VACANZA CONCLUSA TRAGICAMENTE

Ricercata per essere interrogata in merito alla tragica morte del marito nella lussuosa stanza del President Garner Hotel di Denver, la signora Cinnadella di Canon City, secondo quanto affermano i dipendenti dell’albergo, è partita immediatamente dopo quello che sembra essere stato il tragico epilogo di un litigio coniugale. Risulta che le lamette ritrovate nella stanza, ironicamente fornite dall’albergo ai suoi ospiti, siano state usate dalla signora Cinnadella, descritta come una donna sui trent’anni, bruna, attraente, snella e ben vestita, per tagliare la gola di suo marito. Il corpo è stato scoperto da Theodore Ferris, dipendente dell’albergo, il quale aveva avuto in consegna da Cinnadella delle camicie da stirare appena mezz’ora prima; tornato per restituirle, si è trovato di fronte alla macabra scena. L’appartamento, riferisce la polizia, mostrava tracce di colluttazione, avvalorando l’ipotesi che abbia avuto luogo una violenta discussione…


E così è morto, pensò Juliana mentre ripiegava il giornale. E non solo, ma non conoscono il mio vero nome, non sanno chi sono, e ignorano tutto di me.

Molto più rilassata, riprese a guidare finché non trovò un buon motel; fissò una stanza e scaricò tutte le sue cose dalla macchina. D’ora in avanti non devo avere fretta, si disse. Posso anche aspettare fino a sera, per andare dagli Abendsen; così potrò mettermi il mio vestito nuovo. Non mi sembra il caso di andarci in giro finché è ancora giorno… non si può indossare un abito così elegante prima di cena.

E posso finire di leggere il libro.

Si sistemò nella camera d’albergo, accese la radio, si fece portare del caffè dal bar; poi si sdraiò sul letto immacolato con la copia nuova de La cavalletta che aveva acquistato presso la libreria dell’albergo di Denver.

Alle sei e un quarto di sera finì di leggere il libro. Chissà se Joe è arrivato fino alla fine? si domandò. In questo libro c’è molto di più di quanto lui abbia capito. Che cosa voleva dire Abendsen? Niente sul suo mondo di fantasia. Sono io la sola a saperlo? Scommetto di sì; nessuno capisce veramente La cavalletta tranne me… gli altri s’illudono solamente di capirla.

Ancora un po’ scossa, lo ripose nella borsetta, si infilò il cappotto e lasciò il motel in cerca di un posto per cenare.

L’aria aveva un buon profumo, e le insegne e le luci di Cheyenne sembravano particolarmente eccitanti. Davanti a un bar due graziose prostitute indiane dagli occhi neri stavano litigando… lei rallentò per guardare. C’era un gran viavai di macchine tirate a lucido; tutto quello spettacolo aveva un’aura di vivacità e di attesa, come se fosse l’annuncio di un lieto e importante evento, come se gli sguardi di tutti fossero rivolti verso il futuro e non verso il passato… il passato, pensò, ciò che è stantio e triste, consumato e gettato via.

Cenò in un costoso ristorante francese, dove un uomo in giacca bianca era addetto a parcheggiare le auto dei clienti, e ogni tavolo aveva una candela accesa dentro una coppa da vino, e il burro veniva servito non a pezzi ma arrotolato in piccole palline bianche; apprezzò molto la cena e poi, con molto tempo libero davanti a sé, tornò lentamente verso il motel. Le banconote della Reichsbank erano quasi finite, ma non se ne preoccupò; non aveva importanza. Ci ha parlato del nostro mondo, pensò, mentre apriva la porta della stanza. Di questo mondo, che in questo momento è intorno a noi. Accese di nuovo la radio. Vuole che lo vediamo per ciò che è. E io ci riesco, ci riesco sempre di più a ogni momento che passa.

Prese dalla scatola il vestito azzurro e lo sistemò accuratamente sul letto. Non aveva subito nessun danno; quello che gli poteva servire, al massimo, era una buona spazzolata per togliere un po’ di lanugine. Ma dopo aver aperto gli altri pacchetti, si accorse di non avere preso nessuno dei reggiseni senza spalline che aveva acquistato a Denver.

«Dannazione,» esclamò, accasciandosi su una sedia. Si accese una sigaretta e rimase per un po’ seduta a fumare.

Forse poteva indossarlo con un reggiseno normale. Si tolse la camicetta e la gonna e si provò il vestito. Ma si vedevano le spalline del reggiseno e anche la parte superiore di ciascuna coppa, quindi non poteva andare. Magari, pensò, potrei non mettere affatto il reggiseno… erano anni che non lo faceva più. Le tornarono in mente i vecchi giorni del liceo, quando aveva ancora un seno molto piccolo, e se ne era fatto un problema. Ma la sopraggiunta maturità e la pratica del judo l’avevano portata alla misura trentotto. Comunque provò lo stesso l’abito senza reggiseno, salendo su una sedia in bagno per vedersi nello specchio dell’armadietto.

Il vestito le cadeva a pennello ma, buon Dio, era troppo rischioso. Bastava chinarsi per spegnere una sigaretta o per prendere un bicchiere… e sarebbe stato un disastro.

Una spilla! Poteva indossare il vestito senza reggiseno e chiudere un po’ la scollatura. Rovesciò sul letto il contenuto dell’astuccio dei gioielli e sparpagliò le spille, reliquie che conservava da anni, doni di Frank o di altri uomini conosciuti prima del matrimonio, e poi quella nuova che le aveva acquistato Joe a Denver. Sì, una piccola spilla d’argento messicana a forma di cavallo poteva andare; individuò il punto esatto in cui metterla. Così avrebbe potuto indossare il vestito, finalmente.

Sono contenta di avere qualcosa, adesso. Tante cose erano andate storte; e rimaneva così poco dei suoi splendidi progetti.

Si pettinò accuratamente i capelli con la spazzola in modo da renderli morbidi e lucenti, e a quel punto le rimase soltanto la scelta delle scarpe e degli orecchini. Alla fine si infilò la pelliccia nuova, prese la borsetta nuova di pelle e uscì.

Invece di prendere la vecchia Studebaker, si fece chiamare un taxi dal proprietario del motel. Mentre aspettava nell’ufficio provò l’improvviso impulso di chiamare Frank. Come le fosse venuta quell’idea non riusciva a capirlo, eppure le era venuta. Perché no? si disse. Poteva fare una telefonata a carico del destinatario; lui sarebbe stato ben felice di sentirla e di pagare.

In piedi dietro il banco, tenne il ricevitore accostato all’orecchio, ascoltando con piacere gli operatori delle linee interurbane che tentavano di stabilire la comunicazione. Sentì la centralinista di San Francisco, lontanissima, che chiedeva il numero all’ufficio informazioni, poi una serie di scariche e scricchiolii, e infine il suono del telefono che squillava. Mentre aspettava tenne d’occhio l’esterno per vedere se arrivava il taxi; dovrebbe essere qui da un momento all’altro, pensò. Ma non ci farà caso, se dovrà aspettare un po’; i tassisti ci sono abituati.

«L’utente non risponde,» disse alla fine la centralinista di Cheyenne. «Proveremo a ristabilire la comunicazione più tardi e…»

«No,» disse Juliana, scuotendo la testa. In fondo il suo era solo un capriccio. «Non sarò più qui. Grazie.» Riappese — il proprietario del motel era rimasto nei pressi per accertarsi che non ci fosse per errore qualche addebito a carico suo — e uscì rapidamente dall’ufficio, sul marciapiede buio e freddo, per aspettare là fuori.

Dal traffico emerse un taxi nuovo e rilucente che accostò e si fermò; la portiera si aprì e l’autista si precipitò fuori per farla accomodare.

Poco dopo Juliana era comodamente seduta sul sedile posteriore del taxi, e attraversava Cheyenne diretta verso l’abitazione degli Abendsen.


La casa degli Abendsen era illuminata e lei udì della musica e delle voci. Era una casa a un solo piano decorata a stucco, con molti cespugli tutt’intorno e un bel giardino composto prevalentemente da rose rampicanti. Mi trovo davvero qui? si domandò mentre percorreva il sentiero d’ingresso lastricato in pietra. È questo il Castello? E tutte le storie che raccontano, allora? La casa era semplice, ben tenuta, e il giardino piuttosto curato. C’era perfino un triciclo, sul vialetto di cemento che portava al garage.

Forse era un altro Abendsen, quello sbagliato? L’indirizzo lo aveva preso dall’elenco telefonico di Cheyenne, ma coincideva con il numero che aveva chiamato la sera prima da Greeley.

Risalì i gradini fino al portico, con le ringhiere di ferro battuto, e suonò il campanello. Dalla porta semiaperta poteva vedere il soggiorno, con un certo numero di persone in piedi, le veneziane alle finestre, un pianoforte, il caminetto, delle librerie… ben ammobiliato, pensò. C’era forse una festa? Però non erano vestiti in modo elegante.

Un ragazzo scapigliato, sui tredici anni, in jeans e maglietta, venne a spalancare la porta. «È… la casa del signor Abendsen? È occupato?» lei domandò.

Rivolgendosi a qualcuno dietro di lui, dentro casa, il ragazzo gridò: «Mamma, vogliono vedere papà.»

Accanto al ragazzo apparve una donna dai capelli bruno-rossicci, sui trentacinque anni, con occhi grigi e decisi e un sorriso così aperto e spontaneo che Juliana fu sicura di trovarsi di fronte a Caroline Abendsen.

«Ho chiamato ieri sera,» disse Juliana.

«Oh, sì, certo.» Il sorriso si allargò. Aveva denti bianchi e regolari, perfetti; irlandese, decise Juliana. Solo il sangue irlandese può conferire alla linea della mascella una tale femminilità. «Mi dia pure la borsa e la pelliccia. È capitata al momento giusto; ci sono degli amici. Che vestito adorabile… è della casa Cherubini, vero?» Accompagnò Juliana attraverso il soggiorno fino a una camera da letto dove posò le cose di Juliana sopra il letto insieme alle altre. «Mio marito è qui intorno, da qualche parte. Cerchi un uomo alto, con gli occhiali, che beve un old-fashioned.» La luce di intelligenza nei suoi occhi si riversò su Juliana; le sue labbra tremarono appena… c’è così tanta comprensione fra noi, si rese conto Juliana. Non è straordinario?

«Ho fatto molta strada per venire qui,» disse Juliana.

«Sì, è vero. Eccolo, l’ho visto.» Caroline Abendsen la guidò di nuovo in soggiorno, verso un gruppetto di uomini. «Caro,» lo chiamò, «vieni qui. C’è una tua lettrice che è molto ansiosa di parlarti.»

Dal gruppetto si staccò un uomo, che si avvicinò a lei tenendo in mano il bicchiere. Juliana vide un uomo altissimo con capelli neri e ricci; anche la sua pelle era scura, e i suoi occhi, dietro le lenti, sembravano viola o castani, comunque di un colore tenue. Indossava un abito in fibra naturale tagliato a mano, molto costoso, forse di lana inglese; il vestito gli ingrandiva le spalle già robuste ma senza deformarne la figura. In tutta la sua vita lei non aveva mai visto un vestito del genere; si scoprì a fissarlo, affascinata.

«La signora Frink ha fatto tutta la strada da Canon City, Colorado, solo per parlare con te della Cavalletta,» disse Caroline.

«Credevo che lei vivesse in una fortezza,» disse Juliana.

Piegandosi per guardarla, Hawthorne Abendsen le rivolse un sorriso pensoso. «Sì, una volta era così. Ma per arrivarci dovevamo prendere l’ascensore, e questo ha fatto insorgere in me una fobia. Ero piuttosto ubriaco quando mi successe per la prima volta, ma per quanto ricordo, e per quanto mi hanno riferito, mi sono rifiutato di stare là dentro in piedi perché sostenevo che il cavo dell’ascensore veniva tirato da Gesù Cristo in persona, e che noi saremmo arrivati fino in cielo. E io ero fermamente intenzionato a non stare in piedi.»

Lei non capì.

«Da quando lo conosco,» le spiegò Caroline, «Hawth ha sempre affermato che quando finalmente vedrà Gesù Cristo, si metterà a sedere; non rimarrà in piedi.»

L’inno, ricordò Juliana. «E così lei ha rinunciato al Castello e si è trasferito in città,» disse.

«Vorrei offrirle da bere,» disse Hawthorne.

«Va bene,» disse lei. «Ma non un old-fashioned.» Aveva già notato sulla credenza diverse bottiglie di whisky, degli antipasti, bicchieri, ghiaccio, mixer, ciliegie e fettine di arancia. Si avvicinò, accompagnata da Abendsen. «Un semplice I.W. Harper con un po’ di ghiaccio,» disse. «Mi è sempre piaciuto. Lei conosce l’oracolo?»

«No,» rispose Hawthorne, mentre le preparava il drink.

Stupita, Juliana disse: «Il Libro dei Mutamenti!»

«No, non lo conosco,» ripeté lui. Le porse il bicchiere.

«Non prenderla in giro,» osservò Caroline Abendsen.

«Ho letto il suo libro,» disse Juliana. «In effetti ho finito di leggerlo proprio stasera. Come faceva a sapere tutte quelle cose, sull’altro mondo di cui ha parlato?»

Hawthorne non disse nulla; si passò le nocche sul labbro superiore, guardando accigliato al di là della sua interlocutrice.

«Ha usato l’oracolo?» gli chiese Juliana.

Hawthorne la fissò.

«Non voglio scherzi o battute di spirito,» disse Juliana. «Mi risponda senza fare dell’umorismo.»

Mordicchiandosi le labbra, Hawthorne abbassò lo sguardo a terra; incrociò le braccia e si dondolò avanti e indietro sui talloni. Quasi tutte persone vicine presenti nella stanza erano diventate silenziose, e Juliana si accorse che il loro atteggiamento era cambiato. Adesso parevano a disagio, a causa di ciò che lei aveva detto. Ma non tentò di rimangiarsi le parole o di correggersi; non voleva fingere. Era troppo importante. Non aveva fatto tutta quella strada, né sopportato tutto ciò che aveva sopportato per sentirsi dire qualcosa che non fosse la verità.

«È… una domanda alla quale è difficile rispondere,» disse alla fine Abendsen.

«No, non lo è,» ribatté Juliana.

Adesso tutti nella stanza tacevano; fissavano Juliana, in piedi accanto a Caroline e Hawthorne Abendsen.

«Mi dispiace,» disse Abendsen. «Ma non posso risponderle così su due piedi. Questo dovrà accettarlo.»

«Allora perché ha scritto il libro?» gli domandò Juliana.

Indicando con il bicchiere, Abendsen disse: «A che serve quella spilla sul suo vestito? A scacciare i pericolosi spiriti-anima del mondo immutabile? Oppure serve soltanto a tenere insieme il tutto?»

«Perché cambia argomento?» disse Juliana. «Eludendo la mia domanda e facendo un’osservazione inutile come questa? È infantile.»

«Ognuno ha dei… segreti tecnici,» disse Hawthorne Abendsen. «Lei ha i suoi, io i miei. Lei deve leggere il mio libro e accettarlo per quello che è il suo valore nominale, così come io accetto ciò che vedo…» Accennò nuovamente verso di lei con il bicchiere. «Senza chiederle se quello che c’è sotto è autentico, o se è fatto di cavi, stecche e imbottitura di gommapiuma. Non è forse questa, la fiducia nella natura delle persone e in ciò che si vede in generale?» Adesso sembrava irritato, innervosito, notò Juliana, non più l’educato padrone di casa di prima. E Caroline, si accorse con la coda dell’occhio, aveva un’espressione tesa, esasperata; stringeva forte le labbra, e non sorrideva più.

«Nel suo libro,» disse Juliana, «lei ha indicato che c’è una via d’uscita. Non è questo che intendeva dire?»

«Una via d’uscita,» riecheggiò lui ironicamente.

«Lei ha fatto molto per me,» disse Juliana. «Adesso capisco che non c’è niente di cui aver paura, niente da desiderare, da odiare o da evitare, qui, o da sfuggire. O da cercare.»

Lui la guardò in viso, muovendo gli occhiali, studiandola. «C’è molto, in questo mondo, secondo me, per cui il gioco valga la candela.»

«Io mi rendo conto di ciò che sta avvenendo nella sua mente,» disse Juliana. Era la vecchia, ben nota espressione che aveva visto tante volte sul volto degli uomini, ma il fatto di rivederla ora non la sconvolse più di tanto. Da molto tempo, ormai, non provava più le stesse sensazioni di una volta. «Il dossier della Gestapo affermava che lei è attratto dalle donne come me.»

Abendsen, mutando espressione in modo quasi impercettibile, disse: «È dal 1947 che la Gestapo non esiste più.»

«SD, allora, o come diavolo si chiama.»

«Vorrebbe spiegarsi meglio?» intervenne Caroline in tono spiccio.

«Certo,» disse Juliana. «Ho viaggiato fino a Denver con uno di loro. E prima o poi arriveranno anche qui. Lei dovrebbe andare in un posto dove non possano rintracciarla, invece di lasciare la porta di casa aperta in questo modo e di fare entrare chiunque, come è successo con me. Il prossimo che arriverà qui… non ci sarà una come me, che lo fermerà.»

«Lei dice “il prossimo”,» osservò Abendsen, dopo una pausa. «Che ne è stato di quello che è venuto fino a Denver con lei? Perché non si è fatto vedere?»

«Gli ho tagliato la gola,» disse Juliana.

«Questo è notevole,» disse Hawthorne. «Sentire una ragazza che ti dice una cosa del genere, una ragazza che non hai mai visto prima in vita tua.»

«Non mi crede?»

Lui annuì. «Ma certo.» Le sorrise in modo timido, gentile, quasi sconsolato. Sembrava che non gli fosse nemmeno passata per la testa l’idea di non crederle. «Grazie,» disse.

«La prego, si nasconda da loro,» disse lei.

«Be’,» spiegò lui, «noi ci abbiamo provato, come lei sa. Come avrà letto sulla sovraccoperta del libro… dove si parla delle armi e del filo di ferro elettrificato. E lo abbiamo fatto scrivere proprio perché sembrasse che prendevamo ancora tutte le precauzioni.» La sua voce aveva un tono stanco, asciutto.

«Potresti almeno portare un’arma con te,» disse sua moglie. «Io lo so che un giorno inviterai qualcuno, e mentre parli con lui quello ti sparerà addosso; qualche sicario nazista che vuole fartela pagare; e tu continuerai a prenderla con filosofia come stai facendo adesso, già lo vedo.»

«Se davvero vogliono,» disse Hawthorne, «possono sempre arrivare fino a me. Fil di ferro elettrificato o no, castello o no.»

Sei così fatalistico, pensò Juliana. Rassegnato alla tua stessa distruzione. Conosci anche questo, così come conoscevi il mondo che hai descritto nel tuo libro?

«È stato l’oracolo a scrivere il suo libro, non è vero?» disse Juliana.

«Vuole sapere la verità?» disse Hawthorne.

«Voglio saperla e ho il diritto di saperla,» rispose lei, «per quello che ho fatto. Non è così? Lei lo sa che è così.»

«L’oracolo,» disse Abendsen, «era profondamente addormentato durante l’intera stesura del libro. Dormiva in un angolo dell’ufficio.» I suoi occhi non mostravano nessuna allegria; il suo viso, invece, sembrava più lungo, più triste che mai.

«Diglielo,» disse Caroline. «Lei ha ragione; ha il diritto di saperlo, per quello che ha fatto per te.» Poi, rivolta a Juliana, «Glielo dirò io, allora, signora Frink. Hawth ha fatto le scelte una a una. A migliaia. Utilizzando le linee. Periodo storico. Argomento. Personaggi. Intreccio. Gli ci sono voluti anni. Hawth ha anche domandato all’oracolo quale successo avrebbe avuto il libro. Gli ha risposto che sarebbe stato un grande successo, il primo vero successo della sua carriera. Perciò lei aveva ragione. Lei deve usarlo piuttosto spesso, per averlo capito.»

«Mi chiedo perché mai l’oracolo abbia voluto scrivere un romanzo,» disse Juliana. «Ha mai pensato di chiederglielo? E perché un romanzo in cui i tedeschi e i giapponesi hanno perso la guerra? Perché proprio quella storia e non un’altra? Che cosa c’è che non può dirci direttamente, come ha sempre fatto? Questo deve essere diverso, non crede?»

Né Hawthorne né Caroline risposero.

«L’oracolo e io,» disse alla fine Hawthorne, «abbiamo raggiunto un accordo da molto tempo per quanto riguarda i diritti d’autore. Se gli chiedo perché ha scritto La cavalletta, dovrò versargli la mia parte dei diritti. La stessa domanda presuppone che io mi sia limitato semplicemente a batterlo a macchina, e questo non è vero né decoroso.»

«Glielo chiederò io,» disse Caroline. «Se non vuoi farlo tu.»

«Non tocca a te chiederlo,» disse Hawthorne. «Lascia che sia lei a farlo.» Poi, rivolto a Juliana, «Lei ha una… mente innaturale. Se ne rende conto?»

«Dov’è la sua copia dell’oracolo?» domandò Juliana. «La mia è rimasta in macchina, giù al motel. Andrò a prenderla, se non vuole lasciarmi usare la sua.»

Hawthorne si voltò e si allontanò, subito seguito da lei e da Caroline, attraverso la stanza affollata, verso una porta chiusa. Giunto alla porta, entrò senza di loro. Quando uscì di nuovo, tutti videro i due grossi volumi con la copertina nera.

«Io non uso gli steli di millefoglie,» disse a Juliana. «Non riesco a tenerli in mano, mi cadono sempre.»

Juliana si sedette a un tavolino in un angolo della sala. «Ho bisogno di una matita e di carta per scrivere.»

Uno degli ospiti portò carta e matita. I presenti si spostarono fino a formare un circolo attorno a lei e ad Abendsen, osservando e ascoltando.

«Lei può pronunciare la domanda a voce alta,» disse Hawthorne. «Qui non abbiamo segreti.»

Juliana cominciò: «Oracolo, perché hai scritto La cavalletta non si alzerà più? Che cosa dovrebbe insegnarci?»

«Lei ha un modo piuttosto sconcertante e superstizioso di porre le domande,» disse Hawthorne. Ma si era accucciato per assistere al lancio delle monete. «Vada pure avanti,» aggiunse; le porse le tre monete cinesi di ottone con i fori nel mezzo. «In genere mi servo di queste.»

Juliana cominciò a lanciare le monete; si sentiva calma e molto sicura di se stessa. Hawthorne annotò le linee per lei. Quando le ebbe lanciate sei volte, Hawthorne abbassò lo sguardo e disse: «Sun in cima. Tui in fondo. Vuoto nel mezzo.»

«Lo sa qual è l’esagramma?» gli domandò lei. «Senza usare le tavole?»

«Sì,» rispose Hawthorne.

«È Chung Fu,» disse Juliana. «La Verità Interiore. Lo so anch’io senza ricorrere alle tavole. E so che cosa significa.»

Hawthorne alzò la testa e la osservò. Adesso aveva un’espressione esasperata. «Significa che il mio libro è vero, non è così?»

«Sì,» rispose lei.

Con rabbia, lui disse: «La Germania e il Giappone hanno perso la guerra?»

«Sì.»

Allora Hawthorne richiuse ì due volumi e si alzò in piedi, senza dire altro.

«Nemmeno lei è in grado di accettarlo.»

Lui rifletté per un po’. Juliana notò che adesso aveva un’espressione vuota. È chiuso in se stesso, si rese conto. È preoccupato… poi i suoi occhi tornarono limpidi come prima; grugnì qualcosa, si mosse.

«Non sono sicuro di niente,» disse.

«Ci creda,» disse Juliana.

Lui scosse la testa, in segno di diniego.

«Non ne è capace?» disse lei. «Ne è sicuro?»

«Vuole che le faccia un autografo su una copia della Cavalletta?» disse Hawthorne Abendsen.

Anche lei si alzò in piedi. «Penso che andrò via,» disse. «La ringrazio molto. Mi dispiace di averle rovinato la serata. È stato molto gentile, da parte sua, lasciarmi entrare.» Oltrepassò Abendsen e Caroline e si fece strada in mezzo al circolo di persone, attraversò il soggiorno e si diresse verso la stanza da letto, dove c’erano la pelliccia e la borsa.

Mentre si infilava la pelliccia, dietro di lei apparve Hawthorne. «Lo sa che cosa è lei?» Poi si rivolse a Caroline, che era in piedi accanto a lui. «Questa ragazza è un demone. Un piccolo spirito ctonio che…» Alzò la mano e si grattò un sopracciglio, spostando in parte gli occhiali. «Che vaga incessantemente sulla faccia della Terra.» Si risistemò gli occhiali. «Fa ciò che per lei è istintivo, si limita a esprimere il suo essere. Non aveva intenzione di venire qui a fare del male; le è successo e basta, così come avviene per noi quando cambia il tempo. Sono felice che sia venuta, e non mi dispiace di aver fatto questa scoperta, di conoscere questa rivelazione che lei ha avuto attraverso il libro. Lei non sapeva che cosa avrebbe fatto qui o che cosa avrebbe scoperto. Penso che siamo tutti fortunati. Perciò non perdiamo la calma per questo, va bene?»

«È una donna dirompente, tremendamente dirompente,» commentò Caroline.

«Anche la realtà lo è,» disse Hawthorne. Porse la mano a Juliana. «Grazie per ciò che ha fatto a Denver,» aggiunse.

Lei gli strinse la mano. «Buonanotte,» disse. «Faccia come dice sua moglie. Si procuri un’arma, almeno.»

«No,» disse lui. «L’ho già deciso molto tempo fa. Non voglio lasciarmi sopraffare da questa cosa. Posso appoggiarmi all’oracolo, ogni tanto, quando mi sento nervoso, soprattutto a notte tarda. Non è male, in una situazione come questa.» Accennò a un sorriso. «In tutta franchezza, l’unica cosa che mi preoccupa, a questo punto, è sapere che mentre noi ce ne stiamo qui a parlare, tutti quegli scrocconi che sono di là ad ascoltare mi fanno fuori la scorta di liquori.» Si voltò e si diresse a grandi passi verso la credenza, in cerca di ghiaccio fresco per il suo drink.

«Dove andrà, adesso che ha finito qui?» chiese Caroline.

«Non lo so.» Juliana non se ne preoccupava. Devo essere un po’ come lui, pensò; non mi lascerò angustiare da certe cose, per quanto possano essere importanti. «Forse tornerò da mio marito, Frank. Ho cercato di telefonargli, stasera, e forse ci proverò di nuovo. Vedrò come mi sento più tardi.»

«Nonostante quello che ha fatto per noi, o quello che ha detto di avere fatto…»

«Preferirebbe che non fossi mai venuta in questa casa,» concluse per lei Juliana.

«Se lei ha salvato la vita di Hawthorne, è orribile ammetterlo, da parte mia, ma sono così sconvolta; non riesco ad accettarlo, quello che ha detto lei e quello che ha detto Hawthorne.»

«È strano,» disse Juliana. «Non avrei mai pensato che la verità la facesse arrabbiare.» La verità, si disse. Terribile come la morte. Ma più difficile da trovare. Io sono fortunata. «Credevo che lei fosse contenta ed eccitata come me. È un malinteso, non è vero?» Sorrise, e dopo una pausa la signora Abendsen riuscì a ricambiare il sorriso. «Be’, buonanotte, in ogni caso.»

Un attimo dopo Juliana ripercorreva il vialetto lastricato in pietra, camminando sulle macchie di luce che provenivano dalle finestre del soggiorno, e poi nelle ombre del giardino che circondava la casa, fino al marciapiede buio.

Camminò senza voltarsi indietro verso la casa degli Abendsen e, mentre camminava, continuò a guardare su e giù per la strada in cerca di un taxi o una macchina, qualcosa di mobile, vivo e lucente che la riportasse al motel.


FINE
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