Niente era andato per il giusto verso, pensò Enid. Non avrebbe dovuto cercare di guidare un viaggiatore. Avrebbe dovuto capire di non avere la competenza necessaria. Eppure, che cos'altro avrebbe potuto fare? Quando era ancora a Hopkins Acre, era stata lasciata indietro per aspettare Boone, e non aveva avuto il tempo di scegliersi un punto di destinazione. Aveva semplicemente messo in moto il viaggiatore: non aveva avuto il tempo di fare altro. Poi, più tardi, si era ripresentata la stessa situazione. Boone le aveva gridato di salvare il viaggiatore, e lei era scappata. E adesso si trovava a quasi un milione di anni nel futuro rispetto a Boone… e non aveva la minima idea di come ritornare a prenderlo. Era colpa di Horace, si disse. Di Horace, che era così magniloquente nel fare i progetti, e che li faceva così male. Su ciascun viaggiatore ci sarebbe dovuta essere una persona capace di pilotarlo… ma soltanto in due di loro, pensò, erano in grado di farlo: David, che era molto bravo, e Horace, che era solo mediocre. Emma e Timothy non sapevano come usare quelle macchine.
Se non fosse arrivato il mostro, se avessero avuto il tempo di prepararsi, le cose sarebbero andate splendidamente. Alla partenza, avrebbero deciso la loro destinazione, e probabilmente si sarebbe occupato David di programmare ciascuno dei viaggiatori, in modo che arrivassero tutti nello stesso luogo e nello stesso tempo. Ognuno avrebbe conosciuto la destinazione, e il viaggio si sarebbe svolto in gruppo. Se qualcuno avesse programmato in precedenza il suo viaggiatore, la stessa Enid non avrebbe avuto fastidi. Quello che l'aveva rovinata, era stato il fatto di doversi per due volte lanciare nel vuoto.
Osservò nuovamente il pannello, e vide che la designazione temporale era abbastanza chiara. Ma la designazione spaziale era incomprensibile. Conosceva la data in cui era giunta, ma non la località. L'altra volta era stato Boone a indovinare il luogo d'arrivo, anche se in modo generico. Sul pannello, naturalmente, era segnata anche la destinazione spaziale, ma lei non era capace di leggerla. Le venne in mente, col senno di poi, che avrebbe dovuto prendersi nota della designazione, copiandola dal pannello.
Anche in quel momento, comunque, la designazione spaziale del punto dove erano giunti lei e Boone era memorizzata nel registratore. Si poteva richiamarla sul pannello, ma Enid non aveva idea di come si facesse.
Si appoggiò con la schiena al sedile, stancamente, e continuò a fissare il pannello. Perché, in tutti gli anni passati a Hopkins Acre, non aveva mai chiesto a David di insegnarle a guidare un viaggiatore? David sarebbe stato lieto di farlo: Enid non ne dubitava. Ma non glielo aveva mai chiesto perché non le era mai venuto in mente che, un giorno o l'altro, potesse avere bisogno di usarne uno.
Provò a osservare dallo schermo visivo l'ambiente circostante, ma la prospettiva era limitata, e il panorama non mostrava caratteristiche significative. A quanto pareva, era su un'altura, poiché scorgeva una distesa di montagne, scoscese, in mezzo a cui scorreva un fiume scintillante.
Quindi, pensò, era riuscita a partire e ad arrivare in qualche punto. Nient'altro. Horace ed Emma dicevano sempre che lei era una pasticciona e probabilmente non avevano torto.
Aveva abbandonato nel passato più remoto una persona che era stata gentile con lei, e non era in grado di andare a riprenderla: non si sentiva più di provare. Aveva fatto due salti alla cieca: il primo nel passato, e il secondo, molto più lungo, nel futuro. Una volta Henry era riuscito a trovarli, quando si erano nascosti nell'Europa del Medioevo, ma si era trattato di un compito relativamente facile, paragonato a quello attuale. Forse lei aveva lasciato una traccia, ed Henry poteva seguirla. Ma le tracce erano due, e cosa poteva fare, Henry con due tracce? Senza bisogno di rifletterci sopra, Enid sapeva di doversi fermare dov'era. Se avesse fatto un altro salto, probabilmente si sarebbe perduta per sempre.
Lasciò il seggiolino del pilota e si diresse verso il portello di uscita. Quando lo aprì, udì uno strano suono, simile al ronzio di uno sciame d'api. E una volta discesa a terra ne vide l'origine.
Il viaggiatore era fermo sul fianco di un monte, poco al di sotto della cima. Su un argine, sopra di lei, c'era una fila di gente che camminava, ed era da quella gente che proveniva il suono: molte voci che parlavano insieme.
A destra e a sinistra, fin dove giungeva il suo sguardo, la fila si muoveva lungo il crinale del monte. Era una fila scarsamente omogenea. In certi punti la gente era tutta ammassata, ma in alcuni tratti c'erano solo piccoli gruppi di persone, o persone isolate. Ma tutti quanti camminavano nella stessa direzione, e senza fretta.
Al loro fianco, come se fossero le guide della processione, c'erano strane figure, non tutte uguali. Alcune avevano un aspetto simile a quello degli esseri umani; altre erano estremamente diverse dall'uomo; ma tutte erano in movimento: strisciando, saltando, camminando su un grande numero di gambe, galleggiando a mezz'aria. Alcune volavano.
Enid rimase senza fiato, quando comprese la natura di quelle creature. Alcune di quelle che avevano aspetto umano erano robot, e senza dubbio lo erano anche altre che non lo avevano. Le altre erano alieni. Nell'epoca da cui proveniva Enid c'erano molti alieni che avevano rapporti non sempre comprensibili con gli esseri umani, ma la sua famiglia aveva sempre cercato di avere a che fare il meno possibile con gli alieni.
Enid si allontanò dal viaggiatore e si avvicinò alla lenta e goffa processione, salendo lungo la scarpata. Si trovava in una regione, a quanto vide, di altipiani brulli e aridi. Però, le alture che la circondavano davano un senso di grandezza e parevano protendersi a toccare il cielo che era azzurro e profondo: il cielo più azzurro che Enid avesse mai visto, senza neppure una nuvola che ne macchiasse lo splendore.
Soffiava un forte vento che le agitava il vestito: un vento gelido, che dava l'impressione di avere attraversato interminabili regioni fredde e vuote, ma il sole del mezzogiorno era caldo. Guardando in basso, Enid scorse un liscio prato erboso: fili corti e ordinati d'erba, che non avevano niente di selvatico. Qua e là, sulla cima della scarpata, crescevano alberi la cui forma era stata scolpita dal vento: un vento che probabilmente soffiava laggiù da secoli, se aveva così piegato le piante alla sua volontà.
Nessuno si accorse della sua presenza. Neppure per un attimo il suo arrivo interferì con ciò che stava succedendo.
Che cos'era, si domandò: un rito, un pellegrinaggio religioso, o forse la ricostruzione di qualche antica mitologia? Un'ipotesi valeva l'altra. Ma forse era pericoloso intromettersi, anche se, dal punto dove si trovava lei, le pareva che la processione badasse soltanto a se stessa.
Da dietro di lei, una voce disse: — Siete venuta per unirvi a noi, signora?
Sorpresa, si voltò verso colui che aveva parlato. Il robot era a pochi centimetri da lei. Il rumore del suo arrivo si era confuso con il rumore del vento. Aveva forma umana ed era molto compito. In lui non c'era niente di imperfetto. Era una macchina, naturalmente. Lo si vedeva al primo sguardo. Ma in uno strano modo era nobile e umano. Faccia e corpo erano umani nel significato classico del termine, ed era decorato con gusto: il metallo era inciso con piccoli disegni discreti, che le ricordavano le incisioni sul più prezioso dei fucili collezionati da Timothy. Aveva sulle spalle una porchetta, e sotto il braccio teneva un grosso sacco di farina.
— Vi chiedo scusa, signora — disse il robot. — Non avevo intenzione di spaventarvi. Mentre mi avvicinavo a voi ho cercato di fare del rumore per annunciare la mia presenza, ma il vento… Con questo vento non si odono i rumori.
— Vi ringrazio — disse Enid. — Mi avete spaventato, ma solo per un istante. E non sono venuta per unirmi a voi. Non so neppure cosa sta accadendo.
— È tutta una questione di allucinazioni — disse il robot, senza mezzi termini. — Quella che vedete è una marcia del Pifferaio. Conoscete, suppongo, l'antica storia del Pifferaio di Hamelin?
— Sì, certo — disse Enid. — È una storia che ho letto in un libro di mio fratello. Parla di un pifferaio che con il suo strumento attirò fuori da un villaggio tutti i bambini.
— Qui è lo stesso — disse il robot. — Una marcia del Pifferaio, a parte che il pifferaio è assente. È colpa di questi alieni.
— Se non c'è un pifferaio, questa gente cosa segue?
— Nella loro allucinazione che credo sia cagionata dagli alieni, seguono dei sogni. Ciascuna persona segue un sogno che è esclusivamente suo. Io gliel'ho detto e ridetto, e, come me, glielo hanno detto anche gli altri robot, ma questa gente non presta alcuna attenzione a noi, e preferisce seguire i sudici alieni.
— Allora, perché siete qui? Voi non siete solo; ci sono anche altri robot.
— Qualcuno si deve prendere cura degli uomini. Qualcuno deve proteggerli da se stessi. Sono partiti senza provviste, senza acqua e senza cibo, senza abiti sufficienti a proteggerli dal freddo e dall'umidità. Vedete questa porchetta che ho sulla schiena, questo sacco che ho sotto il braccio? Io batto la campagna, raccogliendo quello che trovo. Non è un lavoro, vi assicuro, adatto a un robot della mia integrità e della mia sensibilità, ma devo farlo, perché questi miei umani scervellati sono presi dai loro stupidi sogni e non sono in grado di badare a se stessi. Ci deve essere qualcuno che si prenda cura di loro.
— Come andrà a finire? — domandò Enid. — Che cosa succederà a questi uomini?
— Non lo so — disse il robot. — Io spero che finisca tutto per il meglio. Forse la cosa è già successa altre volte in altri luoghi, ma questa è la prima volta che succede da noi. Vi chiedo scusa, ma per quanto io ami i miei umani, ci sono dei momenti in cui diventano la forma di vita più irresponsabile e irragionevole che esista. Ormai, signora, la mia età è giunta a varie centinaia di anni, e ho letto la storia di innumerevoli secoli; ma mi sembra che adesso gli umani siano irragionevoli in modo allegro e spensierato, mentre prima lo erano in modo stupido e perverso. Ma essere spensieratamente irragionevoli, ricavare piacere dall'irragionevolezza, mi sembra la peggiore forma di pervertimento.
— Dovrei riflettere sulla cosa — disse Enid. — Ma forse avete ragione.
Pervertimento, si disse. Che fosse questo, ciò che era successo alla specie umana? Un pervertimento volontario, consistente nell'azzerare tutti i valori conquistati duramente, quelli che per più di un milione di anni erano stati sottoposti al dominio della ragione? Che la razza umana, da un momento all'altro, e senza motivo, avesse voltato la schiena alla propria umanità? O era solo una seconda fanciullezza: togliersi dalla schiena i pesi, per ritornare all'egoismo del bambino, che scherza e gioca senza pensare alle conseguenze?
— Non c'è nessun pericolo, vi assicuro — disse il robot — se salite sulla cima a guardarli. Non è gente pericolosa. È solo gente sciocca.
— Ne avevo l'intenzione.
— Anzi, se avete tempo, potete unirvi a noi questa sera a cena. E dicendo «noi» mi riferisco ai miei umani e probabilmente a qualcuno di quei robot strani e disgustosi. Taglieremo la porchetta, ci sarà pane fresco di forno e tutto ciò che porteranno i miei compagni. Non dovete preoccuparvi, non disturberete affatto; sarete come una della famiglia. Al tramonto le famiglie si riuniscono per mangiare il cibo portato dai loro robot. E forse la mia famiglia vi piacerà. Eccetto questa sciocca manifestazione, è gente molto simpatica. Spero che l'attuale follia termini presto.
— Sono lieta di accettare — disse Enid. — Grazie del pensiero.
— Allora, accompagnatemi a cercare i miei umani. Devono essere nella fila, non molto lontano. Poi cercherò un posto dove accamparci e preparerò la cena. Magari un po' più avanti, in modo che mi raggiungano quando si fermerà questa sciocchezza, al tramonto.
— Non marciano, durante la notte?
— No, certo no. Hanno ancora un po' di sale in zucca.
— Vengo con voi — disse Enid. — Ma non intendo unirmi alla marcia. Mi sentirei a disagio. Invece, venendo con voi, potrei aiutarvi a preparare.
— Non occorre — disse il robot. — Non sono solo, e siamo tutti dei buoni lavoratori. Ma sarò lieto di avervi con me. E poiché staremo insieme per qualche tempo, potete chiamarmi Jones.
— Lieta di fare la vostra conoscenza — disse lei. — E voi chiamatemi Enid.
— Vi chiamerò signorina Enid. Le giovani donne hanno diritto al titolo di signorina.
— Grazie, Jones — disse lei.
Mentre parlavano avevano raggiunto la cima della collina, e adesso erano vicini alla linea di marcia. La processione, vide Enid, seguiva un sentiero che correva sulla cima della collina, il tipo di sentiero che di solito è percorso, tutt'al più, da qualche occasionale viandante che cerca un riparo prima del calar della notte.
La processione si stendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni. Di tanto in tanto c'era qualche breve tratto vuoto, ma questi tratti non riuscivano a cancellare il fatto che si trattava di un unico, vasto movimento di persone.
Ciascuna persona camminava come se fosse sola, e non prestava attenzione a coloro che le stavano accanto. Camminava sicura, a testa alta, guardando fissamente davanti a sé, come se si aspettasse di vedere qualcosa da un momento all'altro. Tutti avevano un'espressione di serena attesa e sembravano camminare in una sorta di rapimento, anche se, si disse Enid, non sembrava un'estasi di tipo sacro o religioso, diversamente da come le era parso in un primo tempo.
Non c'erano bambini. C'erano adolescenti e vecchi, persone mature e persone vecchissime, che camminavano zoppicando con il bastone o con le grucce.
Con loro correvano, saltellavano e rimbalzavano numerosissimi alieni. Meno degli uomini, ma sufficienti a sembrare anch'essi una fila ininterrotta. C'era una creatura simile a un fantasma che ballonzolava sospesa a mezz'aria, ora allo stesso livello dei marciatori umani, ora sopra di loro, e che cambiava continuamente forma. C'era una creatura con tre gambe che camminava a lunghi passi come se fosse montata su trampoli: il suo corpo privo di connotati pareva una scatola di cartone. Un'altra sembrava allo stesso tempo una palla e un serpente: come un serpente si muoveva con andatura sinuosa in mezzo alle gambe degli uomini in marcia, e di tanto in tanto si arrotolava a forma di palla. C'era una testa, solo la testa, costituita da un unico occhio e dalla bocca, che si muoveva un po' in una direzione e un po' nell'altra, come se avesse fretta ma non sapesse dove dirigersi. E molti altri alieni.
Gli umani non prestavano particolare attenzione agli alieni, come se essi fossero stati semplicemente degli altri esseri umani. Gli alieni, a loro volta, non badavano agli umani, come se li conoscessero bene e fossero uguali a loro.
Enid aveva l'impressione che tutti, umani e alieni, fossero in attesa di qualcosa che doveva succedere, ma che non fossero in attesa della stessa cosa: che ciascuno fosse in attesa di una rivelazione personale.
Si guardò attorno, cercando Jones il robot, ma non riuscì a scorgerlo. C'erano altri robot, ma pochi si mescolavano con gli umani e gli alieni in marcia. In genere si limitavano a rimanere ai margini della processione. Enid continuò a cercare Jones, ma il robot non si vedeva. Forse, pensò, l'avrebbe trovato più avanti: si avviò di buon passo nella direzione in cui marciava la fila. Aveva fame, e l'idea di mangiare pane fresco e porchetta arrosto la attirava. Era stata sciocca a perderlo di vista. Dopo qualche decina di metri venne però colta da un pensiero: e se Jones fosse andato dietro, invece che avanti? S'immobilizzò, non sapendo che direzione prendere, e in quel momento sentì una voce non umana, che le parlava all'orecchio.
Diceva: — Gentile umano, vorreste farmi un piccolo piacere?
Enid si voltò di scatto, sobbalzando involontariamente.
Era un alieno, come già lei si aspettava, ma più umanoide degli altri. La testa, piegata in avanti e sorretta da un collo lungo e scarno, era un incrocio tra quella di un cavallo scarnito dall'inedia e quella di un cane da caccia disperato. Aveva gambe molto arcuate e il torace simile a una botte. Le braccia, lunghe e sottili, si agitavano come serpenti ammaestrati. Gli orecchi si allargavano all'esterno come trombette; aveva due gruppi di occhi compositi, ciascuno con molte iridi. La bocca era ampia e le labbra erano larghe e pendenti. Un paio di branchie, ai lati del collo magro, si gonfiavano e sgonfiavano come mantici, mentre parlava.
— Ai vostri occhi — disse l'alieno — ho senza dubbio un aspetto orrendo. Come lo avevano ai miei occhi gli umani, prima che mi abituassi a loro. Ma il mio animo è gentile, e sono una creatura onorata.
— Non ne dubito — disse lei.
— Mi sono accostato a voi — proseguì l'alieno — perché, tra tutte le persone umane presenti, mi sembrate l'unica che non dà peso a ciò che sta accadendo. Questo mi fa pensare che siate disposta a perdere un poco di tempo per farmi un favore.
— Non riesco a immaginare che favore può essere — disse lei.
— Una cosa perfettamente fattibile — insistette l'alieno. — Un favore molto piccolo. Un'azione che, a causa della sua natura, io non posso compiere personalmente. Non ho abbastanza… — La sua faccia, da cane senza padrone, rimase immobile per un attimo, come per cercare la parola. — Diciamo che c'è una persona che deve legare un pacchetto con il cordino, ma che non riesce a farlo per… assenza di mani quando si tratta di fare il nodo. E questa persona vi chiede: «Per favore, potete appoggiare il dito dove i fili s'incrociano, per permettermi di legare il cordino?» In un modo un po' diverso, è il favore che vi chiedo.
— Perché vi mancano le mani?
— Non per mancanza di mani, ma per mancanza di altro che non posso descrivervi perché non ci sono le parole nella vostra lingua. Ma è un difetto mio, e non vostro.
Enid fissò l'alieno; era perplessa.
— Non riuscite a capire? — domandò la creatura.
— Temo di no — rispose Enid. — Dovete dirmi qualcosa d'altro.
— Vedete questi umani davanti a noi, che camminano in processione nella massima serietà. Tutti tesi, tutti alla ricerca di qualcosa, ciascuno alla ricerca di cose diverse. Uno forse cerca l'idea per un quadro meraviglioso, che potrebbe poi mettere sulla tela. O un brano musicale da eseguire per altri amanti della musica. O una forma architettonica che gli sfugge da anni.
— Capisco — disse Enid. — Ecco cosa cerca tutta quella gente.
— Sì — annuì l'alieno. — Pensavo che lo sapeste.
— Mi pareva che cercasse qualcosa — disse Enid. — Ma non sapevo cosa.
— E non sono soltanto gli umani a cercare.
— Volete dire — domandò Enid — che anche voi cercate qualcosa? E che avete bisogno di aiuto? Signore, non riesco a capire in che modo posso aiutarvi.
— Da molto tempo seguo un'idea — spiegò l'alieno. — E di volta in volta ho cercato di afferrarla, ma non sono mai riuscito a raggiungerla. Perciò, quando ho saputo che c'era questa processione di cercatori, mi sono detto: «Se va bene per gli umani, c'è speranza che funzioni anche per me».
— E funziona?
— Credo di sì. Mi pare di avere tutto nella mente, ma non posso dirlo ancora. Devo prima trovare qualcuno che appoggi il dito dove s'incrociano i due cordini.
— A parte il fatto — commentò Enid — che non si tratta di un dito. E che non si tratta di cordino…
— Esattamente, bella signora. Voi capite in fretta e ascoltate con attenzione. Siete disposta ad ascoltarmi ancora?
Enid si guardò attorno. Non c'era segno di Jones, il robot.
— Vi ascolto ancora. Con attenzione.
— Prima di tutto — disse Muso di Cavallo — voglio essere onesto con voi. Devo umilmente confessarvi il mio inganno. Tutti gli altri alieni qui presenti, che accompagnano la processione, costituiscono un gruppo appositamente scelto. Sono stati condotti qui perché hanno la capacità di portare ad altissimi livelli di allucinazione la sensibilità umana. Ed è proprio a causa di queste allucinazioni che gli umani che partecipano alla processione possono afferrare le altissime espressioni d'arte da loro cercate. Inoltre, fra questi alieni assortiti, ce ne sono alcuni che hanno la capacità di guidare gli umani a materializzare le loro visioni: a creare un quadro con la forza del pensiero, senza la necessità di dipingerlo materialmente. Si potrebbe dire che sono la scorciatoia tra il concetto e la sua realizzazione. È come creare una musica, il suono musicale stesso, senza lo spartito e senza gli strumenti.
— Ma è impossibile! — esclamò Enid, colpita dalla visione di una pioggia di dipinti che cadeva dal cielo accompagnata dal suono di una musica che non proveniva da nessuna fonte.
— In qualche caso è possibile — disse Muso di Cavallo.
— Molto onesto da parte vostra — disse Enid. — Ma avete parlato di un vostro inganno. Di cosa si tratta?
— Del fatto che mi sono unito alla processione per raggiungere i miei scopi personali, e non per collaborare con gli umani. Ho pensato che il fervore di questa grande massa di creature poteva stimolare e accrescere la mia abilità.
— Intendete dire — riassunse Enid — che vi siete unito alla processione di vostra iniziativa, sperando che vi facesse superare gli ostacoli che ancora si frapponevano alla realizzazione della vostra idea? E che, pur avendoli forse superati, non siete ancora giunto alla conclusione perché vi manca una persona che, come dite voi «tenga il dito sul cordino»?
— Mirabile — disse l'alieno. — Avete delineato la situazione nel modo più esatto. E ora che avete capito, siete disposta ad aiutarmi?
— Prima voglio sapere qual è il vostro obiettivo — disse Enid.
— Ahimé — si rammaricò l'alieno. — Questo non posso farlo, perché richiede concetti che vi risulterebbero incomprensibili, a meno di non voler ricorrere a lunghe spiegazioni…
— Si tratta di qualcosa di negativo? Qualcosa che rischia di danneggiare qualcuno?
— Ma guardatemi in faccia! — disse Muso di Cavallo. — Vi sembra che io possa danneggiare un'altra persona?
— Vi guardo — disse Enid — ma questo non posso saperlo.
— Allora accettate la mia parola. Il mio obiettivo non comporta rischi per nessuno.
— E se vi aiuto, ne traggo qualche vantaggio?
— Saremo soci — disse l'alieno. — Voi ne sarete proprietaria per metà. Parti uguali.
— Molto generoso da parte vostra.
— Niente affatto — disse Muso di Cavallo. — Senza di voi, non potrei arrivare al mio obiettivo. Posso spiegarvi cosa dovete fare per aiutarmi?
— Sì, accetto.
— Allora — disse l'alieno — chiudete gli occhi e pensate a me.
— Pensare a voi?
— Sì, pensate nella mia direzione. Io penserò nella vostra.
— In tutta la mia vita — disse Enid — non ho mai indirizzato a nessuno il mio pensiero.
— Non è difficile — disse Muso di Cavallo. — Chiudete gli occhi e cercate di pensare a me, con tutta la concentrazione mentale.
— Mi sembra una grande sciocchezza — disse Enid — ma posso provare.
Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi sull'immagine dell'alieno, ma qualcosa, in fondo alla mente, continuò a dirle che era tutto sbagliato, che non era il modo di «pensare verso un altro». Lei non aveva esperienza di quel tipo di attività mentale.
Poi si accorse che l'alieno indirizzava i suoi pensieri verso di lei. Era una sensazione inquietante, ma non era diversa da quella da lei provata quando Henry le «parlava» nella mente; non cercò di ritrarsi dal pensiero estraneo, e rimase aperta a esso. Non aveva niente da perdere, anche se era problematico che ci fosse qualcosa da guadagnare. Secondo lei, si trattava di un'attività assolutamente inutile.
Nella sua mente si formò un'immagine che proveniva dall'esterno. Era l'immagine di una struttura incredibilmente complessa, costituita di linee colorate. Pareva che queste linee si sorreggessero l'una con l'altra. Le linee erano sottili ed erano elegantemente disposte, ma l'intera struttura sembrava alquanto vasta, anche se Enid non poteva vederla bene perché era troppo grande. Enid aveva l'impressione di trovarsi proprio nel centro, e che la struttura si stendesse a una tale distanza, tutt'intorno a lei, che era impossibile vederne la fine.
— Ed ecco il punto — disse l'invisibile Faccia Di Cavallo, parlandole nella mente — ecco dove è necessario mettere il dito.
— Dove? — domandò Enid.
— Qui — disse l'alieno, ed Enid vide chiaramente il punto e vi appoggiò il dito, premendo forte, come se avesse davvero voluto tenere fermo un pezzo di cordino attorno a un pacchetto.
Non successe niente. Enid non si accorse di niente. Ma, per motivi che non sarebbe riuscita spiegare, le parve che la struttura fosse diventata più rigida, e che il vento fosse cessato. Non osò distogliere lo sguardo dal dito, per paura che le scivolasse via dal polpastrello l'inesistente cordino.
Muso di Cavallo le disse, questa volta a voce, e non nella sua mente: — Benissimo. Il lavoro è fatto. Potete togliere il dito.
Lei si guardò attorno, e scorse nuovamente la figura dell'alieno. Era a poca distanza da lei, e si arrampicava sulle sbarre della struttura come se fosse stata una scala a pioli. Udì un grido proveniente dal basso e guardò in quella direzione. La processione si era fermata e tutta la gente guardava verso l'alto, gridando e agitando le braccia in preda a un grande stupore.
Spaventata dall'altezza a cui si trovava, Enid allungò la mano e si afferrò a una delle sbarre colorate che componevano la struttura. La sbarra a cui si afferrò era di colore lavanda ed era collegata ad altre due sbarre, una gialla come un limone e l'altra di un caldo color prugna.
Al tatto, la sbarra sembrava piena e robusta. Chiedendosi dove aveva i piedi, Enid abbassò gli occhi e vide che stavano su una sbarra rossa, altrettanto robusta quanto quella color lavanda che impugnava. Intorno a lei, in tutte le direzioni, c'erano altre sbarre: la struttura la circondava completamente. Dietro la struttura si scorgeva la forma delle colline e delle valli: la collinetta dove si erano radunati coloro che partecipavano alla processione era soltanto una piccola parte del paesaggio che giaceva sotto di lei.
La struttura s'inclinò lateralmente, ed Enid si trovò sospesa a grande altezza, a braccia e gambe larghe. Rimase senza fiato per la paura di cadere, ma dopo qualche istante si tranquillizzò. La posizione in cui si trovava era altrettanto comoda quanto la precedente. Il suo orientamento, comprese, rimaneva fisso rispetto alla struttura, non al terreno. Si guardò attorno, rapidamente, per vedere dove fosse il viaggiatore, ma non riuscì a scorgerlo.
La struttura si mosse di nuovo, ritornando nella posizione iniziale. Enid vide che cominciavano a spuntare nuovi tubi in tutte le direzioni, senza alcuno schema apparente. Muso di Cavallo si stava avvicinando a lei, come un goffo ragno lungo la rete. Quando arrivò alla sua altezza, le si fermò davanti e la fissò.
— Che cosa ve ne pare? — domandò. — Bella vero?
Enid inghiottì a vuoto. — È questa — domandò — la cosa che volevate fare?
— Certo — disse lui. — Pensavo che l'aveste capito.
— Che cos'è? — domandò lei. — Ditemelo, per piacere.
— È una rete per pescare l'universo — disse Muso di Cavallo.
Enid socchiuse gli occhi, fissando la struttura che l'alieno chiamava una rete. Era una struttura esile, priva di forma.
— Non penso — disse lei — che intendiate pescare l'universo con una rete così piccola.
— Il tempo non significa niente per la rete — disse Muso di Cavallo. — E neppure lo spazio. Non dipende né dal tempo né dallo spazio, a parte il fatto di servirsene.
— Come fate a conoscere tante cose dell'universo? — domandò Enid. L'alieno non aveva l'aria di una creatura molto sapiente. — Avete studiato? Non su questa terra, naturalmente, ma…
— Ho studiato al ginocchio della tribù — disse Muso di Cavallo. — Storie antiche e leggende ancora più antiche.
— Per una cosa come questa, non ci si può basare soltanto sulle leggende. Occorre avere conoscenze scientifiche, conoscere la teoria e le sue proprietà fondamentali…
— Sono riuscito a farla, no? Non vi ho detto dove mettere il dito sul filo?
Enid disse, debolmente: — Sì.
La struttura cambiava forma sotto i suoi occhi. Perdeva parte della sua leggerezza, acquistava forma e sostanza, anche se per il momento conservava ancora in parte la levità. Le aste che erano spuntate per prime si erano pian piano coperte di altri oggetti: quelle che sembravano decorazioni erano divenute parti che avevano un ben determinato rapporto con l'intera struttura. Muso di Cavallo diceva che era una rete, ma Enid non capiva che rapporto potesse esserci tra le due cose. Tra una rete e quella struttura non c'era alcuna somiglianza.
— La useremo per viaggiare — disse Muso di Cavallo. — Da un pianeta all'altro, senza un battito di tempo, senza un tocco di spazio.
— Non possiamo usarla per attraversare lo spazio — disse Enid. — Non ci offre alcuna protezione. Il freddo e il vuoto ci uccideranno. E in ogni caso, arriveremo in qualche pianeta sconosciuto, con un'atmosfera mortale: soffocante o ribollente…
— No — disse l'alieno. — Conosceremo ogni volta la nostra destinazione. Non c'è bisogno di tuffarsi nell'ignoto. Possiamo seguire delle carte.
— Da dove vengono quelle carte?
— Da un passato remoto, da molto lontano.
— Le avete viste? Le avete adesso con voi?
— Non c'è bisogno di possederle fisicamente o di vederle. Fanno parte della mia mente, sono una mia componente genetica, che mi è stata trasmessa dai miei padri.
— Vi riferite alla memoria ancestrale?
— Sì, certo — disse l'alieno. — Pensavo che lo capiste. Memoria ancestrale, intelligenza e conoscenze ancestrali, la conoscenza di ciò che è entrato nella rete, o che deve entrarci…
— E voi affermate che questa vostra rete può fare molte cose meravigliose?
— Le meraviglie che può fare — disse l'alieno — non le conosco neppure io. Tempo e spazio non significano niente per la rete…
— Il tempo — ricordò Enid. — A questo volevo arrivare. Ho perso un amico nella corrente del tempo. Conosco il fattore temporale, ma non quello spaziale.
— Non è un problema — disse Muso di Cavallo. — È una questione molto semplice.
— Ma vi dico che non conosco…
— Voi credete di non conoscerlo — la rassicurò l'alieno. — Ma è probabile che lo conosciate. Sarà sufficiente che parliate alla rete. Permettetele di spiare in voi. Può trovare ciò che avete dimenticato.
— Ma come posso parlare alla rete? — domandò Enid.
— Voi non potete parlare alla rete. È la rete che parla con voi.
— E per farle sapere che voglio comunicare con lei? Per essere sicura che ci sia comunicazione tra me e la rete?
— Voi avete pensato verso di me, anche se temevate di non essere in grado di farlo, e avete pensato verso il nodo…
— Adesso che la cosa è fatta, e che avete la vostra amata rete, potete spiegarmi che cosa ho fatto? Non c'era nessun nodo, e non c'era nessun dito.
— Mia cara — disse l'alieno — non ho modo di spiegarvelo. Se potessi farlo, vi spiegherei tutto, ma davvero non posso. Probabilmente avete fatto entrare in gioco un'abilità che non sapevate di possedere, e che io stesso non ero sicuro di trovare in voi. Quando ho parlato di appoggiare il dito, non ero del tutto certo che la cosa funzionasse. Speravo che potesse funzionare.
— Lasciamo perdere. Non riesco ad avere da voi una risposta sensata. Desidero ritrovare il mio amico, e voi dite che per farlo devo parlare con la rete. Per favore, spiegatemi come si fa.
— Sarò lieto di spiegarvelo — disse l'alieno. — Tutto a tempo debito. Ma prima ho una missione da compiere, e una volta compiuta quella…
Allungò il braccio e afferrò uno dei tubi spuntati sulla rete. — Abbassate la testa e tenetevi stretta — disse.
Non successe niente, e infine Enid si decise ad alzare la testa e ad aprire gli occhi. Il pianeta aveva dei colori che andavano dal rosa al violetto, e il cielo era verde oro.
— Visto! — esclamò Muso di Cavallo, trionfalmente. — Siamo arrivati, e non ci è successo niente!
Enid tirò un respiro, dapprima con cautela, e poi a pieni polmoni. L'aria sembrava a posto. Non la fece tossire; non la soffocò. Non aveva neppure cattivi odori.
— Che cosa avete? — le domandò l'alieno. — Siete malata?
— Niente affatto — disse Enid. — Ma il cielo non può avere colori come questi. Non esiste un cielo verde. Il colore del terreno è già abbastanza brutto, anche se niente gli vieta di essere rosa e violetto, ma il cielo non può essere verde…
E invece lo era, pensò. Lei era viva, e tutto era a posto: con l'unica lacuna che non sapeva dov'era.
Muso di Cavallo scese lentamente lungo la rete, che con la sua parte più bassa sfiorava il livello del suolo.
— Non mi occorrerà molto tempo — le disse. — Ritornerò subito. Aspettatemi qui. Non allontanatevi. Restate vicino alla rete.
Il terreno era rosa e viola. C'erano alberi viola e alberi rosa, e a dispetto del suo colore, l'area era brulla e priva di connotati: lo giudicò il paesaggio più noioso che avesse incontrato. Si stendeva da tutti i lati fino a raggiungere un orizzonte velato dalla foschia: un orizzonte che aveva un colore malaticcio, una mescolanza di rosa, verde, oro e viola. A parte qualche albero e un certo numero di montagnole sparse qua e là, il territorio era vuoto. Non c'era niente che si muovesse, né un uccello né una farfalla. Pareva che qualcuno l'avesse svuotato di tutto, per ripicca.
— Dove siamo? — domandò a Musò di Cavallo.
— La sola denominazione di questo luogo — disse l'alieno — è un simbolo su una cartina. Non ho idea di come si pronunci il simbolo. Forse è un nome che non dev'essere pronunciato.
— Ma come siamo giunti qui, senza accorgerci di niente e in un tempo così breve?
— Siamo stati traslati qui — spiegò l'alieno. Raggiunse il suolo e voltò la schiena a Enid, senza più parlare. Si avviò dondolando sul terreno, e la sua ombra grottesca continuò a dondolargli attorno, un po' sfumata ai bordi.
Il sole rosso e rigonfio, sospeso nella foschia verde del cielo, non illuminava le cose in misura sufficiente a dare ombre vere e proprie. L'intero pianeta, pensò Enid, era un po' troppo pacchiano, non dimostrava buon gusto.
Scese un poco più in basso e osservò attentamente il paesaggio. Muso di Cavallo era scomparso in lontananza, e lei era rimasta sola. Sotto di sé non riusciva a distinguere segno di vita, a parte l'erba e gli alberi. C'erano solo il terreno digradante e le rade montagnole.
Scivolò a terra e, con sorpresa, si accorse che il terreno sotto i suoi piedi era solido. Dall'aspetto, Enid aveva pensato che fosse cedevole. Si allontanò dalla rete e si diresse verso la montagnola più vicina. Era molto piccola e aveva l'aspetto di un mucchio di sassi. Lei aveva già visto mucchi come quello nei campi della Terra, dove i contadini ammucchiavano le pietre trovate nei terreni da dissodare. Ma i mucchi visti da Enid erano di pietre opache e di grosse dimensioni, mentre i sassi del pianeta alieno erano piccoli, luccicanti, coloratissimi.
Quando giunse alla montagnola, vi si inginocchiò accanto e prese una manciata di sassolini. Sollevò la mano e la aprì in modo che i sassolini rimanessero posati sul palmo, e se la portò davanti agli occhi. La luce del sole, riflessa dai sassolini, la abbagliò.
Trattenne per un attimo il respiro; poi si rilassò. Non conosceva le gemme, non era in grado di distinguere un pezzo di quarzo da un diamante. Eppure, le pareva incredibile che, con quel fuoco e quella luminosità i sassolini fossero semplici pezzi di roccia. Una delle pietre, grossa come un uovo di gallina, di colore rosso, mandava lampi di luce da uno degli spigoli, dove si era staccata una minuscola scheggia. Poi c'era un sassolino spaccato in due che pareva pulsare di bagliori violacei. Altri avevano uno splendore verde, rosa, ametista, giallo.
Inclinò la mano e lasciò cadere le pietre, che scintillarono come una cascatella. Se si trattava davvero di gemme, dovevano valere una fortuna in certi periodi dello sviluppo dell'umanità. Ma non nell'epoca da cui era fuggita la sua famiglia. A quell'epoca le cose rare, quelle preziose e quelle antiche avevano perso il loro valore. Non c'erano gemme, non c'era il denaro.
Si chiese se Muso di Cavallo conoscesse l'esistenza di quelle montagnole di gemme, accumulate con tanta indifferenza, e in così grande quantità, da gente ignota. Certamente no, concluse poi. Muso di Cavallo cercava qualcosa laggiù, ma non le pietre.
Si avviò verso un'altra montagnola, senza fermarsi a guardarla. C'era un mucchio di montagnole dello stesso tipo, tutte simili tra loro a parte la mole. Adesso sapeva che cos'erano e che cosa contenevano. Forse le conveniva allontanarsi leggermente.
Anche se all'inizio non se n'era accorta, Enid presto capì che la zona in cui si trovava era in leggera salita, poiché giunse all'improvviso in una zona in discesa, coperta di strane formazioni: pareti verticali di terra nuda, canaloni profondamente erosi, un gruppo di piramidi con gli spigoli rettilinei e i vertici appuntiti.
Si fermò sul ciglio della discesa e osservò attentamente le piramidi. Le ritornò in mente una frase che aveva letto chissà dove: che in natura non esistevano linee rette. Le linee rette erano artificiali. Quelle piramidi parevano costruzioni architettoniche. Le loro facce parevano levigate da qualche creatura intelligente.
Guardando attentamente, si accorse che le piramidi scintillavano al sole. Si disse che era impossibile, era ridicolo costruire piramidi così perfette servendosi di gemme e di sassolini.
Si avvicinò alla prima, e non ebbe più dubbi. Le piramidi erano fatte di gemme, o di quelle che a lei parevano gemme. Viste a poca distanza, scintillavano di miriadi di luccichii colorati. Si chinò verso la piramide, battendo gli occhi perché i riflessi rossi, verdi e violacei erano intensissimi. Non erano le pietre viola a richiamare la sua attenzione: viola, rosa e verde marcio erano fin troppo abbondanti su quel pianeta. Quel che l'aveva attirata era una pietra gialla, gialla come una primula, calda e luminosa, che le parve talmente bella da fermarle il respiro. Era una pietra grossa come un uovo d'oca e perfettamente levigata, forse dalle acque di qualche fiume che aveva continuato a scorrervi sopra per milioni di anni.
Senza pensare, afferrò la pietra e la sollevò; ma non appena l'ebbe sollevata, l'intera faccia della piramide scivolò a terra come se fosse stata liquida. Enid fece un balzo indietro per evitare di essere travolta da tutti quei sassolini rotolanti.
Si alzò un pigolio di protesta. Enid si guardò attorno per individuare l'origine di quel rumore, e li vide; erano accanto allo spigolo della piramide e la fissavano con degli occhietti bitorzoluti. Stavano in punta di piedi, indignati da ciò che era successo, e i loro morbidi orecchi tondi, simili a quelli dei topi, tremolavano tutti.
Enid osservò meglio le creature. Occhi cisposi, orecchi da topo, muso triangolare dall'aspetto soffice, ma corpo spigoloso e duro, che le ricordò un ragno intagliato nel legno. Intagliato nel legno stagionato che si raccoglie sulle rive dei fiumi: legno grigio, pieno di nodi, con forme contorte, ma con ogni gomito levigato e luccicante, come se qualcuno fosse stato per lunghe ore a lucidarlo.
Si rivolse a loro in tono gentile, allarmata dai loro corpi di legno stagionato, ma attirata dal muso peloso, dagli occhi grandi e lucidi, dagli orecchi vibranti.
Si allontanarono, leggeri come spettri, con un balletto di quelle loro zampe di legno; poi si voltarono nuovamente a guardarla. Ce n'erano esattamente dodici, non uno di più, non uno di meno. Erano grossi come pecore.
Enid riprese a parlare con quelle creature, con un tono di voce calmo come prima, e tese la mano nella loro direzione. Il movimento della mano li spaventò; si voltarono dall'altra parte e scapparono via, molto rapidamente, senza più voltarsi indietro a guardarla. Scapparono lungo il pendio e scomparvero in una delle profonde erosioni. Enid non li vide più.
Rimase ferma ai piedi della piramide che non era più perfetta. Il cielo verde pareva essersi abbassato sopra di lei. Si accorse di tenere ancora in mano il grosso ciottolo colore delle primule.
Ho combinato un altro pasticcio, pensò. Ho combinato soltanto pasticci, in questi ultimi giorni. Si avviò verso l'altra faccia della piramide, quella da cui erano sbucate le creature, e lì si fermò, stupita.
Sull'erba violacea erano ordinatamente distesi alcuni rettangoli di stoffa bianca, e tra i rettangoli c'erano dei contenitori colorati, aperti, fatti probabilmente di metallo. Enid pensò immediatamente: “Quei poveretti stavano facendo un picnic. E io li ho disturbati in maniera assai sgarbata”.
Fece qualche passo avanti e sfiorò con il piede uno dei rettangoli. Era davvero stoffa: si sollevò dal terreno e ricadde sotto forma di pieghe. Tovaglioli, da stendere sull'erba per poi appoggiarvi il cibo.
Strano pensò, come il concetto di picnic si fosse presentato su quel pianeta esattamente come sulla Terra. Anche se laggiù sul pianeta alieno, a dire il vero, poteva avere un significato totalmente diverso. Poteva non avere niente a che vedere con l'alimentazione e con l'andare fuori di casa.
S'infilò nella tasca la pietra e si chinò a guardare il contenuto dei recipienti. Non aveva dubbi: era un picnic, e quel che vedeva era cibo. C'era frutta, a quanto pareva raccolta da poco, e c'erano cibi cotti: pagnotte, bastoncini, piccole torte. Uno dei recipienti conteneva una sorta di insalata mista, con foglie e mucchietti di materia gelatinosa. Dai recipienti si alzava un effluvio fetido.
Semisoffocata dai miasmi, si rialzò e fece un passo indietro, poi trasse alcuni profondi respiri per pulirsi i polmoni. Quando si guardò attorno, vide la scatola.
Era una piccola scatola nera, larga una trentina di centimetri e alta quindici, che giaceva sull'erba accanto a quella che sembrava la tovaglia. Sembrava di metallo, ma la parte rivolta verso di lei pareva di vetro o cristallo opaco. Non capiva come si aprisse, e non aveva tempo di fare prove. Muso di Cavallo sarebbe ritornato presto, ed Enid non voleva correre il rischio che partisse senza di lei.
Stava fissando la scatola, quando la parte rivolta verso di lei si illuminò all'improvviso e mostrò un'immagine di Muso di Cavallo che camminava sull'erba, curvo sotto il peso di un grosso baule.
Una televisione, pensò. Un altro parallelo con la Terra: picnic e televisore portatile. Sullo schermo, Muso di Cavallo aveva posato a terra il baule e si stava asciugando il sudore dalla faccia. A quanto pareva, il baule era pesante.
Le creature-ragno dalle zampe di legno stavano guardando l'alieno, quando lei le aveva disturbate? E stavano guardando anche lei? Riflettendo, concluse di no, perché le erano parse sinceramente sorprese, quando, affacciandosi da dietro la piramide, l'avevano vista.
Nel pensare alle creature, le vide comparire sullo schermo. L'immagine di Muso di Cavallo scomparve, e venne sostituita da quella dei ragni dalle zampe di legno, che avanzavano sul fondo prosciugato di uno stretto canalone. Dal modo in cui camminavano, parevano decisi a prendere qualche provvedimento.
Meglio andarsene via, pensò. E presto. Decise di ritornare alla rete ad aspettare Muso di Cavallo. E non appena pensò a lui, sullo schermo comparve la sua immagine, china a sfacchinare sotto il peso del baule.
Strano. Non appena pensava a qualcuno, lo vedeva apparire sullo schermo. Sintonizzazione mentale? Non aveva modo di saperlo. Ma quella scatola era qualcosa di più che una semplice televisione. Era probabilmente un apparecchio spia, che poteva entrare in luoghi insospettabili e in situazioni sconosciute.
Prese con sé la scatola, che non era affatto pesante, e si avviò rapidamente lungo la strada del ritorno. Le venne in mente che forse aveva tradito le aspettative del suo compagno lasciando la rete senza sorveglianza. Quando vide che la rete era ancora al suo posto, provò un forte senso di sollievo e si mise a correre in quella direzione.
Guardando alla propria destra, scorse Muso di Cavallo, che faticava ancora sotto il peso del baule. Sentiva la necessità di lasciare presto il pianeta, e le parve che anche l'alieno condividesse questo desiderio… e per una buona ragione. Probabilmente, quel baule non gli apparteneva. L'aveva rubato.
Giunse al bordo della rete e infilò entro una delle «maglie» lo strano televisore: s'incastrò perfettamente. Muso di Cavallo correva con tutte le sue forze, ansimando e sbuffando, con il baule che gli ballava sulla spalla.
Enid saltò sulla rete, e con una mano si tenne alle sbarre, mentre con l'altra, quando Muso di Cavallo lo spinse verso di lei, afferrò il baule per la maniglia di cuoio e lo tirò con forza verso di sé.
Con la coda dell'occhio vide in mezzo all'erba violacea il movimento di qualcosa di altrettanto violaceo: tentacoli che si agitavano sullo sfondo del cielo. Muso di Cavallo emise un grido di terrore e saltò sulla rete. Riuscì ad afferrare il bordo e cominciò a issarsi. Enid si accertò che il baule fosse ben incastrato tra le maglie della rete, poi si chinò ad afferrare il compagno e cercò di tirarlo verso l'alto. La creatura viola rotolò nella loro direzione. Enid fissò una bocca spalancata, una fila di denti affilati e scintillanti, lo sguardo malvagio di quello che era certamente un occhio. La rete sobbalzò: un tentacolo si era afferrato alla sbarra più bassa.
Facendo appello a tutte le sue forze, Enid riuscì a sollevare Muso di Cavallo, che si affrettò a sgattaiolare lungo le sbarre. La rete si sollevò, portando con sé anche la creatura violacea, che ormai si era staccata dal suolo, ma che si confondeva ancora con lo sfondo viola del terreno. Il tentacolo rimaneva saldamente attaccato alla rete. Enid si frugò nelle tasche, prese la gemma gialla e la abbatté sul tentacolo. La creatura viola lanciò un acuto grido di dolore, e il tentacolo lasciò la presa. Enid guardò in basso, ma non vide cadere la creatura. Era una macchia viola sullo sfondo viola, e non era visibile.
Muso di Cavallo era intento a trascinare il baule verso un altro punto della rete. La rete saliva sempre più in alto, ed Enid si allontanò dal bordo. Passò accanto al televisore e si accorse che sullo schermo c'era un'immagine. La guardò e vide che era Boone. Era in un luogo grigio, sembrava grigio anche lui, e accanto a lui c'era un lupo grigio.
— Boone! — esclamò Enid. — Non muoverti! Vengo a prenderti!