18. Muso di Cavallo

Muso di Cavallo sedeva comodamente a un tavolo posto davanti a un edificio cubico, che adesso era privo di robot e di attrezzature da cucina. Accanto a lui galleggiava la rete su cui era posato il baule contenente la carta della galassia. Il visore che Enid aveva creduto di rubare era appoggiato al tavolo, a portata di mano. La vettura tramviaria era ferma sui binari, in attesa di nuovi passeggeri che forse non sarebbero mai giunti. Tutt'intorno si stendeva la grigia nebbia della Strada dell'Eternità.

Come gli era già successo infinite volte in precedenza, Muso di Cavallo pensava alla natura della Strada. Finora le sue meditazioni non erano approdate a niente, e aveva l'impressione che le cose non sarebbero cambiate in futuro. Si chiedeva chi avesse costruito quell'interminabile corsia stradale, sfasata rispetto al tempo normale. Ne aveva sentito parlare per la prima volta molto tempo prima, in un luogo assai lontano, e chi gliene aveva parlato era una creatura incredibile che pareva farsi beffe di tutte le normali leggi della vita. Era stato questo essere incredibile a chiamarla Strada dell'Eternità, ma quando lui gli aveva chiesto perché si chiamasse così, non aveva avuto risposta.

— Non cercarla — gli aveva detto la creatura paradossale. — È impossibile trovarla con la ricerca. Bisogna inciamparci dentro.

Muso di Cavallo era inciampato in essa millenni prima, e, curiosamente, aveva scoperto che era rappresentata nell'antica carta galattica. Ma era certo che non era stata la sua razza a costruirla, anche se la conosceva.

Quando era incappato nella Strada aveva pensato che quello poteva essere un buon posto per riflettere sui suoi futuri progetti. Aveva installato laggiù l'edificio cubico con i tavolini e le seggiole, e ne aveva affidato la cura al robot. I binari c'erano già; lui si era limitato a portare la vettura e a installare il segnale che lo avvertiva dell'arrivo di qualche forestiero in quella sezione della Strada.

Per molti secoli non era successo niente. Poi, solo pochi anni prima, il segnale si era messo a suonare quando Boone era passato per la prima volta “dietro l'angolo”. Quello strano avvenimento gli aveva fornito una possibile chiave per risolvere il problema rappresentato dagli umani di Hopkins Acre.

Aveva nutrito delle speranze fin dall'inizio, ma si era convinto soltanto quando Boone era comparso per la seconda volta. Questo gli aveva fatto capire che si era sviluppato un nuovo talento in una razza che non lo possedeva fino a quel momento. Il talento in se stesso era meno importante del fatto che quella razza potesse sviluppare segretamente nuove capacità che costituivano per essa un'evoluzione. Quando Muso di Cavallo aveva compreso questo, Boone era diventato importante per il suo progetto.

E quel progetto, si disse Muso di Cavallo, era finalmente in corso di attuazione, ed era partito meglio di quanto lui sperasse. Ciò che gli rimaneva da fare, adesso, era attendere per qualche anno, tenendoli strettamente d'occhio, per accertarsi che non si verificassero tendenze negative, ma per questa parte del suo lavoro poteva contare su due aiutanti. Spike e il Cappello potevano esser accettati dalla famiglia, come era già successo per Spike in passato.

Muso di Cavallo rise, pensando a questo. Il Centro Galattico riteneva che Spike fosse il suo agente segreto, e lo aveva inserito nella famiglia quando era partita per il passato, per sfuggire agli Infiniti. Grazie ai rapporti di Spike, Muso di Cavallo si era poi ulteriormente convinto dell'importanza di quel gruppo di umani.

Naturalmente, non aveva alcuna certezza che il progetto potesse avere un esito positivo. Il progetto poteva incontrare un insuccesso, come gli era accaduto molte volte nel passato. L'intelligenza, a quanto pareva, non aveva molte possibilità di svilupparsi fino a raggiungere il suo potenziale più alto. In secoli di lavoro, aveva cercato di aiutare varie altre razze, ma nessuna aveva avuto successo. Ma anche altre razze, diverse da quelle che lui aveva aiutato, erano andate incontro all'insuccesso. Il Popolo dell'Arcobaleno costituiva un insuccesso perché aveva perso tutti i valori originari, reprimendo le sue emozioni finché queste emozioni si erano inaridite. Gli Infiniti si erano perduti a causa della loro crociata fanatica. Anche il popolo di Muso di Cavallo era andato incontro all'insuccesso; la sua ricerca dell'immortalità lo aveva portato a sacrificare la fertilità razziale, e lui era l'ultimo membro della sua razza ancora in vita.

Un leggero rumore richiamò la sua attenzione distogliendolo dai suoi ricordi. Davanti a lui c'era il Cappello, che si agitava come un cane che vuole sgocciolarsi il pelo. Con quel movimento, i vestiti del Cappello andarono a posto; quindi si mise a sedere, con attenzione.

“No, non ho abbandonato la mia postazione” disse a Muso di Cavallo. “Ritornerò laggiù a fare il mio dovere. Sono venuto qui per sfuggire al lupo. Mi afferra fra i denti e mi butta per aria. Poi si allontana, e io spero che sia stanco di giocare con me, ma in quel momento fa un balzo e mi salta addosso. Con i suoi denti mi ha tutto sforacchiato, e…”

— Devi accettare tutto — disse Muso di Cavallo. — È il ruolo che devi svolgere. Visto che sembri soltanto una bambola di stracci, non sospettano che tu possa spiarli. Considera invece la parte che devo recitare io. Devo comportarmi come un pagliaccio, parlare come un alieno ignorante, raccontare frottole e ingannarli.

Come l'inganno di cui era stata vittima la piccola Enid, quando le aveva fatto credere che doveva mettere il dito in un certo punto, mentre lui faceva un nodo. Si era guadagnato la sua fiducia facendole credere di essere stata indispensabile alla creazione della rete, che invece, naturalmente, era già lì, e aspettava solo il suo ordine per rendersi visibile.

E per convincerla di essere importante le aveva fatto credere di aver rubato il visore da lui collocato in precedenza sul pianeta rosa e viola, quello dove aveva lasciato il baule della carta. Era stato lui che le aveva instillato nella mente il desiderio di prenderlo, mentre Enid aveva creduto di pensare a lui. Poi le aveva lasciato credere di averlo salvato dal mostro, che in realtà voleva soltanto salire sulla rete con loro.

“Non avresti avuto bisogno di farlo” disse il Cappello “se ti fossi fatto gli affari tuo. Ma tu devi sempre mettere il naso nella vita degli altri. Nessuno ha mai chiesto il tuo aiuto. Tu sei solo un ficcanaso”.

— Può darsi — ammise Muso di Cavallo. — Ma non posso farne a meno, quando mi pare che con un piccolo incoraggiamento si possa spingere una razza sul cammino che porta al pieno sviluppo dei poteri intellettuali.

“E io ti ho aiutato” disse il Cappello. “E a volte, anzi, mi sono anche preso delle inziative personali. È per questo che il lupo mi usa per giocare. C'era il tuo caro Boone, che dormiva stupidamente accanto al fuoco, con il lupo pronto a saltare su di lui. Il lupo gli avrebbe addentato la gola un minuto più tardi, se non mi fossi impadronito della sua piccola mente e non l'avessi sommersa con un senso di fratellanza e di devozione canina nei riguardi di Boone”.

— Sì — disse Muso di Cavallo. — Hai fatto bene. E hai fatto bene a programmare i viaggiatori quando la famiglia li ha usati per fuggire. Anche quando hai programmato quello di Martin in modo che portasse sulla Strada lui e gli Infiniti, hai fatto bene… anche se non ero di questa idea quando l'ho visto arrivare.

“E ho salvato Corcoran mentre tu eri nella carta stellare” aggiunse il Cappello. “L'ho tenuto d'occhio, e quando mi sono accorto che stava per cadere, l'ho portato qui sulla Strada. E adesso son diventato il giocattolo del lupo, per spiare i tuoi prediletti Enid e Boone. Non è la ricompensa che mi aspettavo per…”

Muso di Cavallo lo interruppe: — Dimmi se c'è qualche segno che quei due si uniscano.

“L'hanno già fatto” rispose il Cappello. “Credo che Enid si senta in colpa, perché la cosa è successa prima del rito chiamato matrimonio. Questa faccenda del matrimonio non la capisco”.

— Non preoccuparti — gli disse Muso di Cavallo. — La morale sessuale di tutte le razze è assurda. E la sindrome che gli umani chiamano amore, poi, sfida ogni possibilità di comprensione.

Ma il Cappello non lo ascoltava più. Si era afflosciato come una bambola di stracci e giaceva sul tavolo.

Povero ragazzo, pensò Muso di Cavallo, con affetto. Forse aveva abusato di lui; forse meritava un po' di riposo. Gli ritornò alla mente il giorno in cui aveva trovato quella creatura nella bacheca di un vecchio museo della sua gente, forse in attesa del momento in cui fosse scomparsa la razza. Aveva dato un'occhiata al Cappello e si era allontanato, perché non voleva appesantirsi con testimonianze del passato. Più tardi, però era tornato a prendere il pupazzo. Non si era mai rimproverato dell'impulso che lo aveva spinto a prenderlo, perché il Cappello aveva molte strane capacità che lui non conosceva ancora del tutto, come quella di muoversi nello spazio e nel tempo senza strumenti come la sua rete.

Dunque, Enid e Boone si erano uniti, ormai il dado era lanciato. Era un gioco d'azzardo genetico si disse Muso di Cavallo, ma le probabilità erano le più favorevoli da lui incontrate fino a quel momento, e Muso di Cavallo conosceva bene la genetica.

Dalla loro unione era possibile che nascesse una razza nuova: un'umanità dotata del talento evolutivo di Boone e dell'ostinazione del piccolo gruppo di umani che si era opposto agli Infiniti e alla loro filosofia.

Lui aveva sempre ammirato quell'ostinazione e aveva aiutato i ribelli poiché aveva capito la promessa che c'era in loro. Aveva dato loro una delle più semplici macchine del tempo costruite dalla sua razza come antesignane della rete. Gli Infiniti avevano anch'essi una forma di viaggio nel tempo, ma si trattava di apparecchi troppo complicati, che sarebbero risultati incomprensibili ai ribelli. Con un'altra delle sue menzogne, Muso di Cavallo aveva fatto credere ai ribelli di averle rubate agli Infiniti.

Tutto questo era successo prima che, per un colpo di fortuna, scoprisse Boone. Ma dopo averlo scoperto c'era stato il problema di metterlo in contatto con la famiglia di Hopkins Acre. Erano occorsi altri trucchi: passare a Martin qualche notizia che lo aveva spinto ad affidarsi a Corcoran, passare a Corcoran l'informazione capace di impaurire Martin e di farlo fuggire senza il suo viaggiatore residenziale.

Già in precedenza Muso di Cavallo conosceva la strana vista di Corcoran e il suo legame con Boone. Con poca fatica aveva indotto Corcoran a recarsi all'Hotel Everest, in modo che vedesse il viaggiatore.

Corcoran, Muso di Cavallo dovette ammetterlo, era forse stato un errore. Si era aspettato che Boone girasse dietro l'angolo e salisse sul viaggiatore da solo, lasciando Corcoran dietro di sé. Ma aveva sottovalutato il talento di Boone. Fortunatamente, Corcoran non aveva causato guai. La scoperta dello strano albero era stata un pericolo, ma alla fine le cose si erano risolte.

Un giorno, si disse Muso di Cavallo, dovrò andare a controllare l'esatta natura dell'albero scoperto da Corcoran, anche se forse non saprò mai chi l'abbia messo in quel periodo della storia della Terra.

Ma alla fine, si disse, tutto si svolgeva addirittura meglio del previsto. Rimaneva del lavoro da fare, ovviamente. Doveva trovare dei compagni adatti ai figli di Enid e Boone che dovevano ancora nascere. Forse avrebbe potuto trovarli sugli altri pianeti colonizzati dagli umani. Ma la maggior parte del lavoro era fatta.

Si accostò al visore per controllare Martin. Era come se qualcosa di più forte di lui lo spingesse sempre a controllare Martin, anche se l'uomo era finito in un luogo da cui non poteva fuggire. Martin era un personaggio difficile da tenere fermo.

Sullo schermo del visore comparve l'interno di un tempio pieno di gente inginocchiata che fissava a occhi spalancati Martin, il quale, con indosso paramenti di porpora e filo d'oro, era fermo davanti a un altare riccamente decorato. La scatola cerebrale del mostro assassino, illuminata da numerose candele, era su un piedistallo situato accanto all'altare. Era chiaro che Martin era nel pieno dell'estasi. A un tratto sollevò le braccia, e la folla si alzò di scatto, spalancando la bocca in un urlo di gioia.

Martin ce l'aveva fatta. Aveva il potere che desiderava, e nessuno che glielo contestasse. Era imprigionato entro la propria autoglorificazione. Eppure, si disse Muso di Cavallo, lui avrebbe continuato a controllarlo.

C'era ancora un lavoro da fare. Forse non era necessario, ma onestamente non poteva esimersi. Ora il visore mostrò il lontano futuro, dove una nube di scintille riposava all'esile ombra di un albero antichissimo, mentre il mondo ruotava intorno a un sole dilatato, rosso e morente.

Quando Muso di Cavallo si avvicinò alla rete, il Cappello si destò e si rizzò a sedere.

“Cosa fai?” domandò.

— Riporto Henry in famiglia — gli disse Muso di Cavallo. — Non so cosa ne pensa lui, ma il resto della famiglia sarà lieto di vederlo. Vuoi venire?

Il Cappello scosse la testa. “Ti ho pescato ancora una volta” disse a Muso di Cavallo. “A interferire. Sempre il solito ficcanaso”.

La rete scomparve e il Cappèllo si afflosciò sul tavolo come un giocattolo snervato, ammaccato e trattato con malagrazia.


FINE
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