Don si mise a sedere all’improvviso, con gli occhi spalancati e la bocca aperta in un grido che non raggiunse mai le labbra. Le braccia erano tese lungo i fianchi e la testa compiva movimenti circolari nel tentativo di far tornare la circolazione lungo la spalla destra. Improvvisamente la testa scricchiolò. Rimase con la bocca aperta. C’era la mano di una donna, lunghe pallide dita che cercavano di tranquillizzarlo. Con estrema cautela, i suoi occhi seguirono quella mano, individuarono il polso, poi il braccio, infine videro il viso ansioso e pallido della madre.
«Don, va tutto bene.»
Vide muoversi le labbra (il cavallo che si impennava), udì le parole (lo Squartatore che strillava) e solo dopo parecchi secondi acconsentì a sdraiarsi di nuovo, mentre una figura scura ai piedi del letto alzava il materasso per consentirgli di stare seduto.
«Don, tesoro, va tutto bene.»
Finalmente le urla senza eco scomparvero, il tunnel si chiuse su se stesso e, una volta messo a fuoco l’ambiente, non fu necessario chiedere nulla: si trovava in una stanza di ospedale.
Un’infermiera alla sua sinistra gli misurò il polso; un medico la cui faccia era familiare entrò e prese la tabella; annuì dopo averla letta, quindi passò davanti all’infermiera e si sedette su uno sgabello. Aveva il viso scarno e pieno di rughe per le troppe estati passate al sole, mentre i capelli ricordavano un arruffato cespuglio grigio.
«Come ti senti, ragazzo?» Le grandi mani si muovevano — la fronte, il petto; premevano fra i capelli, schiacciavano leggermente la testa. «Senti male da qualche parte? Probabilmente ti fa male la schiena, vero?»
«E come fa a saperlo?» chiese Don con voce rauca, cercando di uscire dal parco.
Il dottore gli sorrise. «Sei rimasto a letto parecchio tempo senza muoverti: la schiena deve farti male per forza.»
«Adesso può tornare a casa, Jerry?»
«Questo pomeriggio, credo», rispose il dottor Naugle. Guardò Don. «È solo per sicurezza, okay? Sono certo di aver fatto tutto, ma voglio esserne completamente sicuro.» Guardò in direzione di Joyce. «È ora di pranzo.» Mosse la testa verso il supporto dal quale il liquido della flebo scendeva lentamente nel braccio di Don. «Con quello che gli abbiamo dato da mangiare da mezzanotte a ora, immagino che starà morendo di fame.» Un sospiro soddisfatto e si alzò in piedi. «Sono sicuro che andrà tutto bene, ragazzo mio, giusto?»
Prima che Don potesse rispondere, il dottore se n’era già andato, seguito dalla madre e dall’infermiera. Alla fine, la figura scura uscì dall’oscurità.
«Papà?»
Norman cercò di parlare, poi si inumidì le labbra e fece una smorfia, sedendosi sulla sedia di Joyce. Batté affettuosamente sulla spalla e sulla gamba di Don, poi fissò con sguardo assente il tubicino appeso al supporto e il cerotto sul braccio del ragazzo. I capelli spettinati apparivano ancora più grigi alla flebile luce che filtrava attraverso le tende alla veneziana: gli occhi erano arrossati, il naso leggermente rosso, l’unica mano visibile continuava a muoversi nervosamente.
Don rimase scioccato — suo padre aveva pianto.
«Accidenti», disse con troppa impazienza. «Ho tanta sete che mi berrei un lago intero.»
Norman afferrò con entusiasmo la brocca dell’acqua appoggiata sul comodino, versò un bicchiere, poi un altro.
«Come ti senti?»
«Malissimo. No, solo male.» Fece un piccolo movimento e sentì il livido sulla coscia e una fitta dolorosa nel punto in cui lo Squartatore lo aveva colpito con le ginocchia.
Norman si alzò in piedi, andò fino alla porta, poi ritornò indietro. «Immagino che il sergente Verona sarà qui fra pochi minuti. Aspettava che tu … aspettava che ti svegliassi.»
«La polizia?»
Scintille verdi fuoco verde.
«Vogliono sapere cos’è successo.» Era chiaro che anche lui voleva chiederglielo, ma era altrettanto evidente che aveva paura. «Anche i giornalisti.»
Don girò la testa per fissare il soffitto. «I giornalisti.»
«Be’, ragazzo mio, sei diventato un eroe. L’hanno già detto alla radio.»
Ebbe paura, e insieme freddo. «Papà, ascolta, io devo…»
La porta si spalancò ed entrò Verona. Aveva la giacca sgualcita, non portava la cravatta e dal gomito gli pendeva un filo d’erba bagnata. Joyce era dietro di lui e si mise a protestare quando l’uomo invitò i genitori a lasciarlo solo con il ragazzo. Norm la prese per un braccio; lei lo fissò, poi lanciò un bacio a Don e uscì. Chiusero la porta senza fare rumore. La luce della finestra si fece più luminosa.
Ebbe di nuovo paura, ma si calmò quando Verona gli strinse la mano con affetto, prima di sedersi.
«Questo», disse, indicando con la testa le loro mani unite, «è per adesso. Probabilmente più tardi inizierò a maledirti per quello che hai fatto, e continuerò a farlo fino a domenica. Non che tu mi sia antipatico», aggiunse, con un sorriso storto, «ma i giornali si chiederanno come mai un ragazzino è riuscito a eliminare lo Squartatore, quando le polizie di due stati non erano riuscite a trovare nemmeno una piccola traccia.»
Don si strinse nelle spalle e il suo stomaco si lamentò.
c’era sangue, tanto sangue, e il rumore di zoccoli al galoppo
«Allora, vuoi raccontarmi cosa è successo?»
Diglielo, pensò Don; e gli raccontò che non riusciva a dormire, allora era uscito a fare due passi, poi si era ritrovato nel parco. Lì l’uomo lo aveva preso, e da lì era riuscito a fuggire.
Verona non prendeva appunti, e non aveva nemmeno un registratore. Annuiva. Ascoltava. Gli fece qualche altra domanda, e nel frattempo gli spiegò che cosa voleva sapere.
Era lo Squartatore. Quel vecchio brizzolato era lo stesso uomo che aveva ucciso Amanda. I campioni di tessuto prelevati dal corpo erano uguali a quelli trovati sotto le unghie della ragazza; si chiamava Falwick, era un ex sergente dell’esercito che evidentemente non era riuscito a integrarsi nel sistema. Erano riusciti a ricostruire la maggior parte dei movimenti di Don, ma lui aveva ancora qualche dubbio. Non sarebbe stato piacevole rievocare quei momenti, Verona lo sapeva bene, e si asciugò il viso con un fazzoletto, nascondendo per un attimo gli occhi, ma dovevano sapere. Solo un paio di cose. Poi lo avrebbe lasciato solo, a godersi il meritato riposo. Avrebbe anche tenuto lontano i giornalisti per un po’. Ma perché aveva colpito quell’uomo con tanta violenza? Perché così selvaggiamente?
Don non lo sapeva. «Avevo paura. Stava per uccidermi.»
Verona fece schioccare la lingua. Jerry Naugle, il dottore di Don, aveva supposto che si trattasse di una difesa prodotta da una forma di isteria: una cosa abbastanza comune. Invece di scappare, Don aveva trovato un bastone e l’aveva usato per difendersi. Conosceva Amanda. Paura e rabbia, e forse anche un po’ di fortuna, e Falwick era caduto a terra. È quando l’isteria ha il sopravvento. L’adrenalina la alimenta. Luis Quintero era arrivato sulla scena dell’incidente, lungo la strada, e aveva sentito qualcuno gridare nel parco. Aveva trovato Don in ginocchio a pochi metri dal corpo, con il bastone ancora in mano; c’era sangue sul bastone e sugli abiti del ragazzo. Era profondamente scioccato e non riusciva nemmeno a dire come si chiamava.
«Immagino», disse Don, «sì, immagino sia andata così.»
E poteva essere andata così, pensò. Doveva essere andata così. Se ci fosse stato un cavallo, glielo avrebbero detto; se il cavallo fosse esistito, qualcuno lo avrebbe visto. Doveva essere stato lui, perché si ricordava la rabbia che aveva sentito dentro.
Verona gli strinse di nuovo la mano e gli occhi di Don si riempirono di lacrime quando ritonarono i suoi genitori.
Doveva essere andata così. L’isteria, e lo choc, e forse dopo tutto non era pazzo. La sua amica era stata uccisa perché aveva avuto paura, ma Don aveva fatto tutto da solo. Aveva perso i sensi, ma aveva fatto tutto da solo. Niente di magico. Nessuno stallone nero. Aveva ucciso un uomo. E da solo.
Pianse per quasi mezz’ora — prima forte, poi silenziosamente, inzuppando la camicia di sua madre che gli accarezzava i capelli e lo baciava sulla guancia, mentre suo padre gli stringeva le mani così forte da far schioccare le nocche. Pianse fino a quando ritornò il dottor Naugle, che li invitò ad andarsene dalla camera affermando che Don aveva bisogno di riposo se davvero voleva tornare a casa a mangiare qualcosa di decente. Norman era riluttante, ma alla fine uscì; Joyce lo abbracciò di nuovo, mormorando: «Tesoro, so che non sei Sam. Sei il mio Donny, e ti voglio bene».
Senza nessuna pastiglia dormì profondamente fino a dopo mezzogiorno. Quando si svegliò, la flebo era sparita; c’era un’infermiera con un vassoio colmo di cibo che Don mangiò senza sentirne il sapore. Quando ne chiese ancora, la donna sorrise e gli disse che ne avrebbe avuto molto una volta a casa; poi chiese di vedere i suoi genitori, i quali gli dissero che nella sala d’aspetto c’erano molti ragazzi che avevano voglia di vederlo. C’era anche un gruppo di giornalisti. Sembrava — gli spiegò il padre leggermente eccitato — che ci fosse il Presidente in città. Don era felice, ma cercò di non darlo a vedere, imbarazzato dall’immagine dello stallone sempre stampata nella sua testa, e preoccupato perché improvvisamente si era reso conto che l’unica cosa che voleva veramente era andarsene a casa a guardare da vicino il poster sulla parete.
Forse non era pazzo, ma doveva esserne sicuro.
«E vuoi sapere un’altra cosa?» disse sua madre. «Sei pronto? Il sindaco vuole consegnarti una medaglia durante il concerto di stasera. Una medaglia! Ti rendi conto?»
«A me? Una medaglia a me?»
Guardando suo padre, vide che annuiva con orgoglio; sua madre gli diede un altro bacio.
«Non è possibile», disse, conficcando le dita nelle lenzuola. «Mamma, non è possibile.»
«Ne riparleremo più tardi, tesoro, quando saremo a casa», disse lei in fretta e a bassa voce. «Dirò ai ragazzi di salire, io intanto andrò a prenderti dei vestiti puliti.»
scintille verdi
fuoco verde
Don non capì perché Tracey indossasse i jeans e una vecchia giacca, finché non ricordò che la scuola era chiusa per quanto era accaduto ad Amanda. E nemmeno capì perché fosse venuta con Lichter.
Dopo aver scambiato un’occhiata con Jeff, Tracey prese una sedia mentre lui si sedeva sul letto e afferrava la mano di Don.
«Il Povero Recluso ha colpito ancora», disse Jeff con entusiasmo. «Ma ascolta, sei impazzito o che cosa?»
«Chiudi il becco, Jeff», ordinò Tracey con aria gentile, e si sporse in avanti per baciare Don sulla guancia. La sua mano trovò quella di Don e la strinse. «Stai bene?»
«Credo di sì», rispose lui. «Non sono ferito o roba del genere. Tuo padre … Ehi, stai attento», protestò rivolto a Jeff, liberando la mano e sobbalzando, fingendo un dolore inesistente. «Sono cintura nera, non ti ricordi?»
«L’unica cosa che ricordo è che sei completamente pazzo.»
«Solo un pazzo può riconoscere un altro pazzo.»
«Molto divertente.»
«Don», disse Tracey. «Brian dice…»
«Che vada al diavolo Brian!» bofonchiò Jeff.
«…che è stato mio padre a ucciderlo, non tu. Racconta in giro un sacco di sciocchezze, ad esempio che l’altra notte ti ha spedito a casa prima che arrivassi al parco.» La preoccupazione si trasformò in un sorriso. «Ma nessuno lo ascolta.»
«Davvero?» chiese lui senza troppa allegria, poi inghiottì quel boccone amaro con uno sforzo che lo fece quasi grugnire.
«Stai bene?» chiese Jeff in fretta.
«È l’acido», rispose, battendosi lo stomaco. «È colpa del cibo. È quasi peggio di quello di Beacher.»
Jeff scoppiò a ridere, picchiò sul materasso e guardò Tracey. Lei ridacchiò, scosse la testa, e lui le disse di andare avanti.
«Allora?» fece Don, senza gradire troppo quella familiarità.
«Allora?»
«Beacher», iniziò Tracey, poi scoppiò a ridere, scosse la testa e le mani, quindi respirò profondamente per cercare di smettere. «Ha deciso di dedicarti un panino.»
«Che cosa ha fatto?»
Jeff annuì. «Ha chiamato un panino con il tuo nome e ora lo serve a tutti i giornalisti! Cristo, ma ti rendi conto?»
«E che panino è? Con un hamburger crudo?»
«No. È…» Jeff si alzò e si appoggiò al muro per evitare di cadere. «È con formaggio fuso, pancetta, lattuga e cipolle.»
«Che cosa?» urlò Don. «A parte il fatto che a me il formaggio fuso non piace, che cosa cazzo c’entra con tutta questa storia?»
«E chi lo sa? Comunque è quello che ti danno se vai a chiedere un Don Boyd Special.»
Scoppiarono tutti in una risata che passava da uno all’altro, si calmava per poi ricominciare: alla fine i fianchi gli facevano male, le guance erano sul punto di scoppiare e i polmoni si rifiutavano di rifornirlo d’aria. Jeff si rotolava sul pavimento, con le mani strette sullo stomaco. Tracey si dondolava sulla sedia, e così facendo sbatté contro il muro rischiando di far schizzare la sedia per terra.
L’infermiera entrò nella camera e rimase un attimo a guardarli, quindi fece una smorfia e strizzò loro l’occhio, invitandoli a stare buoni; poi arrivò il dottor Naugle che ordinò loro a voce alta di calmarsi, altrimenti avrebbe dovuto mettergli le camicie di forza.
Don fu il primo a tornare in sé, sbattendo gli occhi per eliminare le lacrime e gemendo mentre le costole cessavano di fargli male.
Riapparve l’infermiera, con le braccia conserte e un sopracciglio alzato, a indicare che l’orario delle visite era terminato.
«Merda», bisbigliò Jeff, stringendogli la mano e distogliendo lo sguardo quando Don colse la domanda nei suoi occhi — lo hai ucciso davvero tu, con le tue mani?
«Ci vediamo più tardi», gli disse Tracey, prima che Jeff formulasse la domanda. «Riguardati, eroe, d’accordo? Ci vediamo più tardi, magari stasera.»
Lo baciò sulle labbra, ma il bacio fu tanto rapido che non riuscì ad assaporarlo. Quando furono fuori dalla porta, vide che Tracey andava a sinistra, ma Jeff la prese per mano e la tirò a destra. Lei ridacchiò, lui la fece star zitta avvicinando la sua testa a quella della ragazza. Un panino, pensò; Cristo, un panino!
scintille verdi e fuoco verde
e la sagoma dello stallone contro il bianco della luna
«Io non lo farei salire», disse Chris, appoggiandosi sul materasso al suo fianco. «Si sta comportando da perfetto idiota. Ci credi se ti dico che anche secondo Tar si sta comportando da cretino?»
Pieno di riconoscenza, e leggermente imbarazzato, lui porse la guancia alle labbra di lei, e rimase confuso quando lei gli prese la testa fra le mani, la girò e gli diede un bacio che di certo il dottore non avrebbe approvato. Sembrò non notare il suo stupore, si limitò a risedersi sul letto, con la camicia bianca da uomo rigonfia all’altezza del seno e i capelli sciolti sulle spalle.
«Credo che sia geloso.»
«Brian?» Non riusciva proprio a immaginarlo. «Stai scherzando.»
«Be’», disse, appoggiandogli una mano sullo stomaco, «ha già bevuto. Puzza come una fabbrica di birra e non riesce a capire perché i giornalisti non vogliono più parlare con lui.» Giocherellava con le dita sul lenzuolo. «Ha raccontato…» Lo guardò senza alzare lo sguardo. «Ha raccontato qualcosa di Donny Paperino, capisci?»
«Stupendo», fece lui.
«Oh, non devi preoccuparti per questo. Nessuno gli dà retta. Dio mio, tu sei un autentico eroe, ti rendi conto? Voglio dire, tu sei il tipo di uomo che quelle teste di cazzo possono soltanto sognare.»
«Gesù, Chris.»
Guardò attraverso la finestra e sperò che lei se ne andasse. No, pensò con un briciolo di terrore. Basta che la smetta con queste stronzate.
«No, dico sul serio.»
«Cristo, la vuoi piantare?»
«Già, gli uomini non accettano i complimenti», disse lei rivolgendosi al muro.
«Be’…»
Lei rise in silenzio, mettendosi i capelli dietro le orecchie e girandosi verso di lui; se avesse voluto, avrebbe potuto vedere i suoi seni dove la camicia era sgualcita.
«Comunque immagino che tu stia bene.»
Il dito danzava senza posa sul lenzuolo e lui non poté fare a meno di guardarlo; lo osservò, come ipnotizzato, poi strinse le gambe, quando si fermò in un certo punto. Si schiarì la gola e si mise a sedere: il dito fece una breve pausa, poi riprese a danzare.
«Sì, grazie.»
«Ho sentito dire che ci sarà una grande festa al concerto.»
«Sì, l’ho sentito dire anch’io.»
Lei sorrise e ammiccò.
«Brian e Tar non hanno intenzione di andarci. Dicono che li fai vomitare.»
«Se è così, vorrà dire che arriverò in anticipo.»
Il labbro inferiore sparì per un attimo fra i denti, prima che lei si abbassasse di nuovo e lo baciasse, con forza, sorprendendolo a tal punto da farsi penetrare dalla lingua di lei senza rendersi conto di quello che stava succedendo: poi, sbalordito, spalancò gli occhi e vide la ragazza che lo fissava. Chris si mise a ridere senza allontanarsi, e la risata gli rimbombò nel profondo della bocca; pregò soltanto che i suoi genitori non entrassero proprio in quel momento.
Lei smise di baciarlo, ma non si mosse. «Ascolta, e dopo il concerto?»
Lui rimase ad aspettare.
«Se i tuoi ti lasciano — cioè, sai, sei stato in ospedale, forse pensano che non è il caso che tu vada — ma nel caso che ti lasciassero, forse potremmo andare da Beacher, dopo il concerto.»
Lui rise. «E potremmo provare il Don Boyd Special?»
«Lo sai già?» Si mise a ridere, dondolando lentamente mentre il suo dito si avvicinava all’inguine, accarezzava il rigonfiamento e si allontanava. «Benissimo! E vada per il Don Boyd Special!»
Lui riuscì soltanto ad annuire, inghiottendo la saliva e guardando il movimento del suo sedere stretto nei jeans.
Cristo, pensò, oh, Cristo!
qualcuno stava gridando e c’era del sangue sulle sue mani
Chiuse gli occhi e vide Jeff che prendeva Tracey per mano, vide la promessa negli occhi di Chris e avvertì la presenza di qualcuno nella stanza, qualcuno che lo guardava e non si muoveva.
Ti prego, no, pensò, aprendo gli occhi e rimanendo senza fiato.
Fleet era ai piedi del letto.
Aveva il volto rugoso e gli occhi cerchiati di rosso; afferrò con le mani la sponda metallica del letto ed esaminò attentamente il viso di Don.
«Santo cielo, mi hai spaventato», esclamò Don, sorridendo.
Fleet annuì.
«Ehi, ti senti bene?»
«Ehi, signorina, sono io che dovrei chiederlo a te», rispose Robinson, con un sorriso tirato sulle labbra. «Merda, hai fatto proprio un bel lavoro, no?»
Lui scrollò le spalle. «Credo di sì.»
«Credi di sì?»
«È che non … Non mi ricordo esattamente com’è andata.»
«Non dici stronzate?»
«Non dico stronzate.»
Fleet si allontanò dal letto e la luce della finestra gettò metà del suo viso in ombra.
«Grazie», disse allora, in tono appena percettibile. «Grazie. Per Mandy.»
Don non seppe cosa rispondere, e nemmeno seppe cosa fare quando Fleet si avvicinò improvvisamente al letto, abbassandosi fin quasi a toccarlo. «Lo volevo prendere io quel bellimbusto, Donny.» Le parole uscirono gutturali. «Volevo essere io a prendere quel fottuto bastardo, capisci?»
Don annuì, temendo che Robinson volesse picchiarlo.
Fleet fece un cenno con il capo, come se finalmente fosse riuscito a chiarire un punto importante, poi si raddrizzò e uscì senza dire una parola.
Entrò il dottor Naugle, seguito da Joyce e Norman. Prima che lui potesse dire una sola parola, la stanza si riempì di giornalisti. Erano piuttosto calmi, ma volevano conoscere i particolari, sembrava che si fossero messi d’accordo per fare domande a rotazione. Fece del suo meglio, aiutato un po’ dal padre, seduto al suo fianco, e dalla madre, seduta dall’altra parte; cercò anche di non chiudere gli occhi di fronte ai flash e di non perdere la pazienza quando uno dei giornalisti insinuò con disinvoltura che la storia raccontata da Brian era molto più simile alla realtà dei fatti di quanto non lo fosse la versione della polizia; fece qualche battuta su se stesso che fu accolta da sorrisi gentili, e fu con gentilezza che rifiutò l’invito di un fotografo ad afferrare una mazza a mo’ di randello; una giornalista gli chiese dei suoi rapporti con le ragazze e della sua passione per la corsa; e quando qualcuno gli chiese cosa ne pensava della medaglia, rispose con voce tranquilla che ne era felice, ma non pensava di meritarla.
Se ne andarono senza protestare quando il dottor Naugle disse loro che il tempo era scaduto. I suoi genitori lo lasciarono solo affinché si vestisse con gli abiti che gli avevano portato.
Mentre si stava infilando la camicia, ritornò l’infermiera con una sedia a rotelle.
«Devo usarla per forza?» chiese, indicandola con una mano, mentre si tirava su la cerniera dei pantaloni e allacciava la cintura. «Posso camminare.»
«Se non la usi, ti dovrò portare in braccio.»
Lui fece una smorfia e si sedette.
All’ingresso dell’ospedale gli fecero altre fotografie, poi ancora mentre saliva in macchina e mentre la macchina si allontanava lentamente dal marciapiede. Voleva che suo padre si sbrigasse; non voleva credere che il sorriso sul suo volto fosse dedicato ad altri che a lui.
Quando arrivarono a casa, trovarono una macchina della polizia lungo il marciapiede e, vicino a questa, il sergente Quintero. Aprì la porta a Joyce e prese Don per mano mentre scendeva dall’auto. Era una situazione imbarazzante perché sapeva che quell’uomo voleva parlargli dello Squartatore e anche di Tracey; fu salvato da Joyce che lo spinse velocemente dentro casa, invitando il poliziotto a ritornare un’altra volta per una tazza di caffè. Appena entrato guardò la tromba delle scale, poi lasciò che lo portassero in salotto per distenderlo sul divano. Tutto quel trambusto per lui lo divertiva, ma non lo interessava molto; con sorrisi di scuse i suoi genitori lo lasciarono solo.
Si guardò attorno, pensando che le cose dovessero essere diverse, poi si rese conto con un sussulto che non era stato via nemmeno un giorno intero. Questo lo turbò. Il tempo non avrebbe dovuto dilatarsi così tanto, non avrebbe dovuto essere così pieno, ma nonostante questo, la sedia di suo padre era sempre allo stesso posto, e c’era una tazza vuota sul pavimento, c’erano dei dépliant sul divano e delle riviste sul tavolo. Non era cambiato niente, ma improvvisamente si convinse che questa volta le cose sarebbero dovute cambiare, in un modo o nell’altro.
Ritornarono con del caffè fumante e con una lattina per lui. Fece una smorfia mentre suo padre si lasciava cadere pesantemente sulla sedia, togliendosi le scarpe e agitandosi quando sua madre gettò a terra i dépliant e si inginocchiò sul cuscino di fianco a lui. Lei continuava a guardare l’orologio.
«Bene!» esplose Norman, bevendo un sorso di caffè.
Joyce lo abbracciò, dandogli un’occhiata maliziosa.
«Allora, ragazzo mio, stai bene?» chiese Norman con aria solenne. «Cioè, stai bene davvero?»
«Credo di sì», rispose lui in tutta sincerità. «Forse sono un po’ scosso, però credo di star bene.»
«Bene», disse sua madre, ritornando nel suo angolo. Poi apparvero le lacrime. «Dio mio, ho avuto tanta paura!»
«Abbiamo avuto tanta paura», le fece eco suo padre, mentre Don allungava una mano per toccare la gamba di Joyce. «Quando abbiamo scoperto che te ne eri andato, abbiamo avuto una paura folle che ti fosse successo qualcosa.»
Il tono nella voce dell’uomo lo fece girare. «Oh», disse alla fine. «Oh, merda!»
«Esatto», continuò Norman severamente, ma con un pizzico di gentilezza. «Mi ero alzato a prendere un bicchier d’acqua e ho visto la porta della tua camera aperta. Tu non c’eri, Donald. Era quasi mezzanotte e tu non c’eri. Non puoi immaginare quello che abbiamo provato.»
«Eri scappato», continuò sua madre. «Cioè, questo è quello che abbiamo pensato — che eri scappato, o qualcosa del genere.» Aveva un sorriso forzato e la risata scoppiò inaspettata. «Sai che stavo per chiamare la polizia?»
«Non riuscivo a immaginare», continuò Norman fermamente, «dove potessi essere. Abbiamo preso la macchina e siamo usciti a cercarti. Abbiamo perlustrato tutto il quartiere, cercando di capire che cosa diavolo avessi in mente di farci, perché mai avessi fatto una cosa tanto stupida.»
Don deglutì. «Non riuscivo a dormire», cercò di spiegare. «Ero uscito a fare due passi.»
«Senza dirci niente?»
«Stavate dormendo, non volevo svegliarvi.»
«Hai fatto diventare matta tua madre, lo sai questo, vero?»
Io sono un eroe, pensò allora, non te lo ricordi?
Norman si lasciò cadere indietro sulla sedia e si coprì il viso con le mani, si fregò la fronte, si agitò, poi scosse la testa. «Avrebbe potuto ucciderti.»
Joyce iniziò a piangere.
«Ma papà…»
«Dannazione, avrebbe potuto ucciderti!» ripeté Norman, con le mani appoggiate ai braccioli. «Avrebbero potuto chiamarci nel cuore della notte, e noi avremmo dovuto dire alla polizia che non sapevamo nemmeno che tu fossi fuori. A casa nostra, nostro figlio, e non sapevamo nemmeno che fossi fuori! Cristo, Don, prova a farlo un’altra volta e ti spacco la testa!»
Don si sforzò di capire — erano impazziti perché temevano per la sua salute, avevano paura perché era loro figlio; eppure non riuscì a trattenere una certa rabbia nel vedere l’espressione del viso di suo padre: uno sguardo duro e assassino, privo di qualsiasi traccia di compassione o di sollievo. Lanciò un’occhiata a sua madre — si stava asciugando la faccia con il dorso delle mani, sorridendo coraggiosamente per dimostrargli che suo padre aveva ragione, e che questa era la reazione a posteriori.
Poi i suoi occhi scorsero le lancette dell’orologio sopra il camino: si alzò battendogli affettuosamente una gamba. «Devo preparare la cena», annunciò. «Mancano solo due ore al concerto e … oh, santo cielo, non ce la farò mai a prepararmi. Mai. Norm, ti spiacerebbe pelare le patate? Devo iniziare a…» Fece un passo verso suo marito, poi guardò di nuovo l’orologio e uscì di corsa dalla stanza. «Santo cielo!» gridò. «Ti prego, solo tre o quattro!»
Norman rise con indulgenza e strizzò l’occhio a suo figlio. «Questa è una grande sera per lei», disse. «Lo è per tutti noi.»
«Oddio», mormorò Don. «Ascolta, devo venirci per forza?»
«Te la senti?»
«Non lo so.»
«Be’, se non te la senti, ti capiamo.» Si mise una mano sotto il mento. «In ogni modo, sarebbe carino. Ci sarà un sacco di gente che ti è grata per quello che hai fatto ieri notte.» Intrecciò le dita delle due mani. «Sai», continuò in tono pensieroso, «per essere sincero, non avrei mai pensato che tu potessi fare una cosa del genere.» Lo fissò per evitare che rispondesse. «Mi hai fatto morire di paura, ragazzo mio. Non farlo mai più.»
«Mi spiace, papà.»
Si alzò, cercando di scacciare un senso di vertigine, e guardò Norman che si tirava su a fatica dalla sedia. Rimasero uno di fronte all’altro per parecchi secondi; Don si aspettava un abbraccio.
«Le patate», disse Norman, con una risata imbarazzata. «Altrimenti tua madre mi scortica vivo. Dai, vieni a darmi una mano.»
Don lo seguì nel corridoio, ma svoltò verso le scale invece di continuare verso la cucina. Quando suo padre si girò, gli spiegò: «Devo darmi una ripulita, papà.» Arricciò il naso. «Puzzo di disinfettante, non senti? Scenderò per l’ora di cena, non preoccuparti, voglio solo…»
Fece un gesto vago in direzione del secondo piano e Norman annuì, gli fece un grande sorriso e se andò fischiettando.
Sono preoccupati per te, disse a se stesso salendo lentamente le scale; ma sono orgogliosi di te, lo sono davvero.
Ebbe un attimo di esitazione sul pianerottolo, poi entrò nella sua stanza e si fermò. Rimase senza fiato. Si appoggiò allo stipite e si rese conto che stava battendo i denti.
«Dopo essere stata da te, questa mattina, sono andata su in solaio», spiegò Joyce dietro di lui, con un filo di voce.
Lui non si mise a saltare. Si limitò ad annuire. Poi iniziò a camminare lentamente con una smorfia sul viso, salutando silenziosamente i suoi animali che erano tornati al loro posto, sullo scaffale, salutò la pantera appesa al muro dietro al letto, e gli elefanti, tornati di nuovo ai lati della porta. C’era un po’ di polvere sulla lince e il falco era coperto di ragnatele, ma a lui non importava niente: l’importante era che i suoi animali fossero ritornati al loro posto.
«Don, mi dispiace.»
Non era entrata, era rimasta nel corridoio, come se aspettasse di essere invitata. Lui si girò e le sorrise, poi abbassò la testa e alzò le spalle. Lei era in attesa e rigirava fra le mani la spazzola per i capelli, aspettando una sua reazione, e la sua assoluzione.
Alla fine Don guardò la scrivania, e poi lo spazio vuoto al di sopra di essa.
«Dov’è?» chiese, con un tono più aspro di quello che avrebbe realmente voluto usare. «Anche lì sopra c’era un poster. Mamma, dov’è?»
«Che cosa?» Joyce entrò nella camera, osservò e annuì. «Oh, be’, non ero molto sicura di quello, così l’ho tolto e l’ho messo nell’armadio in corridoio. Se vuoi vado a prendertelo.»
«Ma perché?» disse in tono lamentoso, mentre sua madre si avviava verso il corridoio.
Lei si fermò, ritornò indietro e gesticolò con un braccio nell’aria. «Be’, sai, con tutti quegli animali e quelle cose strane in giro, be’ … non pensavo che ti interessasse un manifesto che raffigura soltanto degli alberi.»