CAPITOLO PRIMO

Da una settimana il signor R. Childan teneva d’occhio ansiosamente la posta. Ma il prezioso pacchetto inviato dagli Stati delle Montagne Rocciose non era ancora arrivato. Il venerdì mattina, quando aprì il negozio e vide sul pavimento solo lettere pensò: il mio cliente si infurierà.

Si versò una tazza di tè istantaneo dal distributore a parete da cinque centesimi, poi prese una scopa e cominciò a spazzare; ben presto l’ingresso venne ripulito e il negozio Manufatti Artistici Americani, tutto tirato a lucido, era pronto per una nuova giornata, con il registratore di cassa pieno di spiccioli, un vaso di calendule fresche e la radio che suonava musica in sottofondo. All’esterno gli uomini d’affari percorrevano veloci il marciapiede diretti verso i loro uffici di Montgomery Street. In lontananza passò un tram a funicolare; Childan si soffermò a guardarlo con vivo compiacimento. Donne nei loro lunghi abiti di seta colorata… rimase a guardare anche loro. Poi il telefono suonò e Childan si voltò per rispondere.

«Sì,» disse una voce familiare appena sollevò il ricevitore. Il cuore di Childan ebbe un sussulto. «Qui parla il signor Tagomi. Non è ancora arrivato il mio bando di reclutamento della Guerra Civile, signore? La prego di ricordare, me lo aveva promesso circa una settimana fa.» La voce brusca, risentita, sfiorava i limiti della buona educazione e delle regole di cortesia. «Non le ho forse dato un anticipo, signor Childan, signore, quando abbiamo concluso l’accordo? Questo deve essere un regalo, capisce? Gliel’ho spiegato. Un regalo per un cliente.»

«Ho effettuato delle ricerche accurate sull’oggetto che le avevo promesso, signor Tagomi, signore. A mie spese,» cominciò Childan. «Infatti come lei ben sa, non è originano di questa regione e perciò…»

Ma Tagomi lo interruppe: «Quindi non è arrivato.»

«No, signor Tagomi, signore.»

Una pausa gelida.

«Non posso aspettare ulteriormente,» disse Tagomi.

«No, signore.» Childan guardò stupidamente, oltre la vetrina del negozio, la giornata calda e luminosa e i palazzi di San Francisco.

«Allora mi trovi qualcosa che lo sostituisca. Che cosa suggerisce, signor Childàn?» Tagomi storpiò volutamente il suo nome; un insulto all’interno delle regole di buona educazione che fece avvampare le orecchie di Childan. L’arroganza del vincitore, la spaventosa mortificazione della loro situazione. Le aspirazioni, le paure e i tormenti di Robert Childan esplosero e lo travolsero, bloccandogli la lingua. Balbettò qualcosa, con la mano tesa sul telefono. Il negozio profumava di calendule, la musica continuava a suonare, ma lui aveva la sensazione di sprofondare in qualche mare lontano.

«Ecco…» riuscì a farfugliare. «Una zangola per il burro. Una gelatiera del 1900 circa.» Il suo cervello si rifiutava di pensare. Proprio quando te ne dimentichi; proprio quando ti prendi in giro da solo. Aveva trentotto anni e ricordava i giorni prima della guerra. Altri tempi. Franklin D. Roosevelt e l’Esposizione Mondiale; il vecchio mondo migliore. «Potrei portarle in ufficio qualche esemplare interessante?» mormorò.

Si accordarono per le due del pomeriggio. Dovrò chiudere il negozio, si rese conto Childan mentre riappendeva il telefono. Non c’è scelta. Clienti così devo tenermeli buoni; gli affari dipendono da loro.

Sentendosi un po’ malfermo sulle gambe, si accorse che qualcuno era entrato nel negozio: una giovane coppia, un ragazzo e una ragazza, attraenti e ben vestiti. Una coppia ideale. Childan si calmò e si diresse in modo deciso e professionale verso di loro, sorridendo. Si erano chinati per osservare una vetrina accanto alla cassa e avevano preso un magnifico posacenere. Sposati, si disse. Vivono nella Città delle Nebbie Serpeggianti, la nuova esclusiva zona residenziale di Skyline, con vista su Belmont.

«Salve,» disse, e si sentì meglio. I due gli sorrisero con gentilezza, senza la minima aria di superiorità. I suoi oggetti, che erano davvero i migliori del genere in tutta la Costa, li avevano un po’ spaventati; lui se ne accorse e gliene fu grato. Loro capirono.

«Degli esemplari davvero magnifici, signore,» disse il giovane.

Childan si inchinò spontaneamente.

I loro occhi, caldi non solo di umanità ma della gioia condivisa per gli oggetti d’arte che lui vendeva, dei loro gusti e soddisfazioni reciproche, si fissarono su di lui; lo stavano ringraziando perché possedeva cose come quelle, che loro potevano vedere, prendere in mano ed esaminare, magari senza nemmeno acquistarle. , pensò, loro sanno in che tipo di negozio si trovano; qui non c’è paccottiglia per turisti, niente targhe di legno rosso con la scritta muir woods, marin county, s.a.p., strani cartelli, anelli da ragazzina, cartoline o vedute del Ponte. Soprattutto gli occhi della ragazza, grandi, scuri. Basterebbe poco, pensò Childan, per innamorarmi di una ragazza del genere. E come sarebbe tragica la mia vita, allora; come se non lo fosse già abbastanza. Capelli neri ben pettinati, unghie laccate, orecchie forate da cui pendevano lunghi orecchini di ottone fatti a mano.

«I suoi orecchini,» mormorò Childan. «Li ha forse acquistati qui?»

«No,» rispose lei. «In patria.»

Childan annuì. Niente arte contemporanea americana; solo il passato poteva essere rappresentato lì, in un negozio del genere. «Avete intenzione di trattenervi a lungo?» le domandò. «Nella nostra San Francisco?»

«Io sono di stanza qui, a tempo indeterminato» rispose l’uomo. «Lavoro alla Commissione di Indagine per la Pianificazione del Livello di Vita nelle Zone Sinistrate.» Il suo volto tradiva un certo orgoglio. Ma non era un militare. Uno di quegli zotici in divisa che masticavano gomma, con le loro facce avide da contadino, che se ne andavano a zonzo per Market Street guardando a bocca aperta gli spettacoli osceni, i film erotici, il tiro a segno, i locali notturni da quattro soldi con fotografie di biondone di mezza età che si stringevano i capezzoli fra le dita rugose e rivolgevano sorrisi lascivi al passante… i quartieri più malfamati che costituivano gran parte della zona pianeggiante di San Francisco, baracche di lamiera e di legno che erano già spuntate dalle rovine ancor prima che cadesse l’ultima bomba. No… quell’uomo faceva parte dell’élite. Colto, educato, anche più del signor Tagomi, il quale era in fondo un alto funzionario addetto alla Missione Commerciale della Costa del Pacifico. Tagomi era un uomo anziano, e la sua mentalità si era formata ai tempi del Gabinetto di Guerra.

«Cercavate oggetti d’arte etnica della tradizione americana per fare un regalo?» chiese Childan. «O magari volete arredare il nuovo appartamento per la vostra permanenza in questa città?» In questo caso… il suo cuore prese a battere più forte.

«Ha proprio indovinato,» rispose la ragazza. «Stiamo cominciando ad arredare. Ma non abbiamo ancora le idee chiare. Lei pensa di poterci consigliare?»

«Potrei venire nel vostro appartamento, sì,» disse Childan. «Portare diversi esemplari e darvi dei consigli, con vostro comodo. Questa, naturalmente, è la nostra specialità.» Abbassò gli occhi in modo da nascondere la speranza. Poteva essere un affare da migliaia di dollari. «Sto per ricevere un tavolo in acero del New England, tutto con incastri in legno, senza chiodi. Un oggetto di bellezza e valore straordinari. E uno specchio che risale alla Guerra del 1812. Ho anche degli oggetti d’arte aborigena: un gruppo di tappeti in lana di capra, tinto con colori vegetali.»

«Per quanto mi riguarda,» disse l’uomo, «preferisco l’arte delle città.»

«Sì,» disse Childan, premuroso. «Mi ascolti, signore. Ho un pannello proveniente da un vecchio ufficio postale, originale in legno, quattro sezioni, dipinto da Horace Greeley. Un pezzo da collezionista dal valore inestimabile.»

«Ah,» esclamò l’uomo, con gli occhi neri che brillavano per l’interesse.

«E una radio Victrola del 1920 adattata a mobiletto per i liquori.»

«Ah.»

«E ascolti, signore: una fotografia incorniciata di Jean Harlow, con dedica.»

L’uomo sgranò gli occhi.

«Vogliamo accordarci?» disse Childan, rendendosi conto che era il momento psicologicamente adatto. Estrasse dalla tasca interna della giacca una penna e un taccuino. «Prenderò il vostro nome e indirizzo, signori.»

Dopo, mentre la coppia usciva dal negozio, Childan rimase in piedi con le mani dietro la schiena, a guardare la strada. Gioia. Se tutti i giorni fossero come quello… ma era ben più di una questione di affari, del buon andamento del suo negozio. Era l’occasione per conoscere socialmente una giovane coppia giapponese, che lo accettava come uomo invece che come yank o, nel migliore dei casi, come un commerciante che vendeva oggetti artistici. Sì, questi due giovani, della generazione emergente, che non ricordavano i giorni prima della guerra, e nemmeno la guerra stessa… erano loro la speranza del mondo. La diversa provenienza non aveva nessun significato, per loro.

Finirà, pensò Childan. Prima o poi. L’idea stessa della provenienza. Non governanti e governati, ma persone.

Eppure tremava dalla paura, immaginandosi mentre bussava alla loro porta. Controllò i suoi appunti. I signori Kasoura. Sarebbe stato ricevuto, e certamente gli avrebbero offerto del tè. Lui si sarebbe comportato nel modo giusto? Avrebbe saputo come muoversi, come parlare, in ogni momento? O sarebbe caduto in disgrazia, come un animale, commettendo qualche sciagurato passo falso?

La ragazza si chiamava Betty. Quanta comprensione nel suo volto, pensò Childan. Occhi gentili, in grado di capire. Senza dubbio, anche nel breve tempo che si era trattenuta nel negozio, lei aveva colto l’immagine delle sue speranze e delle sue sconfitte.

Le sue speranze… all’improvviso ebbe come un senso di vertigine. Quali aspirazioni aveva, ai confini della follia se non del suicidio? Ma si sapeva, esistevano relazioni fra giapponesi e yank, anche se in genere erano fra un uomo giapponese e una donna yank. Questo… l’idea lo sgomentò. E poi lei era sposata. Scacciò dalla sua mente la sfilata di pensieri involontari e si mise di buona lena ad aprire la posta del mattino.

Si accorse che le sue mani tremavano ancora. Poi gli venne in mente l’appuntamento delle due con il signor Tagomi; a quel pensiero, le mani smisero di tremare e il nervosismo si trasformò in risolutezza. Devo presentarmi con qualcosa di accettabile, si disse. Dove? Come? Che cosa? Una telefonata. Alle fonti. Abilità negli affari. Rimediare una Ford del 1929 completamente revisionata, compreso il tettuccio di stoffa (nero). Un colpo a sensazione, tale da assicurargli una clientela fedele nel tempo. Un trimotore del servizio postale, originale e nuovo di zecca, imballato pezzo per pezzo, scoperto in un granaio dell’Alabama, ecc. La testa mummificata del signor Buffalo Bill, fluenti capelli bianchi compresi; un manufatto americano di sensazionale interesse. Una reputazione tutta da costruire nei circoli degli intenditori più raffinati del Pacifico, comprese le Isole Patrie.

Per farsi venire l’ispirazione, si accese una sigaretta alla marijuana, un eccellente tabacco Land-O-Smiles.


Nella sua stanza di Hayes Street, Frank Frink era a letto e si domandava come avrebbe fatto ad alzarsi. Il sole filtrava attraverso la tapparella sul mucchio di vestiti caduti a terra. Insieme ai suoi occhiali. Li avrebbe calpestati? Meglio tentare di raggiungere il bagno facendo un’altra strada, pensò. Strisciando o rotolando. Aveva un gran mal di testa ma non si sentiva triste. Mai guardarsi indietro, decise. Che ora era? L’orologio era sul cassettone. Le undici e mezza! Santo Dio. Ma rimase a letto.

Sono licenziato, pensò.

Il giorno prima, in fabbrica, aveva commesso un errore. Si era rivolto nella maniera sbagliata al signor Wyndham-Matson, il quale aveva un viso schiacciato e un naso simile a quello di Socrate, un anello con diamante e la lampo dei pantaloni d’oro massiccio. In altre parole, un potente. Un trono. I pensieri di Frank vagavano senza lucidità.

, pensò, e adesso mi metteranno sulla lista nera; le mie capacità non servono a niente. Un’esperienza di quindici anni. Buttata via.

E adesso avrebbe dovuto comparire di fronte alla Commissione di Giustificazione dei Lavoratori per una revisione della sua categoria d’impiego. Visto che non era mai riuscito a comprendere i rapporti fra Wyndham-Matson e i pinoc - il governo-fantoccio bianco di Sacramento — non era in grado di valutare la potenza del suo ex datore di lavoro nei riguardi della vera autorità, i giapponesi. La CGL era una creatura dei pinoc. Lui si sarebbe ritrovato davanti a quattro o cinque facce bianche e grassocce, di mezza età, sul tipo di Wyndham-Matson. Se non fosse riuscito a giustificarsi in quella sede, avrebbe dovuto rivolgersi a una delle Missioni Commerciali Import-Export che operavano fuori Tokyo, e che avevano uffici in California, Oregon, Washington e nelle zone del Nevada comprese negli Stati Americani del Pacifico. Ma se non fosse riuscito a difendersi neppure lì…

La sua testa continuava a elaborare piani mentre lui se ne stava a letto fissando il vecchio lampadario sul soffitto. Per esempio, poteva introdursi clandestinamente negli Stati delle Montagne Rocciose. Ma c’erano rapporti molto stretti con gli Stati Americani del Pacifico, e avrebbero potuto chiedere la sua estradizione. Il Sud, allora? Il suo corpo ebbe un sussulto. Ugh. Quello no. Come bianco avrebbe avuto a disposizione un’ampia varietà di posti, in effetti più di quelli di cui poteva godere negli S.A.P. Ma… quel genere di posti non gli andava a genio.

E poi, peggio ancora, il Sud intratteneva strettissimi legami economici, ideologici e Dio sa che altro, con il Reich. E Frank Frink era ebreo.

Il suo vero nome era Frank Fink. Era nato sulla Costa Orientale, a New York, e nel 1941 era stato arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti d’America, subito dopo il crollo della Russia. Quando i giap avevano preso le Hawaii, lo avevano spedito sulla Costa Occidentale. Alla fine della guerra si era ritrovato lì, sul lato giapponese della linea di divisione. E si trovava ancora lì, quindici anni dopo.

Nel 1947, il Giorno della Capitolazione, era quasi impazzito. Provava un odio viscerale per i giapponesi e aveva giurato vendetta; aveva sepolto trenta centimetri sottoterra, in una cantina, le sue armi d’ordinanza, ben avvolte e oliate, pronte per il giorno in cui lui e i suoi compagni sarebbero insorti. Comunque il tempo si era rivelato la miglior medicina, cosa che lui non aveva preso in considerazione. Se adesso ripensava a quell’idea, il grande bagno di sangue, l’epurazione dei pinoc e dei loro padroni, aveva l’impressione di riguardare uno di quei diari sbiaditi dei tempi del liceo, nei quali si concentravano tutte le sue aspirazioni di adolescente. Frank “Goldfish” Fink vuole diventare un paleontologo e giura che sposerà Norma Prout. Norma Prout era la schönes Mädchen [la ragazza più bella] della classe, e lui aveva davvero giurato di sposarla. Tutto questo era così maledettamente lontano nel tempo, che era come ascoltare Fred Allen o vedere un film di W.C. Fields. Dopo il 1947 aveva probabilmente visto o parlato a seicentomila giapponesi, e il desiderio di fare del male a uno qualsiasi di loro, o a tutti quanti, non si era mai materializzato dopo i primi pochi mesi. Semplicemente non era più una cosa importante.

Ma aspetta. C’era un tizio, un certo signor Omuro, che aveva assunto il controllo di una vasta area di proprietà immobiliari, nel centro di San Francisco, e che per un certo tempo era stato il padrone di casa di Frank. Un gran figlio di buona donna, pensò. Uno squalo che non provvedeva mai alle riparazioni, che divideva le stanze ricavandone altre stanze sempre più piccole, che alzava i prezzi degli affitti… Omuro aveva spolpato i poveri, soprattutto gli ex militari senza lavoro e quasi senza risorse durante la depressione all’inizio degli anni 50. Comunque era stata una delle missioni commerciali giapponesi che aveva chiesto la testa di Omuro per i suoi profitti eccessivi. E al giorno d’oggi una simile violazione della legge civile giapponese, rigida e severa, ma giusta, era impensabile. Era un credito da ascrivere all’incorruttibilità dei funzionari giapponesi di occupazione, specialmente di coloro che erano giunti dopo la caduta del Gabinetto di Guerra.

Ricordando l’austera, stoica onestà delle missioni commerciali, Frink si sentì rassicurato. Anche Wyndham-Matson sarebbe stato allontanato come una mosca fastidiosa, che fosse proprietario o meno della W-M Corporation. O almeno, così sperava. Credo di avere proprio fiducia in questa Alleanza per la Prosperità Comune del Pacifico, si disse. Strano. Ripensando ai primi tempi… allora era sembrato un falso fin troppo evidente. Propaganda senza contenuto. Ma adesso…

Si alzò dal letto e si diresse faticosamente verso il bagno. Mentre si lavava e si radeva ascoltò alla radio il notiziario di metà mattina.

«Non deridiamo quest’impresa,» stava dicendo la radio quando lui chiuse per un attimo l’acqua calda.

No, non deridiamola, pensò amaramente Frank. Sapeva a quale particolare impresa si riferiva il notiziario. Eppure c’era qualcosa di umoristico nell’immagine degli stolidi, burberi tedeschi che passeggiavano su Marte, sulla sabbia rossa che nessun essere umano aveva mai calpestato prima. Insaponandosi le guance, Frink cominciò a canticchiare una satira. Gott, Herr Kreisleiter. Ist dies vielleicht der Ort wo man das Konzentrationslager bilden kann? Das Wetter ist so schön. Heiss, aber doch schön…. [Dio, signor Capo Missione, non è questo il luogo ideale in cui sì può creare un campo di concentramento? Il tempo è proprio bello. Molto caldo, ma bello.]

La radio diceva, «La Civiltà della Prosperità Comune deve fare una pausa e domandarsi se, nella nostra ricerca per fornire una equilibrata parità di doveri e responsabilità reciproche in relazione alle retribuzioni…» Il gergo tipico della gerarchia dominante, notò Frink. «…non abbiamo mancato di individuare l’arena futura in cui gli affari dell’uomo verranno decisi, che si tratti di nordici, giapponesi o negroidi…» E così via su questo tono.

Mentre si vestiva, rimuginò compiaciuto la sua satira. Il tempo è schön, so schön. Ma non c’è niente da respirare…

In ogni caso, era un dato di fatto: il Pacifico non aveva fatto niente per colonizzare i pianeti. Si era immischiato — anzi inguaiato — con il Sud America. Mentre i tedeschi erano impegnati a lanciare nello spazio enormi sistemi di costruzione robotizzati, i giap continuavano a bruciare la giungla all’interno del Brasile, costruendo palazzoni d’argilla di otto piani per gli ex cacciatori di teste. Nel momento i cui i giapponesi fossero riusciti a far sollevare da terra la loro prima astronave, i tedeschi avrebbero già avuto il controllo dell’intero sistema solare. Nei tempi descritti dagli antichi libri di storia, i tedeschi erano arrivati in ritardo, mentre il resto dell’Europa dava gli ultimi ritocchi ai suoi imperi coloniali. Ma stavolta, rifletté Frink, non sarebbero arrivati per ultimi: avevano imparato la lezione.

Poi pensò all’Africa e all’esperimento che i nazisti stavano portando avanti laggiù. E il sangue gli si fermò nelle vene, ebbe un attimo di esitazione, poi riprese a scorrere.

Quell’immensa, vuota desolazione.

La radio diceva, «…comunque dobbiamo considerare con orgoglio il nostro interesse per le fondamentali esigenze fisiche delle popolazioni di tutto il mondo, per le loro aspirazioni subspirituali che devono essere…»

Frink spense la radio. Poi, non appena si fu calmato, la riaccese.

Cristo in croce, pensò. L’Africa. Per gli spiriti delle tribù defunte. Spazzate via per ricavarne una terra di… di che cosa? Chi lo sapeva? Forse non lo sapevano nemmeno gli architetti di Berlino. C’era un esercito di automi, che costruiva e sfacchinava. Costruiva? Maciullava, piuttosto. Orchi spuntati da un museo di paleontologia, tutti intenti nell’operazione di ricavare una tazza dal cranio del nemico: prima l’intera famiglia ne raschiava il contenuto, cioè il cervello crudo, poi se lo mangiava. E inoltre utensili preziosi ricavati dalle ossa delle gambe degli uomini. Un bell’esempio di economia, pensare non solo di mangiare la gente che non ti andava a genio, ma di mangiarla dentro il suo stesso cranio. I primi tecnici! L’uomo preistorico in un camice bianco sterile da laboratorio, all’interno di qualche università berlinese, che faceva esperimenti sugli usi ai quali potevano essere destinati il cranio, la pelle, le orecchie, il grasso di altre persone. Ja, Herr Doktor. Un nuovo impiego per l’alluce; “vede, si può adattare la giuntura per il meccanismo di un accendino a scatto. Ora, se solo Herr Krupp potesse produrne in quantità…”

Quel pensiero lo fece inorridire: l’antico, gigantesco cannibale, quasi-uomo, che adesso prosperava, ed era tornato a governare il mondo. C’è voluto un milione di anni per sfuggirgli, pensò Frink, e lui è tornato. E non come semplice avversario… ma come padrone.

«…possiamo deplorare,» stava dicendo la radio, la voce dei piccoli ventri gialli di Tokyo. Dio, pensò Frink; e li chiamavamo scimmie, questi gamberi civilizzati dalle gambe arcuate che non installerebbero forni a gas più di quanto fonderebbero le loro mogli per ricavarne ceralacca, «…e abbiamo deplorato spesso in passato il terribile spreco di vite umane in questo sforzo fanatico che pone masse sempre più consistenti di uomini del tutto al di fuori della comunità legale.» Loro, i giap, erano così rigidi, in fatto di legge. «…per citare un santo dell’occidente ben noto a tutti: che beneficio ricava un uomo se conquista il mondo intero ma in questa impresa perde la propria anima?» La radio fece una pausa. Anche Frink si fermò, mentre si annodava la cravatta. Era l’ora dell’abluzione mattutina.

Devo trovare un accordo con loro qui, si rese conto. Lista nera o no; per me è la fine, se lascio il territorio controllato dai giapponesi e mi faccio vedere nel Sud o in Europa… in qualsiasi parte del Reich.

Dovrò scendere a patti con il vecchio Wyndham-Matson.

Seduto sul letto, con una tazza di tè tiepido, Frink tirò fuori la sua copia dell’I Ching. Estrasse i quarantanove steli di millefoglie dalla custodia di pelle e si concentrò finché non si sentì in grado di controllare adeguatamente i propri pensieri e non ebbe elaborato le domande.

Disse ad alta voce: «Come devo rivolgermi a Wyndham-Matson in modo da raggiungere con lui un accordo soddisfacente?» Scrisse la domanda sul blocco di carta, poi cominciò a muovere gli steli di millefoglie da una mano all’altra finché non ottenne la prima linea, l’inizio. Un otto. Questo già eliminava la metà dei sessantaquattro esagrammi. Divise gli steli e ottenne la seconda linea. Ben presto, esperto com’era, ebbe tutte e sei le linee; l’esagramma era davanti a lui e non ebbe bisogno di consultare il libro. Era in grado di riconoscerlo come l’Esagramma Quindici. Ch’ien. La Modestia. Ah. Coloro che sono in basso verranno elevati, coloro che sono in alto abbassati, le famiglie potenti umiliate; non fu necessario consultare il testo… lo conosceva a memoria. Un buon auspicio. L’oracolo gli stava fornendo un responso favorevole.

Eppure provò una certa delusione. C’era qualcosa di fatuo nell’Esagramma Quindici. Troppo prevedibile. Doveva per forza essere modesto. Ma forse c’era un’idea, dietro tutto ciò. In fin dei conti lui non aveva alcun potere sul vecchio W-M. Non poteva imporgli di riassumerlo. Tutto ciò che poteva fare era adottare il punto di vista dell’Esagramma Quindici; era quel momento particolare in cui ci si doveva limitare a far domande, sperare e aspettare fiduciosi. Al momento giusto il cielo lo avrebbe risollevato al suo vecchio lavoro o forse anche a qualcosa di meglio.

Non c’erano linee da leggere, nessun nove e nessun sei. Era un esagramma statico. Perciò aveva finito. Non poteva diventare un secondo esagramma.

Ma allora, ecco una nuova domanda. Si preparò e disse a voce alta: «Rivedrò Juliana?»

Era sua moglie, anzi la sua ex moglie. Juliana aveva divorziato da lui un anno prima, e non la vedeva da mesi; anzi non sapeva nemmeno dove abitasse. Evidentemente aveva lasciato San Francisco, forse gli stessi S.A.P. Neanche i suoi migliori amici avevano sue notizie, o forse non volevano riferirgliele.

Maneggiò laboriosamente gli steli di millefoglie, con gli occhi fissi sul punteggio. Quante volte aveva fatto domande su Juliana, in un modo o nell’altro? Ecco l’esagramma, formato dal passivo movimento casuale dei bastoncini. Casuale, eppure radicato nel momento in cui lui viveva, in cui la sua vita era legata a tante altre vite e particelle dell’universo. Il necessario esagramma che tratteggiava, nel suo schema di linee intere e spezzate, la situazione. Lui, Juliana, la fabbrica di Gough Street, le Missioni Commerciali che dettavano legge, l’esplorazione dei pianeti, i miliardi di mucchietti di residui chimici, in Africa, che non erano nemmeno più cadaveri, le aspirazioni di migliaia di persone intorno a lui, nelle squallide conigliere di San Francisco, le creature folli di Berlino con i loro volti impassibili e i progetti maniacali… tutto collegato in quel momento nel quale si gettavano gli steli di millefoglie per selezionare la saggezza appropriata in un libro iniziato nel trentesimo secolo prima di Cristo. Un libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia — e quella scienza — superba, codificata prima ancora che l’Europa avesse imparato a fare le divisioni.

L’esagramma. Il suo cuore ebbe un sussulto. Quarantaquattro. Kou. Il Farsi incontro. Il suo giudizio raggelante. La ragazza è potente. Non bisogna sposare una ragazza del genere. Era venuto fuori di nuovo, in relazione a Juliana.

Vabbé, pensò, rilassandosi. Dunque era la donna sbagliata per me; lo so. Non è questo che ho chiesto. Perché l’oracolo me lo deve ricordare? Un brutto destino, il mio, quello di averla incontrata e di essermi innamorato — di essere ancora innamorato — di lei.

Juliana… la donna più bella che avesse mai sposato. Ciglia e capelli nerissimi, tracce consistenti di sangue spagnolo distribuito come puro colore, perfino nelle labbra. Un’andatura elastica, silenziosa; ai piedi scarpe sportive, un ricordo del liceo. In realtà ogni suo capo d’abbigliamento aveva un aspetto sciupato, e dava la netta impressione di essere vecchio e lavato più volte. Tutti e due erano stati così poveri che, malgrado la sua bella figura, Juliana era stata costretta a indossare una camicetta di cotone, una giacca di tela con chiusura lampo, una gonna marrone di tweed e calze fino al ginocchio, e odiava sia lui che quell’abbigliamento perché, diceva, la faceva sembrare come una donna che giocasse a tennis o (peggio ancora) che andasse a raccogliere funghi nei boschi.

Ma al di là di tutto, era stato inizialmente attratto dalla sua espressione singolare; senza una ragione particolare, Juliana accoglieva gli estranei con un portentoso, imbarazzante sorriso da Monna Lisa che li lasciava in sospeso tra reazioni contrastanti, indecisi se salutare o no. E lei era così attraente che il più delle volte decidevano di salutare, mentre Juliana si dileguava. Inizialmente lui aveva pensato che si trattasse di un semplice problema visivo, ma alla fine aveva deciso che tradiva invece una profonda, intima stupidità, altrimenti ben nascosta. E così, in conclusione, quel suo modo sfarfallante di salutare gli estranei gli era venuto a noia, così come quel suo modo di andare e venire senza rumore, senza apparente movimento, del tipo devo-fare-qualcosa-di-misterioso. Ma anche allora, verso la fine, lui non l’aveva mai vista se non come una invenzione diretta, letterale di Dio, calata nella sua vita per motivi che non avrebbe mai conosciuto. E per quella ragione — per una specie di intuizione religiosa, o per una grande fede in lei — non riusciva a darsi pace per averla perduta.

Adesso sembrava così vicina… come se fossero ancora insieme. Quello spirito, ancora vivo e presente nella sua vita, che frugava nella sua stanza in cerca di… di qualunque cosa Juliana stesse cercando. E dentro la sua mente, ogni volta che prendeva i volumi dell’oracolo.

Seduto sul letto, circondato da un desolato disordine, mentre si preparava per uscire e cominciare la sua giornata, Frank Frink si domandò chi mai in quello stesso momento, nella vasta, complessa città di San Francisco, stesse consultando l’oracolo. E se tutti ottenevano il suo stesso triste responso. E il tenore del Momento era negativo per loro come per lui?

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