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Giovedì 25 luglio 2002


Prima di uscire, Falcón si fermò a prendere il fascicolo di Sebastián Ortega per portarselo a casa. In ufficio Ramírez stava ancora battendo al computer il rapporto, con due dita tozze e impacciate. Cristina Ferrera aveva parlato con la compagnia telefonica e aveva scoperto che l’ultima telefonata ricevuta dai Vega era quella di Consuelo Jiménez, verso le undici di sera; aveva già scritto il rapporto ed era uscita. Falcón sedette di fronte a Ramírez, il quale fissava lo schermo come un critico che stesse inserendo commenti particolarmente velenosi in una recensione.

«C’è qualcosa che dovrei sapere sugli affari di Rafael Vega?»

«Impiegava manodopera russa e ucraina», rispose Ramírez. «Qualcuno legalmente, come Sergei, qualcun altro no.»

«Come ha fatto a sapere della manodopera illegale?»

«Non si sono presentati al lavoro oggi… o meglio, quando l’hanno fatto, sono stati mandati via, il che ha lasciato due cantieri con pochissimi muratori.»

«E gli uffici?»

«Vásquez non ha voluto farceli perquisire senza un mandato, ma su Sergei è stato molto accomodante.»

«Ha fatto commenti sulla manodopera?»

«Non lo riguarda, non si occupa dell’andamento quotidiano della Vega Construcciones, è solo il legale della società… senza poteri esecutivi nel consiglio di amministrazione: esecutivi lo sono diventati dopo la morte di Vega.»

«Ha parlato con il contabile, il signor Dourado?»

«Il ‘ragazzo d’oro’? Dourado? Sì, l’abbiamo visto. Ci ha spiegato la situazione della società e ci ha mostrato i libri contabili.»

«Ha spiegato come veniva giustificata la presenza della manodopera illegale nella contabilità?»

«Non siamo scesi in dettagli a questo punto dell’indagine. Abbiamo parlato in termini più generali della struttura, controllando che la società fosse solvibile, se vi fossero bombe a orologeria finanziarie o se gli utili fossero assorbiti da penali particolarmente gravose in qualche progetto.»

«Mi parli della struttura della società.»

«La Vega Construcciones è una holding che comprende una varietà di progetti separati. Ognuno di questi è una società a sé stante, con il suo consiglio di amministrazione comprendente un rappresentante della Vega Construcciones, un rappresentante degli investitori e un rappresentante dell’istituto che fornisce il supporto finanziario. Suppongo sia per impedire che un progetto finito male possa coinvolgere tutta la società», spiegò Ramírez. «Comunque sia, gli utili della holding sono stati discreti negli ultimi tre anni e non sembra che in qualche progetto le cose andassero male. Non c’era segno di una catastrofe imminente. Se è stato un problema di lavoro a causare la morte di Vega, è più probabile che abbia avuto a che fare con i soci nell’impresa.»

«Ha visto qualche nome?»

«Non ancora. E come è andata all’Instituto?» domandò Ramírez.

«Dia un’occhiata quando avrà finito. Non c’è niente di veramente consistente che possa convincere un magistrato a considerarlo un omicidio. Dovremo darci molto da fare per trovare un movente interrogando i tre vicini di Vega, che a quanto pare traevano un vantaggio dal loro rapporto con lui e che ieri notte dormivano tutti quanti nel loro letto, come prevedibile. Per questo dobbiamo trovare Sergei. È stato il più vicino alla scena del delitto. Se qualcuno ha visto qualcosa, quel qualcuno è lui.»

«Non ho ancora esaminato il passaporto, ma una persona assolutamente innocente non tiene un documento falso nel freezer», osservò Ramírez. «Ci sono quei tizi che sono passati davanti alla casa, Inspector Jefe, con una targa rubata. E l’odore dei russi è molto forte nella Vega Construcciones. Perciò sappiamo già che in questo caso c’è puzza di bruciato. Scopriamo qualcosa ogni giorno e alla fine una di queste cose ci darà un movente.»

«Devo andare», annunciò Falcón guardando l’orologio.

«Ah, già, è la sera della strizzacervelli. Forse dovrei andarci anch’io», disse Ramírez, sorridendo divertito. «Potrebbe aiutarmi a sciogliere qualche nodo qui dentro», soggiunse, battendosi un dito sulla tempia.

«Ancora nessuna notizia di sua figlia?»

«No, finché gli esami non saranno completati.»

Falcón si diresse a Calle Bailén: aveva bisogno di un’altra doccia e di rilassarsi prima di vedere Alicia Aguado. Entrando in casa ebbe la stessa sensazione di disagio della sera prima e di nuovo si scoprì a tendere le orecchie.

Buttò il fascicolo Ortega sulla scrivania dello studio e salì al piano superiore, fece la doccia e si infilò i jeans e una maglietta nera, poi scese in cucina e bevve un bicchiere d’acqua. Nello studio si sdraiò sulla chaise longue, fece qualche esercizio di respirazione e stava cominciando a sentirsi più disteso quando qualcosa sul pannello dietro la scrivania attrasse il suo sguardo, lasciandolo paralizzato dalla paura, qualcosa che non era lì qualche ora prima. Si alzò con movimenti cauti, come se muoversi furtivamente fosse importante, si avvicinò camminando curvo alla scrivania e vi si appoggiò. Sul pannello spiccava una fotografia di Inés. Vi era stata fissata con uno spillo dalla capocchia rossa di plastica. E lo spillo le perforava la gola.


Alle nove e mezzo di sera era seduto nel divanetto a forma di esse nello studio di Alicia Aguado, il polso stretto tra le dita della psicologa, che ricorreva sempre più spesso a questa tecnica ora che aveva perso del tutto la vista per una retinite pigmentosa.

«Lei è stanco», gli disse Alicia Aguado.

«Sono alla fine del secondo giorno di una nuova indagine. Una doppia morte e una quantità di sconvolgimenti emotivi.»

«È di nuovo ansioso.»

«Ho fatto un’altra volta il sogno delle feci, durante la siesta. Mi succede sempre di pomeriggio.»

«Abbiamo già parlato di quei sogni. Dunque perché l’ansia?»

«Questa volta il sogno è stato diverso, mi sono svegliato con un’idea chiara in mente e un forte senso di determinazione.»

Le disse di Sebastián Ortega, di ciò che sapeva del caso (compreso lo stato della casa di Pablo Ortega) e di quanto aveva scoperto in seguito da Montes.

«Succede spesso?» domandò la psicologa.

«Molto spesso elementi di prova che non sono ammissibili in tribunale dimostrano inequivocabilmente la colpevolezza degli imputati», rispose Falcón sulla difensiva, «e allora la polizia e l’accusa sfruttano sfumature e enfasi per assicurarsi la sentenza ‘giusta’.»

«Ma non è questo il caso, vero? Qui una vittima è stata manipolata per farle modificare una deposizione. Chi era il giudice?»

«Che l’imputato dovesse essere condannato era pacifico, però volevano che avesse il massimo della pena. Ma… non voglio entrare in particolari o fare nomi. Il punto è che non sapevo nulla di tutto questo prima del sogno, eppure mi sono svegliato con la sensazione fortissima di dover aiutare quel ragazzo, che peraltro non ha nessun legame con me.»

«È una cosa buona.»

«Lo penso anch’io. L’aspetto più noioso della depressione è la quantità di tempo che si è costretti a passare con se stessi», disse Falcón. «Sono contento di non essere più così assorbito dalla mia persona.»

«Che cosa l’ha portata a interessarsi di Sebastián Ortega?»

«Esistono a questo proposito collegamenti interessanti. Pablo Ortega conosceva Francisco Falcón, era suo amico. Aveva perfino conosciuto me, quando avevo diciott’anni, ma io non lo ricordo. Come Francisco, anche lui ha fascino ed è capace di furie tremende. Inoltre mi ha detto cose che sono risultate non vere, mi è stato molto difficile districare la verità dalla finzione. Può darsi che stia nascondendo qualcosa a se stesso. In un colloquio con un’altra persona questa mi ha detto di averlo sempre ritenuto un omosessuale o un asessuale.»

«Mio Dio… stiamo davvero parlando di Pablo Ortega l’attore, non è vero?»

«Sì, ma la prego di non correre al Diario de Sevilla», disse Falcón. «Si suiciderebbe, se saltasse fuori una cosa del genere.»

«Riesco a vedere i paralleli con la sua situazione.»

«Credo di essermi identificato inconsciamente in Sebastián, e questo spiega perché lo voglio aiutare.»

«E cioè?»

«Perché è me stesso che voglio aiutare.»

«Bene, Javier. Ora torniamo a Pablo Ortega.»

«Quella cosa della sua omosessualità, in realtà non è affatto provata. È solo l’opinione di una persona con la quale ho parlato.»

«Non è questo che mi interessa», ribatté Alicia Aguado. «Perché Pablo Ortega si è arrabbiato tanto?»

«Era furioso con il Juez Calderón…»

«Allora era lui il giudice nel caso di Sebastián Ortega?»

«Ahi, mi ha scoperto!»

«Ho pensato che potesse esservi sotto qualcosa di più complicato.»

«Ammesso che ci sia, non so che cosa sia.»

«Al tempo delle indagini sul delitto Jiménez, ricordo di averle sentito dire che il giudice Calderón le piaceva. Mi aveva detto che era una delle poche persone con le quali avrebbe potuto fare amicizia qui, dopo Barcellona.»

«È stato prima che sapessi che si vedeva con Inés.»

Le dita di Alicia Aguado si staccarono di colpo dal polso mentre Falcón pronunciava quel nome.

«È successo qualcosa con Inés?»

«Ieri lui mi ha detto che stanno per sposarsi. Sono stato sul punto di telefonarle, Alicia.»

«Abbiamo già risolto la questione di Inés.»

«Pensavo di sì.»

«Prevedeva che si sarebbero sposati e mi ha detto che aveva accettato la cosa.»

«L’idea, sì.»

«E la realtà è diversa?»

«Sono rimasto sorpreso da come la notizia mi ha turbato.»

«Lo supererà.»

«Per questo non le ho poi telefonato», disse Falcón. «Ma proprio quando stavo per venire qui stasera, ho trovato una fotografia di Inés fissata al pannello dietro la mia scrivania con uno spillo rosso nella gola.»

Silenzio. A Falcón parve che Alicia rabbrividisse.

«È stato lei a farlo?»

«È questo che mi preoccupa», rispose Falcón. «Non lo so.»

«Pensa di averlo potuto fare inconsciamente?»

«Non ho nemmeno riconosciuto la fotografia.»

«Ha scattato altre foto?»

«Ho comprato una macchina digitale la settimana scorsa. Fino a ieri il lavoro mancava e sono uscito spesso a fotografare in strada per imparare a usarla. Poi ho scaricato le immagini nel computer, ne ho cancellate alcune, stampate altre, buttato via qualcosa. Insomma, mi ci sono divertito. Perciò… non… non posso essere certo. Forse l’ho fotografata senza accorgermene. Non abitiamo tanto distanti, spesso la incontro, come succede a Siviglia.»

«Chi altri avrebbe potuto arrivare a quel pannello?»

«Non so. Ieri sera ho bevuto molto e mi sono addormentato come un sasso…»

«Non deve pensarci troppo», disse Alicia Aguado.

«Ma che cosa pensa che significhi? Non mi piace l’idea che la mia mente agisca in modo indipendente da me. È quello che succedeva a una delle vittime della mia indagine attuale.»

Falcón parlò dello strano biglietto trovato nella mano di Vega, del fatto che l’uomo aveva ricalcato la scrittura.

«Il lato positivo di questo episodio è che sembra indicare come lei, fissando Inés con uno spillo nella gola al pannello, si stia liberando dal potere che crede quella donna abbia su di lei.»

«Be’, questa è solo una delle interpretazioni possibili. Potrebbero essercene altre più oscure.»

«Non ci pensi. Sta facendo passi avanti, non si fermi proprio adesso.»

«D’accordo, parliamo d’altro… di Sebastián Ortega. Che ne pensa del suo comportamento, dal punto di vista psicologico?»

«Avrei bisogno di sapere molte più cose su di lui e sul caso, prima di azzardare un parere.»

«La mia teoria è che stesse vivendo una situazione ideale, che volesse essere per il bambino ciò che avrebbe voluto fosse stato suo padre per lui.»

«Non posso fare commenti.»

«Non le chiedo un’opinione professionale.»

«E io non do pareri amatoriali.»

«Okay, e allora di che cosa parliamo che non sia Inés?»

«Mi parli ancora del Juez Calderón.

«Non so più che cosa pensare di lui, sono confuso. All’inizio ero stato attratto dalla sua intelligenza e dalla sua sensibilità, poi ho scoperto che aveva una relazione con Inés, una cosa di cui non ho potuto e non posso parlare con lui. Ora stanno per sposarsi. Ho visto la sua stella innalzarsi costantemente, ma qualcuno sostiene che sia la vanità il motore delle sue azioni…»

«Credo che abbia tralasciato qualcosa.»

«Non mi pare.»

«Il Juez Calderón le ha fatto qualcosa?»

«Non a me», precisò Falcón. «Non posso parlarne per ora.»

«Nemmeno con la psicoterapeuta che vede da oltre un anno?»

«No… non ancora. Non posso essere certo, potrebbe trattarsi di un episodio di follia ormai dimenticato, oppure potrebbe essere stato intenzionale.»

«Un torto a qualcuno?»

«Non si tratta di un torto, esattamente… anche se in un certo senso lo sembra. Posso soltanto assicurarle che non ha niente a che vedere con me.»

La seduta finì poco dopo, ma prima di accompagnare Javier alla porta, Alicia Aguado fece una deviazione verso un armadietto, armeggiò al suo interno e tirò fuori un registratore.

«Non mi dispiacerà riflettere su Sebastián Ortega», gli disse. «L’estate per me è tranquilla. Da quando sono diventata completamente cieca soffro di agorafobia: l’idea di starmene in spiaggia fra centinaia di persone mi mette a disagio. Rimango in città, nonostante il caldo. Registri qui tutto quello che sa e io lo ascolterò.»

Gli porse il registratore e qualche cassetta. Javier la salutò stringendole la mano fredda e bianca, la formalità del loro rapporto non avendo mai permesso altro, a parte un momento di aberrazione da parte sua nei primi tempi della terapia. Ma Alicia Aguado lo attirò a sé e lo baciò su entrambe le guance.

«Buonanotte, Javier» gli disse scendendo le scale. «E ricordi: la cosa importante è che lei è un brav’uomo.»

Falcón lasciò la frescura dello studio e uscì nel caldo della strada, un calore che quasi si poteva toccare. Camminando, fece quello che Alicia gli aveva raccomandato di non fare: pensò alla fotografia di Inés fissata al pannello. Distrattamente attraversò la strada e si trovò di fronte alla vecchia Manifattura tabacchi, ora incorporata nell’università. Aveva superato l’Edificio de los Juzgados, dove aveva parcheggiato la macchina. Attraversò l’Avenida del Cid e tornò indietro passando all’interno del Palacio de Justicia. Qualcuno lo chiamò per nome. Il suono della voce gli fece l’effetto di mani di donna che gli si insinuassero sul petto da dietro. Prima ancora di voltarsi, indovinò dal rumore dei tacchi che avrebbe visto Inés.

«Congratulazioni», le disse, impappinandosi sulla parola.

Lei lo fissò senza capire mentre si scambiavano un bacio di saluto.

«Me lo ha detto ieri Esteban», spiegò Falcón.

Inés si coprì la bocca con la mano per scusarsi della dimenticanza, poi alzò gli occhi al cielo.

«Perdonami, non ci pensavo. Grazie, Javier.»

«Sono molto contento per voi. Non è un po’ tardi per lavorare?» soggiunse.

«Esteban mi ha detto di raggiungerlo qui alle nove e mezzo. Oggi lo hai visto?»

«Ha rimandato la riunione a domani.»

«È sempre qui a quest’ora, non so che cosa abbia potuto…»

«Che hanno detto gli uomini della sicurezza?»

«Che se ne è andato alle sei e non è tornato.»

«Hai provato sul cellulare?»

«È spento. Adesso lo spegne di continuo, c’è troppa gente che lo chiama.»

«Be’… posso darti un passaggio da qualche parte?»

Inés lasciò un messaggio a una guardia e salì in macchina con Falcón. Percorsero la Cristóbal Colón e decisero di fermarsi per una tapa da El Cairo, in Reyes Católicos.

Seduti al banco del bar ordinarono birra e una tapa di peperoni piquillo ripieni di nasello. Falcón le chiese del matrimonio, Inés gli rispose distrattamente, guardando fuori dalla finestra ogni faccia che passava. Falcón sorseggiò la birra e le mormorò qualche parola d’augurio finché lei si girò di colpo e gli afferrò un ginocchio con le dita dalle unghie lunghe e ben curate.

«Stava bene?» gli domandò. «Sai… sul lavoro.»

«Non lo so. Sono con lui su questo caso a Santa Clara, ma solo da ieri.»

«Santa Clara?»

«In fondo all’Avenida de Kansas City.»

«So dov’è Santa Clara», ribatté lei irritata, ma l’irritazione sfumò immediatamente e Inés lo guardò con i suoi grandi occhi castani come faceva quando voleva ottenere qualcosa. «Ha detto… ha detto…»

«Che cosa, Inés?»

«Niente», disse lei, lasciandogli il ginocchio. «Ultimamente sembra un po’ ansioso.»

«Solo perché ha reso la cosa ufficiale: l’annuncio.»

«Che differenza può fare?» domandò Inés, aggrappandosi a ogni sillaba pronunciata da Falcón cercando disperatamente di capire qualcosa della psiche maschile.

«Lo sai… l’impegno totale, senza ripensamenti.»

«Era già impegnato prima.»

«Ora è ufficiale… comunicato al mondo. Può rendere nervoso un uomo quel genere di cose, sai, la fine della giovinezza, niente più vita spensierata. La famiglia, le responsabilità da adulto… roba così.»

«Capisco», disse lei, senza capire. «Vuoi dire che ha dei dubbi?»

«No, no, no que no», protestò Falcón. «Non si tratta di dubbi, è solo apprensione al pensiero del cambiamento. Ha trentasette anni, non è mai stato sposato, è solo una reazione al futuro sconvolgimento emotivo e pratico.»

«Pratico?»

«Non rimarrete nel suo appartamento, no? Vi farete una casa… metterete su famiglia.»

«Esteban ti ha parlato di questo?» Inés lo scrutò in faccia per cercare il minimo segno di tic nervosi.

«Io sono l’ultima persona…»

«Abbiamo sempre detto che avremmo comprato una casa in centro», continuò lei, «una casa grande, come la tua… forse non così immensa e pazzesca, ma in quello stile classico. Sono mesi che cerco una vecchia casa da ristrutturare. E sai cosa mi ha detto Esteban ieri sera?»

«Che ha trovato in un altro quartiere?» domandò Falcón, incapace di arrestare il pensiero che Inés lo avrebbe sposato solo per la casa.

«Ha detto che vuole vivere a Santa Clara!»

Falcón la guardò negli occhi grandi e spaventati ed ebbe l’impressione che qualcosa di simile a un lento naufragio stesse prendendo forma nella sua mente. Le consonanti gli si impigliarono in gola come lische di pesce.

«Proprio così», affermò Inés, raddrizzando le spalle, quasi trionfante, «è l’antitesi di tutto quanto abbiamo sempre voluto.»

Falcón tracannò la birra, ne ordinò un’altra, si ficcò in bocca malamente il peperone.

«Che cosa significa, Javier?»

«Significa», disse Falcón, precipitandosi verso tragiche rivelazioni e deviando all’ultimo istante, «significa che è sconvolto. Quando tutto nella tua vita cambia di colpo… cambi anche tu… ma più lentamente. Lo so. Sono diventato un esperto in queste faccende di cambiamenti.»

Inés annuì, mandando giù le parole e trattenendole nel petto, dove poteva conservarle come cose preziose. Poi i suoi occhi saettarono verso l’ingresso del bar e in un lampo saltò giù dallo sgabello e si lanciò fuori del locale.

«Esteban!» urlò in strada, più forte di qualsiasi pescivendola.

Calderón si fermò di botto, come se lo avessero pugnalato al cuore. Quando si fu voltato Falcón si aspettò di vedere il manico del coltello sporgergli dalle costole, ma ciò che vide, prima che Calderón potesse ricomporsi, fu paura, smarrimento, disprezzo, un’espressione stranamente selvaggia, come di chi si fosse smarrito per giorni tra le montagne. Poi il giudice sorrise, un sorriso assolutamente raggiante, lei gli si avvicinò, lui si avvicinò a lei e si baciarono perdutamente in mezzo alla strada. Una coppia di anziani seduta vicino al vetro annuì con simpatia. Falcón batté nervosamente le palpebre davanti a quello sfoggio di falsità.

Inés trascinò Calderón nel bar e il giudice incespicò nel vedere Falcón sul suo sgabello davanti al banco. I tre si dettero reciprocamente spiegazioni ripetute e del tutto inascoltate, la birra scorse nelle gole, argomenti di attualità rimbalzarono tra loro. Dopo pochi minuti Inés e Calderón uscirono e Falcón osservò il tendine disegnarsi sull’avambraccio di Inés mentre afferrava la camicia del fidanzato. Una tensione disperata. Inés non avrebbe mai lasciato andare quell’uomo.

Arrivò il conto, Falcón pagò e guidò verso casa bruciando tutti i semafori, con i ciottoli del selciato che gli facevano sobbalzare le viscere. Nonostante la stanchezza, non gli andava l’idea di coricarsi. Nello studio accese il computer e riguardò tutte le fotografie che aveva scattato durante il fine settimana, continuando a controllare quella di Inés, per vedere se si adattasse a qualcuna delle altre, per cercare di ricordare. Non servì a nulla. Trovò il whisky, si versò un bicchiere e lasciò la bottiglia in cucina.

Stava per spegnere il computer quando gli venne in mente che Maddy Krugman gli aveva detto di aver letto la sua storia su internet. Si collegò e digitò il nome di lei sul motore di ricerca, trovando migliaia di voci, per lo più riguardanti un commentatore politico di nome John Krugman e di un giornalista del New York Times, Paul Krugman. Falcón digitò allora il suo nome da ragazza. Trovò trecento riferimenti a Madeleine Coren e alla sua attività di fotografa, per lo più vecchi articoli e qualche recensione delle sue mostre, ma tutti con la stessa foto di Madeleine Coren: bellissima, fredda, irraggiungibile e vestita esclusivamente di nero. Era sul punto di annoiarsi quando un articoletto del St Louis Time attirò il suo sguardo. Un’indagine per omicidio svolta dall’FBI: Madeleine Coren, fotografa, era stata interrogata dall’FBI nel corso delle indagini sull’omicidio di un mercante di tappeti di origine iraniana, Reza Sangari. L’articolo era pubblicato nelle notizie locali ed era datato 15 ottobre 2000:


MADELEINE COREN INDAGATA DALL’FBI


La fotografa newyorkese Maddy Coren è stata interrogata dall’FBI nel corso delle indagini per l’omicidio di Reza Sangari, trovato morto nel suo appartamento nel Lower East Side. L’FBI non ha potuto rivelare la ragione del collegamento della Coren all’assassinio del mercante di tappeti iraniano. Ha dichiarato soltanto che la trentasettenne fotografa la cui ultima mostra, «Vite minime», è appena terminata all’Art Museum di St Louis, non è indagata in relazione all’omicidio. John e Martha Coren, che vivono tuttora a Belleville, Sr Clair, non hanno voluto fare commenti sul colloquio della figlia con gli agenti dell’FBI. Maddy Coren vive attualmente nel Connecticut con il marito, l’architetto Martin Krugman.


Il nome del cronista era Dan Fineman e dopo aver letto il pezzo più volte Falcón cominciò a coglierne il tono leggermente malizioso: la notizia in sé non avrebbe meritato tanto spazio sul giornale. Digitò «Vite minime» e il motore di ricerca trovò una recensione dello stesso Dan Fineman dal titolo «Ridotta nei contenuti. Minima di statura». Ecco un uomo che covava rancore.

Falcón digitò il nome di Reza Sangari, il cui omicidio aveva avuto molta risonanza a livello locale e nazionale, e dagli articoli riuscì a mettere insieme tutta la storia.

Reza Sangari aveva appena compiuto trent’anni. Era nato a Teheran, sua madre apparteneva a una famiglia di banchieri e il padre aveva avuto una sua fabbrica di tappeti fino alla rivoluzione iraniana del 1979, quando aveva lasciato il Paese. Reza era cresciuto in Svizzera, ma si era poi trasferito negli Stati Uniti per studiare storia dell’arte alla Columbia University. Dopo la laurea aveva comprato un magazzino nel Lower East Side, dove aveva avviato e sviluppato il suo commercio di tappeti. Aveva trasformato in un appartamento i locali del piano superiore e lì il suo cadavere era stato ritrovato il 13 ottobre del 2000. Era stato assassinato tre giorni prima. Aveva ricevuto due colpi alla testa con un corpo contundente, colpi che però non avevano causato la morte, dovuta alla caduta contro la testiera del letto di ottone. L’arma che aveva causato le prime due ferite non era mai stata ritrovata. L’FBI era subentrata nell’inchiesta a causa dei collegamenti internazionali e della clientela e delle conoscenze di Sangari. Aveva scoperto che frequentava molte donne, ma nessuna in particolare. Non c’era traccia di scasso e a quanto pareva non era stato rubato nulla e nulla mancava dall’inventario. L’FBI non era stata in grado di individuare nessun possibile sospetto, nonostante i ripetuti interrogatori delle donne che lo conoscevano. Alcuni nomi erano trapelati perché famosi: la stilista Helena Valankova, la modella Françoise Lascombs e Madeleine Krugman. Le ultime due erano sposate.

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