Lunedì 29 luglio 2002
Erano le tre del pomeriggio passate, Falcón era affamato. Ramírez, uscendo per andare a pranzo, gli disse che Cristina Ferrera era nella stanza degli interrogatori numero quattro con Salvador Ortega, e che Elvira aveva chiamato: aveva parlato con il direttore del carcere e Alicia Aguado avrebbe potuto seguire Sebastián Ortega senza nessuna interferenza.
«Ho telefonato anche al Juez Calderón», continuò Ramírez, «avevo pensato che avremmo potuto ricordargli il mandato di perquisizione per la cassetta di sicurezza. È via, non si sa dove si trovi, non si sa quando sarà di ritorno e il mandato è andato a puttane. Buen provecho.»
Scendendo le scale verso le stanze degli interrogatori Falcón chiamò il direttore del carcere per fissare un appuntamento e sapere con chi avrebbero dovuto mettersi in contatto. La segretaria gli riferì che avrebbero potuto cominciare subito e che il momento migliore sarebbe stato tra le sei e le nove di sera. Mentre osservava il volto devastato di Salvador Ortega attraverso il pannello di vetro telefonò ad Alicia Aguado: si misero d’accordo per le diciotto e trenta. Chiamò il carcere e confermò l’appuntamento per le diciannove. Sarebbe stata una lunga giornata. Cristina Ferrera uscì e gli riferì che aveva fatto qualche domanda nei pressi della casa dove abitava Nadia mentre l’agente della squadra Narcotici cercava Salvador Ortega. Nessuno aveva visto niente. Perfino le persone che l’avevano veduta portare via ora non ricordavano più nulla. Falcón prese tre caffè dalla macchina.
Salvador Ortega fumava, lo sguardo fisso sulle sue dita ingiallite, lanciando ogni tanto un’occhiata a Cristina Ferrera, che gli sedeva accanto e riusciva in parte a stabilire un contatto con lui. La capigliatura esplosiva, la barbettina e i baffi nascondevano un viso che sarebbe stato bello, la maglietta era così sbiadita che si distinguevano a fatica solo tracce di colori e la scritta Megadeath, le gambe sotto i bermuda erano piene di graffi e di escoriazioni. Mentre gli altri due sorseggiavano il caffè, il giovane fumava accanitamente.
«Quando è stata l’ultima volta che hai parlato con tuo padre?» gli domandò Falcón.
«Io non parlo a mio padre e lui non parla con me.»
«Hai letto un giornale di recente?»
«Nella mia situazione le notizie non hanno nessuna importanza.»
«Frequentavi tuo zio Pablo?»
«Quando ero piccolo mi divertivo sempre molto con lui», disse Salvador. «Era un sollievo.»
«Un sollievo da che cosa?»
Salvador aspirò una lunga boccata e soffiò il fumo verso il soffitto.
«Zio Pablo era divertente. Ma ho passato del tempo con lui solo da bambino.»
«Vivevi ancora con i tuoi quando lasciava solo Sebastián mentre era in tournée o girava un film. Quanti anni avevi a quel tempo?»
Le labbra si mossero, ma non uscì nulla. Cristina Ferrera gli diede un colpetto sulla spalla.
«Non è un esame, Salvador», lo rassicurò. «Ti ho detto venendo qui che non ci sarebbe stata nessuna ripercussione su di te, non sei sospettato di nulla. Vogliamo solo parlarti per capire se puoi essere di aiuto a tuo cugino.»
«Avevo sedici anni», rispose alla fine il ragazzo. «E nessuno può aiutare mio cugino.»
«Hai seguito la vicenda di Sebastián?»
La mano che teneva la sigaretta tremò. Salvador annuì e ricacciò con un respiro ciò che gli era salito alla gola, qualsiasi cosa fosse stato.
«Ti fai di eroina?» gli domandò Falcón, per spostarsi su un terreno più sicuro.
«Sì.»
«Da quanto tempo?»
«Da quando avevo quindici anni.»
«E prima?»
«Ho cominciato a fumare hashish quando avevo dieci anni… fino a quando non ha più funzionato. Poi sono passato alla roba che funziona.»
«Funziona come?»
«Mi porta via da me stesso… in un posto dove mi sento a casa con la mente e col corpo.»
«E dov’è questo posto?»
Il ragazzo batté le palpebre, lanciando una rapida occhiata a Falcón, impreparato a quel genere di domande.
«È dove mi sento libero. E cioè da nessuna parte.»
«Facevi già uso di eroina la prima volta che Sebastián venne a stare da voi?»
«Sì, ricordo che stavo… bene.»
«Che cosa ricordi di Sebastián?»
«Era un ragazzino… simpatico.»
«Tutto qui?» si stupì Falcón. «Non parlavi con lui? Non giocavate insieme? Voglio dire, sua madre lo aveva abbandonato e il padre era assente. Deve averti visto come un fratello maggiore.»
«Ci vuole tempo per mettere insieme i soldi quando ci si fa di eroina a sedici anni», spiegò Salvador. «Ero troppo impegnato a scippare i turisti e a non farmi prendere dai poliziotti.»
«Perché hai cominciato così presto a fumare hashish?»
«Fumavano tutti, a quel tempo si comprava al bar con la Coca Cola.»
«Comunque sia, dieci anni sono molto pochi.»
«Probabilmente non ero felice», disse Salvador, sorridendo senza convinzione.
«Era per via di qualche problema in famiglia?»
«Mio padre era severissimo. Ci picchiava.»
«Picchiava chi? Te e tua sorella?»
«No, mia sorella no… a lei non era interessato.»
«Interessato?»
Salvador spense la sigaretta con forza e si strinse la mani tra le cosce.
«Senta», disse, «non mi va di essere… assillato.»
«Voglio solo capire esattamente quello che dici», precisò Falcón.
«Lei poteva fare quello che voleva, questo volevo dire.»
«Allora che cosa intendevi dicendo ‘ci picchiava’?»
«Picchiava me e i miei amici», rispose Salvador, scrollando le spalle di scatto. «Era così a quel tempo.»
«Che cosa dicevano i genitori dei tuoi amici del fatto che tuo padre li picchiasse?»
«Lui diceva sempre che non avrebbe fatto sapere a nessuno quanto erano stati cattivi, perciò i miei amici non dicevano nulla ai genitori.»
Falcón lanciò uno sguardo a Cristina Ferrera, che inarcò le sopracciglia e guardò Salvador. La fronte del ragazzo era imperlata di sudore, nonostante l’aria condizionata.
«Quando ti sei fatto l’ultima volta?» gli domandò Falcón.
«Sono a posto.»
«Ho una brutta notizia da darti, ti farà stare male.»
«Non può farmi stare male più di così.»
«Tuo zio Pablo è morto sabato mattina, si è suicidato.»
Cristina Ferrera accese una sigaretta e gliela offrì, ma Salvador si piegò in avanti, appoggiando la fronte sul bordo del tavolo, le spalle scosse come da un brivido. Dopo un momento si raddrizzò e si asciugò con la mano le lacrime silenziose che gli scorrevano lungo le guance. Cristina Ferrera gli porse la sigaretta e il ragazzo aspirò una boccata, inghiottendo il fumo.
«Te lo chiedo di nuovo: avevi un buon rapporto con tuo zio Pablo?»
Questa volta Salvador annuì.
«Quanto spesso lo vedevi?»
«Qualche volta al mese. Avevamo fatto un patto. Lui mi avrebbe dato i soldi per l’eroina, se avessi tenuto sotto controllo l’abitudine. Non voleva che rubassi e finissi di nuovo in carcere.»
«Quanto tempo è andato avanti il patto?»
«Tre anni, dopo che sono uscito di prigione e prima che mi rimettessero dentro.»
«Sei stato condannato per spaccio, non è vero?»
«Sì, ma non spacciavo, mi hanno solo beccato con troppa roba addosso. Per questo mi hanno dato solo quattro anni.»
«Pablo era rimasto deluso da te?»
«L’unica volta che si era arrabbiato con me era stata quando avevo rubato un pezzo della sua collezione, solo un disegno, uno scarabocchio su un foglio di carta. L’avevo venduto per ventimila pesetas di roba. Pablo aveva detto che ne valeva trecentomila.»
«Era molto arrabbiato?»
«Era furioso. Però non mi aveva picchiato, sa, eppure, secondo i criteri di mio padre avrebbe avuto il sacrosanto diritto di scuoiarmi vivo.»
«È stato allora che avete fatto quell’accordo?»
«Solo dopo che si era calmato e aveva riavuto il disegno.»
«Vedevi spesso Sebastián in quel periodo?»
«Lo vedevo parecchio dopo che aveva cominciato a frequentare le Belle Arti. Poi andavo da lui solo dopo che avevo saputo dell’appartamentino che Pablo gli aveva comprato in Jesus del Gran Poder. Ci andavo per non stare in strada quando mi facevo. Pablo l’aveva scoperto e aveva aggiunto una clausola al nostro patto: non avrei dovuto più vedere Sebastián fino a quando non fossi stato pulito. Pablo aveva detto che era in uno stato di fragilità e non voleva avere anche il problema della droga oltre al resto.»
«Hai mantenuto la promessa?»
«A Sebastián non è mai interessata la droga, aveva altri sistemi per chiudere fuori il mondo.»
«Per esempio?»
«Lo chiamava ‘ritirarsi nella bellezza e nell’innocenza’. Nel suo appartamento aveva una stanza insonorizzata e senza finestre. Io la usavo per farmi di eroina. Aveva dipinto sul soffitto un sacco di punti luminosi, era come essere avvolti in una notte vellutata. Sebastián se ne stava là ad ascoltare musica e i nastri con le poesie lette da lui.»
«Quando si era fatto quella stanza?»
«Subito, appena Pablo gli ha comprato l’appartamento… cinque o sei anni fa.»
«Perché glielo aveva comprato?»
«Trovavano difficile vivere insieme. Litigavano di continuo. Alla fine avevano smesso addirittura di parlarsi.»
«Pablo aveva mai picchiato Sebastián?»
«Non mi risulta.»
«E tuo padre?»
Silenzio.
«Intendo dire quando Sebastián viveva con voi», precisò Falcón.
Pareva che Salvador avesse difficoltà a respirare. Cominciò a iperventilare. Cristina Ferrera si portò dietro di lui e lo calmò posandogli le mani sulle spalle.
«Ti piacerebbe aiutare Sebastián?» gli domandò Falcón.
Salvador fece segno di sì.
«Non devi vergognarti di niente qui, tutto quello che dirai sarà usato solo per aiutare Sebastián.»
«Ma qui c’è qualcosa di cui vergognarsi», disse il ragazzo all’improvviso, livido in faccia, battendosi il pugno sul petto.
«Non siamo qui per giudicarti, questo non è un processo su questioni morali», intervenne Cristina Ferrera. «Quando si è giovani ci capitano delle cose e non c’è modo di…»
«A te che cosa è capitato, eh?» esclamò Salvador, scostandosi bruscamente. «Che cazzo ti è capitato? Tu sei una poliziotta del cazzo, a te non è capitato niente, non sai niente di quello che succede là fuori, vieni da un mondo tutto perbenino, lo sento dall’odore che hai, di sapone. Tu esci da quel mondo sicuro e agiti un pochino la superficie di quello dove viviamo noi, arresti qualcuno per un crimine da niente e non hai idea di che cosa sia vivere dall’altra parte, non ne hai la minima idea!»
La ragazza fece un passo indietro e in un primo momento Falcón pensò che fosse rimasta scioccata, ma Cristina Ferrera stava semplicemente riaffermando la sua presenza, gli stava dicendo qualcosa col suo silenzio mentre Salvador non poteva vederla: l’atmosfera nella stanza degli interrogatori era più tesa che se si fosse spogliata nuda.
«Per via del mio aspetto e del lavoro che faccio, tu credi che non mi sia mai capitato niente?» disse alla fine.
«Coraggio, allora», la incitò Salvador, «dimmi che cosa ti è successo, piccola poliziotta.»
Silenzio mentre Cristina Ferrera valutava la situazione.
«Non sarei tenuta a dirtelo e non gradisco particolarmente che il mio superiore lo sappia, ma te lo dirò, perché tu hai bisogno di sapere che le cose di cui ci si vergogna capitano anche agli altri, perfino alle giovani poliziotte, e se ne può parlare senza che gli altri ci giudichino. Mi stai ascoltando, Salvador?»
I loro sguardi si incontrarono e Salvador annuì.
«Prima di entrare nella polizia stavo per farmi suora. L’Inspector Jefe questo lo sa e sa anche che ho conosciuto un uomo e sono rimasta incinta. Perciò non sono diventata suora e mi sono sposata. Ma c’è qualcosa che il mio superiore non sa, una cosa di cui mi vergogno molto e dirla davanti a lui mi costerà enormemente.»
Nessuna reazione da parte di Salvador. Il silenzio nella stanza era fragoroso. Cristina Ferrera trasse un profondo respiro. Falcón non era certo di voler stare ad ascoltare, ma era troppo tardi ormai, la ragazza era decisa ad andare avanti.
«Io sono di Cadice, una città di mare con gente piuttosto pericolosa. Io vivevo con mia madre, che non sapeva del mio incontro con quell’uomo. Ero arrivata al punto in cui avevo deciso di dire tutto alle suore, ma prima volevo parlare con l’uomo che amavo. Ero vergine allora, perché credevo nella santità del matrimonio. Quella sera, mentre stavo andando all’appartamento del mio innamorato, sono stata aggredita da due uomini che mi hanno violentata. È accaduto tutto molto in fretta. Non ho opposto resistenza, ero fragile in modo patetico nelle loro mani. In dieci minuti hanno fatto tutto quello che hanno voluto e mi hanno lasciata lì completamente insozzata. Sono tornata barcollando da mia madre. Dormiva già. Ho fatto la doccia e mi sono messa a letto, ero a pezzi, tremavo tutta. Mi sono svegliata sperando che fosse stato un brutto sogno, ma avevo male dappertutto e mi sentivo morire dalla vergogna. Una settimana dopo, quando non sentivo più male, sono andata a letto con l’uomo che amavo e il giorno dopo ho detto alle suore che me ne sarei andata. A tutt’oggi non sono del tutto sicura di chi sia il padre del mio primo figlio.»
Arretrò finché non ebbe incontrato il sedile della sedia e vi si lasciò cadere di peso, tanto da farla dondolare. Pareva sfinita. Gli occhi di Salvador, fino a quel momento fissi in quelli di lei, si abbassarono sulla sigaretta che stringeva tra le dita tremanti.
«La ragione per cui non vedo più mio padre è che lo odio», disse. «Lo odio di un odio così potente che, se lo vedessi, commetterei certamente un grave atto di violenza. Lo odio perché è un traditore, ha tradito la fiducia più grande che ci possa essere, quella tra un genitore e un figlio. Mi picchiava perché fossi sempre spaventato, perché non mi passasse nemmeno per la testa di raccontare a qualcuno cosa mi faceva. Mi picchiava perché sapeva che quelle botte sarebbero diventate leggendarie nel vicinato e così tutti i bambini avrebbero avuto paura di lui. E quando venivano a casa nostra, era così gentile con loro che gli lasciavano fare tutto quello che voleva, ma non hanno mai osato parlare. Quei due uomini l’hanno violentata. Mio padre mi ha violentato fino a quando ho avuto dodici anni. Poi ha smesso. Avevo pensato che il fumo mi avrebbe aiutato a non pensarci più. Mi avrebbe fatto dimenticare la mia infanzia, mi avrebbe aiutato a liberarmi di lui e a vivere la mia vita. E forse avrei anche potuto farcela. Ma poi lo zio Pablo portò da noi Sebastián. E questa è la mia vergogna. Per questo sono come sono. Perché non dissi mai nulla mentre mio padre faceva a Sebastián quello che aveva fatto a me. Avrei dovuto… avrei dovuto difenderlo, avrei dovuto essere per lui, come avete detto voi, un fratello maggiore. Ma non lo sono mai stato, sono stato un vigliacco e ho assistito alla sua rovina.»
Dopo qualche minuto la vita reale tornò a insinuarsi nella stanza. Ronzio di una lampadina, ticchettio del registratore.
«Quando è stata l’ultima volta che hai visto tuo zio Pablo?» domandò Falcón.
«L’ho visto venerdì mattina, solo una mezz’ora. Mi ha dato un po’ di soldi, abbiamo parlato. Mi ha chiesto se sapessi perché Sebastián aveva fatto quello che aveva fatto. Io sapevo a che cosa stava mirando, che cosa voleva da me. Ma non sono stato capace di parlargli come ho fatto con voi, non sono riuscito a confessare che avevo mancato in modo così grave con il padre di Sebastián, con mio zio, che mi aveva aiutato tanto. Credo che lo avesse sempre sospettato, ma non riuscisse a credere una cosa simile di suo fratello. Voleva da me una conferma e io avrei dovuto essere in grado di dargliela, ma non l’ho fatto. Alla fine della conversazione mi ha abbracciato e mi ha baciato sulla testa. Non lo faceva da quando ero piccolo. Io ho pianto sulla sua camicia, poi siamo andati insieme fino alla porta e lui mi ha dato un colpetto sulla guancia con la sua mano massiccia e mi ha detto: ‘Non giudicare tuo padre troppo severamente, ha avuto una vita dura, quando eravamo bambini si è sempre preso tutte le botte che sarebbero dovute toccare anche a me. Tutte quante. Era un duro, povero bastardo. Sopportava tutto in silenzio’.»
«Sai perché Sebastián ha fatto quello che ha fatto?» domandò Falcón.
«Non vedevo più Sebastián. Il patto, ricorda? Non volevo romperlo. Quando qualcuno si fida di te, si cerca di non tradirlo, no?»
«Sei rimasto sorpreso dal crimine di Sebastián?»
«Non riuscivo a crederci. Non riuscivo a capire che cosa mai fosse successo nella sua mente da quando avevo smesso di vederlo. Era una cosa che contrastava con tutto quello che conoscevo di lui.»
«Altre due richieste», disse Falcón, spegnendo il registratore, «e poi abbiamo finito. Ho pregato una psicoterapeuta di parlare con Sebastián, per cercare di sbloccarlo. Sarebbe di aiuto se potessi farle ascoltare questa registrazione. Sarà l’unica ad ascoltarla. Forse vorrà parlare con te o chiederti di aiutare Sebastián in qualche modo.»
«Nessun problema.»
«L’altra richiesta è più difficile», continuò Falcón. «Tuo padre ha fatto alcune cose molto brutte…»
«No», lo interruppe Salvador, il viso duro come legno ora, «questo non può chiedermelo.»
Tornando al Polígono San Pablo, Falcón, seduto con Salvador sul sedile posteriore dell’auto, si accordò con lui su come mettersi in contatto nel caso che Alicia avesse bisogno del suo aiuto. Gli disse inoltre che Pablo gli aveva lasciato qualcosa nel testamento e di parlare con Ranz Costa.
Lo lasciarono alla periferia del barrio. Cristina Ferrera lo baciò sulle guance. Falcón si spostò sul sedile anteriore e insieme seguirono con lo sguardo il giovane allontanarsi con passo malfermo, un laccio delle scarpe allentato che gli batteva contro il polpaccio magro e pieno di croste.
«Non era necessario che lo facesse», disse Falcón mentre Cristina Ferrera faceva manovra.
«Che cosa? Baciarlo? Era il minimo che si meritasse.»
«Volevo dire che non era necessario raccontare la sua storia per farlo parlare. Farsi suora, rispondere a una vocazione come quella, immagino che sia un processo… di confessione e purificazione davanti a Dio. Anche il lavoro nella polizia è una missione, ma non c’è nessun Dio al quale ci si debba confessare.»
«Un Inspector Jefe è un personaggio molto in alto», sorrise Cristina Ferrera. «E, comunque, ho fatto pratica per la confessione vera. Devo ancora dirlo a mio marito.»