Bob Shaw Cosmo selvaggio

Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le sue strade e i brillanti occhi del pericolo.

Robert Louis Stevenson

1

Candar dovette aspettare settemila anni prima di vedere la sua seconda astronave.

Era poco più di un cucciolo quando aveva visto la prima, ma il ricordo di quell’avvenimento era ancora vivo e presente nella sua memoria. Era una mattina calda e umida; suo padre e sua madre avevano appena cominciato a razziare un villaggio di cibo a due gambe. Candar stava osservando tranquillamente i loro grandi corpi grigi al lavoro, quando i suoi sensi acuti lo avvertirono dell’avvicinarsi di qualcosa di molto grande, qualcosa che gli era completamente estraneo. Allarmato, alzò la testa, ma i suoi genitori, che avevano i sensi annebbiati per l’odore del cibo, non si accorsero della minaccia finché non la videro.

La nave volava bassa, così veloce che l’aria umida veniva compressa in opache nuvole grigie all’interno delle onde d’urto create dal suo muso tozzo. Le nuvole le svolazzavano intorno come un mantello cencioso, nascondendola e rivelandola alternativamente alla vista. Candar si chiese come fosse possibile che qualcosa si muovesse a quella velocità senza provocare alcun rumore. Per un attimo restò paralizzato al pensiero che l’universo contenesse esseri i cui poteri erano uguali, o forse superiori, a quelli degli appartenenti alla sua specie.

Soltanto dopo che la grande nave gli fu passata sopra la testa venne il rumore, spaventoso, che rase al suolo le fragili capanne del cibo più brutalmente ancora di quanto avrebbero potuto fare suo padre e sua madre. La nave fece una brusca virata, si fermò alta nell’aria mattutina, e improvvisamente Candar e i suoi genitori vennero sollevati in cielo. Candar si accorse di essere imprigionato in un campo di forza. Ne misurò gli intervalli di frequenza, le lunghezze d’onda, i gradienti di intensità, e scoprì perfino che il suo cervello poteva produrre un campo analogo… ma non riuscì a liberarsi dai legami invisibili che gli avevano imprigionato il corpo.

Lui e i suoi genitori vennero risucchiati verso l’alto, dove il cielo era nero e si poteva udire la voce delle stelle. Il sole si fece rapidamente più grande, poi, dopo qualche tempo, suo padre e sua madre vennero liberati. Sparirono dalla vista in pochi secondi e Candar, che si stava già adattando al nuovo ambiente, ne dedusse che erano stati lanciati su una rotta che sarebbe finita nella fornace brillante del sole. A giudicare dai loro sforzi frenetici per liberarsi, mentre rimpicciolivano nel vuoto, anche loro avevano raggiunto le stesse conclusioni.

Candar smise di pensare a loro e cercò di anticipare il proprio destino. C’erano molte creature senzienti nella nave, e presentavano un alone di vita non molto diverso da quello delle creature-cibo, ma erano troppo lontani e troppo ben protetti perché potesse esercitare qualche influsso sulle loro azioni. Quando vide il sole rimpicciolire fino a confondersi con le altre stelle smise di agitarsi e di contorcersi inutilmente. Da allora il tempo cessò di aver significato per Candar.

Restò in stato di quiete finché non si accorse di una stella doppia che si faceva più brillante, oscurando tutte le sue vicine. Il sistema continuò a ingrandire, e alla fine si trasformò in due soli che si corteggiavano l’un l’altro come in una danza rituale. La nave individuò un pianeta di roccia nera che ruotava fra i due soli su un’orbita precaria e fortemente ellittica. Qui, molto al di sopra della superficie arida del pianeta, disattivò il campo di forza con cui teneva prigioniero Candar. Soltanto trasformando il suo corpo in una matassa di corda organica lui riuscì a sopravvivere alla caduta. E prima che fosse riuscito a riformare i suoi organi sensori, la nave era sparita.

Candar sapeva di essere stato imprigionato. Sapeva anche che su quel mondo, completamente privo di cibo, prima o poi sarebbe morto, e non poteva fare altro che attendere il verificarsi di quell’evento impensabile.

Il suo nuovo mondo completava la sua faticosa corsa fra i due soli in un anno. Ogni volta, la roccia nera fondeva e scorreva come fango, e niente poteva sopravvivere, tranne Candar.

E passarono settemila anni prima che vedesse la sua seconda astronave.


La cosa che Dave Surgenor detestava maggiormente sui pianeti ad alta gravità era la velocità con cui scendevano le gocce di sudore. Un rivoletto si formava sulla fronte, e con la foga di un insetto malevolo gli scorreva lungo la guancia e sotto il colletto prima che avesse il tempo di alzare una mano per asciugarsi. In sedici anni passati al Servizio Cartografico non era ancora riuscito ad abituarcisi.

— Se questo non fosse il mio ultimo viaggio — disse Surgenor asciugandosi il collo — mi rifiuterei di farne altri.

— Il senso di questa affermazione mi sfugge — disse Victor Voysey. — Avrei bisogno di tempo per pensarci. — Victor era alla sua seconda missione. Teneva gli occhi fissi sui controlli del modulo d’esplorazione; il visore anteriore, da alcuni giorni ormai, non mostrava altro che sterile roccia vulcanica, in increspature regolari che si succedevano senza fine davanti ai fari del veicolo, ma Voysey non staccava gli occhi dalla scena, come un turista in crociera su un mondo esotico e affascinante.

— Avrai tutto il tempo che vuoi — disse Surgenor. — Se c’è una cosa che non ti mancherà mai in questo lavoro è il tempo di startene seduto a girare i pollici e a pensare. Soprattutto a pensare a qualche buona ragione per non licenziarti alla prima occasione… e ti assicuro che ci vuole una fantasia non indifferente.

— I soldi — disse Voysey cercando di assumere un’aria cinica.

— Ecco perché tutti quanti firmano. E restano.

— Non ne vale la pena.

— Sarò d’accordo con te quando mi sarò messo da parte un malloppo come il tuo.

Surgenor scosse la testa. — Stai facendo un terribile errore, Victor. Stai vendendo la tua vita, l’unica vita di cui disponi, per i soldi, per il privilegio di spostare di qualche elettrone la posizione nel computer di una banca. È un cattivo affare, Victor. Per quanto denaro tu metta da parte, non riuscirai mai a ricomprare questo tempo.

— Il tuo guaio, Dave, è che stai… — Voysey esitò e cercò di cambiare il giro della frase — …ti sei dimenticato cosa vuol dire avere bisogno di soldi.

— Stai invecchiando, volevi dire — disse Surgenor, ridendo. Poi decise di cambiare discorso. — Facciamo una scommessa: dieci crediti a uno che vedremo la nave dalla cima di questa collina.

— Di già? — Voysey, ignorando l’offerta, si chinò in avanti e azionò i comandi del telemetro automatico.

Surgenor, sorridendo per l’eccitazione del suo giovane collega, cercò una posizione più comoda sul sedile imbottito. Sembrava fossero passati secoli da quando la nave madre aveva fatto sbarcare i sei moduli di esplorazione al polo sud del pianeta nero, ed era sparita nel cielo come un fantasma, diretta verso il polo nord. La nave ci aveva messo meno di un’ora per arrivare. Gli uomini sui moduli avevano dovuto penare per dodici giorni, a tre G, mentre le macchine zigzagavano sulla superficie del pianeta. Se ci fosse stata un’atmosfera avrebbero potuto utilizzare la propulsione a sospensione e viaggiare due volte più in fretta; ma il pianeta, uno dei meno ospitali che Surgenor avesse mai visto, non faceva nessuna concessione ai visitatori indesiderati.

Il modulo di esplorazione raggiunse la cima della collina, e l’orizzonte, cioè la linea che separava un’oscurità stellata da un’oscurità morta, si abbassò bruscamente di fronte a loro. Surgenor vide il grappolo di luci della nave madre, la Sarafand, a circa dieci chilometri di distanza, nella pianura.

— Avevi ragione tu — disse Voysey, e Surgenor trattenne un sorriso sentendo il tono di rispetto nella sua voce. — Credo anche che saremo i primi a tornare. Non vedo nessun’altra luce.

Surgenor annuì, scrutando la pozza di oscurità alla ricerca delle lucciole striscianti che avrebbero indicato l’arrivo degli altri veicoli. Teoricamente, tutti e sei i moduli avrebbero dovuto trovarsi esattamente alla stessa distanza dalla Sarafand, lungo le rispettive rotte disposte secondo un cerchio perfetto. Durante la maggior parte del tragitto i veicoli avevano rispettato il programma d’esplorazione, in modo che i dati trasmessi raggiungevano la nave madre da sei punti egualmente distanti. Qualsiasi deviazione dal programma avrebbe causato una distorsione nelle mappe planetarie che il computer di bordo stava compilando. Ma siccome gli strumenti dei moduli avevano un raggio minimo d’azione di cinquecento chilometri, quando giungevano a quella distanza dalla nave madre il territorio rimanente era già stato esaminato sei volte diverse, e il lavoro era ampiamente finito. Per tradizione, l’ultimo tratto di una missione cartografica si trasformava in una gara a chi arrivava primo, con champagne per i vincitori, e congrue deduzioni di salario per gli altri.

Il Modulo Cinque, il veicolo di Surgenor, era appena passato a fianco di una catena di picchi bassi ma accidentati, e c’era da aspettarsi che almeno due degli altri moduli sarebbero stati costretti a superarli, perdendo tempo. Malgrado tutti gli anni e gli anni-luce, Surgenor sentì rinascere dentro di sé lo spirito della competizione. Sarebbe stato piacevole, anche se non del tutto appropriato, finire la sua carriera nel Servizio Cartografico con un brindisi a base di champagne.

— Una bella doccia e una coppa di champagne… cosa si potrebbe desiderare di più?

— Be’, lasciando perdere le battute di cattivo gusto, ci sarebbero una bistecca, una donna e una dormita…

Si interruppe quando la voce del Capitano Aesop, da bordo della Sarafand, echeggiò attraverso l’altoparlante montato sopra gli schermi visori.

Sarafand a tutti i moduli di esplorazione. Sospendete l’avvicinamento. Spegnete i motori e restate dove siete finché non riceverete nuove istruzioni. È un ordine.


Prima che la voce di Aesop si fosse spenta, il silenzio radio che era stato osservato durante tutta la corsa verso casa venne interrotto da commenti sorpresi e irritati da parte degli equipaggi degli altri moduli. Surgenor provò un vago senso di allarme. A giudicare dalla voce di Aesop, sembrava che fosse successo qualcosa di serio. Intanto il Modulo Cinque continuava sobbalzando il suo cammino nell’oscurità della pianura polare.

— Deve esserci stato qualche errore nelle procedure cartografiche — disse Surgenor. — Comunque, è meglio spegnere i motori.

— Ma è assurdo! Deve avergli dato di volta il cervello, a Aesop. Che errore vuoi che ci sia? — Voysey era indignato. Non fece nessun cenno di toccare i comandi.


Senza preavviso, un colpo di ultralaser della Sarafand illuminò la notte di frammenti abbaglianti, mentre il fianco della collina eruttava verso il cielo di fronte al Modulo Cinque. Voysey frenò di colpo, e il veicolo si fermò sull’orlo del cratere incandescente lasciato dall’ultralaser. Una pioggia di rocce colpì il tetto, con un rumore assordante, poi silenzio.

— Te l’ho detto che Aesop è impazzito — disse Voysey sbalordito.

— Perché l’ha fatto?

Surgenor schiacciò il bottone che lo metteva in contatto con la nave madre.


— Aesop. Qui Surgenor, del Modulo Cinque — disse. — È meglio che tu ci dica cosa sta succedendo.

— Intendo tenere pienamente informati i membri dell’equipaggio.

— Vi fu una pausa, poi Aesop riprese: — Il problema è questo: sono usciti sei moduli di esplorazione… e ne sono tornati sette. Non mi sembra il caso di dirvi che ce n’è uno di troppo.


Con una fitta di terrore, Candar si rese conto di aver commesso un errore. La sua paura non nasceva dal fatto che gli stranieri avessero scoperto la sua presenza fra di loro, e neppure che avessero armi ragionevolmente potenti, ma dal sapere di aver commesso un errore così elementare ed evitabile. Il lento processo di deterioramento fisico e mentale doveva essere giunto ad un punto molto più avanzato di quanto avesse immaginato.

Il compito di ristrutturare il suo corpo in modo che sembrasse una delle macchine mobili era stato difficile, ma non quanto lo sforzo che aveva dovuto fare per organizzare le sue cellule in modo da sopravvivere quando i due soli ingigantivano, e splendevano insieme nel cielo. Il suo errore era stato di permettere alla macchina di cui aveva assunto la forma, di giungere alla portata dell’apparecchio rilevatore posto all’interno della grande macchina verso cui si dirigevano tutte le altre. Aveva permesso alla piccola macchina di allontanarsi da lui, mentre attraversava il doloroso processo di trasformazione e poi, quando aveva cominciato a seguirla, si era reso conto della pioggia pulsante di elettroni che scorreva su di lui.

Per quanto divorato da una fame atroce, Candar aveva analizzato lo spruzzo di particelle sottili, e si era reso conto quasi immediatamente che erano emesse da un sistema di sorveglianza. Avrebbe dovuto capirlo subito che creature con organi sensori così deboli avrebbero cercato di inventare qualcosa per allargare la loro percezione dell’universo. Soprattutto creature che si erano date la pena di costruire veicoli così complicati. Per un attimo considerò la possibilità di assorbire tutti gli elettroni che toccavano la sua pelle, rendendosi in tal modo invisibile al dispositivo di avvistamento, ma decise che una simile linea d’azione avrebbe mandato a monte i suoi piani. Era ormai nel raggio visivo della macchina più grande, e se avesse mostrato caratteristiche fuori dell’ordinario si sarebbe fatto immediatamente identificare dagli osservatori.

La preoccupazione di Candar cominciò ad attenuarsi mentre un’altra parte del suo sistema sensorio raccoglieva le vibrazioni di paura e di sgomento che emanavano dalle menti delle creature nella macchina che gli era più vicina. Menti come quelle, per di più rinchiuse in corpi così fragili, non potevano creargli problemi seri. Doveva solo aspettare la prima occasione, che senza dubbio gli si sarebbe presto presentata.

Restò accucciato sul terreno irregolare della pianura, con la maggior parte degli elementi metallici del suo sistema trasferiti alla periferia della sua nuova forma, identica a quella delle macchine mobili. Una frazione della sua energia veniva utilizzata per produrre la luce che emetteva davanti a sé, mentre un’altra frazione minima provvedeva a controllare le radiazioni riflesse dalla sua pelle, camuffando in tal modo la sua vera identità.

Era Candar, l’unità individuale più intelligente, dotata e potente dell’universo. Doveva solo aspettare.


I comunicatori standard che equipaggiavano i veicoli da esplorazione cartografica, nonostante le loro piccole dimensioni, erano apparecchi piuttosto efficienti. Surgenor non ne aveva mai visto uno andare in sovraccarico, prima; ma subito dopo l’annuncio di Aesop le comunicazioni si interruppero, mentre gli uomini di tutti i moduli reagivano con esclamazioni di sorpresa o incredulità. Un meccanismo inconscio di difesa gli fece fissare con stupore l’altoparlante, mentre un’altra parte della sua mente assimilava le parole di Aesop.

Un settimo modulo era comparso in un mondo senz’aria, non solo inabitabile, ma, nel senso più stretto della parola, sterile. Neppure il batterio o il virus più resistente potevano sopravvivere agli enormi sbalzi di temperatura a cui era sottoposto Prila I nell’orbita attorno al suo sole doppio. Era del tutto impensabile che un veicolo avesse potuto attendere l’arrivo della Sarafand; eppure così diceva Aesop… e Aesop non faceva mai errori. L’incrociarsi di voci dall’altoparlante si calmò all’improvviso quando Aesop parlò di nuovo.

— Sarei felice di sentire i vostri suggerimenti a proposito della nostra prossima mossa, ma preferirei che parlaste uno alla volta.

La nota di rimprovero nella voce del Capitano fu sufficiente a ridurre il fracasso a un mormorio di fondo, ma Surgenor avvertì negli altri un senso crescente di panico. Il guaio era che la guida di un modulo cartografico di superficie non era mai diventata una vera professione, per il semplice fatto che era troppo facile. Era solo un lavoro altamente redditizio a cui si dedicavano per due o tre anni giovani svegli, che intendevano guadagnare un po’ di soldi per buttarsi negli affari, e al momento di firmare il contratto chiedevano praticamente una garanzia scritta che non ci sarebbe stata nessuna interruzione in quella lucrosa routine. Ora, di fronte a una situazione imprevista e incomprensibile, erano preoccupati. Il loro lavoro era stato creato in gran parte dalle pressioni sindacali: sarebbe stato facile automatizzare i moduli d’esplorazione allo stesso modo della nave madre… ma alla prima occasione di dover agire di propria iniziativa di fronte a un evento imprevisto (e questa era stata la ragione di fondo portata avanti dai sindacati), si mostravano risentiti e spaventati.

Surgenor provò un istante di irritazione nei confronti dei suoi compagni, poi si ricordò che anche lui aveva intenzione di intascare i soldi e di tagliare la corda. Si era arruolato sedici anni prima, insieme a due suoi cugini appassionati dello spazio, che erano rimasti sette anni, prima di lasciare il servizio per dedicarsi al noleggio di attrezzature. Aveva investito la maggior parte dei suoi risparmi nella loro impresa, ma ormai la pazienza di Cari e Chris era giunta al limite, e l’avevano messo di fronte a un ultimatum: o prendeva parte attiva alla conduzione dell’azienda, oppure gli avrebbero ricomprato la sua quota. Per questo aveva presentato le dimissioni al Servizio Cartografico. A trentasei anni, era arrivato il momento di sistemarsi, dedicarsi al lavoro di tavolino, andare ogni tanto a pescare e a teatro, e trovarsi una donna con cui andare ragionevolmente d’accordo. Surgenor doveva ammettere che quella prospettiva non era affatto spiacevole. Peccato che proprio al suo ultimo viaggio fosse saltato fuori un Modulo Sette.

— Se c’è un settimo modulo, Aesop — intervenne Al Gillespie del Tre — vuoi dire che qui c’è stata un’altra astronave da esplorazione prima di noi. Forse per un atterraggio di emergenza.

— No — rispose Aesop. — Il livello di radiazioni del pianeta porta ad escludere categoricamente questa possibilità. E poi la nostra è l’unica spedizione in programma nel raggio di trecento anni-luce.

Surgenor schiacciò il pulsante che lo metteva in comunicazione con la nave madre. — Lo so che non è un’ipotesi molto diversa da quella di Al, ma hai controllato se c’è qualche installazione sotterranea?

— La mappa del pianeta non è ancora completa, ma ho controllato accuratamente tutti i dati geognostici. Risultato negativo.

Parlò di nuovo Gillespie. — Mi sembra di capire che questo cosiddetto modulo non ha cercato di mettersi in comunicazione con la Sarafand o con gli equipaggi degli altri moduli. Perché?

— Posso solo supporre che stia cercando deliberatamente di mescolarsi con voi per potersi avvicinare alla nave. Per il momento, non saprei dire perché; ma la cosa non mi piace.

— Cosa possiamo fare? — La domanda venne posta contemporaneamente e in forme diverse dalla maggior parte degli uomini.


Vi fu una lunga pausa prima che Aesop parlasse. — Ho ordinato a tutti i moduli di fermarsi perché non intendo rischiare la perdita della nave, ma una considerazione attenta della situazione mi porta a concludere che è necessario correre qualche rischio. Posso vedere solo tre moduli, e dal momento che la formazione regolare è stata rotta durante gli ultimi cinquecento chilometri non sono in grado di identificarvi per mezzo della posizione. O almeno, non con una precisione sufficientemente alta. Perciò permetterò a tutti i moduli, tutti e sette, di avvicinarsi alla nave per un’ispezione visuale. La distanza minima fra la nave e ciascun modulo sarà di mille metri. Chiunque cercherà di avvicinarsi oltre questo limite, anche di un solo metro, verrà distrutto. Non darò nessun preavviso, perciò ricordate: mille metri. Iniziate l’avvicinamento.

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