12. Corcoran

Corcoran seguì il sentiero che partiva dal prato dove era atterrato il viaggiatore e che saliva alla cima della collina, e giunse alle mura della città dimenticata. Correva il rischio di non trovare niente, si disse. Quando era uscito dal viaggiatore aveva studiato a lungo il profilo delle rovine sullo sfondo del cielo, e non aveva visto alcun albero. Eppure era certo di non esserselo immaginato.

Probabilmente, per vederlo doveva mettersi in una posizione ben precisa. Quando aveva cercato il viaggiatore posto all'esterno dell'Hotel Everest, per vederlo si era dovuto mettere sotto un determinato angolo. Forse questo valeva anche per l'albero. Doveva raggiungere il punto da cui l'aveva visto la volta precedente.

Si passò il fucile sull'altra spalla e riprese la salita. Giunse alla porta, aspettandosi di rivedere lassù il vecchio, ma non vide nessuno. Forse il vecchio lupo dello spazio era sulle montagne, a parlare con le sue pietre e i suoi alberi.

Corcoran si fece strada tra le rovine della città, ripercorrendo il cammino della volta precedente. Ma non vide l'albero.

Giunto in cima alla collina, scorse finalmente un tremolio nel cielo, e dopo un passo vide l'albero: quell'incredibile, enorme albero che saliva alle stelle. Dopo un altro passo, l'albero divenne più nitido e Corcoran poté scorgere la scala che saliva attorno al tronco.

Ansimando per la fatica, corse verso la scala. Rimani lì, la pregò. Non andartene.

La scala rimase al suo posto, e divenne sempre più reale man mano che lui si avvicinava. Alla fine Corcoran si lasciò cadere ai suoi piedi, esausto. Allungò la mano e posò il palmo contro la corteccia, che era ruvida e robusta, uguale a quella di qualsiasi albero… a parte l'altezza e la dimensione.

La scala, poté vedere, era di metallo spesso e aveva anche una ringhiera.

Si alzò e si diresse verso la scala, poi si fermò e tornò a sedere. No, disse, prima voglio riprendere fiato, prima voglio essere pronto. Posò a terra il fucile e si sfilò dalle spalle lo zaino. Lo aprì e controllò il contenuto: cibo, una borraccia, una giacca pesante, una coperta per riscaldarsi di notte e un rotolo di corda per legarsi alla scala, nel caso avesse dovuto passare la notte lassù.

Rifece lo zaino e si appoggiò all'albero. Soltanto quando sarò pronto, si disse. Sotto di lui si stendevano le rovine, e più in basso la valle dove lui e David avevano seguito un sentiero che portava a una piccola comunità.

Un quarto d'ora più tardi, si alzò, si mise in spalla lo zaino, raccolse il fucile e si avviò lungo la scala. La salita non era difficile, la distanza tra uno scalino e l'altro era quella a cui era abituato, la ringhiera era robusta e gli dava un senso di sicurezza.

Non si guardò alle spalle finché non fu costretto a fermarsi. Poi guardò in basso e rimase sorpreso nel vedere quanta strada avesse percorso: dovette sporgersi dalla ringhiera per vedere le rovine che giacevano alla base dell'albero. Da quella altezza sembravano soltanto un mucchio di pietre grigie. Le mura che le circondavano sembravano soltanto una sottile linea più volte interrotta. Dietro le rovine si stendeva una distesa verde di monti, rotta occasionalmente dal riflesso argenteo di qualche fiume. Sollevando lo sguardo verso la cima dell'albero il tronco sembrava non avere mai fine. Saliva dritto verso il cielo fino a scomparire in mezzo all'azzurro.

Continuò a salire. Quando si fermò la seconda volta, per riposare, non riuscì a distinguere le rovine. Le colline che si stendevano tutt'intorno alla base non davano alcun senso di profondità. Il diametro dell'albero sembrava essersi ridotto, anche se rimaneva assai più grande di quello di qualsiasi albero ordinario.

Pensò di essere giunto a un'altezza di almeno cinque chilometri, anche se la cosa sembrava impossibile: nessuno poteva salire a una simile altezza facendo soltanto due brevi tappe. E non aveva notato diminuzione della temperatura o variazioni della densità dell'aria. L'enormità dell'albero non era la sola cosa impossibile, contraria a tutte le regole a lui note.

Si domandò se dovesse continuare a salire, e si chiese che cosa volesse dimostrare con la sua ascesa e che cosa si aspettasse di trovare. Ma i misteriosi effetti fisici collegati alla presenza dell'albero lo spinsero a continuare. Lassù, si disse, doveva esserci la risposta ai misteri incontrati fino a quel momento. Dopo avere fatto tanta strada, non poteva fermarsi. Se non fosse giunto alla cima sarebbe sempre rimasto con la curiosità di sapere cosa ci fosse lassù…

Mancava solo un'ora al tramonto quando riprese a salire; sotto di lui la terra era completamente avvolta nel buio, a eccezione di un'unica altissima montagna. Qualche tempo più tardi, si accorse di avere dimenticato il fucile su uno scalino. Ma il fucile non gli serviva; e non aveva voglia di andare a riprenderlo. Continuò a salire, e adesso, senza il peso del fucile, la salita era più agevole. Salì ancora, e giunse il crepuscolo: un crepuscolo non azzurrino come quello che lui conosceva, ma grigio. Presto, si disse, avrebbe dovuto fermarsi, legarsi a uno scalino con la corda che si era portato, mangiare qualcosa, cercare di dormire. Ma sapeva che avrebbe dormito poco.

Mentre saliva, cercava di pensare ai misteri dell'albero: la scala, la forza misteriosa che gli impediva di stancarsi e che manteneva costante intorno a lui la pressione atmosferica. La ragione gli diceva che un albero come quello non poteva esistere, e neppure una scala come quella, che si avvolgeva a chiocciola intorno al tronco per infiniti chilometri, senza mai avere limite.

Ma l'albero esisteva davvero, anche se pareva che soltanto lui, con la sua vista particolare, fosse in grado di vederlo. David non aveva scorto niente, e il vecchio, anche se pareva molto interessato agli alberi, non ne aveva fatto parola. Se qualcuno l'avesse visto, l'esistenza dell'albero sarebbe stata nota a tutti: un prodigio conosciuto in tutto il mondo, oggetto di infiniti commenti.

Pensando a questo, perse parte della concentrazione e non prestò attenzione a dove metteva i piedi. Inciampò nel bordo di uno scalino e allungò la mano istintivamente per afferrarsi alla ringhiera…

Qualcosa gli attraversò la vista, come un lampo. Tutto divenne nero. E scomparve ogni cosa…

Non c'era più la ringhiera. Cercò disperatamente di afferrarsi agli scalini per non precipitare. Ma non c'era nessuno scalino: si trovava su un terreno piatto, ed era steso a terra.

Perplesso e spaventato, sollevò la testa e non vide altro che una distesa grigia e piatta. L'albero e la sua scala elicoidale erano scomparsi.

Si alzò in ginocchio e si guardò attorno, ma continuò a vedere soltanto la pianura grigia. Nebbia grigia che si muoveva su una terra grigia.

Lentamente, si alzò in piedi. Davanti a lui, a poca distanza c'era una sorta di linea che correva sul terreno. La raggiunse, e vide che era una strada, la cui sfumatura di grigio era soltanto leggermente diversa da quella del terreno circostante. Era perfettamente rettilinea, e si stendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni. In centro c'erano due strisce più scure che sembravano rotaie, come quelle dei tram della sua infanzia. E, come a confermare questa ipotesi, lontano ih mezzo al grigio, comparve una vettura tramviaria dall'aspetto molto antiquato, che si dirigeva verso di lui. In alto era coperta da un tenda a strisce, e nonostante il suo aspetto cigolante, non faceva alcun rumore. Corcoran si spostò per lasciarla passare, e la vettura venne a fermarsi davanti a lui, che, come se fosse la cosa più naturale del mondo, salì a bordo e si sedette senza farsi domande.

Non c'era dubbio, pensò poi; la vettura lo portava chissà dove, ma era meglio salire che rimanere fermo in mezzo a quell'interminabile grigiore. Comunque, anche dopo che fu salito, per qualche tempo il grigiore non cambiò; non c'era niente da vedere. Alla fine, però, cominciò a scorgere qualcosa in lontananza; un edificio a forma di cubo, e alcune persone che si muovevano accanto a esso. Tra l'edificio e il binario c'erano dei tavolini e delle sedie, ma parte della scena era coperta di una nebbia trasparente punteggiata di minuscole luci.

La vettura proseguì tranquillamente sui binari; quando fu quasi giunta all'edificio, Corcoran vide che due delle persone lo fissavano con attenzione. Una gli pareva familiare, e un istante più tardi la riconobbe. Senza aspettare che la vettura si fermasse, balzò a terra e le corse incontro.

— Tom! — gridò. — Grazie a Dio, sei proprio tu! Cosa fai qui? — Lo prese per le spalle. — Sono andato a cercarti — disse. — Ho trovato qualche traccia, ma…

— Traquillizzati — disse Boone. — Tutto a posto. Ti ricordi di Enid, vero?

Corcoran guardò la donna accanto a Boone. — Sì, certo.

Enid gli porse la mano. — Lieta di vedervi, signor Corcoran. Siamo ben lontani da Hopkins Acre, vero?

— Non c'è dubbio — disse Corcoran.

— E lui è Lupo — disse Boone. — Non credo che tu lo conosca.

Corcoran guardò dove Boone indicava e vide il lupo grigio che lo fissava.

— Forse non proprio Lupo — disse. — Ma ho visto alcuni dei suoi amici, nel posto dove hai ucciso il mostro.

— Non sono stato io — disse Boone. — È stato il bisonte. Poi io ho ucciso il bisonte.

Corcoran scosse la testa. — A quanto pare, non so bene cosa succede.

— Non lo sappiamo neppure noi — disse Enid. — Stiamo ancora cercando di capirlo.

— Sediamoci a questo tavolo — disse Boone. — Dai rumori che provengono dall'edificio dietro di noi, sembra che il robot che gestisce questa tavola calda stia spadellando in cucina.

I tre si diressero verso il tavolino, e in quel momento Muso di Cavallo uscì dalla nebbia della carta galattica e si diresse verso di loro.

— La carta — disse a Boone — sta ritornando nel baule senza necessità di intervento da parte mia. È una fortuna, perché se avessi provato a farlo, avrei combinato qualche pasticcio. E chi è, se posso chiederlo, la persona che si è unita a noi?

Boone disse a Corcoran: — Ti presento il nostro amico Muso di Cavallo.

Muso di Cavallo brontolò: — Lieto di conoscervi, signore.

— Mi chiamo Jay Corcoran — gli disse Corcoran. — Sono un vecchio amico di Boone.

— Bene — disse Muso di Cavallo — siamo tutti ritornati insieme qui alla base. E sono lieto che la nostra forza sia aumentata con l'arrivo dell'amico di Boone. Inoltre c'è Lupo. E il Cappello.

Il Cappello sedeva anche lui alla tavola; era ritto sulla sedia, non era più afflosciato. Aveva sempre la faccia nascosta dal cappello, ammesso che avesse una faccia.

Guardandolo con maggiore attenzione, Boone vide che era stato un po' tartassato da Lupo. Qua e là si scorgevano i segni dei denti.

Il robot si avvicinò; aveva un vassoio in testa. — Non posso offrirvi altro — disse — che salsicce e crauti. Spero che vi accontentiate. Per il carnivoro ho preparato un piatto di sole salsicce. Non credo che rimpianga l'assenza dei crauti.

— Mangia qualsiasi cosa di origine animale. — Disse Boone — Ma credo che abbiate ragione per i crauti.

Enid, seduta accanto a Boone, gli toccò il braccio.

— Vi piacciono i crauti? — domandò.

— Mi piacciono abbastanza — rispose. — Ho imparato a mangiare quasi di tutto.

— Era Horace quello che amava salsicce e crauti — disse Enid. — Si riempiva sempre come un maiale. Mangiava con le mani.

Corcoran cambiò argomento. — Qualcuno sa dirmi dove siamo? Che posto è questo?

— Il Cappello diceva che è la Strada dell'Eternità — spiegò Boone.

— Si vede che scherzava.

— No, non penso. Pareva sicuro di quello che diceva. Io gli credo.

— Sei passato dietro uno dei tuoi angoli per venire qui?

— Sì… non appena il mio subconscio mi ha fatto fare un sogno sufficientemente spaventoso. Lupo è venuto via con me. E tu? Tu non giri dietro gli angoli.

— No. Io sono salito su un albero… un albero altissimo, con una scala elicoidale che si avvolgeva attorno al tronco. Poi è successo qualcosa, ma non so bene cosa.

— È ridicolo — disse Boone.

— Pressappoco come i tuoi giri dietro gli angoli.

Proseguirono il pasto in silenzio. Lupo fu il primo a finire e si accucciò comodamente ai piedi di Boone. Quando tutti ebbero finito, Enid chiese a Corcoran: — David arriverà presto? Era con voi nel viaggiatore vero?

Corcoran si agitò sulla sedia, a disagio. — Ho una triste notizia, signorina Enid. David è morto. Mi spiace… mi spiace davvero…

Per un attimo, Enid rimase immobile, incapace di pensare e di parlare. Poi singhiozzò, ma infine riuscì a riprendere il controllo di se stessa. — Ditemi come è successo.

— Henry era riuscito a trovarci. Aveva individuato il punto dove eravate giunta con Boone, senza incontrarvi. Aveva poi seguito nel futuro il vostro viaggiatore e aveva scoperto tracce della vostra presenza, ma non vi aveva rintracciato neanche lì. Perciò siamo ritornati tutt'e tre nel periodo preistorico, sperando di poter…

— Ma come è successo?

— Una tigre — disse Corcoran. — David aveva con sé il fucile, e l'ha uccisa, prima che riuscisse ad attaccarci. Ma la bestia, prima di morire, l'ha colpito.

— David ucciso da una tigre?

Corcoran annuì tristemente, turbato dal ricordo.

— Non aveva mai voluto sparare — commentò Enid. — Andava a caccia con il fucile scarico. Toglieva sempre le cartucce.

— Laggiù — disse Corcoran — io l'ho pregato di tenerlo carico. Quando la tigre ci assalì, lui ci difese entrambi. Se non lo avesse fatto, la tigre avrebbe ucciso anche me.

— Voi eravate con lui quando è morto?

— Negli ultimi istanti. Quando l'ho raggiunto, era moribondo.

— Ha detto qualcosa?

Corcoran scosse la testa. — Non ne ha avuto il tempo. L'ho seppellito come meglio ho potuto. Una tomba fra le rocce, coperta di pietre. Ho cercato di pronunciare delle frasi sulla tomba. Non so se sono state le frasi giuste. Non sono molto abile in queste cose.

— Ed Henry?

— Henry è andato via prima che ci fosse l'incidente. È andato a cercare il terzo viaggiatore.

Enid si alzò in piedi. Disse a Boone: — Mi accompagnate?

— Certo — disse lui. — Dove volete.

Si allontanò dall'edificio. Enid si teneva al braccio di Boone, Lupo li seguiva.

Quando Enid e Boone furono lontani, Muso di Cavallo disse a Corcoran: — Ho l'impressione che la vostra storia non fosse la pura verità. L'avete un po' abbellita, vero?

— Certo, l'ho abbellita. Cosa dovevo dire? Ero addormentato quando la tigre l'ha ucciso. L'ha trascinato lontano per mangiarselo. Dovevo dire una cosa simile a sua sorella?

— No. Siete un animo gentile.

— Sono uno stupido e un fifone — disse Corcoran.

Lungo la strada, Enid disse a Boone: — Non voglio piangere. David non era tipo da desiderare che mi sciogliessi in lacrime.

— No, piangete — disse Boone. — A volte il pianto è un sollievo. Avrei voglia di piangere anch'io. David mi piaceva. Nel breve tempo passato con lui, l'ho trovato molto simpatico.

— Di tutta la famiglia — disse Enid — era la persona che preferivo. Parlavamo sempre tra noi e avevamo i nostri segreti e le nostre battute. David sembrava un superficiale, ma era molto sensato. Era esperto nell'uso del viaggiatore e faceva le commissioni per noi negli altri tempi. Portava libri e armi a Timothy, liquori per Horace e utensili per Emma. Io non gli ho mai chiesto di portarmi niente, ma lui mi portava sempre regali: un gioiello, un libro di poesie, un profumo…

Tacque per un istante, poi riprese: — E adesso è morto. Sepolto nel passato preistorico. E ha sparato per difendersi. Non avrei mai creduto che riuscisse a farlo. Era troppo civile, troppo gentiluomo. Ma nel momento decisivo, di vita o di morte, ha sparato. — Lo fissò negli occhi. — Adesso ho voglia di piangere. Non dovrei farlo… ma non posso farne a meno. Stringetemi, Tom, mentre piango.

Pianse a lungo, ma poi anche il pianto ebbe fine. Fissò Boone con le guance piene di lacrime, e lui la baciò dolcemente.

— Ritorniamo dagli altri — disse lei.

Quando giunsero di nuovo accanto al tavolino. Muso di Cavallo e Corcoran sedevano sempre allo stesso posto e parlavano tra loro.

— Discutevamo sul da farsi — disse Corcoran. — Quale sarà la nostra prossima mossa? Nessuno di noi ne ha idea.

— Spostarsi non è un problema — disse Muso di Cavallo. — La rete ci può portare dovunque vogliamo andare.

— Potremmo ritornare a Hopkins Acre — suggerì Boone. Rivolse a Enid, un'occhiata interrogativa: — L'idea vi piacerebbe?

Lei scosse la testa. — Laggiù non c'è più niente.

— C'è sempre la stella che abbiamo trovato — disse Boone. — Quella contrassegnata con una X. Ha un pianeta abitato. Lo abbiamo visto con la televisione di Enid.

Muso di Cavallo non parve convinto. — Pensate che sia importante perché ha la X. Anch'io l'ho pensato in un primo momento, ma adesso non ne sono più convinto. La X potrebbe essere un avvertimento di tenersi lontani.

— Non mi era venuto in mente — ammise Boone. — Potrebbe esserlo. Come la croce che veniva tracciata sulla porta degli appestati durante il Medioevo.

— A me piacerebbe visitare il centro della galassia — disse Muso di Cavallo. — Saltiamo sulla rete e andiamo…

Boone balzò in piedi. Dietro Corcoran e Muso di Cavallo, l'aria si era messa a tremolare. Si udì un tonfo sordo. A pochi passi dal tavolino si materializzò un viaggiatore.

Tutti balzarono in piedi, eccetto il Cappello. Il Cappello continuò a sedere senza muoversi.

— Ma quello è il mio viaggiatore! — gridò Enid. — È quello che ho perduto, quello che ho lasciato dietro di me!

— Quello che vi hanno rubato — precisò Corcoran. — Henry ha detto che qualcuno lo ha trascinato via.

— Ma se l'hanno rubato — disse Enid — come può essere qui?

Il portello si spalancò e ne uscì un uomo che si guardò attorno e poi li fissò. Corcoran andò verso di lui. — Martin — disse. — Bella combinazione, incontrarvi qui. C'è anche Stella, con voi?

— No, adesso lei ha altri interessi — rispose Martin. Pareva incerto, confuso da ciò che vedeva.

Enid domandò, tranquillamente: — È lo stesso Martin che custodiva il nostro osservatorio di New York?

— Proprio lui — rispose Corcoran. — È scappato quando gli ho riferito che qualcuno faceva domande su un posto chiamato Hopkins Acre.

— E adesso ha rubato la mia macchina.

— Voi dovete essere Enid, vero? — domandò Martin. — Sì dovete essere proprio voi. Io non ho rubato il vostro viaggiatore. L'ho acquistato dall'uomo che lo ha rubato. Un uomo ignorante. E spaventato. La chiave era ancora dentro, ma aveva paura di girarla. Non aveva idea di cosa potesse succedergli, ed è stato lieto di vendermi il viaggiatore per pochi soldi. E poiché così possedevo due macchine, io ho preso questa, e Stella ha preso l'altra.

— Avete trovato la macchina di Enid, e adesso venite da noi — disse Boone. — Spiegateci come avete fatto.

Martin si guardò di nuovo attorno, poi alzò le spalle. — Ci sono dei modi di trovare le persone… — disse vagamente.

— Ne sono certo — disse Corcoran. — E se c'è una persona che li conosce, quella siete voi. Per chi lavorate, adesso?

— Per nessuno. Per me stesso: lavoro in proprio — rispose Martin.

— E le cose vi vanno bene, suppongo — disse Corcoran, ironico.

— Male non vanno. Non capisco la vostra ostilità, Corcoran. Vi ho sempre pagato bene, vi ho dato un mucchio di lavoro.

— Mi avete sempre fregato — disse Corcoran. — Avete sempre fregato tutti.

Dal viaggiatore fece capolino qualcuno.

— Un Infinito! — strillò Enid. — Avete un Infinito nel viaggiatore!

Martin si voltò verso l'Infinito e gli gridò: — Bravi! Vi ho detto di non farvi vedere prima che vi chiamassi. Ma non potevate aspettare, dovevate guardare! Adesso, tanto vale che usciate fuori.

Tre Infiniti uscirono dal viaggiatore e si fermarono là davanti. Erano creature dall'aspetto strano, alte poco più di un metro e con abiti simili a tonache col cappuccio. Sotto il cappuccio si intravedevano lineamenti volpini.

— Dunque, adesso lavorate per loro — disse Boone.

— In questo momento. Sono dei profughi. Gli Infiniti sono tenuti in una sorta di quarantena da un gruppo chiamato il Centro Galattico, che si è arrogato il diritto, senza averne l'autorità, di imprigionarli sul loro pianeta. Questi tre sono riusciti a uscire. Ho sentito parlare di loro e ho promesso di aiutarli.

Uno degli Infiniti fece un passo avanti e disse con una vocina acuta: — Vi preghiamo di volerci comprendere. Appartenete a una razza a cui abbiamo prestato la nostra assistenza. Abbiamo reso immortale gran parte della vostra razza, che adesso è al sicuro da ogni pericolo. Siamo una razza con alti principi morali, che fa del bene agli altri e non chiede niente in cambio. Ma adesso siamo vittime di un'ingiustizia, e cerchiamo amici disposti a parlare in nostra difesa contro la crudele e ingiusta quarantena…

— Ritenete di essere stati trattati ingiustamente? — domandò Enid, con tono troppo gentile.

— Certo, signora.

— E volete che noi vi aiutiamo?

— È il nostro più grande desiderio.

— Ci avete costretti a fuggire in esilio — disse Enid — e una volta fuggiti, avete inviato dei mostri assassini a cercarci.

— Noi tre, e la maggior parte della nostra razza, non abbiamo niente a che vedere con i mostri assassini. C'era tra di noi una certa frazione, che, gonfia di arroganza…

— E questa frazione gonfia di arroganza è ancora presente?

— Noi riteniamo di sì. Ma non abbiamo niente a che fare con i mostri. Sono un altro problema. Noi tre siamo degli ambasciatori che cercano aiuto e comprensione.

— Fino a che punto siete compromesso in questa faccenda? — domandò Boone, rivolto a Martin.

— Ben poco — rispose Martin. — Io fornisco solo il trasporto.

“Basta” disse una voce, nella loro mente.

— Chi è stato? — domandò Martin, sorpreso.

— È il Cappello — disse Boone. — È il suo modo di parlare, direttamente nella testa, senza preoccuparsi di pronunciare le parole.

— Un momento — disse Enid. — Prima d'ogni altra cosa, voglio che questo Martin mi restituisca le chiavi del viaggiatore.

— Mi pare una richiesta molto ragionevole — disse Corcoran. Fissò Martin, che dopo qualche istante di esitazione, prese di tasca le chiavi e le consegnò a Corcoran, che le portò a Enid.

— Non intendevo fuggire — disse Martin, cercando di ricostruire la sua dignità un po' appannata.

— Certo — disse Boone. Si voltò verso il Cappello: — Mi spiace dell'interruzione. Cosa dicevate?

“Dicevo” riprese il Cappello “che c'è soltanto una destinazione logica per noi. Non il centro della galassia, e neppure la stella con la X, quale che sia. Chi ha mai sentito parlare di una stella simile?”

— Era sulla carta — disse Muso di Cavallo. — C'era una sola stella con una X.

— Quale destinazione suggerireste? — chiese Boone.

— Se intendete andare via — annunciò il robot, uscendo dall'edificio — verrò anch'io. Da troppo tempo sono qui, e ho visto soltanto questo Cappello, che non mi fa molta compagnia. Porterò il forno e gli apparati per la conservazione del cibo. Avrete bisogno di me, se non volete morire di fame. Chi mai può dire dove questo pazzo Cappello vi porterà. Non mangia niente e non conosce le comodità…

— Basta così — disse Boone. — Ci avete convinti. — Si rivolse a Muso di Cavallo e domandò: — La rete ci può portare tutti?

— Certo — disse Muso di Cavallo. — La rete ci porterà.

— Che cosa ne facciamo del viaggiatore? — chiese Enid.

— Qui è al sicuro — disse Muso di Cavallo. — La rete è molto meglio.

— Ma dove andiamo? — chiese Corcoran. — Il Centro Galattico di cui parlavano gli Infiniti sembra un posto interessante, ma occorrerebbe sapere come raggiungerlo.

“Bisogna andare sul pianeta del Popolo dell'Arcobaleno” disse il Cappello. “Gli infiniti chiedono giustizia, e giustizia avranno laggiù”.

— Non mi importa niente degli Infiniti e di quello che vogliono — disse Boone. — Ci occorre un posto dove trovare determinate risposte. Abbiamo già incontrato troppi posti assurdi. Questa strada, l'albero di Jay…

“Siete confuso?” domandò il Cappello.

— Considerevolmente.

“Allora, andiamo dal Popolo dell'Arcobaleno” disse il Cappello “esso ci darà tutte le risposte”.

— Bene — brontolò Muso di Cavallo. — Andremo dal Popolo dell'Arcobaleno. Portiamo sulla rete quello che ci occorre e poi saliamo anche noi.

Boone si sentì sfiorare la gamba. Guardò in basso e vide Lupo.

— Anche tu — disse. — Ti portiamo con noi, ma non staccarti da me. Questa volta ci sarà da farsi venire la pelle d'oca.

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