di credere che la cosa non dovesse mai succedere. Le razze inferiori, pensavamo, erano escluse. C'era solo una possibilità su molti milioni che i processi evolutivi producessero casualmente il tipo di capacità che voi possedete. Una volta, l'universo era più stabile. Uno poteva prevedere il futuro. Uno poteva fare dei piani. Ma adesso questo non vale più. Da quando ci siete voi, non è più possibile. I processi biologici casuali si sono fatti beffe della ragione”.

Boone continuò a mangiare. Era troppo affamato, e non si preoccupava di mangiare con educazione. Lupo aveva finito di trangugiare la sua carne e adesso si era sdraiato accanto al piatto vuoto, a mezzo metro di distanza o poco più, in modo da non perdere tempo se ne fosse arrivato un altro. Il peggio della fame era passato, ma soltanto il peggio, perché Lupo era un animale difficile da riempire di cibo fino alla sazietà.

Boone inghiottì il boccone.

Si rivolse al Cappello: — Avete detto la Strada per l'Eternità? “No, ho detto la Strada dell'Eternità”.

— Fa lo stesso — gli disse Boone.

“No è diverso”.

— Non importa — disse Boone. — Se sapessi questa strada, arriverei all'Eternità? E che cos'è l'Eternità? Che cosa troverei, giunto all'Eternità? E chi, secondo voi, può avere voglia di arrivarci?

“Siete già all'Eternità” disse il Cappello. “Dove credevate di essere?”

— Non ne avevo idea — disse Boone. — Ma l'Eternità!

“È un bel posto” disse il Cappello. “È la fine di tutto. Quando siete nell'Eternità, siete arrivato. È inutile proseguire”.

— E cosa dovrei fare, rimanermene qui a far girare i pollici?

“È una soluzione. Non ci sono altri posti dove andare”.

In tutta quella conversazione, pensò Boone, c'era qualcosa di profondamente sbagliato. Il Cappello mentiva, si divertiva alle sue spalle. L'Eternità non era un posto; l'invenzione di qualche antico filosofo, e non un punto dello spazio e del tempo. E la strada non terminava in corrispondenza di quel piccolo luogo di ristoro: raggiungeva l'orizzonte grigio. Ovviamente c'erano altri posti dove andare.

Bistecca e patate erano finite. Scostò il piatto e prese quello dell'insalata. Normalmente l'insalata non gli piaceva, ma quando aveva fame, come in quel momento, la mangiava.

Da qualche tempo, il Cappello taceva. Quando Boone sollevò gli occhi, vide che il Cappello si era afflosciato sul tavolo a faccia in giù. Le braccia, che poco prima erano appoggiate al tavolo, adesso pendevano dalle spalle.

Sorpreso, Boone si alzò in piedi e osservò la figura immobile.

— State bene? — domandò. — Cosa vi è successo?

Il Cappello non rispose e non si mosse.

Boone fece rapidamente il giro del tavolo, lo afferrò per una spalla e lo sollevò. Il Cappello dondolò nelle sue mani come una bambola rotta.

Morto, pensò Boone. Il Cappello era morto… ammesso che fosse mai stato vivo.

Lasciò la presa, e il Cappello cadde sul tavolo. Boone entrò nell'edificio cubico. Vide il robot, in fondo alla prima stanza. Era indaffarato a cucinare qualcosa ai suoi fornelli.

— Presto! — disse Boone. — È successo qualcosa al Cappello!

— Si è afflosciato — disse il robot. — Qualcuno gli ha tolto il tappo dell'aria.

— Esattamente. Credo che sia morto. Come lo sapete?

— Succede sempre — disse il robot.

— E quando succede, voi che cosa fate? Come si può aiutarlo?

— Io non faccio niente — disse il robot. — Non è una cosa che mi riguardi. Io sono solo un robot cuciniere. Mi limito ad aspettare i viaggiatori che arrivano con il tram. E di solito non arriva nessuno. Aspetto gente che non arriva mai. Ma per me fa lo stesso. Quando arriva qualcuno, io sono pronto a servirlo. Non mi occupo d'altro. È l'unica cosa che so fare.

— E il Cappello?

— Si fa vedere qui di tanto in tanto, ma non ha bisogno di mangiare. Si siede al tavolo, sempre allo stesso posto. Non parla mai con me. Si limita a guardare la strada. E a volte si sgonfia.

— E voi, non fate niente per lui?

— Che cosa posso fare? Lo lascio dov'è, e poi, dopo qualche minuto, ora, o giorno, sparisce.

— Dove va?

Il robot allargò le braccia per indicare che non lo sapeva: un gesto esagerato, teatrale.

Boone ritornò all'esterno. Lupo aveva tirato giù dalla sedia il Cappello e lo trascinava in giro, come un cucciolo con uno straccio, per gioco. Lo gettò in aria, lo raccolse tra le fauci prima che toccasse terra, e lo agitò con malvagità.

Una bambola, pensò Boone, ecco che cos'era il Cappello: una bambola di stracci, costruita alla buona, che viaggiava nel tempo e nello spazio e che faceva da portavoce a qualcun altro. Il pupazzo di un ignoto ventriloquo.

Si fermò accanto al tavolo e guardò Lupo che giocava con la bambola di stracci che era stata in precedenza il Cappello; provò un brivido che giungeva dal profondo del suo cuore, un gelo psichico che derivava dal fatto di essere spaventato a morte.

Quando era giunto, si era chiesto la natura dello strano luogo dove era arrivato. Ora tornò a meravigliarsi, ma la sua meraviglia era più complessa e inquietante. La terra… o posto o condizione… in cui era capitato era spoglia e aliena, e si domandò perché non se ne fosse accorto prima. Si sentì nudo e solo davanti a una minaccia che non riusciva nemmeno a immaginare… anche se non vedeva minacce e non era solo, perché con lui c'era Lupo.

Lupo smise di giocare con il Cappello e sorrise a Boone, felice di avere un giocattolo e di non essere solo. Boone si batté la coscia con il palmo della mano, e Lupo venne a sedersi accanto a lui. Boone gli accarezzò la testa, e Lupo non si tirò indietro.

Il freddo, notò Boone con una certa sorpresa, era scomparso e il paesaggio grigio era ritornato a essere emotivamente indifferente.

Lupo uggiolò. Premeva la spalla contro la gamba di Boone, e il suo corpo era percorso da un fremito.

— Che cosa succede? — gli domandò Boone. — Che cos'hai?

Lupo uggiolò di nuovo.

Abbassando lo sguardo sull'animale, Boone vide che aveva sollevato la testa e che fissava il cielo, che non era affatto un cielo ma soltanto uno strato grigio premuto su un altro strato grigio.

— Lassù non c'è niente — gli disse Boone. — Niente di niente.

Ma nel pronunciare queste parole si accorse che sbagliava. Lassù nel grigio c'era qualcosa che prendeva lentamente corpo: era una forma ondeggiante che sembrava un tappeto male intessuto e che tremolava sullo sfondo grigio del cielo.

Vide che il tappeto ondeggiante scendeva a terra, e alla fine si accorse che non era affatto un tappeto, ma una rete rada, con due figure che si tenevano alle sue maglie.

La rete toccò terra, si gonfiò un'ultima volta, e ne balzò giù una donna che corse verso di lui a braccia tese.

— Enid! — esclamò Boone, correndo ad abbracciarla.

Un istante più tardi erano l'uno nelle braccia dell'altra. Enid gli premeva la faccia contro il petto e mormorava qualcosa che lui non riusciva a capire. Poi capì: — …Così contenta di trovarvi. Non volevo andarmene e abbandonarvi laggiù, ma sono successe molte cose e non sono riuscita a farlo.

— Tutto a posto — le disse lui. — Adesso siete arrivata, e questa è l'unica cosa importante.

— Vi ho visto — disse Enid, sollevando la faccia e guardandolo negli occhi. — Vi ho visto in un posto tutto grigio, ed eravate grigio, e accanto a voi c'era un lupo grigio.

— Il lupo è ancora qui — disse Boone. — Siamo felici.

Enid fece un passo indietro e lo squadrò attentamente. — State bene? — gli disse.

— Mai stato meglio.

— Che posto è questo?

— Siamo sulla Strada dell'Eternità.

— Che mondo è?

— Non lo so. La cosa non è molto chiara.

— È un posto diverso. Non siamo sulla Terra.

— Ne sono convinto anch'io — disse Boone — ma non so dove siamo.

— Avete girato dietro un altro angolo?

— Penso di sì. Dio sa quanto ho cercato di farlo.

Intanto, l'altra figura che era a bordo della rete era scesa a terra e si dirigeva verso di loro. Aveva due gambe e due braccia, e complessivamente una figura umanoide, ma non era un umano. La sua testa sembrava quella di un cavallo, e aveva un'aria di profonda tristezza. Aveva due grandi orecchi e più di due occhi, sparsi su tutta la fronte. Collo sottile, gambe talmente arcuate che pareva dondolare più che camminare. Le braccia assomigliavano a tubi di gomma. Accanto alla gola, due grosse branchie si gonfiavano e sgonfiavano ritmicamente. Il corpo sembrava un barile.

— Vi presento Muso di Cavallo — disse Enid, rivolta a Boone. — Non so come si chiami veramente, ma io l'ho sempre chiamato così, e lui non ha mai protestato. Muso di Cavallo, vi presento Boone. La persona di cui vi ho parlato: quella che cercavo.

— Sono lieto che vi abbiamo trovato — disse Muso di Cavallo.

— E io sono lieto di vedervi tutt'e due — gli disse Boone.

Il robot uscì dall'edificio cubico. Sulla testa, aveva un vassoio di cibo.

— Avete appetito? — domandò Boone. — Vedo che ci stanno servendo il pranzo.

— Altro che appetito — disse Enid — Io ho fame!

Si sedettero a tavola, e Boone si voltò verso Muso di Cavallo. — Questo cibo è per gli esseri umani. Può darsi che non sia di vostro gusto.

— Nei miei viaggi — gli assicurò l'alieno — ho imparato a mangiare qualsiasi cibo.

— A voi non ho portato niente — disse il robot, rivolto a Boone. — Avete appena mangiato un pasto spropositato. Ma ho portato al lupo un altro piatto di carne. Sembra ancora affamato. — Il robot posò davanti a Lupo il piatto di carne cruda. Lupo si buttò su di esso.

— È un ghiottone — disse Boone. — Lupo riuscirebbe a mangiare mezzo bisonte senza fare neanche una pausa per respirare.

— È uno dei lupi che abbiamo visto intorno al campo? Uno di quelli che davano fastidio al povero vecchio bisonte? — domandò Enid.

— Proprio uno di quelli. Dopo la vostra partenza… anzi, prima… è venuto a fare amicizia con me. La prima notte mi ero semiaddormentato, e me lo sono trovato naso a naso. Non ne ho mai parlato perché pensavo che fosse un'allucinazione.

— Parlatemi dell'accampamento. Che cos'è successo al mostro assassino, e al vecchio bisonte coraggioso?

— Anche voi avete una storia da raccontare, e vorrei ascoltarla.

— No, prima voi. Ho troppa fame per parlare.

Lupo aveva già finito di mangiare. Si era messo a camminare avanti e indietro, molestando il Cappello.

— Che cos'è la cosa con cui gioca il Lupo? — domandò Enid. — Sembra una bambola di pezza.

— È il Cappello. Fa parte del racconto che devo narrarvi.

— Narrate.

— Tra un momento — disse Boone. — Mi avete detto che mi avete visto. In un posto grigio, avete detto, e con il lupo. Volete spiegarmi come avete fatto a vedermi, e come avete rintracciato il luogo dov'ero?

— Semplicissimo — disse lei. — Ho trovato un televisore. Vi spiegherò poi. Il televisore mostra quello che desiderate vedere. Basta solo pensarlo. Perciò ho pensato a voi, e vi ho visto.

— Mi avrà mostrato sullo schermo, ma non può avervi detto dove trovarmi.

— Vi ha trovato la rete — gli spiegò Muso di Cavallo. — Potrà sembrare esile, ma è un meccanismo meraviglioso. Anzi, non è un meccanismo. È molto più precisa di qualsiasi meccanismo.

— L'ha costruita Muso di Cavallo — disse Enid. — L'ha immaginata mentalmente e…

— Mi avete aiutato voi — disse Muso di Cavallo. — Se non fosse stato per voi, non ci sarebbe nessuna rete. Avete tenuto premuto il dito e mi avete permesso di annodare il nodo più importante.

— Sembra una cosa interessante e misteriosa — disse Boone. — Ditemi.

— Non ora — disse Enid. — Prima finiamo di mangiare. Ora ditemi che cosa vi è successo da quando mi avete gridato di andare via, mentre il mostro assassino piombava su di noi.

Boone raccontò l'accaduto, riassumendo i fatti nella maniera più concisa. Quando finì la sua storia, anche Muso di Cavallo finì il pasto e si pulì la bocca con il dorso della mano.

Lupo aveva smesso di giocare con il Cappello e lo usava come cuscino. Li fissò con i suoi occhi gialli.

— Il Cappello, nel vostro racconto, era vivo — disse Enid.

— Adesso non è collegato — disse Boone. — Non so come definirlo. È soltanto una marionetta. Come i pupazzi usati dai ventriloqui.

— E avete qualche idea sull'identità del ventriloquo?

— Neppure una — disse Boone. — Ditemi cosa è successo a voi.

Quando Enid ebbe terminato il racconto, Boone scosse la testa. — Gran parte di quanto è accaduto — disse — non ha alcun senso. Dovrebbe esserci una sorta di schema, ma non lo vedo.

— Uno schema esiste — disse Muso di Cavallo. — Ed è l'unico ragionevole. Noi tre siamo finiti insieme, tutt'e tre attorno al baule che ho trovato sul pianeta rosa e violaceo.

— Il baule che avete rubato — disse Enid. — Non l'avete “trovato”. L'avete rubato, e io lo so.

— Se preferite, l'ho rubato, d'accordo — disse Muso di Cavallo. — O forse l'ho solo preso a prestito. La definizione è più accettabile?

Si alzò e corse verso la rete.

Guardando Muso di Cavallo che faticava sotto il peso del baule, Boone domandò: — Avete idea di chi possa essere?

— È un individuo pieno di sorprese — disse Enid. — Non so chi sia, e neppure la sua origine. Ma ha grandi idee, e forse qualche conoscenza, anche se non del tipo umano.

— Ci si può fidare di lui?

— Quanto a questo, non saprei dirlo. Dobbiamo seguirlo, ma tenendolo d'occhio.

— Lupo sembra trovarlo di suo gusto. Non so fino a che punto gli piaccia, ma non sembra averlo in antipatia.

— E voi vi fidate di Lupo?

— Avrebbe potuto uccidermi, quando ero imprigionato sulla collina. Non c'era niente che potesse fermarlo; il cibo era razionato, e lui aveva fame. Ma non credo che abbia mai pensato di divorarmi.

Muso di Cavallo fece ritorno al tavolo, curvo sotto il peso del baule. Lo appoggiò a terra.

— Adesso vedremo — disse.

Enid domandò: — Volete dire che non sapete cos'è?

— Oh — rispose Muso di Cavallo — so che cos'è. Ma non so che forma abbia, e come si deve usare.

Si chinò ad aprire i lucchetti. Il coperchio si spalancò di scatto e ne uscì una sorta di farina bianca, che si gonfiò fino a formare una nube e che poi cadde al suolo, tutt'intorno al baule. La sostanza bianca continuò a uscire dal baule, come se fosse stata compressa e ora avesse voglia di allargarsi.

La farina coprì l'area su cui erano collocati i tavoli e le seggiole, e cominciò ad avvolgere anche l'edificio cubico. Il robot uscì dalla porta per combattere contro l'invasione della farina. Boone afferrò Enid per il braccio e la spinse lontano. Lupo scappò a rifugiarsi dietro di loro.

Muso di Cavallo pareva scomparso all'interno della nube di farina. La rete si stava allontanando lentamente, a poche decine di centimetri dal terreno: percorse qualche centinaio di metri, e poi tornò a posarsi a terra. Il fronte avanzante della farina si avvicinò alla vettura tramviaria, che si mise in moto e si allontanò accelerando.

Adesso però la farina cambiava aspetto. Invece di continuare a estendersi come un'unica massa compatta diventava porosa e nel suo interno si aprivano grandi fori. Ma continuava ad allargarsi. Si arrampicava sul terreno e si gonfiava nell'aria. Aumentò prodigiosamente di dimensione. Nel suo interno si accesero scintillanti punti di fiamma, grandi aree oscure e turbini nebbiosi punteggiati di luce. Alcuni dei punti luminosi divennero ancora più luminosi, altri si allontanarono e divennero progressivamente sempre più opachi. L'intera massa dava un'impressione di movimento, di scorrimento e di trasformazione.

— Sapete che cos'è? — domandò Enid.

Boone scosse la testa.

— Avete visto Muso di Cavallo? È ancora là dentro?

— Penso di sì — disse Boone. — Quello sciocco si è lasciato prendere alla sprovvista.

Ormai la forma del baule non era più visibile. Era sepolto nella massa bianca, che si trasformava in una nebbia trasparente e che diventava sempre più larga, anche se più lentamente di prima. Adesso pareva una scintillante bolla di sapone.

— Eccolo che arriva — disse Enid, a bassa voce, indicando col dito. Guardando nella direzione indicata, Boone scorse Muso di Cavallo, minuscolo ed esile all'interno di quella immensa bolla, ma diretto caparbiamente verso di loro.

Infine, Muso di Cavallo ne uscì, come un uomo uscito da una massa di ragnatele, e li raggiunse.

— È la galassia — comunicò loro. — Una carta della galassia. Avevo sentito parlare di queste carte, ma non ne avevo mai vista una.

Li fissò con i suoi numerosi occhi, poi indicò la bolla con una mano simile a un tubo di gomma.

— Guardate le stelle — disse. — Alcune splendono fiammeggianti, altre sono talmente minuscole che non si riesce a scorgerle. Notate le nubi di polvere, i veli delle nebulose. E, più avanti, la linea retta che si dirige verso il cuore della galassia: la vostra Strada dell'Eternità.

— Impossibile — disse Enid.

— Lo avete sotto gli occhi e dite che è impossibile? Non vedete la gloria e l'immensità della nostra galassia?

— È una galassia, certo — disse Boone. — E vedo la linea bianca, anche se non avevo idea che fosse la strada dove siamo noi.

— Lo è, ve lo dico io — insistette Muso di Cavallo. — Nelle leggende della mia razza si parlava di una strada che corre tra le stelle. Anche se le leggende non dicevano mai perché esisteva la strada, o dove conducesse. Ma ora dobbiamo seguirla. Dobbiamo andare a vedere. È arrivato il momento di farlo.

Boone diede un'altra lunga occhiata alla “bolla di sapone” e non ebbe più dubbi: rappresentava effettivamente una galassia a spirale. Aveva forma approssimativamente ovale, era più spessa al centro che ai bordi, anche se non era così regolare come le foto di galassie che aveva visto in passato. Comunque, era chiaramente una galassia di forma aperta, con bracci nebbiosi che si allargavano all'esterno e che erano più sottili e turbolenti dell'area centrale. Uno dei bracci della spirale circondava il punto dove c'erano in precedenza i tavoli e le sedie: vagamente, la forma dei tavoli era ancora visibile.

Muso di Cavallo si recò accanto alla carta stellare e si curvò a osservarne alcune parti.

Lupo non si staccava da Boone e tremava. Niente di strano, si disse Boone. Era una cosa da far accapponare la pelle a chiunque. Abbassò il braccio per accarezzare il lupo sulla testa. — Buono, buono — gli disse. — Va tutto bene. Non c'è nessun pericolo. — Lupo si strinse a lui ancora di più, e Boone si domandò se le proprie parole corrispondevano al vero. Era lui il primo a dubitare che andasse tutto bene e che non ci fosse pericolo.

Disse a Enid: — Ha parlato con voi di carte e mappe celesti?

— Ha parlato di un mucchio di cose — disse Enid. — E gran parte di quel che ha detto era privo di senso. Ma soprattutto ha parlato di carte genetiche, inserite nella sua memoria razziale.

Muso di Cavallo si accostò a loro. — Andiamo a dare un'occhiata? — domandò.

— Là dentro, volete dire? — chiese Enid. — Volete dire che dobbiamo entrarci?

— Ma certamente! — esclamò Muso di Cavallo. — Altrimenti, come potremo apprendere ciò che ci occorre? Quella linea bianca porta in qualche luogo. Andiamo a cercare dove porta. L'hanno messa apposta.

— Là dentro — disse Enid — corriamo il rischio di perderci. Rischiamo di starci dentro per giorni interi.

— No, se seguiamo la linea bianca. La seguiamo all'andata, e poi ci regoliamo su di essa per il ritorno.

— Se dobbiamo entrare in quella cosa — disse Enid — prima devo prendere un certo oggetto.

Dette queste parole, si avviò di corsa verso la rete.

Entrare in quel vortice di nebbia era una cosa di cui Boone avrebbe fatto volentieri a meno. A una prima occhiata pareva abbastanza semplice: una rappresentazione costruita da una tecnologia e da un'arte che alla sua epoca erano inconcepibili. Ma nella carta stellare c'era qualcosa di allarmante, di alieno, che lui non riusciva ad accettare. Gli pareva che un uomo potesse perdersi al suo interno e non trovare più la via d'uscita. Seguire la linea bianca, diceva Muso di Cavallo, e questo andava bene se la linea rimaneva al suo posto. Ma se quella linea non era altro che l'esca per attirare la preda in una trappola?

Enid fece ritorto, con una piccola scatola sotto il braccio. La sollevò per mostrarla a Boone. — È il televisore che ho trovato dove gli alieni facevano il picnic. Penso che ci convenga averlo con noi, se entriamo nella carta.

— È una sciocchezza — disse Muso di Cavallo.

— No. Mi ha mostrato dov'era Boone e ci ha indicato come raggiungerlo. È come avere un altro paio di occhi, e là dentro ci occorreranno tutti gli occhi di cui possiamo disporre. Ci mostra quello che desideriamo vedere.

Il riferimento a un “altro paio di occhi”, pensò Boone, non era molto centrato, perché, mentre loro due ne avevano solo un paio, Muso di Cavallo ne aveva molti di più: due gruppi, che probabilmente erano assai più perfezionati dell'equivalente umano.

Lupo piagnucolò piano, e Boone lo guardò. L'animale aveva paura, pensò, e anche lui, se avesse avuto un po' di sale in zucca, avrebbe dovuto piagnucolare come Lupo.

— Venite? — gli domandò Enid.

— Che cosa c'è, da vedere? Muso di Cavallo dice che la Strada dell'Eternità porta dove vogliamo andare e che non abbiamo bisogno di sapere altro. Saliamo sul tram e seguiamola.

— Ridicolo — disse Enid. — Con quella vetturetta, ci vorrebbe un'eternità per arrivare. Quando partiremo, useremo la rete, e per la rete non contano né il tempo né la distanza.

— Certo, certo — disse lui, cercando di guadagnare tempo prima di entrare in quella folle carta stellare. — Ma quando siamo partiti da Hopkins Acre, che cosa ci siamo ripromessi di cercare?

— Be'… gli Infiniti — disse lei. — Il pianeta d'origine degli Infiniti. È per questo che siamo partiti.

Finché Enid non aveva pronunciato la parola, Boone non si era più ricordato degli Infiniti. Molto tempo, molti luoghi diversi erano passati da quando ne avevano parlato l'ultima volta. Ma Enid se ne ricordava, perché era vissuta per secoli nel timore della loro minaccia.

— È la prima volta che sento parlare di cercare gli Infiniti — disse Boone. — Vi siete nascosti agli Infiniti per decine di anni, ed entrambi abbiamo dovuto scappare per salvarci dal loro robot assassino.

— Ci ho pensato bene — gli disse Enid — e mi sembra che non possiamo continuare a nasconderci. Dobbiamo andare a cercarli. Abbiamo la rete e Muso di Cavallo, e possiamo trovare altri che ci aiuteranno contro di loro.

— Non avrei mai pensato — disse Boone — che foste così combattiva.

— Venite o no? — domandò Muso di Cavallo, impaziente. — Se vogliamo usare la rete, dobbiamo avere un'idea della destinazione. La carta dovrebbe darci qualche suggerimento.

— Siete certo dell'esattezza della carta stellare? — domandò Boone. — Come fate a esserlo?

Un tempo, pensava Boone, sulla Terra, i cartografi mettevano sulle carte alcune caratteristiche che erano soltanto miti, o prodotti della loro immaginazione.

— Sul mio onore — disse Muso di Cavallo. — Questo manufatto è stato fabbricato da una razza competente, che sapeva ciò che faceva.

— Voi l'avete conosciuta?

— Ne ho sentito parlare. Me ne hanno parlato sul ginocchio di mio nonno e ne ho avuto altre descrizioni dai saggi della mia gente.

Boone cercò Lupo, ma Lupo non c'era più. Guardando dietro di sé, vide che Lupo era andato a sedersi a una certa distanza da lui, sulla strada. Aveva trovato il Cappello e se lo masticava. Lupo non aveva intenzione di entrare nella carta stellare, e, d'altronde non c'era motivo di portarlo in quella confusione.

— D'accordo Lupo — disse — Tu aspettami qui.

Gli altri due erano entrati nella carta stellare, Muso di Cavallo per primo ed Enid dietro di lui. Boone si affrettò a raggiungerli.

Sembrava uno spazio pieno di ragnatele, ma non c'erano ragnatele. Quando entrò, Boone non sentì più la terra sotto i piedi. Gli pareva di camminare nel vuoto, che i piedi gli fossero diventati insensibili: non sentiva niente quando li appoggiava.

Accanto a lui ardeva un grosso globo rosso, e Boone si chinò per non urtarlo, ma così facendo giunse faccia a faccia con un altro gioiello luminoso, intensamente azzurro. Prima che si potesse spostare dall'altra parte, finì per urtarlo. Ma non portò alcuna sensazione di calore, niente che indicasse la presenza di una stella. Sorrise. Aveva evitato una gigante rossa ed era finito in pieno in una stella azzurra, molto più calda. Che quella carta contenesse la rappresentazione di ogni stella, ogni nuvola di gas, ogni spira di polvere della galassia? La cosa sembrava impossibile. Ricordava di avere letto che nella Via Lattea c'erano più di cento miliardi di stelle. Nella carta non potevano essere rappresentate tutte. Se ce ne fossero state così tante, anche riducendo le stelle più piccole a semplici particelle di polvere, l'intera area sarebbe stata così piena che non si sarebbe potuto camminare. Con buona pace dell'accuratezza decantata da Muso di Cavallo.

— Attenzione alla linea bianca, perché è il nostro segno di riferimento — disse Muso di Cavallo. — È all'altezza del vostro fianco, alla vostra destra. — Boone abbassò lo sguardo e la vide: un filo bianco, una corda di salvataggio che lo collegava al mondo grigio dove lo aspettava un lupo che teneva in bocca la forma inerte del Cappello, come una bambola di stracci. Dove c'era l'edificio a forma di cubo, e accanto a esso il robot che preparava altro cibo, in attesa del loro ritorno.

Non ci credo, disse a se stesso. Non credo neppure una parola. Niente di simile sta accadendo veramente.

Invece era tutto vero. Camminava in un luogo dove non si sentiva la terra quando si posava il piede; attraversava un'area che non era soltanto illusoria, ma anche immaginaria, dove c'erano stelle, nubi di gas e di polvere, che si potevano vedere, ma che non si potevano toccare. E ora c'era anche qualcos'altro: un suono, un canto. Le stelle cantavano per lui la musica delle sfere: il fischio dell'idrogeno, il ritmo della radiazione, la sinfonia del tempo, il cantico dello spazio, il ronzio della polvere e la canzone del vuoto. La parte spaventosa di tutto questo stava nel fatto che laggiù non c'era niente. Non era realtà; era tutt'al più la magia di una rappresentazione, di un manufatto che era totalmente illusorio.

Si accorse di essere rimasto indietro rispetto ai compagni. In mezzo alla foschia, poteva a malapena distinguere Enid; Muso di Cavallo era scomparso. Stiamo camminando da ore, pensò, e questo era ridicolo, perché la carta stellare in cui erano entrati non poteva essere larga più di un centinaio di metri.

Accelerò il passo per raggiungere gli altri, senza cercare di evitare le stelle e le nubi di gas, perché ora capiva che non c'erano; ma anche se non c'era niente, pareva esserci una sorta di sostanza che cercava di respingerlo. Era come passare a guado un torrente impetuoso.

Davanti a lui si stendeva una nube di polvere più spessa del normale. Anche se sapeva che quella polvere era solo un'immagine, abbassò la testa, ma la nube era più profonda di quanto credesse e lo accecò. Le stelle non si vedevano più: Boone si curvò su se stesso, nell'oscurità, come se avesse dovuto sfondare un muro. Le gambe lo spingevano avanti; la pressione della corrente invisibile lo frenava.

Uscì dalla nube di polvere e trovò di nuovo la luce; una luce più intensa di quella incontrata prima. L'origine era una stella ardente alla sua destra, dai contorni nebbiosi.

Accanto a lui, Enid disse: — Una nova. Forse una supernova. Ma così oscurata dalla nube di polvere cosmica da risultare invisibile a noi della Terra.

Mentre ascoltava Enid, Boone vide un'altra stella, talmente vicina a lui che gli sembrava di poterla toccare con la mano. Non aveva niente di appariscente; era una stella minuscola e gialla, ma l'aveva notata perché qualcuno (qualcuno?) aveva scritto accanto a essa una piccola X, come per distinguerla da tutte le altre stelle della galassia, per ricordarsi che era una stella particolare.

— Boone, mi sentite? — domandò Enid. — Che cosa vi succede?

Non rispose. Fece un passo di lato, per vedere la stella sotto un altro angolo d'osservazione. Mentre si muoveva, la X si mosse insieme con lui. Cambiò posizione, e anche la X la cambiò. Da qualsiasi angolo si guardasse la stella, la X era sempre visibile. Era impossibile, si disse. Era un'altra illusione…

Enid lo prese per il braccio. — Muso di Cavallo è andato avanti. E Boone, dov'è finita la linea? Non vedo più la linea bianca. L'ho persa di vista.

Sentendosi prendere per il braccio, Boone si voltò. Vide che Enid era allarmata. Si guardava attorno, cercava dappertutto la linea bianca.

— Non è qui — disse Enid. — Con la nostra fretta di muoverci, e di fronte a tutte le meraviglie di questo luogo… Adesso, cosa facciamo?

Boone alzò le spalle. — Torniamo indietro a cercarla — disse. — La troveremo certamente.

Ma non ne era del tutto sicuro. Era una linea così piccola, così insignificante, che correvano il rischio di non vederla.

A poca distanza da loro si scorgeva una grande stella bianca che ruotava follemente sul proprio asse, mentre accanto a essa girava una stella molto più piccola, bianca e luminosa, ma la cui luce impallidiva al confronto del fulgore della compagna. La piccola stella ruotava sul proprio asse con una tale velocità che il suo moto era solo un tremolio, e tra le due stelle si stendeva un lucente cordone di energia fiammeggiante, che si dirigeva dal corpo astronomico più grande a quello più piccolo. Una stella di tipo B, pensò Boone, in sistema binario con una nana bianca.

— Non possiamo tornare indietro — diceva intanto Enid. — Per ora non possiamo ancora ritornare. Dobbiamo andare avanti e cercare Muso di Cavallo. Lui ci aiuterà a trovare la linea.

Si rimise in cammino, e Boone la seguì. Adesso aveva l'impressione di procedere in salita, e la cosa era del tutto folle. Nella galassia non c'erano salite. Aveva attorno alle caviglie riccioli di polvere cosmica e le stelle gli sembravano molto più fitte e più rossicce di quelle che aveva visto prima.

Non c'era dubbio, procedevano lungo una salita molto ripida. Infine, a fatica, raggiunsero il punto più alto. E lassù scorsero Muso di Cavallo. Era fermo, e guardava davanti a sé.

Anch'essi si fermarono a osservare con lui l'oscurità turbinosa circondata da lampeggianti scintille di luce.

— Un vortice! — esclamò Enid. — Ruota su se stesso.

— È il centro della galassia — spiegò Muso di Cavallo. — È il centro di tutto. Un immenso buco nero che si divora la galassia. Ed è la fine di tutto.

Soffiava un vento freddo, anche se non si capiva come potesse soffiare. Portava con sé il brivido raggelante del vuoto, il bacio gelido della morte. Forse, pensò Boone, era il gelo nero del tempo, che sconfitto fuggiva dalla disintegrazione che divorava il centro della galassia.

— La fine di tutto, avete detto — obiettò Enid. — Non può essere la fine di tutto. Forse è la fine di questa galassia. Ma ci sono altre galassie. Le galassie sono infinite.

— Forse c'è qualcuno che sa queste cose — disse Muso di Cavallo. — Ma io non rientro nel loro numero. E neppure gli altri del mio popolo.

— E quelli che hanno fabbricato questa rappresentazione? Coloro che hanno preparato la carta stellare?

— Può darsi — le disse Muso di Cavallo. — Ma può anche darsi di no. Forse la verità potrebbe disseccare l'anima. O forse la risposta non esiste.

— Allora, tutto questo può andarsene al diavolo — disse Boone. — Io ritorno indietro.

— Non possiamo tornare indietro — gli rammentò Enid. — Non troviamo più la linea. La sottile linea bianca.

Muso di Cavallo mormorò sorpreso: — La linea? L'abbiamo perduta? Me n'ero totalmente dimenticato.

— Anche noi.

— Non è un problema grave — disse Boone. — La carta in cui ci troviamo, anche se si è molto dilatata, non può avere diametro superiore a qualche chilometro. Quando eravamo sulla Strada, mi era parso che fosse larga un centinaio di metri. Camminando in linea retta in una direzione qualsiasi, presto dovremmo essere fuori.

Muso di Cavallo gli spiegò: — Qui non ci sono linee rette. Ci sono solo linee intrecciate su se stesse, che sono un inganno dei sensi.

— Ma voi avete raggiunto il centro — disse Boone. — Siete corso avanti, e avete puntato direttamente verso questo punto. Siete arrivato dove volevate. Non c'è stata nessuna linea intrecciata.

— Vero — disse Muso di Cavallo. — Mi sono diretto verso il centro. Ho sentito delle leggende. Il centro è un punto molto interessante, e ci sono arrivato con il mio intuito. Molto tempo fa avevo sentito parlare della distesa di nulla…

— È una cosa nota — gli disse Boone. — Già gli astronomi della mia epoca conoscevano il centro della galassia. Sapevano che al centro di molte galassie c'è una grande turbolenza, e alcuni pensavano che ci fosse un buco nero.

— Tutta questa disquisizione non serve a niente: — disse Enid. — Adesso, il problema è trovare la linea bianca.

— Non c'è bisogno della linea bianca — disse Boone. — Possiamo uscire anche senza trovarla. Basta camminare in linea reta per trovare il bordo.

— Non mi avete ascoltato — disse Muso di Cavallo. — Vi ho detto che una linea retta, come quelle che voi conoscete, non esiste qui. Tutto è intrecciato e contorto. È un labirinto di grande complessità.

— Volete dire che non possiamo uscire?

— No, questo no. Basta girare qui dentro per un po' di tempo, e alla fine ci si trova fuori. Ma non è facile.

Quante sciocchezze, si disse Boone. Il problema, nonostante quei discorsi sulla grande complicazione, era abbastanza semplice. Eppure, quando si guardò attorno, capì cosa volesse dire Muso di Cavallo. C'erano troppi punti di riferimento: non una singola stella, una singola nube di polvere cosmica, una singola macchia d'oscurità, che lui riuscisse a ricordare. Ce n'erano troppe, e parevano tutte uguali. E ogni cosa sembrava leggermente diversa da quando l'aveva guardata l'ultima volta.

Come se avesse letto nei suoi pensieri, Enid disse:

— Certo ci sarà qualche punto di riferimento che ricorderete.

— Sì — disse Boone. — C'era una stella che era contrassegnata con una X.

— Una X?

— Sì, una X. Come se qualcuno l'avesse scritta sulla stella per contrassegnarla. Era una stella normalissima. Una stella della sequenza principale delle luminosità stellari. Gialla. Probabilmente tipo G, come il nostro sole.

— Non me l'avete detto.

— Me ne sono dimenticato quando mi avete detto che avevate perso di vista la linea bianca.

— E voi — domandò Muso di Cavallo, rivolto a Enid — avete visto una stella con una X?

— No — disse lei. — Non l'ho vista. E poi, che idea, scrivere una X su una stella!

Muso di Cavallo si rivolse a Boone: — Non ricordate altro?

— No — disse Boone.

— Semplice allora — disse Muso di Cavallo. — Io sono rimasto sempre fermo in questo punto, senza muovermi, dal momento del mio arrivo. Quindi abbiamo un punto di riferimento. Quando mi avete visto, avevo la schiena girata verso di voi?

— Sì — disse Enid.

— Allora è facile — disse Muso di Cavallo. — Mi girerò di 180 gradi e procederemo in quella direzione.

Boone alzò le spalle. Gli sembrava una cosa troppo semplice. Non prendeva in considerazione altri fattori. Ma non aveva altre vie da suggerire.

— Si può fare la prova — disse.

Tutt'e tre si voltarono e s'incamminarono nella direzione opposta a quella da cui erano venuti. Era facile andare avanti. Non c'era da vincere nessuna corrente. Boone continuava a non sentire nessuna superficie solida sotto i piedi, e udiva ancora il canto delle stelle, ma non vi prestò attenzione.

Raggiunsero la zona “piana”, dopo quella “in discesa”, e Boone proseguì. Aveva fretta di uscire da quel labirinto delle illusioni.

— La linea! — esclamò all'improvviso Enid, dietro di lui. — Vedo di nuovo la linea!

Boone si voltò indietro e vide i due compagni, fermi in mezzo alle stelle, che fissavano la linea. Adesso la vedeva anche lui. Lui era da una parte della linea, e i compagni erano dall'altra: evidentemente, lui l'aveva attraversata senza accorgersi della sua presenza.

Ritornò indietro, e si affiancò ai compagni. Tutt'e tre fissarono la linea, in silenzio.

— Adesso — disse Enid — possiamo basarci sulla linea per ritornare al punto di partenza. Siamo stati fortunati.

— Niente da stupirsi — disse Boone. — Camminavamo in linea retta.

Muso di Cavallo sbuffò. — Sempre la linea retta. Vi ho detto e ripetuto che la linea retta…

Boone non ascoltò la sua filippica. Guardando in “avanti” scorse nuovamente la nova o supernova che lui ed Enid avevano visto all'andata. Nei pressi c'era una certa stella gialla.

Si diresse verso la supernova, per indicare ai compagni l'altra stella.

— Dove andate? — gli chiese Enid.

— Venite — disse, senza voltarsi, per non perdere d'occhio la piccola stella. — Vedrete la stella con la X.

Si sentì un po' sciocco, perché non era certo che fosse proprio quella stella. C'era un mucchio di stelle gialle. Se ne vedevano dappertutto.

Ma poi non si preoccupò più. Scorse la X segnata accanto alla stella.

— Dev'essere una stella importante — ammise Muso di Cavallo, fermandosi accanto a lui. — Altrimenti, perché mettere il segno?

— È uguale a un altro milione di stelle della sua classe — disse Boone. — Per questo la cosa sembra strana, e temevo di non avere visto bene. La stella sembra uguale a tutte le altre.

— Forse non è la stella che è importante — disse Muso di Cavallo. — Forse la stella ha dei pianeti, e uno di questi è importante. Ma un pianeta è troppo piccolo per essere visibile in questa carta stellare.

— Un momento — disse Enid. — Forse c'è il modo di vederlo.

Sollevò la scatola scura e la puntò verso la stella. Poi emise un'esclamazione di sorpresa.

— Ecco! — disse. — C'è un pianeta.

Boone si avvicinò a lei e fissò il “televisore”. Vide la forma di un pianeta, che si allargò fino a riempire lo schermo. Continuò a espandersi, e Boone ed Enid videro cosa c'era sulla superficie.

— Una città — commentò Muso di Cavallo. — Quel pianeta ha una città.

Immense strutture parvero protendersi verso di loro.

— Il luogo è quello — disse Muso di Cavallo, a voce bassa, ma in tono ansioso. — È laggiù che ci porta la linea.

— E una volta arrivati? — domandò Enid.

Muso di Cavallo le rispose: — Chi lo sa?

Enid abbassò il televisore e lo schermo si oscurò.

— Torniamo indietro — disse Muso di Cavallo — orientandoci sulla linea. Poi saliamo sulla rete…

— Un momento — disse Boone. — Bisogna discuterne. Bisogna pensarci bene.

Ma Muso di Cavallo non era più lì ad ascoltarlo. Stava già allontanandosi.

Boone guardò Enid. — Avete ragione — disse lei. — Bisognerebbe discuterne, prima.

— Allora, prima usciamo di qui — disse Boone.

Si avviarono verso l'uscita, più lentamente di Muso di Cavallo, ma abbastanza in fretta. Entrambi erano ansiosi di allontanarsi dalla carta stellare.

Cominciarono a scorgere davanti a loro, debolmente, il grigiore del luogo da cui erano partiti. Poi scorsero l'edificio cubico e i tavoli con le sedie. E dietro i tavoli la forma di Lupo, con accanto il robot dalla testa piatta.

Soltanto quando sentì sotto i piedi la superficie solida, Boone fu certo di essere finalmente uscito dalla carta. Fece ancora qualche passo e disse a Lupo: — Come va? È successo qualcosa d'importante, mentre ero via? — Lupo era seduto a terra e accanto a lui c'era la forma immobile di Cappello, floscia e bistrattata.

Non si scorgeva Muso di Cavallo da nessuna parte, ma la vettura tramviaria stava arrivando. Sul sedile anteriore c'era una persona.

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