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Sabato 27 luglio 2002


Tornato a casa, nella frescura della camera da letto, Falcón si tolse gli abiti che lo avevano tradito davanti a Ramírez e, sotto la doccia, fissando il vetro appannato, ripensò al modo in cui Isabel Cano gli aveva parlato di Inés, definendola un’innocentina. Isabel sapeva. Ripensò alle parole dell’Inspector Jefe Montes a proposito di Calderón: «A lei il giudice è simpatico, non lo avrei mai detto». Anche Montes sapeva. Felipe e Jorge, Pérez, Serrano e Baena. Tutto l’Edificio de los Juzgados e il Palacio de Justicia. Sapevano tutti. Ecco che cosa accade quando ci si seppellisce in se stessi: non si nota niente, non si nota nemmeno che qualcuno si scopa tua moglie sotto il tuo naso. Scosse la testa, ricordando gli orribili calcoli che lo psicologo della polizia gli aveva fatto fare. Quando si è staccato da sua moglie? Quando ha fatto l’amore con lei l’ultima volta? Se ci siamo separati in giugno, deve essere stato in maggio. Maggio 2000.

Si vestì e uscì di casa. Aveva bisogno di un altro caffè prima di passare a prendere Alicia Aguado. Comprò El País e al Café San Bernardo ordinò un café solo. Cristina Ferrera lo chiamò dagli uffici della Vega Construcciones per dargli i dati del precedente proprietario del terreno venduto ai russi. Sfortunatamente era in vacanza in Sud America e non sarebbe rientrato prima di settembre. Gli disse anche che il contabile era riuscito a entrare nella rubrica sul computer di Vega e aveva trovato il numero di telefono dei russi: per tutti e due un solo numero di Vilamoura, nell’Algarve, in Portogallo.

Chiuse il telefonino e cercò di leggere il giornale, ma a quel punto, invece di provare umiliazione per quanto aveva saputo da Ramírez, nella mente gli scorsero le immagini della notte precedente, Consuelo a cavalcioni su di lui, il piccolo triangolo scuro incombente, lo sguardo fermo di lei mentre lo introduceva dentro di sé, le sue parole: «Voglio vederti dentro di me». Diavolo. Si sentiva la gola stretta al punto da non poter deglutire, la vista annebbiata confondeva i caratteri di stampa e dovette fare uno sforzo per riscuotersi e tornare alla vita reale, al caffè, alla gente seduta intorno a lui.

Per Consuelo il sesso era importante, ci sapeva fare. Quando arrivava all’orgasmo emetteva un gemito profondo, felino, un grido soffocato che faceva pensare a un corridore nel momento in cui taglia il traguardo. Le piaceva stare sopra e quando aveva finito restava inginocchiata, ansimando, i capelli sulla faccia e in parte appiccicati alle guance, incurante di tutto, i seni che si scuotevano a ogni respiro. Falcón aveva sempre pensato che il sesso con Inés fosse bello, aveva creduto che a letto insieme loro due fossero il massimo, ma ora si rendeva conto che Inés non si era mai lasciata andare completamente, si era sempre in certo modo trattenuta, senza mai raggiungere il lato animalesco della sua persona, come se qualcosa nella sua testa le avesse detto che non stava bene comportarsi così.

Ma era poi la verità? O lo si pensava quando si era attratti da un altro partner? Forse ci si persuadeva che l’ultimo partner non era poi così eccezionale? Forse era ciò che aveva provato anche Calderón, forse aveva pensato che con Inés non ci sarebbe stata quella differenza di cui aveva parlato Isabel Cano: Inés è bella, intelligente e attraente, ma Calderón sa come vanno a finire certe cose. E in quell’esatto momento, mentre il cellulare cominciava a vibrare nella tasca, Falcón si rese conto che era finita, che non era affar suo, non gliene importava più nulla, nulla avrebbe potuto interessargli meno di Inés o di Calderón o di quel che sarebbe stato delle loro misere vite. Qualcosa si era dissolto dentro di lui, ebbe la sensazione fisica di un distacco, di una tensione che si allentava definitivamente, di lacci recisi che volavano via sventolando nella notte. Sorrise compiaciuto e contemplò intorno a sé il magnifico disinteresse del bar e infine rispose alla telefonata di Alicia Aguado, che gli chiedeva dove diavolo fosse finito.


Dal momento che quella non era una seduta, si salutarono con un bacio e immediatamente Alicia notò in lui una differenza.

«È contento», disse.

«Alcune cose sono andate al loro posto.»

«Ha fatto sesso.»

«Non credo proprio che sia in grado di capirlo», replicò Falcón. «E comunque questa non è una seduta.»

Si recarono a Santa Clara per l’incontro con Pablo Ortega. Nessuno venne ad aprire, ma Falcón notò che il portone di legno era socchiuso. Falcón aveva avvertito Alicia Aguado a proposito del fetore della fossa biologica, soffocante al punto da farli tossire entrambi. Alicia si attaccò al braccio di Falcón per girare intorno alla casa fino all’ingresso della cucina. Nessun segno di Ortega, eppure erano già le undici passate.

«Probabilmente sta facendo passeggiare i cani», disse Falcón, «sediamoci all’ombra accanto alla piscina e aspettiamolo là.»

«Non so come faccia a vivere con quel fetore.»

«Non è così terribile, dentro non si sente, ha fatto sigillare quella parte della casa.»

«Dover attraversare quel tratto tutti i giorni mi spingerebbe al suicidio.»

«Be’, non si può dire che Pablo Ortega sia un uomo felice.»

La fece sedere a un tavolino sul bordo della piscina prima di dirigersi verso l’estremità della vasca dove l’acqua era più profonda, fermandosi sul piccolo trampolino e guardando in basso, dove gli era parso di vedere un sacco, sul fondo. Trovò un palo vicino alla piscina, con una reticella a un’estremità e un gancio sull’altra.

«Che cosa sta facendo, Javier?» domandò Alicia, preoccupata da quell’attività muta.

«C’è un sacco in fondo alla piscina, parrebbe un vecchio contenitore di fertilizzanti.»

Il sacco era pesante, tanto che dovette spingerlo con il palo fino alla parete e poi trascinarlo sul fondo e tirarlo su dove l’acqua era più bassa. Doveva pesare una trentina di chili. Falcón sciolse il nodo della corda e sussultò davanti al contenuto orripilante.

«Che c’è?» esclamò Alicia, alzandosi, disorientata dall’apparente panico di lui.

«Sono Pavarotti e Callas, i cani di Ortega. Non mi sembra un buon segno.»

«Qualcuno gli ha affogato i cani?»

«No. Credo che li abbia affogati lui.»

Falcón le disse di rimanere seduta dov’era, poi si diresse alla porta della cucina, chiusa, ma non a chiave. L’aprì e fu investito dal fetore disgustoso del pozzo nero. Sul tavolo due bottiglie vuote di Torre Muga. Entrò in soggiorno, dove trovò un’altra bottiglia di vino vuota e la scatola di Cohiba che Ortega gli aveva offerto la sera prima. Nessun bicchiere. Là il tanfo di liquame era ancora più potente e Falcón si accorse che la porta sigillata che conduceva all’altra ala della casa era stata aperta, così come quella in fondo al corridoio, spalancata sulla stanza sopra il pozzo nero.

Sul pavimento del corridoio una bottiglietta di Nembutal senza tappo. Nella stanza tavole di legno e rivestimenti di plastica erano stati gettati contro la parete nella quale si apriva una grossa crepa dovuta al cedimento del terreno. Nel pavimento era stato aperto un largo foro per permettere agli operai di ispezionare i danni. Per terra, sul cemento grezzo e sulle piastrelle, erano sparsi frammenti del bicchiere di Ortega, oltre a un mozzicone di sigaro. Dalla superficie del liquame affiorava la pianta giallastra del piede destro di Pablo Ortega. Falcón chiamò la Jefatura con il cellulare, specificando che fosse informato il Juez Calderón in quanto quella morte era forse collegata al caso Vega. Domandò anche di Cristina Ferrera, ma dette istruzioni di lasciare in pace Ramírez.

Uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio fino alla stanza padronale e là, sulla sovraccoperta color vinaccia intatta erano posate due lettere, una indirizzata a Javier Falcón e l’altra a Sebastián Ortega. Le lasciò dove si trovavano e tornò da Alicia Aguado, molto spaventata e ancora seduta vicino alla piscina. Le disse che a quanto pareva Pablo Ortega si era suicidato.

«Non posso crederci», le disse, «l’ho visto ieri sera e, sì, era quasi ubriaco, ma affabile, cortesissimo, generoso. Aveva perfino detto che oggi, dopo l’incontro, mi avrebbe mostrato la sua collezione.»

«Aveva già deciso», disse Alicia, che si teneva stretta come se stesse gelando, a 42 gradi all’ombra.

«Accidenti a me», esclamò Falcón parlando fra sé, «non posso fare a meno di sentirmi responsabile, sono stato io a smuovere tutto questo e…»

«Nessuno è responsabile del suicidio di un altro», affermò Alicia, «quell’uomo aveva una sua storia che non poteva essere cambiata, e nemmeno smossa, parlando per un paio d’ore con Javier Falcón.»

«Sì, certo, lo so. Immagino di aver voluto dire che ho fatto precipitare le cose, insistendo troppo con lui.»

«Intende dire che non gli ha parlato solo di Sebastián?»

«Pensavo che potesse darmi qualche informazione utile per le indagini.»

«Era un indagato?»

«No, non esattamente. Ma capivo che le mie domande lo innervosivano, lo turbavano non so per quale ragione, sia che avessero come argomento il figlio sia Rafael Vega.»

«Solo per interesse professionale, dal punto di vista psicologico: come si è ucciso?»

«Si è ubriacato, ha preso una certa quantità di pillole per dormire e si è annegato nel pozzo nero.»

«Ha programmato tutto con cura, non è così?» osservò Alicia. «Affogare i cani…»

«Ieri sera gli avevo chiesto dei cani e mi aveva detto che stavano dormendo. Probabilmente li aveva già ammazzati.»

«Ha lasciato una lettera?»

«Due: una a me e una al figlio. Non le ho toccate, aspetto che arrivi il Juez de Guardia.»

«Sapeva che sarebbe stato lei la prima persona a entrare qui stamani», disse Alicia, «nessuna brutta sorpresa per nessuno, eccettuati gli addetti ai lavori, il cancello e la porta lasciati aperti. Ha pensato a tutto, fino all’ultimo particolare del pozzo nero.»

«Che intende dire?»

«Non aveva detto che quella parte della casa era stata sigillata?»

«Sì.»

«Perciò si è preso la briga di distruggere il rivestimento sigillante, perché era importante per lui dal punto di vista psicologico affogarsi nella merda… nella sua merda. Sono sicura che sarebbero bastati l’alcol e le pillole.»

«L’alcol può indurre vomito», le fece notare Falcón.

«D’accordo. Voleva proprio essere sicuro… ma avrebbe potuto usare la piscina, meno nascosta, è vero, ma per i cani l’ha utilizzata.»

«Cerchi di alleviare il mio senso di colpa, Alicia, mi dia una teoria», la pregò Falcón.

«Come sa, c’era stato un crescendo negli eventi che lo riguardavano, ancor prima che lei lo interrogasse nel corso delle indagini su Rafael Vega», spiegò Alicia. «Suo figlio era stato rinchiuso in un carcere dopo un processo molto pubblicizzato e per un crimine odioso, lui stesso era stato messo al bando dalla comunità del suo quartiere al punto da dover lasciare il suo appartamento; e non tutto è stato chiarito per quanto lo riguarda. Si era trasferito qui, un posto che in apparenza era molto adatto a lui, una città giardino abitata da gente danarosa, pace e tranquillità. Ma le cose non erano andate come aveva previsto, si era sentito spaesato e aveva rimpianto la vita del barrio, la casa che aveva comprato gli aveva creato un problema sgradevolissimo e lo aveva allontanato ulteriormente dagli altri. Quello che per noi probabilmente sarebbe stato un inconveniente irritante e costoso, per Pablo Ortega poteva avere assunto un’enorme importanza. Poi il suo vicino era morto…»

«Mi aveva chiesto se Vega si fosse suicidato.»

«Perciò l’idea del suicidio era già nella sua mente. E abbiamo dimenticato di dire che suo figlio non voleva vederlo… un altro fattore di isolamento. Poi Javier Falcón è entrato in scena, ha intuito che giustizia forse non era stata fatta nel caso di Sebastián e si è offerto di aiutarlo. Come sa, non si può aiutare nessuno senza smuovere le cose e chissà che cosa è affiorato alla mente di Ortega. Qualsiasi cosa fosse, comunque, lui non voleva affrontarla, non pensava che valesse la pena di restare vivi per affrontarla. Così, non solo non riporta alla superficie la cosa difficile da affrontare, ma in effetti fa affondare se stesso, affoga i ricordi nella sua propria sporcizia. I suoi cani, creature tenere e innocenti, non ricevono lo stesso trattamento.»

Falcón scosse la testa sgomento.

«Javier, lei ha detto che lo aveva interrogato a proposito di suo figlio, ma anche dell’indagine in corso. Di che cosa lo sospettava?»

«Preferisco non parlarne, per ora. È meglio che lei si accosti ai fatti senza preconcetti… ammesso che voglia farsi coinvolgere. Può disinteressarsene, naturalmente.»

«Sono già coinvolta», ribatté Alicia Aguado. «Vorrei sapere che cosa ha scritto nelle lettere. E potrebbe essere interessante vedere la sua collezione.»

Una macchina della polizia si arrestò davanti alla casa.

«Prima c’è del lavoro da fare», disse Falcón, «ma non credo che ci vorrà molto.»

Dietro l’auto della polizia si era fermata un’ambulanza e qualche minuto dopo comparvero Felipe e Jorge, seguiti dal Juez de Guardia, Juan Romero. Dopo una breve discussione sul possibile collegamento del suicidio di Ortega con il caso Vega, Romero ricevette la telefonata di Calderón, al quale riferì il rapporto verbale di Falcón. Fu deciso di trattare i casi separatamente. Cristina Ferrera giunse in tempo per apprendere la decisione.

Falcón li guidò sulla scena del crimine, passando per la piscina con i cani morti, e proseguendo nell’interno della casa. Felipe scattò le foto mentre Jorge esaminava i cani e grattava via i resti di carne fra i loro denti. Cristina Ferrera controllò la segreteria telefonica e chiese alla compagnia telefonica un tabulato delle chiamate in entrata e in uscita, poi si mise alla ricerca di un eventuale cellulare.

I barellieri stabilirono che al corpo di Ortega erano state fissate delle zavorre: per tirarlo su sarebbe stato necessario un verricello. Uscirono per procurarlo e nel frattempo Jorge e Felipe raccolsero tutti gli elementi di prova prima di spostarsi nella camera da letto. Arrivò il Médico Forense che rimase a parlare con Alicia Aguado accanto alla piscina, in attesa di poter esaminare il cadavere.

Felipe porse a Falcón le lettere chiuse nelle buste di plastica. Gli uomini dell’ambulanza scrostarono il soffitto finché non ebbero trovato una trave di cemento armato, dopodiché cominciarono a usare il trapano. Portandosi le lettere in soggiorno, Falcón mandò Cristina Ferrera, che non aveva trovato nessun telefono cellulare, a parlare con i vicini per accertare quali fossero stati i movimenti di Ortega nelle ultime ventiquattro ore.

RISERVATO

27 luglio 2002

Caro Javier,

credo che a quest’ora avrà capito che ho scelto lei e mi scuso se questo le ha creato un disturbo. Oltre a essere del mestiere, come le ho detto, lei mi è simpatico e voglio che questa, l’ultima scena dell’ultimo atto, finisca al sicuro nelle sue mani.

Nel caso di qualche eventuale dubbio o se uno scassinatore inopportuno dovesse capitare lì e mettere a soqquadro la mia tragedia, voglio dichiarare in modo inequivocabile che mi sono tolto la vita. Non è stata una decisione improvvisa e certamente non è stata causata da nessun recente sviluppo della mia situazione, ma è frutto di una serie di eventi. Sono giunto in fondo alla strada e ho scoperto che era una strada senza uscita, senza nessuna possibilità di ritornare indietro e di fare tutto ciò che avrei dovuto fare. Era una strada chiusa che potevo lasciare in un solo modo e io ho scelto quel modo a occhi ben aperti, con animo tranquillo, se non con la coscienza tranquilla.

Le mie ragioni per togliermi la vita sono le uniche ragioni che può avere un suicida. Sono un debole e un egoista. Ho mancato verso mio figlio. È stato questo il marchio distintivo di tutti i miei rapporti, familiari e privati, e forse è stato così perché io sono consumato dalla vanità. E il prezzo della vanità è la solitudine. Mio figlio è in carcere. La mia famiglia si è stancata di me. La mia comunità mi ha scacciato. Il mio ambiente professionale mi sfugge. La vanità, nel caso non lo sappia, richiede un pubblico. La vita dentro la mia bolla di sapone mi è diventata intollerabile, non ho nessuno per cui recitare e perciò non sono nessuno.

Probabilmente le sembrerà assurdo che qualcuno della mia notorietà e nella mia situazione di benessere, abbia scelto questa fine. Sento che sto per lanciarmi in una spiegazione lunga e confusa, ma sarebbe soltanto il Torre Muga a parlare. Mi scuso di nuovo per il disturbo, Javier. Per favore, dia l’altra mia lettera a mio figlio, Sebastián. Con lui spero che riesca dove io ho miseramente fallito.

Con un abrazo,

Pablo Ortega

P.S. Non le ho mai mostrato la mia collezione. Per favore, la guardi pure quando le fa comodo.

P.P.S. Per cortesia informi mio fratello Ignacio. Troverà il suo numero nella rubrica sul tavolo di cucina.


Falcón rilesse la lettera più volte finché non fu interrotto dal rumore del verricello elettrico. In piedi sulla soglia, rimase a guardare mentre il cadavere gonfio e sporco di Ortega emergeva dal foro nel pavimento, una lastra di pietra fissata sul petto con il nastro isolante e un’altra infilata nei pantaloni corti. Fece venire il Médico Forense e disse a Felipe di scattare altre fotografie, poi andò a sedersi accanto ad Alicia Aguado e le lesse la lettera di Ortega.

«Non credo che fosse ubriaco quando l’ha scritta», commentò Alicia.

«C’erano tre bottiglie vuote di Muga.»

«Non erano dentro di lui quando ha scritto questa lettera. Ha dichiarato la sua responsabilità, ma è stato molto attento a non ammettere nulla. Il fatto che neghi che il suo suicidio abbia qualcosa a che fare con ‘i recenti sviluppi’ mi pare importante. Era davvero in una fase di negazione. Non poteva affrontare ciò che secondo lui sarebbe emerso da quegli sviluppi.»

«I soli sviluppi recenti di cui io sia a conoscenza sono la morte di Rafael Vega e la mia offerta di aiuto per suo figlio.»

Tornò Cristina Ferrera, che aveva parlato con i pochi vicini che era riuscita a trovare. La mattina precedente Ortega aveva portato fuori i cani due volte, alle undici del mattino e alle cinque del pomeriggio, era uscito in macchina, restando fuori tutte e due le volte per circa un’ora e mezzo.

«Lei porterebbe fuori i cani se stesse per affogarli?» le domandò Falcón.

«Sembra che sia stata una sua abitudine», rispose Cristina Ferrera, «anche il vicino li portava fuori alla stessa ora. E si dà da mangiare e si fa fare esercizio fisico perfino ai condannati a morte.»

«Uccidere i cani ha a che fare con il suo egoismo dichiarato e con la sua vanità, i cani erano parte di lui, solo lui sapeva amarli», spiegò Alicia Aguado. «Lo ha visto ieri mattina, prima che uscisse in macchina, Javier. Di che cosa avete parlato?»

«Mi interessava il suo rapporto con Rafael Vega, come lo avesse conosciuto, se fosse stato tramite Raúl Jiménez e se avesse mai frequentato qualche loro conoscente. Avevo una fotografia di lui insieme ad altre persone a una specie di festa e mi è parso che ne fosse rimasto turbato. Gli ho parlato anche di suo figlio. Poi me ne sono andato… No, non è stato proprio così, prima mi aveva parlato di un suo sogno ricorrente. E dopo che me ne ero andato, mi è venuta in mente una domanda da fargli e sono tornato indietro, ma l’ho visto inginocchiato sul prato. E piangeva.»

Alicia Aguado gli chiese di raccontargli il sogno e Falcón le spiegò che Ortega vedeva se stesso in un campo, con le mani doloranti.

«Ho letto il suo rapporto sul vostro primo incontro», intervenne Cristina Ferrera. «Era molto diverso allora.»

«Sì, era più attore», ammise Falcón. «In quel colloquio aveva recitato quasi sempre. In seguito si era fatto più serio. La tensione aumentava.»

«Aveva l’impressione che lei lo stesse accusando. Di che cosa, Javier?» gli domandò Alicia.

«Non voglio parlarne finché non avrò le idee più chiare. Devo lavorarci su ancora molto», rispose Falcón.

Jorge chiamò Falcón a consulto sulla scena del crimine. Erano tutti convinti che si fosse trattato di un suicidio, non avevano trovato nessun elemento che li inducesse a credere a qualcosa di diverso. Le impronte di Ortega erano dappertutto. Juan Romero sollecitò l’opinione del Médico Forense.

«Ora della morte le tre circa, la causa annegamento. Sulla fronte c’è un unico segno probabilmente dovuto alla caduta nel pozzo. Il mio verdetto pre-autopsia è che si sia suicidato.»

Il Juez Romero firmò il levantamiento del cadáver. Falcón gli disse che avrebbe informato il parente più prossimo come aveva richiesto il deceduto. Felipe e Jorge se ne andarono e Falcón, prima di lasciarla andare, disse a Cristina Ferrera di occuparsi delle telefonate il lunedì seguente, poi si recò in cucina, trovò la rubrica e chiamò il cellulare di Ignacio Ortega, ma lo trovò spento. Disse a Romero che avrebbero informato la stampa della morte di Pablo Ortega solo dopo aver parlato con il fratello.

L’ambulanza e le auto si allontanarono verso l’Avenida de Kansas City, ma una macchina della polizia rimase sul posto per tenere d’occhio la casa. La notizia della morte di Ortega probabilmente avrebbe fatto scalpore. Falcón si offrì di accompagnare a casa Alicia Aguado, ma la psichiatra era ansiosa di ascoltare da lui la descrizione della collezione nominata nella lettera.

La collezione, che Ortega aveva spostato nel soggiorno dopo il crollo della copertura della fossa biologica, era stata raccolta a un’estremità della stanza, i pezzi più piccoli sui tavoli, le sculture sul pavimento e i quadri appoggiati alle pareti. Su un foglio di carta attaccato con lo scotch alla superficie di un tavolo antico erano elencati tutti i pezzi con la data di acquisto e il prezzo. Falcón fece scorrere lo sguardo sui diciotto pezzi elencati fino al quadro di Francisco Falcón che aveva visto durante la sua prima visita.

«Interessante», disse, «Ortega ha comprato il dipinto di Francisco Falcón il 15 maggio del 2001, cioè dopo che la frode era stata scoperta. E lo ha pagato duecentocinquantamila pesetas.»

«A quanto si vendevano prima?»

«Avrebbe dovuto sborsare circa due milioni. Lo ha comprato bene, perché ora stanno risalendo. I vecchi collezionisti hanno cercato di liberarsi dei Francisco Falcón quando si è diffusa la notizia, ma ora si è creato un mercato diverso, compratori appartenenti al genere postmoderno: ‘Che cos’è la vera arte?’ e cose del genere. E tra loro e i cacciatori di cimeli di criminali celebri, i prezzi sono di nuovo alti.»

«Così conosceva Francisco, ma ha comprato un suo quadro solo quando la verità su di lui è stata rivelata a tutti», osservò Alicia Aguado. «Questo dice qualcosa.»

Falcón le raccontò del disegno di Picasso, un centauro, e come Ortega lo usasse per mettere alla prova le persone.

«Mi descriva i pezzi della lista. La fermerò se avrò bisogno di particolari.»

«Due statuette africane di ebano raffiguranti giovani con una lancia nel pugno, Costa d’Avorio. Una maschera dello Zaire.»

«Me la descriva, Javier. Gli attori sono esperti di maschere.»

«È lunga sessanta centimetri, larga venti, ha i capelli rossi, per occhi due fessure e un lungo naso, pezzetti di osso e frammenti di specchio infilati nella bocca a mo’ di denti. È una cosa piuttosto terrificante, ma ben modellata. Comprata a New York nel 1966 per novecentocinquanta dollari.»

«Sembrerebbe la maschera di uno stregone. Continui.»

«Le quattro seguenti sono statuette di porcellana Meissen, tutte maschili.»

«Detesto le statuette di porcellana.»

«Uno specchio lungo con cornice dorata rococò. Parigi, 1984. Novemila franchi.»

«Qualcosa in cui guardarsi con un’aureola d’oro.»

«Una bottiglia di vetro romano, opaca, con i colori dell’iride. Una serie di monete d’argento, anche queste romane. Una poltrona dorata Luigi XV, acquistata a Londra nel 1982. L’ha pagata novemila sterline.»

«Abbastanza costosa da poter essere il suo trono.»

«Un cavallo di bronzo al galoppo, romano. Una testa di toro greca. Un frammento di vaso con figura di ragazzo che corre, greco. Un’opera di Manuel Rivera dal titolo Anatomía en el Espejo.»

«Anatomia in uno specchio? Come è fatta?»

«Metallo su legno. Immagine speculare. Difficile da descrivere. E qui c’è anche un quadro di Zobel intitolato Giardino secco, nonché un dipinto erotico indiano.»

«Che genere di erotismo?»

«Una descrizione piuttosto esplicita di un uomo con un pene enorme che fa l’amore con una donna», spiegò Falcón. «E questo è tutto.»

«Un uomo molto complicato, con le sue figure, le sue maschere e i suoi specchi», osservò Alicia. «Non c’è un’indicazione di come abbia cominciato la raccolta?»

Falcón frugò nei cassetti di una scrivania antica e trovò una serie di fotografie della collezione, ognuna con una data sul retro. In tutte Pablo Ortega era seduto sulla sedia Luigi XV. La più recente comprendeva tutti i pezzi tranne il dipinto erotico indiano e lo Zobel. Poi Falcón si rese conto che nella foto Ortega stava guardando lo Zobel, mentre il dipinto indiano era più recente e non era stato incluso. Descrisse la foto ad Alicia.

«Sembra che voglia mostrarci la Bella e la Bestia. La maschera dello Zaire è tutte e due le cose. I pezzi su un lato sembrerebbero immagini di bellezza, di nobiltà e di magnificenza: il centauro di Picasso, la testa di toro, il cavallo al galoppo, il ragazzo che corre. Sto semplificando, perché è più complicato di così. Anche i centauri sono mostri. E da che cosa fugge il ragazzo? Poi ci sono le monete e la bottiglia romana, bella ma vuota. E il quadro di Rivera riflesso nello specchio dorato… questo non lo capisco.»

«E i pezzi sull’altro lato?»

«Tra quelli c’è il fraudolento Francisco Falcón e Ortega ha passato la vita a fingere. Le belle figurine racchiuse nella porcellana, cioè l’attore nei suoi ruoli… e con l’implicito ‘Io sono vuoto come loro’. Lo specchio è qualcosa di duro, di riflettente, che avvolge in oro il suo narcisismo.»

«E i giovani di ebano?»

«Non saprei… forse custodiscono i suoi segreti. O li mantengono.»

«E perché lui guarda sempre il Giardino secco

«Probabilmente questa è la sua idea della morte: bella, ma disseccata. Javier, lo sa che non potrà usare nulla di tutto questo in un tribunale?» soggiunse Alicia.

«Certo», rise Falcón, divertito da quella ipotesi assurda. «Spero soltanto di capire meglio. Pablo mi aveva detto che la collezione rivelava tutto di lui, che non aveva niente da nascondere. Qual è la sua impressione generale?»

«È una collezione molto maschile, l’unica figura femminile è nel dipinto erotico indiano, perfino i pezzi che non raffigurano esseri umani sono maschili: cavalli, tori, centauri. Che ne è stato della moglie, la madre di Sebastián?»

«È morta di cancro, ma, e questo è interessante, prima era scappata… cito le parole esatte di Pablo: era scappata in America con un idiota col cazzo grosso.»

«Oh mio Dio», disse Alicia fingendosi sgomenta. «Guai in camera da letto. Mi chiedo se tutti questi specchi, maschere e figure non vogliano dire che il ruolo più importante che ha mai interpretato è quello di se stesso nella sua propria vita, recitando la parte dell’uomo virile, forte, sessualmente potente, mentre in realtà… non lo era.»

«Forse è arrivato il momento di parlare con il figlio», concluse Falcón.

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