Lunedì 29 luglio 2002
Di ritorno alla Jefatura trovò Ramírez seduto a fumare nella sala operativa. Cristina Ferrera, disse, stava tornando con Salvador Ortega, che era stato individuato in una ‘sala di tiro’ nel Polígono San Pablo. Lo informò inoltre che Virgilio Guzmán, giornalista del Diario de Sevilla, lo stava aspettando pazientemente nel suo ufficio. La cosa innervosì Falcón, perché Virgilio Guzmán non si occupava più di cronaca nera.
Virgilio Guzmán era di qualche anno più giovane di Falcón, ma la vita che aveva fatto e il lavoro lo avevano invecchiato notevolmente. Prima di trasferirsi a Siviglia aveva vissuto a Bilbao e a Madrid, occupandosi dei terroristi dell’ETA. La sua ambizione e la sua tenacia sul lavoro gli erano costate il matrimonio; la tensione costante, la pressione alta e l’aritmia. Ed era convinto che non vedere mai suo figlio, che ormai aveva sei anni, gli avesse causato il cancro al colon, dal quale era guarito perfettamente a costo di un bel tratto di intestino. Dalle angosce sul lavoro era passato alle angosce causate dalla sua anatomia.
Tutto ciò lo aveva cambiato. La moglie lo aveva lasciato prima che gli fosse diagnosticato il cancro, dicendogli che era un uomo troppo duro. Ora si era ammorbidito, non troppo, solo fino a tornare un uomo fatto di carne, ma non aveva perduto nulla del suo fiuto di giornalista, che gli permetteva sempre di capire quando qualcosa non andava per il suo verso. E ora sapeva che il primo suicidio di un funzionario di grado elevato della polizia significava che c’era del marcio da qualche parte nella Jefatura. Era un giornalista educato e domandò il permesso di azionare il registratore. Lo posò al centro della scrivania, lo accese e si sistemò sulla sedia con il suo taccuino.
Falcón non disse una parola. Aveva preso una decisione istantanea a proposito di Guzmán: era un uomo di cui si poteva fidare e non solo a motivo della sua reputazione. Pensò anche, sbuffando al pensiero della sua ingenuità, con solo quarantotto ore a disposizione per dimostrare che Vega era stato assassinato, che Guzmán, con la sua vasta esperienza, avrebbe potuto offrirgli qualcosa che lo indirizzasse verso sviluppi e direzioni diversi nella sua indagine. In cambio avrebbe dovuto concedergli qualcosa per quanto riguardava Montes, ma, d’altronde, rendere di pubblico dominio un caso di corruzione e tagliare il marcio alla radice sarebbe stata una cosa buona… no?
«E così, Inspector Jefe, pare che lei stia indagando sulla morte del suo collega, l’Inspector Jefe Alberto Montes, vero?»
Falcón tacque per due lunghi minuti durante i quali Guzmán alzò lo sguardo su di lui, battendo le palpebre come un animale abituato a vivere sottoterra.
«Mi dispiace, Inspector Jefe», disse alla fine, «ma è la domanda iniziale più semplice che mi sia venuta in mente.»
Falcón si sporse in avanti e spense il registratore.
«Lei sa che con quella macchina accesa io posso darle soltanto i fatti.»
«Be’, potremmo cominciare così e poi starà a me estrarre il resto. Così funzionano le cose da dove vengo io.»
«I fatti li conosce già», disse Falcón. «Si tratta di un evento degno di essere riportato sulla stampa, la caduta mortale di un funzionario di polizia. È il perché dei fatti a contenere la storia dell’uomo.»
«E che cosa le fa pensare che io sia alla ricerca di un caso umano e non, poniamo, di qualcosa sul genere ‘la corruzione raggiunge il cuore dell’amministrazione regionale’?»
«È possibile che lei finisca per avere una storia di questo tipo, ma per arrivare là bisogna passare per il caso umano, occorre comprendere i pensieri che hanno condotto un funzionario rispettato, che non ha mai rivelato tendenze suicide, a compiere un atto così drastico.»
«Davvero?» si stupì Guzman. «Normalmente noi giornalisti, o meglio, i giornalisti della mia reputazione, trattano fatti. Noi riferiamo fatti, costruiamo sui fatti, creiamo un fatto più grande sui fatti più piccoli che scopriamo.»
«Allora accenda la sua macchina e io le darò i fatti assolutamente certi della morte di un collega che era molto ammirato dagli uomini della sua squadra e dai suoi superiori.»
Guzmán posò il taccuino e la penna sulla scrivania e si raddrizzò sulla sedia, esaminando Falcón con attenzione. Intuiva che per lui esistevano possibilità interessanti, se fosse riuscito a trovare l’approccio giusto, possibilità forse collegate non soltanto al lavoro. Era arrivato a Siviglia da solo. Ammirato e, credeva, rispettato dai suoi colleghi giornalisti, ma solo. Non gli sarebbe dispiaciuto farsi un amico ed era quella la possibilità che vedeva dall’altra parte della scrivania.
«Non ho mai lavorato con nessuno», disse dopo un minuto di riflessione. «Ho dovuto farlo, perché in certe situazioni lavorare con un’altra persona era troppo rischioso. Ho sempre voluto essere responsabile soltanto delle mie idee e delle mie azioni e non la vittima di quelle degli altri. Ho trascorso troppo tempo in compagnia di uomini violenti per comportarmi da incosciente.»
«In una storia umana come questa c’è sempre un lato tragico», disse Falcón. «Qualcuno che si sente ferito e tradito, mentre altri soffrono per il dolore della perdita.»
«Forse ricorderà, Inspector Jefe, che io mi sono occupato del caso delle squadre della morte della Guardia Civil inviate dal governo a eliminare le cellule terroristiche dell’ETA. Comprendo la tragedia del tradimento di certi valori su scala grande e piccola. Gli effetti di quella storia li hanno sentiti tutti.»
«I poliziotti sono costretti a fare congetture su congetture per trovare una direzione per le loro indagini, ma le congetture non sono ammesse in un tribunale.»
«Le ho detto della mia fiducia nei fatti», ribatté Guzmán, «ma non mi è sembrato soddisfatto.»
«L’informazione è una strada a doppio senso», disse Falcón, sorridendo per la prima volta.
«D’accordo.»
«Se scoprirà qualcosa di esplosivo me ne parlerà prima di pubblicarla sul suo giornale.»
«Gliene parlerò, ma non cambierò nulla.»
«Ecco i fatti: ho conosciuto Montes solo la settimana scorsa. Stavo e sto ancora indagando sulla morte di Rafael Vega.»
«Il sospetto suicidio di Santa Clara», disse Guzmán, riprendendo in mano il taccuino e puntando la penna contro Falcón. «Il vicino di Pablo Ortega. La città giardino in crisi… non è un titolo, detto tra parentesi.»
«In una rubrica telefonica mi sono imbattuto in un paio di nomi, uno dei quali è Eduardo Carvajal», continuò Falcón.
«Il capo di un giro di pedofili morto in un incidente stradale. Io ricordo sempre i fatti che puzzano. La sua indagine farà saltare il coperchio anche di quel pozzo nero?»
Falcón alzò una mano, già inquieto al pensiero di avere stretto un patto col diavolo.
«Conoscevo quel nome da un’inchiesta precedente, così sono andato da Montes e gli ho chiesto informazioni su Carvajal. Era lui a capo delle indagini sul giro di pedofili.»
«Bene. Ho capito. Molto interessante.» Guzmán stava terrorizzando Falcón con la rapacità del suo intelletto.
Falcón cercò di rallentare la sua stessa attività cerebrale mentre riferiva la sua conversazione con Montes su Carvajal e la mafia russa, sul traffico di esseri umani e sugli effetti di questo traffico sull’industria del sesso. Gli disse dei due progetti immobiliari di Ivanov e Zelenov gestiti dalla Vega Construcciones e di come avesse parlato due volte con Montes dei russi — e in una delle due telefonate aveva capito che Montes aveva bevuto molto — per controllare se i nomi gli dicessero qualcosa.
«Avrei dovuto incontrarmi con lui stamani, ma non sono arrivato in tempo», concluse.
«Crede che fosse corrotto?» domandò Guzmán.
«Non ne ho nessuna prova, a parte il suo tempismo e la lettera che ha lasciato, che, a parer mio, nasconde qualcosa», spiegò Falcón porgendogliela. «Assolutamente confidenziale.»
Guzmán lesse la lettera, muovendo la testa di qua e di là come se la sua mente concreta dubitasse dell’interpretazione creativa di Falcón, poi la restituì.
«Qual era l’altro nome sulla rubrica di Vega che aveva attirato la sua attenzione?» domandò.
«Quello del defunto Ramón Salgado», rispose Falcón. «Potrebbe essere una cosa del tutto innocente, perché Salgado gli aveva venduto un quadro per la sede dell’impresa, ma dopo la sua morte, l’anno scorso, gli avevamo trovato sul computer materiale pornografico per pedofili.»
«Qui occorre riempire qualche grosso vuoto», disse Guzmán. «Qual è la sua teoria?»
Di nuovo Falcón lo fermò con un gesto della mano. C’erano alcune complicazioni, disse, rivelandogli la vita segreta di Rafael Vega.
«Noi speriamo che si trovi negli schedari dell’FBI e che possano aiutarci a identificarlo», disse.
«Allora lei pensa che possa aver avuto un passato e che questo passato sia tornato a galla? Un’altra ipotesi su un qualche collegamento con il giro di pedofili di Carvajal?»
«La situazione si è complicata a ogni nuovo sviluppo della vita segreta di Vega», spiegò Falcón. «L’ipotesi originaria mi è venuta in mente quando ho notato quei nomi nella rubrica di Vega. Dopo aver parlato con Montes la prima volta e aver trovato un legame tra Vega e i russi, ho cominciato a pensare che Vega aveva forse sostituito Carvajal come procacciatore nel giro di pedofili. Il problema maggiore di questa teoria è che non ho nessuna prova dell’interesse di Vega per la pedofilia, a parte il suo legame con persone che avevano quell’interesse e i grandissimi vantaggi che stava procurando ai russi con il suo lavoro.»
«Che cosa l’ha fatta dubitare dell’apparente suicidio di Vega?» gli domandò Guzmán.
«Il metodo usato, la pulizia sulla scena del crimine e il fatto che il biglietto trovato non fosse ciò che io definirei la lettera di un suicida. Prima di tutto era in inglese. In secondo luogo, era una frase lasciata a metà e in seguito abbiamo scoperto che Vega aveva tracciato i caratteri su altri da lui stesso vergati in precedenza, come se avesse voluto capire bene che cosa avesse scritto.»
«Quali erano le parole?»
«Nell’aria sottile che respirerete dall’11 settembre fino alla fine.»
«Quando mi ha parlato della sua vita segreta, ha accennato a un collegamento che le avrebbe fatto pensare a una sua origine sudamericana o centroamericana. Be’, la maggior parte della gente lo ha dimenticato dopo i fatti dell’anno scorso a New York, ma ci sono stati due 11 settembre. Secondo lei dove sono nato, Inspector Jefe?»
«Parla con accento di Madrid.»
«Ho vissuto a Madrid quasi tutta la vita, e pochi sanno che in realtà sono cileno. Il primo 11 settembre, quello che nessuno ormai ricorda più, è stato nel 1973. Fu il giorno del bombardamento del Palazzo della Moneda, dell’uccisione di Allende, il giorno in cui Pinochet salì al potere.»
Falcón strinse con forza i braccioli della poltrona girevole, fissò Guzmán negli occhi e sentì tutto quanto dentro di sé riassestarsi e uscire da un caos planetario, capì che il giornalista aveva ragione.
«Avevo quindici anni», proseguì Guzmán, il cui volto per un momento parve quello di un uomo sul punto di annegare e che vedesse la sua vita passata scorrergli davanti, «e quello fu anche l’ultimo giorno in cui vidi i miei genitori. In seguito venni a sapere che erano stati portati nello stadio di calcio, se ha in mente che cosa significhi.»
Falcón annuì. Aveva letto degli orrori perpetrati nello stadio di Santiago.
«Una settimana dopo avevo lasciato Santiago per andare a vivere con mia zia a Madrid. Scoprii soltanto in seguito che cosa era successo nello stadio. Perciò, quando sento parlare dell’11 settembre non penso alle Torri gemelle, ma al giorno in cui terroristi sponsorizzati dagli Stati Uniti e fiancheggiati dalla CIA uccisero la democrazia nel mio Paese.»
«Aspetti un momento», lo interruppe Falcón.
Si affacciò sull’altro ufficio, dove Ramírez era chino sulla tastiera.
«Elvira si è fatto vivo con il contatto all’FBI?»
«Sto appunto mandando la foto di Vega per e-mail», disse Ramírez.
«Può aggiungere che ora abbiamo motivo di credere che fosse un cittadino cileno.»
Falcón tornò alla sua scrivania e si scusò con Guzmán, il quale lo aspettava in piedi davanti alla finestra, le mani allacciate dietro la schiena.
«Sto diventando vecchio, Inspector Jefe», disse. «Da quando sono arrivato a Siviglia, ho l’impressione che il mio cervello sia cambiato. Mi sembra di non ricordare niente della mia vita quotidiana, vedo film dei quali non so raccontare nulla, leggo libri di autori che dimentico subito. Eppure quei giorni a Santiago, prima che lasciassi il Cile, sono incisi nella mia mente e me li rivedo davanti, come un film proiettato nel buio. Non so perché sia così. Forse è perché sono alla fine della carriera. Sa, è stata proprio quella la ragione per cui sono diventato il genere di giornalista che ero.»
«E che è ancora», lo rassicurò Falcón. «Anche se mi ha sorpreso vederla qui, non pensavo che si occupasse di cronaca. La credevo il caporedattore.»
«Quando ci è arrivata la notizia di Montes avrei potuto mandare chiunque, ma poi ho saputo che sarebbe stato lei a occuparsi delle indagini e non so bene perché ho deciso che era ora di conoscere Javier Falcón.»
«Be’, mi ha offerto uno spunto interessante, perciò sono contento.»
«Strane parole, quelle del biglietto di Vega, sembrano quasi poetiche. Si sente un’emozione. È come uno spirito che stia minacciando qualcuno», osservò Guzmán. «Perché pensa che io abbia ragione a proposito del Cile?»
«A parte il collegamento sudamericano, abbiamo anche saputo di discussioni tra Vega e il suo vicino americano, Marty Krugman, oltre a qualcosa che ha detto a Pablo Ortega. Nell’insieme hanno costruito il ritratto di un uomo con idee decisamente di destra, anticomunista, capitalista e fortemente filoamericano in termini di spirito di iniziativa e dello stile di vita, ma che aveva anche una visione negativa del modo in cui il governo statunitense interferiva con altre nazioni, riteneva che gli americani ti fossero amici solo finché gli eri utile… quel genere di opinioni. Ho anche trovato nel suo studio documenti sui tribunali internazionali e sull’opera di Baltasar Garzón. Considerando tutto questo alla luce del suo carattere estremamente riservato, del fatto che a giudicare dall’aspetto avrebbe potuto essere di origine latinoamericana, che pareva avesse ricevuto un addestramento particolare e conoscesse bene la società americana, ecco che Vega comincia ad apparire un uomo motivato politicamente, un uomo deluso, morto stringendo nel pugno un biglietto con una data per lui importante.»
«E perché il biglietto?»
«Personalmente credo che sia stato assassinato e volesse essere certo che le indagini sulla sua morte fossero indagini per omicidio, così come voleva che ogni suo segreto fosse scoperto e fatto conoscere a tutti.»
«Allora dove va a finire la sua teoria su Carvajal, sui russi e su Montes?»
«Che intende dire?»
«Secondo la sua ipotesi, Montes avrebbe reagito alle sue involontarie pressioni. Sarebbe bastato fargli i nomi di Carvajal e dei russi, Ivanov e Zelenov, per spingerlo giù dal precipizio. Oppure è stato il sentire quei nomi nel contesto dell’indagine su Vega a convincerlo che lei avesse scoperto qualcosa su di lui?»
«Aspettiamo di avere un riscontro dall’FBI. Se Vega avesse veramente una storia criminale alle spalle, allora questo potrebbe essere indicativo di qualcosa.»
«Nel caso fosse cileno, io direi che era un uomo di Pinochet deluso dal regime», disse Guzmán. «E ce n’erano molti così nei ranghi di Patria y Libertad, l’organizzazione di estrema destra che aveva cercato di destabilizzare Allende dal momento della sua vittoria alle elezioni. Moltissimi membri dell’organizzazione fecero cose turpi prima, durante e dopo il colpo di Stato: rapimenti e omicidi all’estero nel quadro dell’Operazione Condor, uccisioni e torture in patria, l’autobomba a Washington. E questa gente pensava che avrebbe meritato un maggiore riconoscimento: avevano fermato il comunismo sulla porta di servizio degli Stati Uniti e sentivano di dover essere ricompensati per questo. Lei però dice che Vega teneva in casa quei documenti sui tribunali internazionali e su Garzón. Parrebbe che fosse orientato verso il confessionale.»
«Credo che stesse cercando qualcosa di un po’ più vasto del confessionale», disse Falcón, «qualcosa di più simile al banco dei testimoni in un tribunale importante. Alla fine dell’anno scorso deve essergli accaduto qualcosa, qualcosa di personale che potrebbe averlo cambiato. Soffriva di attacchi di panico…»
«Be’, forse questo ha compromesso la sua capacità di giudizio. Chi è stato coinvolto in qualche grosso evento, pensa sempre di essere più importante di quello che è effettivamente. Il colonnello Manuel Contreras, l’ex capo della DINA, la polizia segreta, è finito in carcere, allegramente tradito da Pinochet: è successo forse qualcosa? L’amministrazione Clinton ha reso pubblica la documentazione: è successo forse qualcosa? La CIA stessa nel 2000 ha messo a disposizione altro materiale: è successo forse qualcosa? È stata fatta giustizia? I perpetratori dei crimini sono stati puniti? No. Non è successo nulla. Così va il mondo.»
«Ma che cosa sarebbe potuto accadere? Chi è rimasto? Chi è responsabile?»
«Alcuni uomini della CIA dovrebbero tremare di paura e poi c’è il mio vecchio amico, il Principe delle Tenebre, il dr. K. in persona: è stato segretario per la sicurezza nazionale di Nixon e segretario di Stato durante tutto quel periodo. In Cile non succedeva niente senza che lui lo sapesse. Ecco chi dovrebbe rispondere delle sue azioni.»
«Be’, chi riuscisse a inchiodarlo davanti all’opinione pubblica, passerebbe alla storia», osservò Falcón. «E se Vega fosse stato sul punto di fare proprio questo, non sarebbero certo mancate le persone disposte a ucciderlo, non è così?»
«Stando alla mia esperienza, nel caso in cui la CIA avesse deciso che quell’uomo era troppo pericoloso per la sua immagine, avrebbe voluto farlo sembrare un suicidio… per poi impasticciare tutto quanto», disse Guzmán. «Quei suoi vicini americani, da dove saltano fuori?»
«Lui è un architetto che lavora per la Vega Construcciones, lei è una fotografa. È stata una sua fotografia a rivelarci lo stato d’animo turbato di Vega. La signora Krugman è specializzata in questo genere di foto.»
«Be’, sarebbe una copertura perfetta per chi volesse informazioni su qualcuno.»
«Tutti e due hanno alle spalle una storia autentica, sono stati perfino sospettati in un’indagine sulla morte dell’amante di lei quando erano ancora negli USA. Non è stato trovato niente a loro carico.»
«Non mi sembra che mandino un gran buon odore, anche se sono abbastanza autentici», osservò Guzmán. «D’altronde suppongo che una copertura perfetta sia così, tutti abbiamo qualcosa di brutto da nascondere.»
Falcón si alzò e si mise a passeggiare avanti e indietro nella stanza. Le complicazioni crescevano di momento in momento e il tempo mancava, mancava assolutamente.
«Se questa fosse davvero un’operazione dei servizi segreti», disse, «e se i Krugman fossero stati in qualche modo costretti ad arruolarsi, allora deve esserci una collusione tra la CIA e l’FBI. E noi stiamo chiedendo informazioni su Rafael Vega all’FBI!»
«Tanto per cominciare non potete fare altro», lo tranquillizzò Guzmán. «E, comunque sia, non si tratta di organizzazioni perfette. Secondo me, pochissimi di loro sono al corrente di questi fatti, occupati come sono con la guerra al terrorismo. Questa è un’operazione marginale, di secondaria importanza. Forse addirittura privata.»
Falcón andò al telefono e compose un numero.
«Voglio parlare di nuovo con Marty Krugman», annunciò poi. «Userò un approccio diverso.»
«Ma non sa ancora niente di concreto!»
«Me ne rendo conto, ma non ho tempo, devo muovermi subito.»
Falcón fu salvato dal fatto che Krugman non era né in ufficio né a casa e il suo cellulare era spento. Sbatté giù la cornetta.
«Krugman ha un punto debole», disse poi. «Sua moglie è una bella donna, molto più giovane di lui.»
«È un tipo geloso?»
«È appunto questo il suo punto debole, dove posso fare leva.»
«Tutto ciò si risolverà in una bolla di sapone, se non otterrete un’identificazione certa da parte dell’FBI», obiettò Guzmán. «Perciò non si muova finché non l’avrete ottenuta. Nel frattempo, se pensa che possa servire, io divulgherò la frase del biglietto trovato in mano a Vega tra i membri della comunità cilena espatriata qui e in Inghilterra, per vedere se salta fuori qualcosa. In caso di un’identificazione certa e se Vega dovesse rivelarsi realmente un militare cileno o un membro della DINA, sono in contatto con gente che potrebbe dare una mano a tracciare un profilo.
«Scriverò anche un articolo su Montes e sul primo caso di suicidio di un funzionario di grado elevato della Jefatura, sarà una specie di elogio funebre, sottolineerò i maggiori eventi della sua carriera, compreso lo scandalo Carvajal. Sottolineerò anche i particolari della carriera di Montes.»
«E che cosa otterremo?»
«Vedrà. Farà uscire allo scoperto parecchia gente, ci sarà una grande apprensione specialmente da parte di chi aveva fatto finta di non vedere l’’incidente’ di Carvajal», affermò Guzmán. «Sarà interessante constatare quante pressioni le verranno fatte dalle alte sfere. Se il Comisario Lobo non la convocherà nel suo ufficio come prima cosa la mattina dopo l’uscita del Diario de Sevilla, le offro il pranzo.»
«Solo i fatti», raccomandò Falcón, preso da ansia improvvisa.
«È questo il bello. Tutto quanto scriverò su Montes sarà già di dominio pubblico. Nessun bisogno di congetture. Sarà solo il modo in cui metterò insieme le cose a spaventare a morte certa gente.»