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Mercoledì 24 luglio 2002


«Voglio la mamma! Voglio la mamma!»

Consuelo Jiménez aprì gli occhi e si trovò la faccia di un bambino a pochi centimetri dalla sua, semiaffondata nel guanciale, con le ciglia che sfioravano la federa di cotone. Le dita del bambino le strizzarono il braccio.

«Voglio la mamma.»

«Va bene, Mario, ora andiamo a cercare la mamma», gli disse, pensando è presto, è troppo presto. «Lo sai che è proprio dall’altra parte della strada, vero? Puoi stare qui per un po’ con Matías, fare colazione, giocare…»

«Voglio la mamma.» Le dita del bambino affondarono nel braccio con un senso di urgenza e la donna gli accarezzò la testa, lo baciò sulla fronte.

Non voleva attraversare la strada in camicia da notte, come una barbona che avesse bisogno di qualcosa nella bottega di fronte, ma il bambino continuava a tirarle la manica, a fare moine. Si infilò una vestaglia bianca di seta e un paio di sandali dorati, poi si ravviò i capelli mentre Mario le girava intorno, avvolgendola nella vestaglia e tirandola e sospingendola un po’ come avrebbe fatto con un carico uno stivatore giù al porto.

Mano nella mano scesero i gradini uno alla volta finché ebbero lasciato il fresco dell’aria condizionata, per immergersi nel caldo all’esterno, un muro solido e immobile di calore senza nemmeno un alito di frescura, all’alba, dopo un’altra notte opprimente. Attraversò la strada deserta. Le fronde delle palme, flosce e a brandelli, facevano pensare a problemi di sonno in quei paraggi. Unico suono là fuori sull’asfalto era quello dei condizionatori, che soffiavano altra aria bollente e sgradita nell’atmosfera soffocante dell’esclusivo quartiere di Santa Clara, alla periferia di Siviglia.

Adesso Mario si faceva trascinare, come se avesse cambiato idea a proposito della mamma. Sul balcone all’ultimo piano della casa dei Vega un condizionatore perdeva acqua e le gocce cadevano sul fogliame della vegetazione rigogliosa, producendo un suono denso, come di sangue, in quel calore spaventoso. Il sudore imperlava la fronte di Consuelo, che si sentì prendere dalla nausea al pensiero della giornata che l’aspettava, del caldo che si aggiungeva a settimane di clima torrido. Premette i tasti del codice sul citofono del cancello esterno e si avviò lungo il vialetto, mentre Mario correva fino alla casa e spingeva la porta, battendo la testa contro il legno intagliato. Consuelo suonò il campanello, rintocchi elettronici di campana lontana nel silenzio dei doppi vetri della casa. Nessuna risposta. Un rivolo di sudore le si insinuò tra i seni. Mario picchiava sulla porta con il piccolo pugno, producendo il suono di un dolore sordo, insistente come un male cronico.

Erano passate da poco le otto. Consuelo si leccò il sudore che le si stava formando sul labbro.

Arrivò la domestica, ma non aveva le chiavi: la signora Vega in genere si svegliava presto, disse. Il giardiniere, un ucraino di nome Sergei, stava smuovendo la terra su un lato della casa e, colto di sorpresa, strinse il manico della zappa come se fosse un’arma, finché non si rese conto che si trattava di due donne. Il sudore gli scorreva sui pettorali e sui muscoli in rilievo del torso nudo giù fino ai pantaloni corti. Lavorava dalle sei e non aveva udito niente, per quanto ne sapeva la macchina era ancora in garage.

Consuelo affidò Mario alla domestica e portò Sergei sul retro della casa, dove l’uomo si arrampicò sulla veranda del soggiorno e scrutò attraverso le fessure della porta scorrevole e delle veneziane. La porta era chiusa a chiave. Sporgendosi dalla ringhiera della veranda l’uomo guardò dalla finestra della cucina, sopraelevata rispetto al giardino, e fece un balzo indietro.

«Che c’è?» domandò Consuelo.

«Non so. Signor Vega sul pavimento. Non muove.»

Consuelo attraversò la strada con la domestica e con Mario per tornare a casa sua. Il bambino aveva capito che era successo qualcosa e piangeva, divincolandosi per liberarsi dall’abbraccio della cameriera che non riusciva a consolarlo. Consuelo chiamò lo zero nove zero e si accese una sigaretta, cercando di concentrarsi mentre osservava la grassa domestica china sul bambino che, ormai nel pieno di un tremendo capriccio, era un animaletto che si contorceva e si dimenava sul pavimento, urlando fino a restare senza voce. Consuelo segnalò il fatto al centralino della Jefatura, lasciò il suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono, poi riattaccò in fretta e andò da Mario. Lo tirò su, calci e pugni e tutto il resto, e lo tenne stretto, continuando a bisbigliargli il suo nome all’orecchio finché il corpicino le si afflosciò tra le braccia.

Lo portò di peso al piano superiore, lo adagiò nel letto, si vestì e fece salire la domestica per tenere d’occhio il bambino addormentato. La donna sedette sulla sponda del letto, scontenta al pensiero di dover essere coinvolta nella tragedia di altre persone, tragedia che avrebbe infettato anche la sua vita.

Un’auto della polizia si fermò davanti alla casa dei Vega e Consuelo uscì per andare incontro al poliziotto e accompagnarlo sul retro dell’edificio. Il poliziotto si arrampicò sulla veranda e le domandò dove fosse andato il giardiniere. Consuelo attraversò il prato fino alla casetta di Sergei, che non c’era. Tornò indietro. Il poliziotto bussò con forza alla finestra della cucina, poi chiamò per radio la Jefatura e si calò giù dalla veranda.

«Sa dove sia la signora Vega?» domandò.

«Dovrebbe essere in casa, era lì ieri sera quando le ho telefonato per dirle che suo figlio sarebbe rimasto a dormire da noi, con i miei ragazzi. Perché ha bussato alla finestra?»

«Non c’è ragione di abbattere una porta se quell’uomo è solo ubriaco e si è addormentato sul pavimento.»

«Ubriaco?»

«C’è una bottiglia per terra accanto a lui.»

«Lo conosco da anni e non l’ho mai visto ubriaco… mai.»

«Forse è diverso quando è solo.»

«E allora, che cosa ha pensato di fare?» domandò Consuelo, l’irritabile madrileña che cercava di contenere l’esasperazione di fronte alla placidità del poliziotto locale.

«È stata mandata un’ambulanza non appena ricevuta la sua telefonata e ora ho avvertito l’Inspector Jefe del Grupo de Homicidios.»

«Un momento fa era ubriaco, ora è stato assassinato.»

«C’è un corpo disteso sul pavimento.» Il poliziotto cominciava a seccarsi. «Non si muove e non reagisce al rumore. Ho…»

«Non crede che dovrebbe provare a entrare per vedere se è ancora vivo? Non si muove e non reagisce, ma potrebbe respirare ancora.»

Sulla faccia del poliziotto balenò l’incertezza, ma fu salvato dall’arrivo dell’ambulanza. Paramedici e poliziotto constatarono che tutte le porte e le finestre della casa erano chiuse anche sul retro. Nel frattempo altre macchine si erano fermate davanti al cancello.


L’Inspector Jefe Javier Falcón era seduto nel suo studio al centro dell’enorme palazzo del Settecento che aveva ereditato, nel centro storico di Siviglia. Aveva già fatto colazione e mentre finiva il caffè leggeva il manuale della macchina fotografica digitale che si era comprato una settimana prima. La porta a vetri dello studio dava sul patio. I muri spessi e la struttura tradizionale della casa rendevano quasi inutile l’aria condizionata. Il mormorio dell’acqua nella fontana di marmo non lo distraeva, la sua capacità di concentrazione era tornata quella di un tempo dopo un anno turbolento sul piano personale. Il telefono cellulare vibrò sulla scrivania e con un sospiro Falcón rispose: quella era l’ora canonica in cui venivano scoperti i cadaveri. Uscì sul portico che circondava il patio e, appoggiato a una delle colonne che sostenevano la galleria soprastante, ascoltò il freddo resoconto dei fatti nudi e crudi e rientrò nello studio. Si appuntò un indirizzo — Santa Clara. Non sembrava un posto dove potesse accadere qualcosa di brutto.

Si infilò il telefonino nella tasca dei pantaloni di tela, prese le chiavi della macchina e andò ad aprire il gigantesco portone di legno. Portò fuori la Seat lasciandola nel vialetto fiancheggiato da aranci, poi tornò a chiudere il portone.

L’aria condizionata all’interno della macchina lo investì in pieno mentre percorreva le strette vie acciottolate e sbucava nella Plaza del Museo de Bellas Artes, con i grandi alberi tra le case bianche e ocra e il museo dalla facciata di mattoni. Lasciato il centro storico, si diresse al fiume e tagliò per la Avenida del Torneo, con il vago profilo del ponte ‘Arpa’ di Calatrava visibile da lontano attraverso la lieve foschia del mattino. Le gomme stridettero mentre Falcón svoltava bruscamente nelle vie della città moderna tra gli edifici intorno alla stazione Santa Justa e superava gli isolati di palazzoni dell’Avenida de Kansas City, pensando al barrio esclusivo dove era diretto.

La città giardino di Santa Clara era stata progettata dagli americani per alloggiarvi gli ufficiali dopo che nelle vicinanze di Siviglia era stata stabilita la base del Comando aereo strategico, in seguito alla firma del Patto di difesa con Franco nel 1953. Alcune villette conservavano l’aspetto originale degli anni ’50, altre erano state adattate al gusto spagnolo e qualcuna, proprietà di gente ricca, era stata abbattuta e ricostruita di sana pianta, fino ad assumere l’aspetto di un palazzo. Per quanto era dato a Falcón di ricordare, nessuno di quei cambiamenti era riuscito a eliminare del tutto l’atmosfera di irrealtà che regnava nel quartiere, forse dovuta al fatto che le case sorgevano al centro di lotti di terreno indipendenti, vicine e isolate insieme, cosa che non era tipica della Spagna, ma piuttosto di un agglomerato suburbano degli Stati Uniti. E, a differenza del resto di Siviglia, era una zona quieta in modo quasi magico.

Falcón parcheggiò all’ombra del muretto verdeggiante della villa in Calle Frey Francisco de Pareja. A dispetto dei muri di mattoni e di qualche decorazione, aveva la solidità di una fortezza. Costrinse il suo piede a non vacillare quando la prima persona che vide al di là del cancello fu il magistrato inquirente, il Juez de Guardia Esteban Calderón. Da più di un anno non lavorava con lui, ma la faccenda era ancora fresca. Una stretta di mano, una pacca sulla spalla. Si sorprese nel vedere che la donna in piedi accanto al giudice era Consuelo Jiménez, anche lei coinvolta nella medesima vicenda. La trovò diversa dalla signora dell’alta borghesia imprenditoriale che aveva conosciuto l’anno precedente, durante le indagini sull’omicidio del marito: ora portava i capelli sciolti, con un taglio più moderno, meno trucco e meno gioielli. Non riusciva a capire perché mai fosse là.

I paramedici tornarono all’ambulanza e tirarono fuori la barella. Falcón strinse la mano al Médico Forense e al segretario del giudice mentre Calderón domandava al poliziotto se vi fossero segni di effrazione. Il poliziotto fece il suo rapporto.

Consuelo Jiménez era affascinata dal nuovo Javier Falcón. L’Inspector Jefe non indossava più il doppiopetto, ma pantaloni di tela e una camicia bianca con le maniche arrotolate appena sotto al gomito; i capelli brizzolati dal corto taglio uniforme lo facevano sembrare più giovane. Forse era il suo stile estivo, ma Consuelo Jiménez aveva i suoi dubbi in proposito. Falcón avvertì il peso di quella curiosità e nascose l’imbarazzo presentandole un altro dei suoi sottoposti, il Sub-Inspector Pérez. Seguì un momento di confusione e di nervosismo durante il quale Pérez si eclissò.

«Si starà chiedendo perché mi trovo qui», disse la donna. «Abito dall’altra parte della strada. Ho scoperto io il… ero con il giardiniere quando ha scoperto il signor Vega sul pavimento della cucina.»

«Credevo che avesse comprato casa a Heliopolis.»

«Be’, in teoria, sì: era stato Raúl a comprarla… prima di morire. Voleva essere vicino al suo amato stadio Bétis. Ma io non ho nessun interesse per il calcio.»

«E da quanto tempo vive qui?»

«Da quasi un anno.»

«E ha scoperto il cadavere.»

«È stato il giardiniere a scoprirlo e non si sa ancora se sia morto.»

«Qualcuno ha un mazzo di chiavi di riserva?»

«Ne dubito.»

«Sarà meglio che dia un’occhiata», disse Falcón.

Il signor Vega era disteso sul dorso, la vestaglia e il pigiama gli erano scesi dalle spalle e gli bloccavano le braccia. Sui pettorali e sull’addome scoperti sembrava vi fossero delle escoriazioni. Aveva graffi sulla gola. La faccia era pallida, irrigidita, le labbra grigie e giallicce.

Falcón tornò dal Juez Calderón e dal Médico Forense.

«A me pare morto, ma forse vorrete dargli un’occhiata prima che sfondiamo una delle porte», disse. «Si sa dove sia la moglie?»

Consuelo ripeté quanto aveva già detto agli altri.

«Sarà meglio entrare», affermò Falcón.

«Potreste incontrare qualche difficoltà», disse la signora Jiménez. «L’autunno scorso Lucía ha fatto sostituire le finestre, ora hanno i doppi vetri antisfondamento. Se la porta d’ingresso è chiusa dall’interno, è più facile passare attraverso il muro.»

«Conosce la casa?»

Comparve una donna sul vialetto d’accesso, difficile non vederla: capelli rossi, occhi verdi e pelle così bianca da rendere quasi doloroso guardarla alla luce brutale del sole.

«Hola, Consuelo», fece la donna, individuando quello dell’amica tra i volti ufficiali.

«Hola, Maddy». Consuelo la presentó a tutti: Madeleine Krugman, vicina di casa della signora Vega.

«È successo qualcosa a Lucía e a Rafael? Ho visto l’ambulanza. Posso essere d’aiuto?»

Gli occhi di tutti erano fissi su Madeleine Krugman e non soltanto perché parlava spagnolo con accento americano. Era alta e snella, con un busto sodo, il sedere ben in carne e la capacità innata di scatenare la fantasia degli uomini, anche i più stolidi. Soltanto Falcón e Calderón riuscirono a tenere a bada il testosterone e a guardarla negli occhi, una cosa che richiedeva concentrazione. Le narici di Consuelo ebbero un tremito di stizza.

«Dobbiamo entrare subito nella casa, signora Krugman», disse Calderón. «Ha le chiavi?»

«No, ma… che cosa è successo a Rafael e Lucía?»

«Rafael è steso sul pavimento della cucina e non si muove», spiegò Consuelo. «Di Lucía non si sa niente.»

Madeleine Krugman ebbe un moto di apprensione e inspirò bruscamente, scoprendo la linea perfetta dei denti bianchi interrotta solo dagli incisivi leggermente aguzzi. Per una frazione di secondo parve che le invisibili zolle litosferiche del suo viso si contraessero in uno spasmo.

«Ho il numero di telefono del suo avvocato, me lo ha dato Rafael nel caso ci fossero problemi in casa mentre erano in vacanza», disse. «Vado a prenderlo…»

Arretrò di qualche passo, poi si voltò dirigendosi al cancello. Gli sguardi dei presenti si fissarono sulle natiche che fremevano leggermente sotto il lino bianco dei pantaloni scampanati. La vita era circondata da una sottile cintura rossa simile a una riga di sangue. La donna scomparve dietro il muro di cinta e gli uomini si lasciarono andare a qualche verso di approvazione, sospeso fino a quel momento sotto la campana di vetro del suo fascino.

«Bellissima, vero?» disse Consuelo Jiménez, seccata con se stessa per quel bisogno di riportare l’attenzione sulla sua persona.

«Sì», convenne Falcón, «e molto diversa dal genere di bellezza a cui siamo abituati dalle nostre parti. Chiara, di una chiarezza traslucida.»

«Sì, è davvero chiara», ammise Consuelo.

«Sappiamo dove sia il giardiniere?» domandò Falcón.

«È scomparso.»

«Che cosa si sa di lui?»

«Si chiama Sergei. È russo o ucraino. Lavora per noi, per i Vega, i Krugman, Pablo Ortega e me.»

«Pablo Ortega… l’attore?» domandò Calderón.

«Sì, si è appena trasferito qui. Non è un uomo molto felice.»

«Non mi sorprende.»

«Già, è stato lei, vero, Juez Calderón, a far condannare suo figlio a dodici anni di prigione?» osservò Consuelo. «Un caso terribile, una tragedia… ma non mi riferivo a questo quando ho detto… anche se certamente avrà contribuito. La sua casa ha qualche problema e trova il quartiere un po’… morto, dopo aver vissuto in centro.»

«Perché è venuto qui?» domandò Falcón.

«Nel barrio non gli rivolgevano più la parola.»

«Per via di ciò che ha fatto il figlio?» chiese Falcón. «Non ricordo bene il caso…»

«Il figlio di Ortega ha rapito un bambino di otto anni, lo ha legato e violentato per parecchi giorni.»

«Ma non lo ha ucciso?»

«Il bambino è riuscito a scappare.»

«È stata una cosa ancor più strana», intervenne Consuelo. «Il figlio di Ortega lo ha liberato e poi è rimasto seduto sul letto nella stanza insonorizzata che aveva predisposto per il sequestro ad aspettare l’arrivo della polizia. Gli è andata bene che a trovarlo per primi siano stati i poliziotti.»

«Dicono che in carcere se la passi male», soggiunse Calderón.

«Non riesco a provare pietà per chi distrugge l’innocenza dei bambini», affermò con veemenza Consuelo. «Si meritano tutto.» Madeleine Krugman tornò con il numero di telefono. Si era messa gli occhiali da sole, per proteggersi dal riflesso lancinante della sua pelle di porcellana.

«Nessun nome?» domandò Falcón digitando il numero sul cellulare.

«Mio marito dice che si chiama Carlos Vásquez.»

«E dov’è suo marito?»

«A casa.»

«Quando le ha dato questo numero, il signor Vega?»

«Prima di raggiungere Lucía e Mario in vacanza l’estate scorsa.»

«Mario è il bambino che ha dormito a casa sua, signora Jiménez?»

«Sì.»

«I Vega non hanno parenti a Siviglia o nei dintorni?»

«I genitori di Lucía.»

Falcón si allontanò di qualche passo e chiese di parlare con l’avvocato. «Sono l’Inspector Jefe Javier Falcón. Il suo cliente, il signor Rafael Vega, è disteso sul pavimento della cucina privo di sensi, forse morto. Abbiamo bisogno di entrare in casa.»

Un lungo silenzio mentre Vásquez assorbiva la notizia devastante.

«Sarò lì tra dieci minuti», disse alla fine. «Vi consiglio di non tentare di entrare, Inspector Jefe, perché certamente vi occorrerebbe molto più tempo.»

Falcón alzò lo sguardo sulla casa inespugnabile. Due telecamere di sicurezza agli angoli della facciata, altre due sul retro.

«Sembra che i Vega avessero l’ossessione della sicurezza» osservò, ritornando dagli altri. «Telecamere. Vetri a prova di proiettile. Porta d’ingresso solidissima.»

«Vega è molto ricco», gli fece notare Consuelo.

«E Lucía è… be’, nevrotica, come minimo», disse Maddy Krugman.

«Conosceva già il signor Vega prima di trasferirsi qui, signora Jiménez?» le domandò Falcón.

«Naturalmente. Era stato lui a segnalarmi la casa che ho poi finito per comprare.»

«Siete amici o il vostro è un rapporto d’affari?»

«Entrambe le cose.»

«Di che cosa si occupa il signor Vega?»

«Ha un’impresa di costruzioni», intervenne Madeleine. «Per questo la casa è costruita come una fortezza.»

«È mio cliente al ristorante di El Porvenir», spiegò Consuelo. «Ma lo conoscevo anche tramite Raúl; erano nello stesso ramo, come sa. Anni fa avevano lavorato insieme alla costruzione di alcuni edifici a Triana.»

«Lei lo conosceva solo come vicino di casa, signora Krugman?»

«Mio marito è architetto. Lavora a diversi progetti del signor Vega.»

Una grossa Mercedes metallizzata si fermò fuori dal cancello. Ne scese un uomo basso e corpulento in camicia bianca a maniche lunghe, cravatta scura e pantaloni grigi. L’uomo si passò le dita tra i capelli già bianchi e si presentò: Carlos Vásquez. Porse le chiavi a Falcón, il quale aprì la porta girando appena la chiave. Non era stata chiusa a doppia mandata.

Dopo il caldo della strada l’interno della casa era gelido e cupo. Falcón chiese al Juez Calderón di dare una rapida occhiata prima che il medico legale e gli uomini della scientifica si mettessero al lavoro. Accompagnò Felipe e Jorge fino alla soglia della cucina, che aveva il pavimento di piastrelle. I due guardarono, si scambiarono un segno di assenso e si ritirarono mentre Calderón impediva a Carlos Vásquez di entrare per non contaminare la scena del delitto: l’avvocato aveva l’aria di non essere abituato a sentirsi respingere con una mano sul petto da nessuno, se non da sua moglie a letto. Il Médico Forense, che si era già infilato i guanti, venne introdotto nella stanza. Controllò il polso e la temperatura corporea e nel frattempo Falcón uscì all’aperto e pregò Consuelo e Madeleine di tenersi a disposizione per un colloquio, prendendo nota del fatto che Consuelo continuava a occuparsi del bambino dei Vega, Mario.

Il Médico Forense bisbigliò qualcosa nel registratore mentre esaminava le orecchie, il naso, gli occhi e la bocca della vittima, rigirando poi con un paio di pinze un flacone di plastica che giaceva per terra accanto alla mano tesa del morto. Era un litro di liquido sturalavandini.

Falcón tornò nel corridoio e controllò le stanze del pianterreno. La sala da pranzo era ultramoderna, il tavolo un ripiano di vetro opaco verde montato su due archi di acciaio inossidabile. Era apparecchiato perfettamente per dieci commensali. Le sedie erano bianche, così come il pavimento, le pareti e le lampade. Pranzare al gelo dell’aria condizionata doveva dare la sensazione di stare dentro un frigorifero, ma senza l’ingombro dei contenitori di burro e di cibi avanzati. Falcón dubitava che quella stanza avesse mai accolto molta gente.

Al confronto il soggiorno sembrava la mente di una persona confusa, ogni superficie ingombra di soprammobili, di ricordi provenienti da ogni parte del mondo. Falcón immaginò vacanze nelle quali Vega fotografava in modo ossessivo servendosi della tecnologia più avanzata mentre la moglie saccheggiava i negozi di souvenir. Al centro del divano un telefono portatile, una scatola piena a metà di cioccolatini e telecomandi per televisione, DVD e satellite. Sul pavimento un paio di ciabattine rosa ornate di piume. Le luci erano spente, così come il televisore.

I gradini che salivano alle camere da letto erano lastre di granito nerissimo. Salendo lentamente Falcón ne esaminò la superficie liscia come vetro. Niente. Il pavimento in cima alle scale era di granito nero con intarsi romboidali in marmo bianco. Si diresse verso quella che intuiva essere la stanza padronale. Nel letto matrimoniale c’era una donna. Un guanciale le era stato premuto sul volto, e aveva le braccia spalancate sul piumino leggero come a chiedere aiuto. Su un polso si vedeva il cinturino sottile di un orologio. L’unico piede visibile aveva uno smalto rosso vivo sulle unghie. Falcón si accostò al letto e tastò il polso mentre osservava i due affossamenti sul cuscino. Anche Lucía Vega era morta.

Le altre tre camere del piano superiore avevano tutte il bagno. Una era vuota, un’altra aveva un letto matrimoniale e la terza era quella di Mario: soffitto dipinto come un cielo notturno, sul letto un vecchio orsacchiotto di peluche senza una zampa.

Falcón riferì al Juez Calderón del secondo cadavere. Il Médico Forense, inginocchiato accanto al corpo di Rafael Vega, stava cercando di aprirgli le dita di una mano.

«Sembra che abbia un foglietto nel pugno destro», spiegò Calderón. «Il cadavere si è raffreddato in fretta con l’aria condizionata e voglio che il biglietto sia recuperato senza che si strappi. Una prima idea, Inspector Jefe?»

«A prima vista, sembrerebbe un patto suicida. Soffoca la moglie e poi beve un acido, anche se questo è un modo lento e orrendo di ammazzarsi.»

«Un patto? Che cosa le fa pensare che si fossero messi d’accordo?»

«Ho solo detto che sembra così. Il fatto che il bambino sia stato mandato a dormire fuori di casa farebbe pensare a un qualche accordo tra i due. Una madre non sopporterebbe il pensiero della morte del proprio figlio.»

«E un padre sì?»

«Dipenderebbe dal motivo della sua angoscia. Se vi fosse la possibilità di uno scandalo finanziario o morale, forse non vorrebbe che il figlio vivesse con quella consapevolezza, il figlio maschio che porta il suo nome, potrebbe pensare di fargli un favore uccidendolo. Ci sono uomini che sterminano la famiglia perché pensano di aver fallito nei suoi confronti e che sia meglio non lasciare vivo nessuno a portare il marchio della vergogna.»

«Però lei ha qualche dubbio», disse Calderón.

«Il suicidio, patto o non patto, raramente è un atto improvvisato, e sulla scena di questo crimine si notano vari elementi di improvvisazione. Primo, la porta non era stata chiusa a chiave. Consuelo Jiménez aveva telefonato per dire che Mario si era addormentato, perciò erano sicuri che non sarebbe tornato e ciò nonostante non hanno chiuso la porta a doppia mandata.»

«Era chiusa però, e questo bastava.»

«Se si ha in mente di fare qualcosa di questo genere, ci si chiude dentro per bene, in modo da essere certissimi che non si verrà interrotti. È una necessità psicologica. I suicidi che fanno sul serio normalmente prendono tutte le precauzioni possibili…»

«Che altro?»

«Il modo in cui tutto è stato lasciato dov’era: il telefono, i cioccolatini, le pantofole. Parrebbe indicare una mancanza di premeditazione.»

«Be’, da parte di lei, certo.»

«Sì, naturalmente.»

«Ma un liquido per sgorgare gli scarichi?», disse Calderón. «Perché scegliere un liquido del genere per suicidarsi?»

«Forse scopriremo che nella bottiglia c’era qualcosa di più potente», suggerì Falcón. «Perché farlo così? Be’, forse quell’uomo voleva punire se stesso… capisce, ripulirsi dai propri peccati. Un altro vantaggio è che si tratta di un modo silenzioso e, a seconda delle altre sostanze che può aver preso, anche irrevocabile.»

«Be’, questo fa pensare a una premeditazione, Inspector Jefe. Perciò in queste morti abbiamo sia elementi di spontaneità sia elementi di premeditazione.»

«Va bene, sì… diciamo che se li avessimo trovati distesi sul letto mano nella mano, con un biglietto appuntato al pigiama di lui, allora non avrei difficoltà a considerarlo suicidio. Ma stando così le cose, preferisco iniziare un’indagine per omicidio, prima di decidere.»

«Forse il biglietto che ha in mano ci illuminerà…» cominciò Calderón. «Ma non è strano mettersi in pigiama prima di… o si tratta di un’altra necessità psicologica? Prepararsi per il grande sonno?»

«Speriamo che abbia acceso le telecamere della sorveglianza e caricato i videoregistratori», disse Falcón, tornando alle cose pratiche. «Dovremmo dare un’occhiata al suo studio.»

Attraversarono l’ingresso e percorsero un corridoio accanto alle scale. Lo studio di Vega era sul lato destro e si affacciava sulla strada. Una poltrona girevole di pelle era dietro la scrivania, un manifesto delle corride dell’ultima Feria de Abril sulla parete alle spalle.

Una scrivania grande, sgombra, di legno chiaro con un telefono e un computer portatile. Sotto la scrivania una cassettiera a rotelle. Lungo la parete dietro la porta quattro schedari neri e in fondo alla stanza l’apparecchiatura di videosorveglianza, con i monitor spenti e le spine staccate, e in ogni registratore una cassetta ancora inutilizzata.

«Non promette un gran bene», osservò Falcón.

Gli schedari erano chiusi a chiave, così come la cassettiera sotto la scrivania. Falcón salì in camera da letto e aprì una cabina armadio, con gli abiti e le camicie di lui sulla destra e quelli di lei, oltre a un gran numero di scarpe (alcune uguali tra loro in modo inquietante) sulla sinistra. Posati su una cassettiera un portafogli, un mazzo di chiavi e qualche spicciolo.

Una chiave del mazzo apriva i cassetti della scrivania. I primi due non contenevano niente di diverso dal solito, ma quando Falcón aprì il terzo, vide qualcosa che sporgeva da sotto una risma di carta. Era una pistola.

«Non ne ho viste molte di queste», disse Falcón, «è una Heckler Koch calibro nove. Chi ce l’ha si aspetta certamente qualche grosso guaio.»

«Se lei avesse un’arma del genere in casa, berrebbe un litro di acido o si farebbe saltare le cervella?»

«Potendo scegliere…»

Sulla soglia comparve l’avvocato, uno sguardo duro negli occhi scuri piantati sulla faccia.

«Non avete il diritto…» cominciò.

«Stiamo indagando su un omicidio, signor Vásquez», lo interruppe subito Falcón. «La signora Vega è di sopra sul letto, morta, è stata soffocata con un cuscino. Lei non ha nessuna idea del motivo per cui il suo cliente volesse tenere una di queste nel suo studio?

Vásquez ebbe un moto di sorpresa nel vedere la pistola.

«Siviglia è una di quelle curiose città dove la gente ricca e privilegiata di Santa Clara è separata dalla popolazione di drogati e di emarginati del Polígono San Pablo solo da un piccolo quartiere, dalla cartiera e dalla Calle de Tesalónica. Presumo che la tenesse per ragioni di sicurezza.»

«Come le telecamere a circuito chiuso che non si prendeva la briga di accendere?» domandò Falcón.

Vásquez guardò le apparecchiature spente. Il cellulare dell’avvocato suonò le prime note della Carmen. I due rappresentanti della giustizia si scambiarono un sorrisetto mentre Vásquez scendeva al pianterreno. Calderón chiuse la porta e Falcón capì che era vero quanto aveva sospettato stringendo la mano al Juez quella mattina: c’erano novità, e lo riguardavano.

«Volevo che lo sapesse da me», disse il magistrato, «e non dalla macchina dei pettegolezzi della Jefatura o dell’Edificio de los Juzgados.»

Falcón annuì, la gola improvvisamente paralizzata.

«Inés e io ci sposiamo alla fine dell’estate», annunciò Calderón.

Aveva capito che doveva trattarsi di quello, ma la notizia inchiodò comunque Falcón al pavimento. Gli parve che fosse passato del tempo prima che i suoi piedi, muovendosi al rallentatore come quelli di un palombaro sul fondo dell’oceano, lo avvicinassero a Calderón tanto da potergli stringere la mano. Ebbe per un attimo l’idea di dargli una stretta alla spalla in modo cameratesco, ma l’amarezza era troppo forte, gli riempiva la bocca di un sapore acre di olive andate a male.

«Congratulazioni, Esteban», riuscì a dire.

«Lo abbiamo comunicato ai miei e ai suoi ieri sera», continuò Calderón. «Al di fuori della famiglia, lei è il primo a saperlo.»

«Saprà renderla molto felice», disse Falcón. «Ne sono sicuro.»

Si scambiarono un cenno di assenso e si scostarono l’uno dall’altro.

«Torno dal Médico Forense», disse Calderón, uscendo dalla stanza.

Falcón si avvicinò alla finestra e dalla rubrica digitò sul telefonino il numero di Alicia Aguado, la psicoterapeuta che lo aveva in cura da più di un anno. Il pollice sfiorò il tasto di chiamata, ma una rabbia improvvisa lo trattenne dal premerlo: avrebbe aspettato fino all’indomani, giorno della seduta settimanale, avevano già affrontato il tema della sua ex moglie un milione di volte e la dottoressa lo avrebbe solo rimproverato di non aver ancora superato il problema.

Le questioni in sospeso tra Javier e Inés erano state risolte durante il lavoro di riabilitazione psicologica seguito allo scandalo che quindici mesi prima aveva travolto Francisco Falcón. Francisco era il pittore di fama mondiale che Javier aveva sempre creduto suo padre, ma che si era rivelato un impostore, un assassino e dopotutto non il suo vero genitore. Inés aveva perdonato Javier ancor prima di essersi incontrata con lui qualche mese dopo la follia dei media. Il loro breve matrimonio era finito a causa della freddezza di lui, espressa nel terribile mantra in rima che Inés ripeteva sempre: Tú no tienes corazón, Javier Falcón. Data la storia familiare di Falcón, Inés adesso capiva come mai gli mancasse quell’elemento fondamentale in un essere umano. Negli ultimi mesi, grazie alla psicoterapia, Falcón pensava meno a lei, ma ogni volta che veniva pronunciato il suo nome provava inevitabilmente una stretta dolorosa alla bocca dello stomaco. La terribile accusa di Inés lo torturava ancora; perdonandolo, lei era diventata, a causa dello stato di instabilità di Javier, una persona alla quale egli doveva dare continuamente prova del proprio valore.

E ora questo. Tuttavia Inés stava con il giudice da quasi un anno e mezzo, si disse, erano la nuova coppia d’oro dei salotti di Siviglia, non solo nell’ambiente degli avvocati. Il loro matrimonio era sempre stato inevitabile, ma non per questo più facile da sopportare per Falcón.

Al di sopra della sua spalla vide riflessa nello specchio l’immagine di Vásquez e rientrò nella veste professionale.

«È stato sorpreso di trovare il suo cliente morto in circostanze così strane?» domandò.

«Molto sorpreso.»

«Tra parentesi, dov’è il porto d’armi per questa pistola?»

«È una faccenda personale. Questa è casa sua, io sono soltanto il suo avvocato.»

«Però ha affidato a lei le chiavi.»

«Qui non ha nessuno. E quando andavano in vacanza d’estate spesso si portavano dietro anche i genitori di Lucía. Nel mio studio c’è sempre qualcuno e gli era parso…»

«E gli americani della porta accanto?»

«Sono qui da meno di un anno», spiegò Vásquez. «Sono suoi inquilini, il marito lavora per lui come architetto. A Vega non piaceva coinvolgere gli altri nella sua vita privata. I Krugman avevano il mio numero di telefono in caso di un’emergenza.»

«La Vega Construcciones è la sua unica azienda?»

«Diciamo che Vega era nel campo immobiliare, costruiva e affittava appartamenti e uffici, costruiva anche capannoni industriali su richiesta. Comprava e vendeva terreni, possedeva numerose agenzie immobiliari.»

Falcón sedette sul bordo della scrivania, facendo dondolare un piede.

«Questa pistola, signor Vásquez, non serve a scoraggiare gli scassinatori, serve a uccidere. Probabilmente, sparando un proiettile calibro nove di una Heckler Koch, si ammazzerebbe un uomo anche colpendolo alla spalla.»

«Se lei fosse molto ricco e volesse proteggere la sua famiglia e la sua casa, si comprerebbe un giocattolo o un’arma seria?»

«Perciò a lei non risulta che il signor Vega fosse coinvolto in qualche attività criminale o al limite della legalità?»

«No, non mi risulta.»

«E non immagina un motivo per cui qualcuno volesse ucciderlo?»

«Senta, Inspector Jefe, io mi occupo degli aspetti legali delle attività dei miei clienti, raramente vengo coinvolto nella loro vita privata a meno che questa non abbia qualche ripercussione sugli affari. Conosco bene questa impresa. Se Vega faceva anche altre cose, allora vuol dire che non usava me come legale. E se avesse avuto una relazione con la moglie di un altro, del che dubito, io non lo avrei saputo.»

«Allora come interpreta quello che abbiamo visto, signor Vásquez? La signora Vega al piano di sopra, soffocata da un guanciale, il signor Vega al pianterreno, morto, con accanto un litro di liquido per sgorgare gli scarichi, mentre il loro bambino, Mario, è affidato a una vicina per la notte?»

Silenzio. Gli occhi scuri si fissarono sul petto di Falcón.

«Sembrerebbe un suicidio.»

«Perlomeno una di queste due morti è certamente un omicidio.»

«Sembra che Rafael Vega abbia ammazzato la moglie e poi si sia suicidato.»

«Si è mai accorto di un simile livello di instabilità psichica nel suo cliente?»

«Come si fa a capire che cosa passa per la testa della gente?»

«Dunque non era preoccupato per gli affari? Non temeva di andare in rovina?»

«Di questo deve parlare con il suo contabile, anche se non era lui il direttore amministrativo.»

«Chi era il direttore amministrativo?»

«Rafael era un accentratore.»

Falcón gli porse il suo taccuino e Vásquez vi annotò il nome e i dati del contabile, Francisco Dourado.

«C’era qualche scandalo nell’aria, che lei sappia, uno scandalo che avrebbe coinvolto il signor Vega o la sua impresa?»

«Ora so chi è lei!» esclamò l’avvocato, sorridendo per la prima volta, un sorriso che rivelò denti straordinariamente perfetti. «Falcón. Non avevo ricollegato finora… Be’, lei è ancora al suo posto, Inspector Jefe, e il mio cliente non si è trovato certamente in una posizione come la sua.»

«Ma io non ho commesso nessun crimine, signor Vásquez, non ho dovuto affrontare nessuno scandalo morale, nessuna vergogna che riguardasse la mia persona.»

«Vergogna!» ripeté l’avvocato. «Crede che oggigiorno la vergogna abbia quella specie di potere nella società?»

«Dipende dal tipo di società nella quale si è costruita la propria vita. All’importanza che si dà all’opinione di questa società», spiegò Falcón. «A proposito, ha lei il testamento del signor Vega?»

«Sì.»

«Chi è il suo parente più stretto?»

«Come ho detto, non aveva nessuno.»

«E la moglie?»

«Ha una sorella che vive a Madrid. I loro genitori abitano qui, a Siviglia.»

«Avremo bisogno di qualcuno per identificare i cadaveri.»

Pérez si affacciò sulla soglia.

«Abbiamo il biglietto che Vega stringeva nel pugno!» annunciò.

Falcón e Vásquez lo seguirono nella cucina, facendosi largo tra gli uomini della scientifica che ostruivano il corridoio con le loro attrezzature, in attesa di essere ammessi alla scena del delitto.

Il foglietto era già in un sacchetto di plastica. Calderón glielo porse, inarcando le sopracciglia. Leggendo, Falcón e Vásquez aggrottarono la fronte e non solo perché quelle parole erano scritte in inglese: «nell’aria sottile che respirerete dall’11 settembre fino alla fine».

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