CAPITOLO TERZO

Al tramonto, guardando verso l’alto, Juliana Frink vide il puntolino luminoso descrivere un arco velocissimo nel cielo e poi scomparire verso occidente. Una di quelle navi-razzo dei nazisti, si disse. Che vola verso la costa. Carica di pezzi grossi. E io quaggiù. Fece un cenno con la mano, benché naturalmente il razzo fosse già sparito.

Ombre che avanzavano dalle Montagne Rocciose. Vette azzurrine che sfumavano nella notte. Uno stormo di uccelli migratori volava piano lungo una rotta parallela alle montagne. Qua e là qualche automobile cominciava ad accendere i fari; si vedevano le luci gemelle lungo l’autostrada. Una stazione di servizio, anch’essa illuminata. Case.

Da mesi ormai abitava a Canon City, Colorado. Era un’insegnante di judo.

Aveva finito di lavorare e si stava preparando a fare una doccia. Si sentiva stanca. I frequentatori della palestra di Ray avevano occupato tutte le docce, e così lei si era messa ad aspettare fuori, al freddo, assaporando il profumo dell’aria di montagna, e la tranquillità. Tutto ciò che sentiva, adesso, era il debole mormorio che proveniva dal chiosco degli hamburger in fondo alla via, nei pressi dell’imbocco per l’autostrada. C’erano due enormi camion diesel parcheggiati e nell’oscurità si distinguevano le sagome degli autisti che si muovevano, infilandosi le giacche di pelle prima di entrare nel chiosco.

Lei pensò: ma Diesel non si è buttato dal finestrino della sua cabina? Non si è suicidato annegandosi durante una traversata oceanica? Forse dovrei farlo anch’io. Ma lì non c’erano oceani. Però c’è un altro modo. Come in Shakespeare. Uno spillone infilato attraverso la camicia, sul davanti, e addio Frink. La ragazza che non deve temere i vagabondi senza casa che vengono dal deserto. Cammina a testa alta, consapevole delle molte possibilità di cui dispone per paralizzare i nervi dell’avversario incanutito e bavoso. E invece ecco la morte che la raggiunge, per esempio aspirando i gas di scarico lungo il tratto cittadino dell’autostrada, magari attraverso una lunga cannuccia.

Lo aveva imparato dai giapponesi, pensò. Aveva assimilato quel placido atteggiamento nei confronti della morte, insieme alla capacità di far denaro insegnando judo. Come uccidere, come morire. Yang e yin. Ma ormai è acqua passata; questa è la terra dei protestanti.

Era bello vedere i razzi nazisti attraversare il cielo senza fermarsi, senza rivelare il minimo interesse per Canon City, Colorado. E nemmeno per lo Utah o il Wyoming o la parte orientale del Nevada, né per i vasti stati desertici o per quelli dei pascoli. Noi non abbiamo nessun valore, si disse. Possiamo vivere le nostre vite insignificanti. Se lo vogliamo. E se per noi è importante.

Da una delle docce si udì il rumore di una porta che si apriva. La grossa sagoma della signorina Davis che aveva finito la doccia e si era rivestita, la borsa sotto il braccio. «Oh, stava aspettando, signora Frink? Mi dispiace.»

«Non si preoccupi,» disse Juliana.

«Lo sa, signora Frink, il judo mi ha dato molto. Anche più dello zen. Volevo che lo sapesse.»

«Snellire i fianchi attraverso lo zen,» disse Juliana. «Perdere peso attraverso il satori indolore. Mi scusi, signorina Davis. Sto parlando a vanvera.»

«Le hanno fatto molto male?» chiese la signorina Davis.

«Chi?»

«I giap. Prima che imparasse a difendersi da sola.»

«È stato terribile,» replicò Juliana. «Lei non è mai stata laggiù, sulla Costa. Dove stanno loro.»

«Non ho mai varcato i confini del Colorado,» disse la signorina Davis, con voce timida, esitante.

«Potrebbe succedere anche qui,» disse Juliana. «Potrebbero decidere di occupare anche questa regione.»

«A questo punto, no!»

«Non si può mai sapere cosa gli passa per la testa,» disse Juliana. «Nascondono i loro veri pensieri.»

«Che cosa… le hanno fatto?» La signorina Davis si avvicinò nell’oscurità della sera per ascoltare meglio, stringendo a sé la borsa con entrambe le braccia.

«Tutto,» rispose Juliana.

«Oddio. Io mi sarei difesa,» disse la signorina Davis.

Juliana si scusò e si diresse verso la doccia libera; qualcun altro si stava avvicinando con un asciugamano sul braccio.

Più tardi andò a sedersi a un tavolino appartato al Tasty Charley’s Broiled Hamburgers e lesse distrattamente il menù. Il juke-box suonava musica popolare; chitarra e gemiti soffocati dall’emozione… l’aria era pesante di grasso bruciato. Eppure il luogo era caldo e luminoso, e la faceva sentire bene. La presenza dei camionisti al bancone, la cameriera, il grosso cuoco irlandese con la sua giacca bianca che se ne stava alla cassa a dare il resto.

Quando la vide, Charley si avvicinò per prendere lui stesso l’ordinazione. Fece e una smorfia e le chiese, con voce strascicata: «Una tazza di tè per la nostra signorina?»

«Caffè,» disse Juliana, sopportando l’inesorabile umorismo del cuoco.

«Ah, bene,» disse Charley, annuendo.

«E un sandwich caldo alla carne con salsa.»

«Niente zuppa di nidi di topo? O magari cervella di capra fritte in olio d’oliva?» Un paio di camionisti si voltarono sui loro sgabelli e ridacchiarono per la scenetta. E per di più non celarono la loro aria compiaciuta per l’avvenenza della donna. Anche senza le battute del cuoco, si sarebbe comunque ritrovata addosso gli occhi dei camionisti. Mesi e mesi di judo avevano conferito al suo corpo un tono muscolare insolito; sapeva quale sforzo le costasse e quanto facesse bene al suo fisico quell’attività.

È tutta una questione di muscoli delle spalle, pensò mentre incontrava i loro sguardi. Così come per le ballerine. Non c’entra niente con la corporatura. Mandate le vostre mogli in palestra e noi glielo insegneremo. E la vostra vita sarà molto più felice.

«State alla larga da lei,» disse il cuoco ai camionisti con una strizzata d’occhio. «O vi scaraventerà addosso al vostro catorcio.»

«Da dove viene?» chiese Juliana al più giovane dei due.

«Missouri,» risposero entrambi.

«Dagli Stati Uniti?» chiese ancora.

«Io sì,» rispose il più anziano. «Philadelphia. Ho tre bambini, laggiù. Il più grande ha undici anni.»

«Mi dica,» riprese Juliana. «È… è facile trovare un buon lavoro, da quelle parti?»

Il camionista più giovane rispose: «Certo. Se il colore della pelle è quello giusto.» Aveva un volto ampio, pensieroso, e capelli neri ricci. Aveva assunto un’espressione tesa e amara.

«È un italiano,» disse l’altro.

«E allora?» ribatté Juliana. «L’Italia non ha vinto la guerra?» Sorrise al giovane camionista ma quello non le ricambiò il sorriso. Al contrario, i suoi occhi tristi ebbero uno scintillio più intenso, e improvvisamente si girò dall’altra parte.

Mi dispiace, pensò. Ma non disse nulla. Non posso impedire a te né a chiunque altro di essere scuro di pelle. Ripensò a Frank. Chissà se è già morto. Ho detto una cosa sbagliata, mi sono espressa male. No, pensò, in qualche modo a lui i giapponesi piacciono. Forse si identifica con loro perché sono brutti. Lei aveva sempre detto a Frank che era brutto. Pori larghi. Naso grosso. Mentre lei aveva la carnagione liscia, insolitamente liscia. Sarà morto, senza di me? Fink significa fringuello, un tipo di uccello, e si dice che gli uccelli muoiano presto.

«Riprendete il viaggio stanotte?» domandò al giovane camionista italiano.

«Domani mattina.»

«Se lei non è felice negli Stati Uniti, perché non emigra definitivamente?» gli chiese. «È molto tempo che vivo nelle Montagne Rocciose e non ci si sta male. Ho vissuto sulla Costa, a San Francisco. Ma anche là c’è il problema della pelle.»

Il giovane italiano, ingobbito sul bancone, le rivolse un’occhiata fugace, poi disse: «Signora, è già abbastanza brutto dover passare solo un giorno o una notte in una città come questa. Vivere qui? Cristo… se solo potessi trovare qualsiasi altro lavoro, tanto per non essere costretto a mettermi in strada e a consumare i miei pasti in luoghi come questo…» Si accorse che il cuoco era arrossito, e smise di parlare, cominciando a sorseggiare il suo caffè.

«Joe, tu sei uno snob,» gli disse il camionista più anziano.

«Potrebbe vivere a Denver,» disse Juliana. «Là si vive molto meglio.» Vi conosco, voialtri americani dell’Est, pensò. Vi piace la bella vita, sognare in grande. Le Montagne Rocciose non fanno proprio al caso vostro. Qui non è successo niente da prima della guerra. Vecchi in pensione, contadini, la gente più stupida, più povera, più tarda… quelli più in gamba hanno preso la via dell’est, sono andati a New York, hanno attraversato la frontiera, legalmente o illegalmente. Perché è lì che c’è il denaro, pensò, il denaro che conta, quello della civiltà industriale. L’espansione. Gli investimenti tedeschi hanno dato un grosso contributo… non ci hanno messo molto a ricostruire gli Stati Uniti.

Con voce roca, risentita, il cuoco intervenne: «Amico, io non amo gli ebrei, ma ne ho visti alcuni che sono scappati nel 49 dai tuoi Stati Uniti, e puoi tenerteli, i tuoi Stati Uniti. Se laggiù hanno costruito un sacco di edifici e se c’è un mucchio di denaro in circolazione è perché l’hanno rubato a quegli ebrei quando li hanno cacciati a calci da New York, per quella maledetta legge nazista di Norimberga. Da bambino vivevo a Boston, e non avevo particolari simpatie per gli ebrei, ma non credevo che negli Stati Uniti sarebbe mai passata una legge razzista come quella, neanche se avessimo perso la guerra. Mi stupisco che tu non ti sia arruolato nelle forze armate degli Stati Uniti, pronto a invadere qualche piccola repubblica sudamericana per conto dei tedeschi, in modo che possano ricacciare i giapponesi un po’ più indietro…»

I due camionisti si erano alzati in piedi, scuri in viso. Quello più anziano prese una bottiglia di ketchup dal bancone e la sollevò in alto, brandendola per il collo. Il cuoco, senza voltare le spalle ai due camionisti, allungò la mano dietro di lui finché le sue dita non toccarono uno dei forchettoni. Lo afferrò e lo protese verso i due.

«A Denver stanno costruendo una di quelle piste termoresistenti, in modo che possano atterrarvi i razzi della Lufthansa,» disse Juliana.

Nessuno dei tre uomini si mosse o parlò. Gli altri clienti erano rimasti seduti, e osservavano in silenzio.

Alla fine il cuoco disse: «Al tramonto ne è passato uno.»

«Non era diretto a Denver,» disse Juliana. «Stava andando a est, verso la Costa.»

Lentamente i due camionisti tornarono a sedersi. Il più anziano borbottò: «Me ne dimentico sempre; c’è un po’ di giallo, da queste parti.»

Il cuoco ribatté: «I giap non hanno mai ucciso ebrei, né durante la guerra né dopo. E non hanno mai costruito forni.»

«Peccato che non lo abbiano fatto,» disse il camionista. Poi riprese la tazza di caffè e si rimise a mangiare.

Un po’ di giallo, pensò Juliana. Sì, immagino che sia così. Noi altri vogliamo bene ai giap.

«Dove vi fermate?» chiese, rivolta al camionista più giovane, Joe, «questa notte.»

«Non lo so,» rispose Joe. «Sono sceso dal camion solo per venire qui. Ma questo stato non mi piace. Forse dormirò nel camion.»

«Il motel Honey Bee non è male,» suggerì il cuoco.

«D’accordo,» disse il camionista più giovane. «Forse andrò là. Se a loro non disturba che io sia italiano.» Aveva un accento ben definito, benché si sforzasse di nasconderlo.

Juliana lo guardò. È l’idealismo, pensò, che lo amareggia così tanto. Ha chiesto troppo alla vita. Sempre in movimento, senza sosta, e sempre oppresso da qualcosa. Io sono come lui; non sono stata capace di vivere sulla costa occidentale e alla fine non riuscirò a vivere neanche qui. Non erano così anche i nostri vecchi? Ma, pensò, adesso la frontiera non è qui; è sugli altri pianeti.

Potremmo fare domanda, io e lui, pensò Juliana, per partire su uno di quei razzi che trasportano coloni. Ma i tedeschi scarterebbero lui per il colore della pelle e me per il colore dei capelli, troppo neri. Quei finocchi delle SS, nordici pallidi e magri, che si addestrano nei loro castelli bavaresi. Questo tizio — Joe come-si-chiama — non ha nemmeno l’espressione giusta in faccia; dovrebbe avere quello sguardo freddo ma in qualche modo entusiasta, come se non credesse in nulla ma nutrisse nello stesso tempo una fede assoluta in qualcosa. Sì, è così che sono. Non sono idealisti come Joe e me; sono dei cinici con una fede totale. È una specie di malformazione cerebrale, come una lobotomia… quella mutilazione che gli psichiatri tedeschi eseguono come misero surrogato della psicoterapia.

Il loro è un problema legato al sesso, decise; negli anni 30 lo hanno trasformato in qualcosa di sporco, e col tempo la cosa non ha fatto che peggiorare. Cominciò Hitler con sua… chi era? Sua sorella? Sua zia? Sua nipote? E nella sua famiglia c’erano già unioni fra consanguinei; sua madre e suo padre erano cugini. Tutti commettono incesto, tornando al peccato originale di desiderare la propria madre. Ecco perché quelle checche aristocratiche delle SS hanno quei sorrisi affettati, quella bionda innocenza da bambini; si stanno risparmiando per mammina. O per qualcuno di loro.

E chi è mammina, per loro? Si chiese Juliana. Il capo, Herr Bormann, che si dice stia per morire? O… l’Ammalato.

Il vecchio Adolf, che si vocifera sia in manicomio chissà dove, a consumare i suoi giorni nella paresi senile. Sifilide del cervello, che risale ai tempi in cui era un povero barbone, in quel di Vienna… giaccone nero, biancheria sporca, pensioncine d’infimo ordine.

Ovviamente, era l’ironica vendetta di Dio, uscita da qualche film muto. Quell’uomo orrendo abbattuto da una sozzura ulteriore, lo storico flagello della depravazione umana.

E l’aspetto più terribile era che l’attuale Impero Tedesco era un prodotto di quel cervello. Dapprima un partito politico, poi una nazione, poi la metà del mondo. Ed erano stati gli stessi nazisti a diagnosticarlo, a identificarlo; quel ciarlatano di medico erborista che aveva curato Hitler, quel dottor Morell che aveva somministrato a Hitler un farmaco appena brevettato chiamato le Pillole Antigas del Dottor Koester… in origine era uno specialista in malattie veneree. Lo sapevano tutti, eppure il bla-bla del Capo era ancora sacro, era ancora come la Bibbia. Quelle idee avevano contagiato ormai un’intera civiltà e, come spore maligne, i ciechi, biondi finocchi nazisti stavano sciamando dalla Terra verso gli altri pianeti, spargendo il contagio.

Ecco ciò che si ricava dall’incesto: follia, cecità, morte.

Brrr. Juliana fu scossa da un brivido.

«Charley,» chiamò ad alta voce il cuoco. «È pronta la mia ordinazione?» Si sentiva assolutamente sola; si alzò in piedi e camminò verso il bancone, sedendosi accanto alla cassa.

Nessuno le fece caso, a parte il giovane camionista italiano; i suoi occhi neri la fissavano intensamente. Joe, si chiama. Joe che cosa? Si chiese la donna.

Osservandolo da vicino, Juliana si rese conto che non era così giovane come aveva creduto. Era difficile dargli un’età; quell’intensità che lo permeava confondeva il suo giudizio. Continuava a passarsi una mano fra i capelli, pettinandoli all’indietro con dita nervose, rigide. Quest’uomo ha qualcosa di speciale, pensò lei. Emana un sentore di… morte. Quel fatto la sconvolse, e nello stesso tempo la attrasse. In quel momento il suo collega più anziano si era chinato verso di lui e gli stava bisbigliando qualcosa. Poi entrambi la osservarono, questa volta con un’espressione che non era semplice interesse maschile.

«Signorina,» disse il più anziano. Adesso erano tutti e due molto tesi. «Sa che cosa è questa?» Le mostrò una scatoletta bianca, piatta, di piccole dimensioni.

«Sì,» rispose Juliana. «Calze di nylon. Fibra sintetica fabbricata solo dal grande monopolio di New York, la I.G. Farben. Molto rare e costose.»

«Questo è un merito che bisogna riconoscere ai tedeschi; quella del monopolio non è una cattiva idea.» Il camionista più anziano passò la scatola al suo collega, il quale la sospinse con il gomito lungo il bancone, verso di lei.

«Ha una macchina?» le chiese il giovane italiano, sorseggiando il suo caffè.

Charley spuntò dalla cucina, con in mano il suo piatto.

«Potrebbe accompagnarmi lei.» I suoi occhi accesi e decisi la fissavano ancora, e lei sentì crescere il proprio nervosismo, così come l’incapacità di reagire. «In quel motel, o dovunque possa trascorrere la notte. Che ne dice?»

«Sì,» disse la donna. «Ho una macchina. Una vecchia Studebaker.»

Il cuoco rivolse un’occhiata prima a lei, poi al giovane camionista, infine le mise il piatto davanti, sopra il bancone.


L’altoparlante in fondo al corridoio annunciò: «Achtung, meine Damen und Herren [Attenzione, signore e signori].» Baynes sobbalzò sul sedile e aprì gli occhi. Dal finestrino sulla destra vide, giù in basso, le macchie verdi e marroni della terraferma, e più in là l’azzurro. Il Pacifico. Si rese conto che il razzo aveva iniziato la sua lunga, lenta discesa.

Prima in tedesco, poi in giapponese, infine in inglese, l’altoparlante spiegò che nessuno poteva fumare o slacciare la cintura del sedile imbottito. La discesa, riferì, sarebbe durata otto minuti.

In quel momento si accesero i retrorazzi, in modo così improvviso e rumoroso, facendo sussultare la nave con tale violenza, che diversi passeggeri boccheggiarono. Baynes sorrise e nel sedile di fronte a lui, al di là del corridoio, un altro passeggero, un giovane con i capelli biondi tagliati cortissimi sorrise anche lui.

«Sie furchten dasz… [Hanno paura che…]» cominciò il giovane, ma Baynes lo interruppe subito, spiegando in inglese: «Mi dispiace, non parlo tedesco.» Il giovane tedesco lo guardò a bocca aperta, con aria interrogativa, e allora Baynes gli ripeté la frase in tedesco.

«Non è tedesco?» disse il giovane, stupito, in un inglese dal pesante accento.

«Sono svedese,» disse Baynes.

«Si è imbarcato a Tempelhof.»

«Sì. Ero in Germania per affari. Il mio lavoro mi porta in molti paesi.»

Chiaramente il giovane tedesco non riusciva a credere che qualcuno, al mondo d’oggi, qualcuno che trattava affari a livello internazionale e che viaggiava — anzi, che poteva permettersi di viaggiare — sul più sofisticato razzo della Lufthansa, non sapesse o non volesse parlare tedesco. «Di quale settore si occupa, mein Herr?» chiese a Baynes.

«Plastica. Poliesteri. Resine. Ersatz… [Sostituto, surrogato] per uso industriale. Capisce? Non per il consumo al dettaglio.»

«La Svezia possiede un’industria della plastica?» Aveva un’aria incredula.

«Sì. E molto avanzata. Se mi lascia il suo nome le farò avere per posta un opuscolo informativo della ditta.» Baynes estrasse penna e taccuino.

«Non importa. Sarebbe inutile, per me. Sono un artista, non mi interesso di affari. Senza offesa. Magari lei ha visto i miei lavori, mentre si trovava nel Continente. Alex Lotze.» Attese.

«Temo di non avere un grande interesse per l’arte moderna,» disse Baynes. «Amo i vecchi cubisti e gli astrattisti di anteguerra. A me piace un’immagine che significhi qualcosa, e che non sia la semplice rappresentazione di un ideale.» Distolse lo sguardo.

«Ma è quello il fine dell’arte,» disse Lotze. «Favorire la spiritualità dell’uomo a scapito della sua sensualità. La sua arte astratta simboleggiava un periodo di decadenza, di confusione spirituale, conseguenza della disintegrazione della società, della vecchia plutocrazia. I miliardari ebrei e capitalisti, l’apparato internazionale che sosteneva quella forma d’arte decadente. Quei tempi sono passati; l’arte deve andare avanti… non può rimanere ferma.»

Baynes annuì, fissando fuori dal finestrino.

«È mai stato sul Pacifico?» gli domandò Lotze.

«Molte volte.»

«Io no. C’è una mostra delle mie opere a San Francisco, organizzata dall’ufficio del dottor Goebbels insieme alle autorità giapponesi. Uno scambio culturale per promuovere la reciproca comprensione e le buoni relazioni. Dobbiamo alleggerire le tensioni fra Est e Ovest, non crede? Dobbiamo comunicare di più, e l’arte può essere un ottimo strumento.»

Baynes annuì. In basso, sotto l’anello di fuoco emesso dal razzo, si potevano già scorgere la città di San Francisco e la Baia.

«Dove si può mangiare, a San Francisco?» stava chiedendo Lotze. «Ho prenotato al Palace Hotel, ma mi risulta che si possono trovare degli ottimi ristoranti nella parte internazionale, per esempio a Chinatown.»

«E vero,» confermò Baynes.

«I prezzi sono alti, a San Francisco? Sono venuto a mie spese. Il Ministero è molto frugale.» Lotze rise.

«Dipende dal cambio che riesce a ottenere. Immagino che lei abbia con sé assegni della Reichsbank. Le consiglio di andare alla Bank of Tokyo, in Samson Street, e di cambiarli là.»

«Danke sehr,» disse Lotze. «Io li avrei cambiati in albergo.»

Il razzo aveva quasi toccato il suolo. Adesso Baynes poteva vedere il campo di atterraggio, gli hangar, i parcheggi, l’autobahn che veniva dalla città, gli edifici… un panorama molto piacevole, pensò. Montagne e acqua, e qualche nuvola di nebbia che fluttuava accanto al Golden Gate.

«Che cos’è quell’enorme struttura laggiù?» chiese Lotze. «È incompleta, ed è aperta da un lato. Uno spazioporto? I nipponici non hanno una flotta spaziale, a quanto mi risulta.»

Con un sorriso, Baynes rispose, «Quello è il Golden Poppy. Lo stadio di baseball.»

Lotze scoppiò a ridere. «Già, a loro piace il baseball. È incredibile. Hanno messo mano a una struttura così grande solo per un gioco, per uno stupido sport che fa perdere tempo…»

«È finita,» lo interruppe Baynes. «Quella è la sua forma definitiva. Aperta da un lato. Un nuovo disegno architettonico. Ne sono molto orgogliosi.»

«Sembra progettata da un ebreo,» disse Lotze, guardando verso il basso.

Baynes fissò l’uomo a lungo. Ebbe la netta, momentanea sensazione della qualità squilibrata, della vena psicotica insita nella mente dei tedeschi. Lotze aveva parlato sul serio? La sua era stata un’osservazione veramente spontanea?

«Spero che ci rincontreremo, a San Francisco,» disse Lotze mentre il razzo toccava il suolo. «Mi sentirò sperduto, senza un connazionale con cui parlare.»

«Io non sono un suo connazionale,» disse Baynes.

«Oh, sì, è vero. Ma dal punto di vista razziale siamo molto vicini. E anche sotto il profilo delle intenzioni e degli obiettivi.» Lotze cominciò a muoversi sul sedile, preparandosi a slacciare la complicata cintura di sicurezza.

Sono simile a quest’uomo, dal punto di vista razziale? si domandò Baynes. Simile a tal punto da avere le stesse intenzioni e gli stessi obiettivi? Allora c’è anche in me quella vena psicotica. È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E… quanti di noi lo sanno? Non Lotze. Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure può dire di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse… che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intravedono, intuiscono in qualche modo la verità?

Ma, pensò, che cosa significa la parola pazzo? È una definizione legale. E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che cos’è?

È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento, lo intuisco, ma… sono volutamente crudeli… è quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c’è di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista dei pianeti. Qualcosa di frenetico e di folle, così come lo è stata la loro conquista dell’Africa, e prima ancora dell’Europa e dell’Asia,

La loro visione; è cosmica. Non un uomo qua, un bambino là, ma un’astrazione: la razza, la terra. Volk. Land. Blut. Ehre [Popolo. Terra. Sangue. Onore]. Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma l’Ehre stesso; per loro l’astratto è reale, e il reale è invisibile. Die Gute [Il bene], ma non gli uomini buoni, non quest’uomo buono. È il loro senso dello spazio e del tempo. Essi vedono attraverso il “qui” e “ora”, nell’enorme e nero abisso che c’è al di là, nell’immutabile. E questo è fatale alla vita. Perché alla fine non ci sarà più vita; una volta c’erano soltanto le particelle di polvere nello spazio, gli ardenti gas di idrogeno, e niente più, e così tornerà a essere. Questo è un intervallo, ein Augenblic [Un attimo]. Il processo cosmico procede a grandi passi, frantumando la vita e riducendola di nuovo a granito e metano; la ruota gira sempre, per tutta la vita. È tutto temporaneo. E loro — questi pazzi — rispondono al granito, alla polvere, al desiderio dell’inanimato; essi vogliono aiutare la Natur.

E io, pensò, so perché. Vogliono essere gli agenti, non le vittime, della storia. Si identificano con la potenza di Dio e credono di essere simili a dèi. Questa è la loro pazzia di fondo. Sono sopraffatti da qualche archetipo; il loro ego si è dilatato psicoticamente a tal punto che non sanno più dire dove essi cominciano e dove finisce la divinità. Non è hybris, non è orgoglio; è l’ego gonfiato a dismisura, fino all’estremo… la confusione tra colui che adora e colui che è adorato. L’uomo non ha divorato Dio; Dio ha divorato l’uomo.

Quello che non comprendono è l’impotenza dell’uomo. Io sono debole, pìccolo, senza la minima importanza per l’universo. L’universo non si accorge di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve essere un male? Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla gelosia di chi è grande.

Mentre si slacciava la cintura di sicurezza, Baynes disse: «Signor Lotze, non l’ho mai detto a nessuno. Io sono un ebreo. Capisce?»

Lotze lo fissò con aria di commiserazione.

«Lei non se ne sarebbe mai accorto,» riprese Baynes, «perché non ho affatto l’aspetto esteriore di un ebreo; mi sono fatto modificare il naso, ridurre i pori troppo larghi e untuosi, schiarire chimicamente il colore della pelle, alterare la conformazione del cranio. In breve, non è possibile individuarmi dal punto di vista fisico. Posso muovermi, e spesso l’ho fatto, all’interno dei circoli più importanti della società nazista. Nessuno mi scoprirà mai. E…» Fece una pausa, e si avvicinò a Lotze, parlando con voce così bassa che solo l’altro poteva sentirlo. «E ce ne sono altri, come me. Ha sentito? Noi non siamo morti. Viviamo ancora. Continuiamo a esistere senza essere visti.»

Dopo un attimo di esitazione, Lotze farfugliò: «Ma la polizia…»

«Il Dipartimento di Polizia può controllare il mio dossier,» disse Baynes. «Lei può anche denunciarmi, ma io ho amicizie molto in alto. Alcuni sono ariani, altri ebrei che occupano posti di rilievo a Berlino. La sua denuncia verrà archiviata, e subito dopo sarò io a denunciare lei. E per via di queste stesse amicizie, lei si ritroverà in custodia protettiva.» Sorrise, fece un cenno con la testa e percorse il corridoio per raggiungere gli altri passeggeri, allontanandosi da Lotze.

Tutti discesero la rampa e raggiunsero il campo freddo e ventoso. Al termine della discesa Baynes si ritrovò momentaneamente vicino a Lotze.

«In effetti,» disse Baynes, camminandogli accanto, «a me non piace il suo aspetto esteriore, signor Lotze, perciò credo che la denuncerò comunque.» Poi allungò il passo, lasciandosi alle spalle Lotze.

All’altra estremità del campo, molta gente attendeva di fronte all’ingresso dell’aerostazione. Parenti, amici dei passeggeri; chi alzava la mano in segno di saluto, chi cercava con lo sguardo, chi sorrideva, chi aveva un’espressione ansiosa, chi controllava. Un giapponese ben piantato, di mezza età, elegante nel suo cappotto inglese, con pantaloni aderenti e cappello a bombetta, si trovava un po’ più avanti degli altri, con un connazionale più giovane al suo fianco. All’occhiello del cappotto portava il distintivo dell’importante Missione Commerciale del Pacifico del Governo Imperiale. È lui, si rese conto Baynes. Il signor N. Tagomi, venuto ad accogliermi di persona.

Il giapponese fece un passo avanti e lo salutò. «Herr Baynes… buona sera.» Esitante, chinò appena la testa.

«Buona sera, signor Tagomi,» disse Baynes, porgendo la mano. Se la strinsero, poi si inchinarono entrambi. Anche il giapponese più giovane si inchinò, raggiante.

«Fa un po’ freddo, signore, in questo campo così esposto,» disse il signor Tagomi. «Useremo l’elicottero della Missione per tornare in città. Le va bene? O ha bisogno di darsi una rinfrescata, o cose del genere?» Osservò con molta attenzione il volto del signor Baynes.

«Possiamo partire subito,» disse Baynes. «Voglio raggiungere il mio albergo. Quanto al mio bagaglio…»

«Se ne occuperà il signor Kotomichi,» disse Tagomi. «Ci seguirà. Vede, signore, a questo terminal ci vuole quasi un’ora di coda per avere il bagaglio. Più di quanto sia durato il suo viaggio.»

Il signor Kotomichi sorrise amabilmente.

«Va bene,» disse Baynes.

«Signore, ho un regalo per lei,» disse Tagomi.

«Scusi?» fece Baynes.

«Per favorire un suo atteggiamento positivo nei nostri confronti.» Il signor Tagomi infilò una mano nella tasca del cappotto e ne estrasse una scatoletta. «Scelto fra i più raffinati objets d’art disponibili in America.» Gli porse la scatola.

«Bene,» disse Baynes. «Grazie.» Prese la scatola.

«Per tutto il pomeriggio diversi funzionari hanno esaminato ogni possibilità,» disse il signor Tagomi. «Questo è un esemplare autentico dell’antica civiltà americana, ormai in via di estinzione, un oggetto raro che ha ancora il sapore dei bei tempi andati.»

Baynes aprì la scatola. Dentro c’era un orologio da polso di Topolino sopra un’imbottitura di velluto nero.

Il signor Tagomi lo stava prendendo in giro? Baynes alzò gli occhi e fissò il volto teso, ansioso del signor Tagomi. No, non era uno scherzo. «La ringrazio molto,» disse Baynes. «È davvero incredibile.»

«In tutto il mondo sono rimasti pochissimi orologi autentici di Topolino del 1938, forse una decina,» disse il signor Tagomi studiando Baynes, e registrando avidamente ogni reazione, ogni commento positivo. «Nessun collezionista di mia conoscenza ne possiede uno, signore.»

Entrarono nel terminal dell’aerostazione e salirono insieme la rampa.

Alle loro spalle il signor Kotomichi disse: «Harusame ni nuretsutsu yane no temati kana…»

«Cosa significa?» domandò Baynes al signor Tagomi.

«È una vecchia poesia,» rispose il signor Tagomi. «Del Medio Periodo Tokugawa.»

Il signor Kotomichi tradusse: «Mentre cade la pioggia di primavera, se ne imbeve, sopra il tetto, la palla di stracci di un bambino.»

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