— La cosa più importante che vi devo fare presente — li avvertì Horace — è che non potrete mai lasciare questo luogo. Se ci fosse la pur minima possibilità di andarvene, saremmo costretti a uccidervi.
— Horace è sempre così terribile — disse Enid. — Non ha la minima grazia. È come un martello. Picchia mazzate su tutto e tutti. Poteva dire che era spiacente, ma che non potete andarvene, assicurandovi però che è comunque lieto del vostro arrivo.
— Non so se essere lieto del loro arrivo — disse Horace. — È solo un'ulteriore indicazione che le cose ci stanno sfuggendo di mano. Martin e Stella spariti senza lasciare tracce, la storia che ci ha raccontato il Fantasma. …
— Henry! — lo interruppe Enid. — Si chiama Henry, non «Fantasma»!
— … La storia che ci ha raccontato Henry ieri sera, di qualcuno che curiosa intorno a Hopkins Acre, poiché sente qualcosa di strano e cerca di capire cos'è. Ve lo dirò io che cosa succede: ci hanno quasi trovati. E adesso arrivano questi due da New York, con una spiegazione non del tutto soddisfacente del loro uso del viaggiatore di Martin, e con i loro accenni a Hopkins Acre.
— Siamo rimasti troppo tempo in questo luogo — disse Emma in tono lamentoso. — Dovevamo far perdere le nostre tracce recandoci in qualche altro posto. Nessuno, io credo, deve stare nello stesso punto per un secolo e mezzo.
— Il trasferimento comportava un altro tipo di rischi — disse Horace. — Occorreva far venire i tecnici capaci di organizzare questo tipo di operazioni. E poi, per prima cosa, occorreva cercare il posto dove strasferirci. La ricerca potevamo farla noi, ma, senza assistenza da parte di altri gruppi, non si poteva fare il trasloco. Non abbiamo le conoscenze necessarie.
— Avevo la convinzione — disse David, con cattiveria — che tu fossi in grado di fare qualsiasi lavoro senza aiuto.
Horace sollevò le spalle come un toro imbizzarrito.
— Smettetela — disse Timothy, con la sua voce pacata. — Smettetela, tutti e due. Invece di discutere tra di noi, dovremmo cercare di spiegare la situazione a questi ospiti.
— Me lo auguro di cuore — disse Corcoran. — Ci avete detto che non possiamo andarcene, ma adesso veniamo a sapere che David… è David, vero, che lo fa?
— Sì — disse David. — Io. Di tanto in tanto lascio Hopkins Acre. Ma di solito vado a Londra o a Parigi. Sono andato una volta sola a New York.
— E avete detto che deve arrivare qualcuno da Atene. Quindi, c'è gente che va e viene.
— La gente che va e viene, come dite voi — disse Timothy, — si serve dei veicoli che noi chiamiamo “viaggiatori”. Il viaggiatore in cui abitava Martin vi ha portato qui da New York, ma la cosa non è così semplice.
— Io ho semplicemente premuto dei pulsanti — disse Corcoran.
— Potevate continuare a premere pulsanti senza riuscire a far muovere il viaggiatore. Ciò che avete fatto, è stato premere certi pulsanti in un certo ordine, che hanno messo il viaggiatore sotto il controllo del quadro di comando di questa casa. Una volta fatto questo, Horace ha potuto mettere in funzione il viaggiatore di Martin.
— Volete dire che soltanto determinate persone possono farlo funzionare?
— Il fatto è — disse Horace — che siete all'interno di una bolla temporale… definizione molto semplicistica, ovviamente… attraverso la quale non può passare nessuno, nemmeno noi. L'unico modo di passare è servirsi di un viaggiatore. Rimasero tutti in silenzio per un momento.
— Dimenticavo una cosa — disse Horace. — Il Fantasma è l'unico che può passare senza assistenza, ma lui è un caso speciale.
— Si chiama Henry — gli ricordò Enid. — Henry, e non Fantasma.
— Mi sembra — disse Boone — che dobbiamo accettare, con tutta la tranquillità di cui siamo capaci, quello che avete detto. Siamo qui, a quanto pare, e non possiamo andarcene. In tutta la faccenda ci sono molte cose che non capisco. Avrei un mucchio di domande da fare, ma suppongo che in seguito avremo tempo per parlare di tutto.
— Lieto che vediate le cose in questo modo — disse Timothy. — Anche noi subiamo certe restrizioni, e non possiamo ignorarle. Speriamo che non sorgano attriti nella nostra vita in comune.
— Ho ancora una domanda — disse Boone — e mi sembra troppo importante per attendere. Chi siete?
— Siamo dei profughi — disse David. — Dei rifugiati che si nascondono nelle pieghe del tempo.
— Non è vero! — esclamò Horace. — Continui a dire che siamo dei rifugiati. Siamo dei rivoluzionari, dico invece io! E un giorno faremo ritorno.
Enid disse a Boone: — Non date retta a questi due. Sono sempre pronti a saltarsi alla gola. La vostra domanda, ne sono certa, riguardava l'epoca da cui proveniamo. Siamo persone che un tempo vivevano nel futuro, a un milione di anni da oggi. Veniamo dal vostro lontanissimo futuro.
Da dietro la porta che dava sulla sala da pranzo, giunse la voce di Nora: — Il pranzo è servito.
Il pranzo fu assai gradevole e civile, e non ci furono polemiche. David parlò dei giorni da lui trascorsi nella New York del ventesimo secolo e chiese a Boone e Corcoran informazioni sulla città. Timothy parlò di alcuni libri che aveva letto recentemente. Enid parlò poco. Emma rimase in dolce silenzio. Anche Horace rimase in silenzio, con i gomiti piantati sul tavolo, perso nelle proprie elucubrazioni. Alla fine si decise a parlare: — Mi domando che cosa è successo a Gahan. Dovrebbe già essere arrivato.
— Gahan viene da Atene — disse Emma. — Viene per portare a Timothy un nuovo libro.
— Noi parliamo sempre di Atene — spiegò Timothy. — Ma in realtà non sono ad Atene, anche se son lì vicino.
— Abbiamo anche un piccolo gruppo nel Pleistocene — disse David. — Nella Francia meridionale. All'inizio dell'ultima glaciazione.
— Neanderthal — disse Boone.
— Sì, alcuni. Primi Neanderthal.
— Quello che non capisco — disse Horace, sempre preso dalle sue preoccupazioni — è perché Martin se ne sia andato così in fretta. E anche Stella. A quanto pare aveva un piccolo viaggiatore in un deposito, e lo ha usato per allontanarsi, ma prima ha avvertito Stella di recarsi da lui. Avrebbe dovuto usare il viaggiatore che teneva nella sua residenza, ma non l'ha fatto. Si è lasciato prendere dal panico, quello sciocco. Si è spaventato ed è scappato via.
— Aveva paura di cadere in una trappola, usando quello dell'albergo — disse Enid. — Mi sembra chiaro. Forse non si fidava di Corcoran.
— Non aveva nessun motivo di fidarsi — disse David. — Stando alle sue stesse ammissioni Corcoran aveva incaricato i suoi uomini di sorvegliare Martin e Stella. Non potevano fare un passo senza essere controllati.
— Ha acquistato la mia lealtà e l'ha pagata bene — disse Corcoran. — Io lavoro onestamente per i clienti che pagano la mia onestà. Mai, nella mia carriera, ho fatto il doppio gioco con un cliente.
— Ma in questo caso non vi siete fidato di lui — disse David.
— Non mi sono fidato, no. E lui non mi ha dato nessun motivo di fidarmi. L'ho sorvegliato: non per danneggiarlo, ma per essere certo che non intendesse danneggiare me. Era un uomo straordinariamente incline alla segretezza. Un individuo sfuggente come un'anguilla.
— Probabilmente aveva saputo che intendevano demolire l'albergo — disse Horace. — Certo avranno avvisato gli inquilini. Ma lasciare laggiù il viaggiatore residenziale, pur sapendo della demolizione, col rischio di rivelarne la presenza, è un atto imperdonabile.
— Forse non era stato informato della demolizione — disse Corcoran. — Gli inquilini sono stati avvertiti soltanto allo scadere dei termini di legge per lo sfratto. E l'intenzione di demolire l'edificio non è stata comunicata al pubblico. Hanno fatto le cose in silenzio. Martin era già scomparso da tempo, quando lo sono venuto a sapere io. E vi garantisco che di solito non mi sfugge niente di quello che succede in giro.
— Allora — disse David — può darsi che sia partito per qualche rapida missione, pensando di essere presto di ritorno. Questo darebbe la spiegazione del fatto per il quale non si è servito del viaggiatore residenziale.
Horace si rivolse a Boone, con irritazione: — Non mi avete ancora spiegato come siete entrati nel viaggiatore. Non vi chiedo come siete riusciti a vederlo; questo posso capirlo.
— Vi ho detto quello che so — disse Boone. — Ho fatto il giro di un angolo. Non so dirvi altro. Non capisco neanch'io come riesco a farlo. So soltanto che per farlo devo essere sotto stress.
— Che razza di spiegazione — disse Horace. — Un uomo sa sempre quello che fa.
— Spiacente — disse Boone. — Non posso darvi altro aiuto.
— E poiché siamo arrivati ai dettagli — disse Corcoran, saltando di palo in frasca — spiegatemi cos'erano le parole incomprensibili che avete detto quando mi sono messo in contatto con voi. Che significavano?
— Posso rispondere io — disse Timothy. — Come capirete, cerchiamo di conservare la massima segretezza, anche a costo di dare l'impressione di voler giocare ai romanzi di cappa e spada. Noi pensiamo che non sia possibile inserirsi nelle nostre comunicazioni, ma i nostri nemici sono molto potenti, e intelligentissimi. Non sappiamo quali precauzioni siano necessarie per la nostra sicurezza; non abbiamo modo di saperlo. Perciò, quando parliamo tra di noi mediante il nostro sistema di comunicazione, usiamo una lingua molto antica, il dialetto di un piccolo e oscuro grappo di esseri umani. Con questo metodo speriamo che anche nel caso di intercettazione delle comunicazioni, l'ascoltatore non riesca a decifrare le parole.
— Questa — disse Boone — è l'organizzazione più assurda che abbia mai incontrato…
— Voi non sapete tutto — disse Timothy. — Voi non conoscete gli Infiniti. Se li conosceste…
Dalla cucina giunse un grido acuto. Timothy ed Emina si alzarono dalla sedia, di scatto. Nora, ancora urlante, comparve sulla soglia della cucina. La cuffia che portava sulla testa era tutta storta; con le mani, si tormentava il grembiule legato alla vita.
— Visitatori! — strillò. — Ci sono dei visitatori. E c'è qualcosa che non va. Il viaggiatore è atterrato nell'aiola e si è rovesciato!
Si udirono cigolare le seggiole e tutti si lanciarono vero la cucina, per raggiungere la porta di servizio.
Corcoran guardò Boone. — Che sia quel tizio di Atene?
— Penso di sì — disse Boone. — Meglio andare a vedere.
Si fermarono sugli scalini della cucina e osservarono la scena che si svolgeva davanti a loro. Nell'aiola si vedeva un ampio solco, scavato da un oggetto rettangolare, alto quattro metri, largo due, con la parte anteriore piantata nel terreno.
David, Horace, Enid e Timothy spingevano e tiravano per muoverlo. Emma stava da una parte e si lamentava ad alta voce.
— Dovremmo dar loro una mano — disse Corcoran.
Lui e Boone si avviarono lungo il prato.
— Horace ansimava. — Cosa intendete fare? — gli domandò Boone.
— Liberarlo dal terreno — ansimò Horace. — Rimetterlo diritto.
Con l'aiuto dei due uomini, l'apparecchio venne sollevato e appoggiato sul terreno.
Horace e David si diressero verso una sorta di pannello, posto sul fianco dell'oggetto. Lentamente, il pannello si spalancò. David entrò nell'apertura, penetrando a fatica; poi indietreggiò.
— Datemi una mano — gridò — Ho preso Gahan.
Horace entrò al suo fianco, e cercò qualcosa a cui appoggiarsi; poi indietreggiò lentamente con lui, trascinando una figura umana priva di sènsi. La trascinarono su un'aiola coperta d'erba.
Gahan non si muoveva. Era disteso sulla schiena e perdeva sangue dalla bocca. Un braccio sembrava rotto; il petto era sporco di sangue. Horace si inginocchiò accanto a lui, e gli sollevò la testa. Gahan aprì gli occhi e cercò di dire qualcosa, ma dalle labbra uscì soltanto un gorgoglio.
Enid corse verso il gruppetto e si inginocchiò accanto a Gahan. — Va tutto bene, Gahan. Sei al sicuro. Sei a Hopkins Acre…
— Che cosa è successo? — strillò Emma.
Dalla bocca di Gahan uscì un fiotto di sangue, accompagnato da una breve frase: — È finita… — Poi il sangue lo soffocò.
— Che cosa è finita, Gahan? Che cosa?
Il morente si sforzò di parlare, e infine disse: — Atene. — Nient'altro.
Timothy disse: — Meglio portarlo in casa. È ferito gravemente.
— Che cosa sarà successo? — gridò Emma.
— È precipitato, maledizione — disse David. — Ferito, e ha perso il controllo del viaggiatore.
Il ferito si agitò: voleva parlare. Horace gli sollevò la testa. Enid cercò di pulirgli le labbra con un fazzoletto, ma riuscì soltanto a spargere il sangue sul resto della faccia.
— Atene — bisbigliò Gahan, semisoffocato dal sangue. — La base… distrutta…
Ricadde tra le braccia di Horace. Boone si chinò su di lui attentamente e gli tastò il collo, per sentire le pulsazioni cardiache. Poi si rialzò.
— Quest'uomo è morto — disse.
Con rispetto, Horace adagiò la testa di Gahan sull'erba. Si alzò lentamente in piedi, in mezzo a un mortale silenzio. Tutti si fissavano senza capire.
Timothy disse a Boone: — Non possiamo lasciarlo qui. Aiutatemi a trasportarlo. — Dobbiamo seppellirlo — disse Emma. — Dobbiamo scavare una fossa.
— Dobbiamo parlare — disse Horace. — Prima di tutto, dobbiamo discutere la cosa.
— Dove lo mettiamo? — Timothy domandò a Emma.
— Una camera da letto — disse Emma. — Sopra. La stanza in fondo a destra. Non possiamo metterlo nel soggiorno. Il sangue può rovinare il mobilio.
— E la stanza dei fucili? Sarebbe più semplice. Non c'è bisogno di portarlo su per le scale. Là sotto c'è un divano di cuoio. Il cuoio si pulisce in fretta.
— Va bene. La stanza dei fucili.
Boone e Timothy sollevarono il corpo. Boone per le spalle, Timothy per i piedi. Attraversarono la cucina e la camera da pranzo, preceduti da David che spostava le sedie per farli passare. Giunti in fondo alla stanza si fermarono accanto alla porta della stanza delle armi.
— Qui dentro — disse Timothy. — Vicino alla parete.
Posarono il corpo sul divano. Timothy si soffermò a osservarlo.
— Non so — disse. — Non so proprio come affrontare questa situazione. Non c'è mai stato un morto in casa, dal nostro arrivo a oggi. È un'esperienza nuova, e non siamo pronti ad affrontarla. Noi siamo quasi immortali, sapete. È un effetto dei meccanismi temporali.
— Non lo sapevo — disse Boone.
— All'interno della bolla temporale non si invecchia. Si invecchia soltanto quando si esce all'esterno.
Boone non rispose.
— È una cosa grave — disse Timothy. — È uno di quei momenti di crisi che prima o poi si incontrano. Dobbiamo decidere che cosa fare. Prendere una decisione e non commettere errori. Ecco la cosa più importante: non commettere errori. Venite con me… gli altri avranno già cominciato a organizzare le nostre prossime mosse.
Ma gli altri non avevano cominciato nulla. Per il momento si limitavano a litigare tra loro, riuniti in camera da pranzo.
— Lo sapevo! — strillava Emma. — Lo sapevo. Stavamo troppo bene. Ed eravamo convinti di poter continuare. Per sempre. Dovevamo fare dei piani invece, pensare al futuro…
— Che piani? — gridava David, coprendo il suono della sua voce. — Che piani potevamo fare? Che cosa potevamo prevedere?
— Non gridare con mia moglie! — ruggiva Horace. — Non usare questo tono di voce con tua sorella! Ha ragione lei. Dovevamo immaginare tutte le possibili emergenze, e studiare il modo di affrontarle. Non dovevamo trovarci come adesso, presi alla sprovvista e senza un preciso piano d'azione.
— Secondo me — cominciava Timothy, inserendosi nel chiasso generale — dovremmo cercare di stare calmi e di riflettere.
— Non abbiamo il tempo di riflettere — gridava Horace. — Non possiamo permetterci di riflettere senza fretta, in tutta calma, come proponi tu. Ti conosco, Timothy. Tu rimandi le cose. Tu non vuoi mai affrontare niente. E non le affronterai mai. Ricordo quella volta che…
— Sono d'accordo, dovremmo fare qualcosa — urlava David. — Credo che la proposta di Timothy sia sbagliata. Non c'è il tempo di stare seduti ad aspettare che succeda qualcosa. C'è di sicuro qualche soluzione, e possiamo cominciare a cercarla. Ma non basta metterci a gridare che…
— Dobbiamo andare via — gridava Emma. — Dobbiamo andarcene via…
— La fuga non risolve niente — gridava David. — Fuggiamo, se occorre, ma prima dobbiamo avere un piano.
— Non intendo scappare — urlava Horace. — Sono i codardi che scappano, e non voglio che si dica di me…
— Ma noi dobbiamo assolutamente scappare — urlava Emma. — Dobbiamo allontanarci. Non possiamo aspettare che ci raggiungano. Dobbiamo trovare un posto sicuro.
— Scappando, non troverai mai un posto sicuro — ruggiva Horace. — Dobbiamo usare la testa.
— Io continuo a credere — diceva Timothy — che stiamo reagendo troppo precipitosamente. Pochi giorni in più o in meno non possono fare molta differenza.
— Pochi giorni — gridava Horace — e puoi essere morto!
— Almeno — protestava Timothy — dobbiamo dare a Gahan una sepoltura decente.
— Gahan non conta — gridava Horace. — Gahan è morto. Ormai non può più succedergli niente. Noi invece siamo vivi, e quello che può succederci è importante…
Boone salì su una sedia, e dalla sedia salì sul tavolo, spostando con i piedi i bicchieri e i piatti.
— Zitti, tutti quanti! — ruggì. — Zitti e seduti!
Tutti smisero di gridare e lo fissarono.
— Voi non c'entrate — disse Emma, acida. — Voi siete un estraneo.
— Io e Corcoran facciamo parte del vostro gruppo — disse Boone — da quando ci avete detto che non possiamo andarcene via. Entrambi abbiamo il diritto di parlare. Siamo nella vostra stessa barca. Perciò, state zitti, tutti, e sedetevi.
Ancora stupiti, tutti si affrettarono a sedersi.
Boone disse a Corcoran, che era rimasto in piedi, appoggiato a una parete: — Jay, se qualcuno comincia a gridare o ad alzarsi in piedi, ci pensi tu a farlo stare zitto?
— Con piacere — disse Corcoran.
— Capisco benissimo — disse Boone — che questo non è altro che un simpatico battibecco fra parenti, e che le vostre minacce sono da prendere molto alla leggera. Ma mi sembra che non stiate arrivando da nessuna parte, e credo sia necessario fare qualche piano. Che vi piaccia o no, io farò da giudice.
Horace si alzò. Corcoran fece un passo verso di lui, e Horace tornò a sedere.
— Volevate dire qualcosa? — Boone domandò a Horace.
— Volevo dire questo: che voi non capite cosa sta succedendo. Non avete le conoscenze che occorrono a un arbitro.
— In questo caso — disse Boone — forse potreste aggiornarmi voi.
— No, Horace non va bene — disse Enid. — Vi racconterà le cose a modo suo. Nasconderà quello che…
Horace si alzò in piedi. Corcoran si mosse verso di lui. Horace tornò a sedere.
— Va bene, signorina Enid — disse Boone. — Sentiamo la vostra versione libera da preconcetti. — E, rivolto a Horace: — Voi parlerete più tardi. La regola è questa: uno alla volta, vietato gridare e vietato intromettersi.
— Noi siamo un gruppo di profughi — cominciò Enid. — Veniamo…
— Non profughi! — gridò Horace.
— Zitto, voi — disse Boone. — Enid, continuate.
— Come dicevo — spiegò Enid — veniamo dal futuro, da un milione di anni dopo la vostra epoca. In questo milione di anni, la razza umana è cambiata.
— È stata spinta a cambiare — interruppe Horace. — Lasciata a se stessa, la razza non intendeva cambiare.
— Come puoi esserne certo? — domandò David. — Per esempio, guarda Henry.
— Personalmente — disse Horace — non ho dubbi. Gli Infiniti…
Boone alzò un braccio per farlo tacere. Horace s'azzitti.
— Anche voi avete usato questa parola — disse Boone, rivolto a Timothy. — Intendevo chiedervi delle spiegazioni, ma poi è arrivato il viaggiatore di Atene. Ditemi, che cosa sono questi Infiniti?
— Gli Infiniti sono un'altra forma di intelligenza — spiegò Timothy. — Vengono da qualche zona nei pressi del centro galattico.
— In realtà — disse David — ne sappiamo molto poco.
— Niente affatto — protestò Horace. — Sappiamo da dove vengono, almeno approssimativamente.
— Va bene, va bene — disse Boone. — Abbiamo un po' perso il filo. Enid ci stava per dire che la razza umana è molto cambiata nel corso di un milione di anni.
— È cambiata — disse Enid — da esseri corporei, biologici, a esseri incorporei, immateriali, intelligenze pure. Ora sono schierati in vaste comunità su reticoli cristallini. Sono…
Horace la interruppe: — È un'oscenità! Un'immortalità!
— Silenzio! — ringhiò Boone.
Si rivolse a Enid: — Ma voi siete esseri umani. Le persone della vostra base di Atene erano esseri umani. Creature biologiche e…
— Alcuni si sono ribellati — disse Enid. — Alcuni sono fuggiti per sfuggire alla smaterializzazione.
— La smaterializzazione, per molti appartenenti alla razza umana, era una sorta di nuova e seducente religione — disse Timothy. — Ma alcuni si opposero vigorosamente a essa. Tra questi oppositori ci siamo anche noi. Ce ne sono molti altri, che si nascondono in vari segmenti temporali. Siamo dei piccoli gruppi, assai distanziati tra loro. In questo modo è più difficile trovarci. Gli oppositori sono fuggiti, e adesso gli Infiniti e i loro agenti li cercano. Secondo me, la credenza che la smaterializzazione sia un atto religioso deve essere un'idea esclusivamente umana. Per gli Infiniti, secondo me, non è una religione, bensì un progetto ben preciso, un piano universale. Gli Infiniti ritengono che una cosa soltanto possa sopravvivere alla morte dell'universo: l'intelligenza. Per questo cercano di creare una vasta concentrazione di intelligenza pura. E il loro piano non si limita alla razza umana, ma si estende anche a molte altre intelligenze della galassia, forse all'intero universo. Gli Infiniti del nostro pianeta sono soltanto una sorta di missionari locali, una fra le tante spedizioni missionarie che circolano nell'universo, votate a illuminare le popolazioni locali miscredenti…
— È una follia! — esclamò Horace. — Ve l'ho detto, una follia!
— Capirete — disse Emma. — Noi non abbiamo mai visto gli Infiniti. Ma altra gente li ha visti.
— Emma — spiegò Horace — intende dire che nessuno di noi, qui presenti nella stanza, li ha visti. Altri esseri umani, invece, li hanno visti e si sono convinti delle loro asserzioni: che l'intera razza umana deve trasformarsi in pure entità mentali. Questa convinzione è diventata immediatamente un dogma, una verità di fede. E chi si è ribellato è diventato un fuorilegge.
— Dovete capire — disse Timothy, parlando a bassa voce — che la nostra razza era pronta a un cambiamento come questo. Già prima che gli Infiniti facessero la loro comparsa, la razza umana era cambiata. Nel periodo da cui siamo fuggiti, i concetti filosofici e gli orientamenti mentali erano già molto diversi da quelli antichi. La razza era stanca, esaurita. Aveva fatto troppi progressi, aveva realizzato troppo. Il progresso era ormai una parola priva di significato. Il ritorno alla semplicità era la norma.
— E voi? — domandò Boone.
— Per noi era diverso — disse Timothy. — Noi non siamo caduti nella trappola. Noi eravamo quelli delle retrovie, quelli della terra di nessuno, gli esclusi che non facevano parte della splendida società dell'uomo. Noi volevamo restare come eravamo. Noi ci fidavamo dei nuovi modi di vita. Per questo eravamo esclusi.
— Ma le vostre macchine, i viaggiatori temporali?
— Abbiamo rubato agli Infiniti il concetto di tempo — disse Horace. — Eravamo ancora sufficientemente umani, e potevamo prendere le misure opportune per difenderci. Gli Infiniti non rubano e non dicono bugie. Sono grandi, nobili.
— E stupidi — disse David.
— Sì — disse Horace. — E stupidi. Ma adesso hanno scoperto il nostro nascondiglio, e noi dobbiamo nuovamente fuggire.
— Io non posso andarmene — disse Timothy. — Ho deciso, non me ne andrò. Non intendo abbandonare i miei libri e le mie note, tutto il lavoro che ho fatto finora.
— Timothy — spiegò Enid, rivolta a Bonne — cerca di capire quando e come la razza umana ha sbagliato, come si è infilata nella situazione che porterà tutti, tra un milione di anni, ad accettare l'offerta degli Infiniti. Timothy crede che qui, alle radici della nostra civiltà, si possa trovare la risposta, grazie a uno studio della storia e della filosofia.
— E sono vicino alla soluzione — disse Timothy. — Ne sono certo. Ma non posso andare avanti con il mio lavoro, senza i libri e gli appunti.
— Non c'è posto — disse Horace. — Non possiamo portarci dietro tutti i tuoi appunti, per non parlare poi dei libri. Lo spazio disponibile all'interno dei viaggiatori è riciotto. Abbiamo anche il viaggiatore residenziale di Martin, per fortuna. E il vostro viaggiatore piccolo, naturalmente, oltre a quello di Gahan, se funziona ancora…
— Non credo che abbia dei guasti gravi — disse David. — Anzi, penso che sia intatto. Gahan ha perso il controllo, tutto qui. È atterrato abbastanza bene, su un'aiola.
— Dovremmo controllarlo, comunque — disse Horace.
— Finalmente cominciamo a fare qualche progresso — disse Boone. — Ma occorre prendere delle decisioni. Visto che volete andarvene, qualcuno ha un'idea di dove andare?
— Potremmo raggiungere il gruppo del Pleistocene — disse Emma.
Horace scosse la testa. — No. Atene è distrutta, ed Henry dice che c'è qualcuno che ci cerca. C'è la possibilità che sia stato individuato anche il gruppo del Pleistocene. E anche se non lo è stato, rischiamo di essere seguiti e di aprire la strada a coloro che ci cercano. Io suggerirei di addentrarci ancora di più nel passato, oltrepassando il Pleistocene.
— Io invece penso che dobbiamo andare nel futuro — disse David. — Là potremo scoprire che cosa sta succedendo.
— Per infilarci in pieno nel nido delle vespe — disse Emma.
— Se occorre — disse David. — Probabilmente, nel futuro c'è ancora qualche gruppo come noi: coloro che non sono andati via, e che continuano a rimanere nascosti, cercando di combattere come possono.
— Martin conosce certamente la situazione del futuro — rifletté Horace. — Ma dove diavolo si sarà cacciato?
— Ci occorrerà del tempo per predisporre tutto — disse David. — Non possiamo prendere in quattro e quattr'otto decisioni così importanti.
— Due giorni — disse Horace. — Due giorni, e poi si parte.
— Spero che capirete — disse Timothy, parlando lentamente, con decisione — che io non vado da nessuna parte. Io resto.