13. Horace

Il robot calò l'ascia, tagliando la fune che teneva fermo il cucchiaio della catapulta. Il grande braccio scattò nell'aria, scagliando contro le mura la pietra contenuta nel cucchiaio. Il lancio fu troppo corto. Urtate dalla pietra, le mura suonarono come campane. La pietra rimbalzò verso l'esterno, i robot si allontanarono dal suo tragitto, e la pietra per poco non ricadde sulla catapulta che l'aveva lanciata.

Due primitive macchine a vapore, usate per trasportare fin lì la catapulta, erano ferme a poca distanza e fischiavano e sibilavano.

Conrad raggiunse lentamente Horace.

— È inutile — disse il robot. — Non riusciremo mai a scagliare una pietra al di là delle mura. In cima si allargano verso l'esterno: per avere la traiettoria necessaria occorrerebbe posizionare le catapulte a una distanza eccessiva. Inoltre, per dirla in tutta sincerità, non riesco a vedere lo scopo di tutto questo.

— Lo scopo — disse Horace — è di richiamare in qualche modo l'attenzione degli abitanti della città. Non possono continuare a ignorarci come hanno fatto finora. Devono accettare la nostra presenza e venire a parlamentare con noi.

— Non so fino a che punto la cosa sia augurabile — disse Conrad. — Se fossi in voi, preferirei che continuassero a ignorarci. Non sappiamo chi sono. Una volta attirata la loro attenzione, potremmo pentirci di averlo fatto.

Horace alzò gli occhi per osservare le mura. Erano una struttura mostruosa, che svettava nel cielo. Una barriera bianca come il latte, che correva per chilometri sul fianco della montagna e racchiudeva la città al proprio interno.

Emma disse, in tono lamentoso: — Perché non lasci perdere, Horace? Per te, questa cosa sta diventando un'ossessione. Passi il tempo a studiare come raggiungere quella gente.

— Sanno che siamo qui — brontolò Horace. — Di tanto in tanto, mandano qualche velivolo a controllarci. E questo non è giusto, ti dico. Per la prima volta in tutta la mia vita qualcuno non mi da ascolto, e non sopporto la cosa.

— Non so cosa possiamo fare, oltre a quello che abbiamo fatto. — disse Conrad. — Abbiamo modificato la catapulta senza risultato. Non riusciamo a superare le mura.

— Se riuscissimo a superarle — disse Horace — presterebbero attenzione a noi. Un paio di pietre al di là delle mura, e sarebbero costretti a farlo.

— Perché non vieni con me nella tenda? — suggerì Emma. — A sederti. A mangiare qualcosa che ho preparato. Non hai mangiato niente da questa mattina. Avrai fame.

Horace non le prestò attenzione. Continuò a fissare la bianca parete che sfidava la sua volontà.

— Le abbiamo provate tutte — rifletté. — Abbiamo fatto il giro completo delle mura, cercando una porta. Abbiamo acceso falò e inviato segnali di fumo. Qualcuno deve averli visti. Ma li ha ignorati. Abbiamo cercato di scalare le mura, ma non ci siamo riusciti. Sono troppo lisce. Non offrono appigli. Non sono di pietra e non sono di metallo. Sembrano di ceramica. Ma chi è in grado di fabbricare una ceramica capace di resistere a un colpo di catapulta?

— Coloro che abitano all'interno delle mura — rispose Conrad. — Ma non chiedetemi come fanno.

— Si parlava di una torre capace di salire fino alla cima delle mura — disse Horace, in tono meditabondo.

— Impossibile — disse Conrad. — Dovrebbe essere molto alta. Abbiamo alberi da cui possiamo procurarci legna, ma con quelli non si può raggiungere l'altezza che avete in mente. Inoltre, c'è il problema di fissare la base in modo che non si muova.

— Si parlava anche di una rampa. Suppongo che non si possa costruire nemmeno quella.

— Non abbiamo i mezzi per trasportare la quantità di terra occorrente per una rampa così grande.

— Già — fece Horace. — Un aeroplano, allora.

— Sentite — disse Conrad — io e i miei robot abbiamo fatto tutto il possibile. Abbiamo costruito delle macchine a vapore, e funzionano bene. Possiamo costruire una macchina che si muove sulla superficie, ma il volo è al di là delle nostre possibilità. Non conosciamo la teoria, non abbiamo macchine per lavorare le parti. E il combustibile? Non potete far funzionare un aereo con legna e carbone. — Tacque per un istante. Poi riprese: — Non so fino a quando potremo mantenere operativa la catapulta. Stiamo finendo le funi. Ogni volta che scagliamo una pietra, consumiamo tre metri di fune.

— Potete sciogliere la treccia e intrecciarla di nuovo.

— Già fatto — disse Conrad. — Ma ogni volta che si scioglie e si intreccia la fune, se ne perde qualche decimetro.

— Potreste fabbricare altra corda.

— Sì. Ma il materiale di cui disponiamo non ha dato buoni risultati.

— Visto? — disse Emma. — È inutile continuare. Queste mura ti hanno fermato.

— No, niente affatto! — esclamò Horace. — Troverò la maniera di vincere questa battaglia. Gli abitanti della città saranno costretti a darmi retta!

Accanto a loro, un robot disse: — Sta venendo qualcuno.

Si voltarono nella direzione indicata dal robot e scorsero un aereo della città: stava atterrando.

Horace allargò trionfalmente le braccia. — Finalmente! — gridò. — Finalmente arriva qualcuno a parlamentare. Proprio come volevo.

L'aereo atterrò, e il passeggero si accinse a scendere. Era un umano, e non qualche strambo alieno. C'era un alieno, è vero, ma rimaneva fermo al suo posto. Probabilmente, pensò Horace, l'alieno è il pilota.

Emma fece un passo avanti, titubante, poi si fermò a guardare con stupore la scena, come se non credesse ai suoi occhi. Dopo un istante, corse verso l'uomo che era sceso dalla macchina volante.

— È Timothy! — brontolò Horace, parlando a se stesso. — C'era da aspettarselo, che fosse Timothy.

Corse anche lui verso l'aereo, seguito da Conrad.

Sei proprio tu — disse in tono acido, quando raggiunse il cognato. — Cosa ci fai, qui? Pensavamo di non vederti più.

— Non è meraviglioso! — esclamò Emma. — È di nuovo con noi!

Timothy tese la mano per stringere frettolosamente quella di Horace. — Vedo che non cambi mai, Horace — disse. — Zoticone come sempre.

— Non credo che tu sia qui per offrirci la tua ospitalità — disse Horace.

— Sono qui per dirti di smetterla con le tue sciocchezze. Ti saremmo riconoscenti se cessassi di picchiare contro le mura.

— “Ti saremmo”? Tu… e chi?

— Io e gli altri abitanti della città. Per tutta la vita mi hai fatto fare delle figuracce, e continui a farmele fare.

— Ci sono abitanti nella città? — chiese Emma, senza fiato. — Gente come noi?

— Non proprio come noi. Alcuni hanno un aspetto spaventoso. Ma sono creature intelligenti e i vostri lanci di pietre li disturbano.

— La cosa gli garba poco — ridacchiò Horace.

— Alcuni sono offesi da questo comportamento.

— Chi sono i mostri che si chiudono dietro queste mura? Che cos'è questo posto?

— Questo — disse Timothy — è il Centro Galattico.

— E tu, cosa fai qui?

— Sono uno di loro: l'unico membro umano del Centro.

— Vuoi dire che pretendi di rappresentare la razza umana?

— Io non rappresento nessuno. Mi limito a presentare il punto di vista della razza umana, e loro non mi chiedono altro. Va bene così.

— Bene. Visto che sei uno di loro, perché non ci inviti a entrare? È l'unica cosa che chiediamo: che si presti attenzione a noi. E voi ci avete ignorato. Noi bussavamo alla porta. Niente di più.

— Bussavi? Martellavi, Horace. Tu non bussi, Horace. Tu schianti.

— Intendi dire che non farai niente per noi?

— Potrei assumermi la responsabilità di portare con me Emma. Dentro la città starebbe più comoda che fuori.

Emma scosse la testa. — Io resto con Horace. Grazie Timothy, ma senza Horace non vengo.

— Allora, penso di non poter fare niente.

— Non hai altro da dire? — chiese Horace. — Vieni qui a minacciarci e basta?

— Io non minaccio nessuno — disse Timothy. — Io vi chiedo solo di smetterla.

— E se non la smetto?

— La prossima volta, non sarò io a venire. Sarà un altro. Magari meno educato di me.

— Come educazione, sei tutto da discutere.

— Non saprei — disse Timothy. — A volte si fa molta fatica a mantenere l'educazione con te.

— Smettila! — esclamò Emma. — Smettetela! Vi state comportando come tutte le altre volte. Vi saltate sempre alla gola.

Si voltò verso Horace. — Tu! Tu dici che ti limitavi a bussare alla porta. Non è vero. Tu scagli pietre contro le finestre. Ecco cosa fai.

— Un giorno o l'altro — disse Horace — riuscirò a romperla una finestra. E quel giorno la città dovrà ascoltarmi.

— Allora, ti dico cosa sono disposto a fare — annunciò Timothy. — Sono disposto a ritornare davanti al Consiglio. Presenterò la vostra situazione. Forse potrò far entrare te ed Emma, ma non i robot.

— Per noi va bene — disse Conrad. — Non siamo noi coloro che vogliono entrare. Noi lo facciamo per Horace. Per noi va benissimo: possiamo rimanere fuori. Abbiamo un intero pianeta a nostra disposizione. Possiamo edificare una società di robot. Possiamo dare un'impostazione diversa alla nostra vita. Qui c'è un mucchio di buona terra coltivabile. Possiamo coltivare cibo per la città. Oppure fare un mucchio di altre cose.

— Cosa ne dici? — chiese Timothy, rivolto a Horace.

— Be' — disse Horace, con riluttanza — se è questo che vogliono…

— Quando eravamo sulla Terra — disse Conrad — combattevamo la nostra guerra contro gli alberi. Se fossimo ancora laggiù, continueremmo a combatterla. Ma qui non ha senso continuare a lottare. Lasciati a noi stessi, ce la caveremo benissimo. Dinanzi a noi si aprono infinite possibilità che sfrutteremo.

Timothy fissò Horace, che non disse niente. Aveva l'aspetto di chi ha appena subito una grossa batosta.

— Vedrò di fare il possibile — disse Timothy. — Ma se ti permetteranno di entrare, dovrai comportarti bene, dovrai tenere la bocca chiusa. Non dovrai dare fastidio. Io ho una casa molto simile a quella di Hopkins Acre. Laggiù sarai il benvenuto. È un ottimo posto dove abitare. Se darai fastidio, non ti sarà permesso di uscire dalla casa. Ti va bene?

Emma rispose per lui: — Gli va bene, gli va bene. Ci penserò io a farglielo andare. Sono stufa di dormire all'addiaccio. Perciò Timothy, va' dove devi andare. Fa' tutto quello che puoi.

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