14

Don aveva sistemato la sedia della scrivania in modo da poter guardare fuori dalla finestra, dando però l’impressione di essere intento a studiare, nel caso fosse entrato qualcuno. Non che ci fosse questo pericolo. Norman e Joyce erano andati al concerto e al loro ritorno avrebbero fatto tanto rumore che avrebbe avuto tutto il tempo di sistemarsi. Doveva limitarsi a stare seduto e aspettare. Si era alzato soltanto una volta, quando la lampada aveva reso il vetro troppo scuro e si riusciva a vedere solo la sua immagine riflessa. Si era precipitato giù per le scale per accendere la luce della porta sul retro, era tornato indietro e aveva messo un asciugamano sulla lampada della camera per fare più ombra. Il giardino di dietro si era illuminato, l’erba era piatta e le piante sembravano ombre irregolari che squarciavano il buio della sera; il vento soffiava, stava arrivando un temporale e le case del quartiere di fronte venivano brevemente illuminate da lampi di luci lontane.

Aspettava e meditava sui suoi sogni, soffermandosi su un’immagine, soppesandola, rigirandola, allontanandola per lasciare il posto a un’altra finché, poco prima delle nove, concluse che non poteva farci niente — il cavallo esisteva davvero. E al tempo stesso non esisteva. Era una creazione che veniva da qualcosa che non riusciva a capire, anche se lo sapeva bene, perché quello che aveva fatto allo Squartatore, l’aveva fatto per proteggerlo.

Esisteva. E non esisteva.

Diede un’occhiata agli altri amici, sfumati d’arancio per via dell’asciugamano che ricopriva la lampada, e poi si voltò nuovamente verso la finestra.

Il cavallo non aveva intenzione di permettere che gli facessero del male.

Come e perché, l’avrebbe capito più tardi; in quel momento doveva saperne di più. Reale o irreale, il cavallo era un animale e doveva cercare di capire chi era quella bestia e che tipo di controllo, se mai fosse stato possibile averne, poteva avere su di lui e come poteva inserirlo nel nuovo insieme di Regole che stava escogitando.

Allargò le labbra in qualcosa che doveva essere un sorriso e in quel momento suonò il campanello della porta. Saltò sulla sedia, portandosi una mano al petto. Deglutì, si guardò timidamente intorno e si precipitò da basso, aspettando che il suono si ripetesse prima di decidersi ad aprire la porta.

Era il sergente Verona, con il cappello in mano e un timido sorriso sulla bocca, che chiedeva di poter entrare.

«Certo», rispose Don, facendo un passo indietro e indicando il salotto. «Si accomodi pure.»

Il sergente fece qualche domanda e Don gli rispose che stava bene, anche se si sentiva ancora un po’ impaurito; comunque pensava di tornare a scuola l’indomani. I giornalisti non l’avevano infastidito più che tanto, e il vedersi in televisione era stata un’esperienza strana, ma anche interessante.

«Non sembravo un teppista», disse, prendendo la sedia di suo padre.

«Credi di esserlo? Credi di sembrare un teppista?» Verona stava sul divano e si girava il cappello lentamente tra le mani.

«No, non proprio. Forse assomiglio di più a un divo della televisione.»

«Cerca solo di non farci l’abitudine, ragazzo», suggerì gentilmente l’uomo. «Domani ci sarà un altro assassinio da qualche altra parte e si dimenticheranno tutti presto di te.»

«Bene», rispose lui. Bene, pensò, bene davvero.

«Mio padre e mia madre sono fuori e…»

«Lo so. Volevo vedere te, comunque, se non ti dispiace. Non stavi studiando o qualcosa del genere?»

«Un po’. Posso rimandare.»

«Il bastone», disse Verona.

Don era sorpreso. «Il bastone?»

«Quello con cui hai colpito Falwick.»

Verona smise di giocherellare con il cappello, guardò il suo piede che stava battendo sul tappeto e poi alzò lo sguardo su Don. Prese un fazzoletto dalla tasca della giacca e se lo passò sul viso, ma Don si accorse che i suoi occhi non lo mollavano un attimo, non si staccavano da lui.

«È difficile», confessò il sergente. «Non so come dirtelo, per cui lo dico e basta, okay?»

«Certo.» A Don non importava; non sapeva quello di cui il poliziotto stava parlando.

«Continuo a pensare che forse non sei stato tu», disse velocemente l’uomo, scrutandolo per osservarne le reazioni. «Ho avuto la possibilità di dare un’occhiata ai rapporti e c’è qualcosa che non va, Don. C’è qualcosa che la mia mente si rifiuta di capire e mi sta facendo impazzire. Sarà capitato anche a te, scommetto. C’è qualcosa che ti rode e che non riesci a capire, per cui ci lavori sopra e ci ripensi finché riesci a dare un senso a tutto. Hai capito quello che intendo dire?»

Don aveva capito in parte; conosceva quella sensazione, ma non capiva a che cosa si riferisse il sergente.

«Falwick», proseguì Verona. «Sto pensando che non sia stato tu a colpirlo con quel bastone.»

Don fremette. «Ma invece sì», rispose.

Verona annuì, aspettandosi quella risposta. «Quello a cui sto pensando, capisci, è che tu fossi sul posto, va bene. Cioè, tutto prova che tu eri presente, nessuno lo dubita. Ma non credo che tu fossi solo.»

Don si aggrappò forte ai braccioli. «Ero solo», insistette gentilmente. «Non c’era nessun altro con me.»

«Nessun amico?»

«Nessun amico.»

«Vedi, mi chiedo se per caso voi ragazzi non vi siate riuniti dopo la morte della vostra amica e abbiate deciso di risolvere tutto da soli. Non sarebbe il primo caso.» Verona sorrise amabilmente. «È possibile che tu sia stato mandato nel parco in perlustrazione e quando Falwick è saltato fuori, gli altri sono scesi dagli alberi.»

«No», mormorò Don.

«È possibile che dopo il misfatto, dopo aver picchiato l’uomo a morte e dopo aver visto com’era stato ridotto, siano scappati per lasciare a te la patata bollente.»

«No.»

Verona si asciugò la faccia e rimise il fazzoletto in tasca, prese in mano il cappello e lo fece girare come se fosse una monetina.

«È bello proteggere i propri amici, Don», disse, mentre Don si stava sporgendo in avanti per protestare. «Ma non è bello quello che hai fatto. È un assassinio, Don. Programmare ed eseguire un piano di questo tipo è omicidio di primo grado, a prescindere dall’età che hai. Questa è la legge. Sei un bravo ragazzo, un bravissimo ragazzo, e io non posso fare nient’altro che dirti che ti sto considerando un assassino, tu e i tuoi amici.»

«Lo dirò a mio padre», fu tutto quello che riuscì a rispondere.

«Fa’ pure», disse Verona, alzandosi in piedi e salutando Don che stava ancora seduto. «Forse riapriremo il caso e scopriremo la verità.»

Se ne andò subito, senza rumore, lasciando Don sulla sedia a fissare il camino. Pensò di essere nei pasticci, ma non sapeva di che tipo. Non c’era nessuna prova che implicasse qualcun altro, e meno di tutti lo stallone, e poi sarebbe stato deriso per il resto della vita se avesse anche solo tentato di spiegare quello che era realmente successo.

Sbatté gli occhi e li chiuse.

Aveva un sapore amaro in bocca.

Poi alzò i pugni sopra la testa e li fece cadere violentemente sulle gambe, sui braccioli, sulla fronte, quindi si diresse verso il caminetto per prendere a pedate i mattoni.

Stava succedendo di nuovo.

Gesù Cristo, persino la polizia stava cercando di portargli via qualcosa che apparteneva solo a lui. Si voltò, tastando con le mani alla ricerca di qualcosa da poter lanciare e, non trovando niente, se le rimise in tasca. Con le gambe rigide, attraversò la stanza, dirigendosi verso le scale, decidendo se fosse il caso o meno di piangere. Ne aveva certamente voglia e si portò una mano sugli occhi mentre capiva che stava ancora una volta per autocommiserarsi. Nessuno stava cercando di portargli via niente. Verona non era sicuro, perché non aveva nient’altro che uno stupido sospetto. E Don non era uno stupido — non era stato tanto accecato dall’attenzione di tutti da non accorgersi che avevano tirato un grande sospiro di sollievo per la morte di Falwick. Non l’avrebbero fatto resuscitare, nemmeno il suo ricordo, soltanto perché un detective si sentiva un po’ snobbato.

Squillò il telefono mentre stava appoggiando il piede sul primo gradino.

Fissò l’apparecchio, domandandosi se fosse un altro giornalista, o qualcuno che cercava i suoi genitori. Solo al quarto squillo gli venne in mente che poteva anche essere per lui.

Infatti.

Era Tracey.

«Stai bene?» fu la prima cosa che gli domandò dopo averlo salutato.

«Certo.» Si era seduto a gambe incrociate per terra, di fronte alla cucina. «Perché?»

«Hai un tono orribile.»

«Grazie, ne avevo bisogno.» Una voce in sottofondo lo fece tremare. «È Jeff?» domandò senza espressione. «C’è Jeff a casa tua?»

«No», rispose. «Sono qui. A casa sua, intendo dire.»

«Oh.»

«Oh», gli fece eco, cambiando tono. «Perché … perché, Donald Boyd, sei geloso?»

Il fremito divenne un sussulto. «Chi? Io?»

Lei si mise a ridere. «Mio Dio, non ci posso credere.»

Non le disse niente. Sembrava stare bene e dal modo in cui rideva forse non c’era proprio niente di cui essere geloso; comunque, questo ancora non spiegava come mai lei si trovasse in quella casa invece che nella sua. Quando glielo chiese, ci fu una pausa e sentì un rumore alla porta.

Sbatté lentamente le palpebre. Nel buio della cucina credette di aver visto due puntini di luce verde.

Tracey disse qualche cosa. Scrutò ancora e le chiese di ripetere.

«Qualcuno mi ha inseguito», ripeté lei.

«Cosa?» Don si alzò di scatto, strappando quasi il filo della cornetta.

«Se vuoi sapere la verità, veterinario, stavo proprio venendo a casa tua, quando qualcuno ha cominciato a darmi la caccia. Non so chi fosse, ma mi ha spaventata a morte e la casa di Jeff era la più a portata di mano.»

Attraverso il vetro della finestra, un guizzo bianco.

«Chi era?» domandò, augurandosi di sembrare veramente interessato mentre si muoveva carponi nell’ingresso.

La luce bianca si muoveva come se fosse nebbia.

«Te l’ho detto, non lo so. Jeff è uscito a dare un’occhiata, ma non ha visto nessuno.» Fece una pausa. «Non lo so. Forse è stata solo la mia immaginazione.»

«È probabile.» Oh, mio Dio, pensò. «Chi altro potrebbe essere se non Pratt, che ne dici?»

La sua risata questa volta fu leggermente forzata. «Forse. È veramente incazzato con te, sai.»

«Così ho sentito dire.»

Un tonfo attutito sulla porta.

«Davvero?»

«Certo.» La voce di Don sembrava uscire dalla luna; si sorprese che lei non lo notasse. «Me l’ha detto Chris quando è venuta in ospedale.»

«Oh?»

Adesso era il suo turno e lui si chiese che cosa avesse fatto per meritarsi due ragazze nello stesso momento.

La voce di Tracey si affievolì e lui dovette sforzarsi per sentirla mentre diceva: «Sono orgogliosa di te, Don, volevo dirti questo, ma non ne ho avuto la possibilità al parco.»

«Già, be’…»

Un altro tonfo, e nella luce bianca vide due occhi verdi allungati.

«Mi piacerebbe venire da te, se posso.»

«Cosa?» Era in piedi, ormai, con i denti che stringevano il labbro inferiore. «Scusami, Trace, che cos’hai detto?»

«Don, vorrei venire da te. Ho … bisogno di te.»

Luce bianca, occhi verdi.

«Piacerebbe anche a me», le rispose. «Ma dovremo aspettare, okay? I mostri stanno per tornare a casa. E io dovrei essere a letto.»

«Cosa? Ti senti bene?»

«Ti ho detto di sì. È solo…» Ci pensò bene, pensò alla possibilità di parlare con qualcuno di ciò che era successo, di quello che stava pensando, del fatto che sperava di non essere sul punto di perdere la ragione.

La porta tremò e lui chiuse gli occhi e domandò scusa mentalmente a Tracey.

«Senti», disse, «ti posso vedere a scuola, domani?»

«Certo. A pranzo?»

«Okay.»

«Jeff vuole sapere se verrai alla partita.»

Via, pensò allora; vattene via dal telefono!

«Non lo so, credo di sì. Dipende da mia madre, credo. Devo…» Vide la luce sbiadire, il verde sparire. «Merda, ecco che arrivano. Devo andare.»

«A pranzo», disse lei e lui riappese con violenza il ricevitore prima che potesse salutarlo e si precipitò in cucina.

Voleva aprire di scatto la porta, uscire allo scoperto, ma esitò, strofinandosi le mani sulle gambe e morsicandosi il labbro inferiore.

Uscire in quel momento sarebbe stato veramente da pazzi; guardare in un giardino vuoto avrebbe voluto dire…

Chiuse gli occhi. Strinse le mani. Respirava a fatica.

Aprì la porta.


«Oh, Cristo», sussurrò. «Oh … Cristo.»

Si fermò sotto l’acero, macchiato dalle ombre, illuminato di tanto in tanto da lampi distanti. Ma non riusciva a vederlo per intero, non riusciva a vederlo bene, era nero, più nero della notte, e la pelle baluginava solo quando si muoveva.

Si premette una mano sulla fronte per controllare di non avere la febbre, poi avanzò.

Il cavallo mosse la testa mentre gli occhi verdi lo osservavano.

Riusciva a respirare a malapena; l’aria era troppo rarefatta e le gambe erano pronte a cedere mentre attraversava il prato.

Occhi verdi. Lo osservavano.

Aveva voglia di sorridere, o di urlare, invece si limitò ad allungare la mano, continuando ad avanzare, augurandosi che lo stallone non annusasse la sua paura, ma invece la sua sorpresa nel vederlo così grande, così alto, la sua meraviglia di fronte al suo modo di guardarlo con un solo occhio lampeggiante.

«Io…»

L’animale si allontanò, emettendo sbuffi di vapore grigio sopra la testa.

«Sono io», gli disse dolcemente, «sono io, amico, sono io.»

Il cavallo si spostò e fiammate verdastre si arrotolarono sul tronco dell’acero, fiamme che bruciarono, arrostendo una gemma nera sulla corteccia.

Don si fermò, deglutì, allungò ancora la mano e fece un passo avanti. Si trovava a meno di due metri dal suo muso e aveva una voglia matta di toccargli il pelo, sentirgli la carne e le ossa. Dopo aver fatto un altro passo, scosse la testa e fece un verso rauco con la gola.

«Va bene», gli disse con calma. «Va tutto bene, non agitarti.»

Ti prego, Dio, pensò; ti prego, Dio, non sono pazzo.

Il cavallo lo osservò con attenzione, emettendo fumi grigi e fiammate verdi per un minuto buono, poi abbassò la testa e si spinse verso il braccio di Don, lo fece arretrare e lo seguì finché Don non riuscì ad accarezzargli la criniera di seta, il collo vellutato. Era carne vera e fredda allo stesso tempo; i muscoli si agitavano, una zampa si alzava, e lui non si vergognò quando sentì cadere le lacrime, quando sentì che stava piangendo, anche se sapeva che non poteva essere.

Non aveva ammazzato lui lo Squartatore; era stata quella creatura, quell’animale era suo amico.

«Perché?» mormorò allora. «Perché continuano, allora?»

Il cavallo si allontanò, lasciandolo solo.

Tirò su con il naso e si asciugò gli occhi con la manica.

«Non la smetteranno mai, lo sai? Continuano a venire da me, non mi lasceranno mai in pace. Io non sono Sam, non sono speciale. Sono soltanto io, e non la smetteranno mai…» Si fermò, abbassò il capo e si asciugò ancora gli occhi. «Vorrei solo sapere che cos’ho fatto di sbagliato, sai? Se solo mi dicessero che cos’ho fatto di sbagliato, forse le Regole non cambierebbero così, tanto, forse capirei che cos’è successo.»

Fu allora che lo sentì, nel freddo. Lo stallone stava ascoltando — ogni parola che diceva, ogni lacrima che versava veniva captata dagli occhi color smeraldo e dalle orecchie erette.

Voleva domandare anche il motivo per cui non gli permettevano di essere un eroe; voleva domandare perché non poteva piangere, perché non poteva arrabbiarsi, perché le Regole dovevano essere rigide come il marmo; e voleva domandare perché non riuscivano a decidersi se fargli fare il ragazzino o farlo diventare un uomo una volta per sempre. Ma non lo fece, perché sapeva che il cavallo aveva già capito e tutto sarebbe andato bene — sarebbe andato tutto bene per il semplice motivo che c’era lui a proteggerlo.

Sorrise tra le lacrime.

Lo stallone sbuffò fumi grigi, sbuffò di nuovo e soffiò via il fumo.

«È vero», disse, tra un sospiro e l’altro. «È vero, tu sei il mio amico.» Rise dolcemente. «Oh, Dio, è vero!»

Allungò una mano per accarezzargli il muso, per stringere quel patto, e si sentì gelare quando l’animale cominciò a fare versi di gola e ad arretrare. Cercò di seguirlo. Stava quasi per irrompere in casa quando andò a mettersi sotto l’albero, spezzando rami, facendo cadere foglie già morte, lanciando in aria fiammate e occhiate verdi e battendo gli zoccoli per terra.

Si videro i fari di un’automobile brillare dall’angolo della casa.

Oh, merda, pensò; dannazione, sono tornati.

Il cavallo abbassò la testa, gli occhi erano diventati scuri, mentre la coda oscillava tra le zampe.

«Va bene», disse nervosamente. «Va bene, devo andare, adesso.»

Il cavallo non si mosse.

Don tornò verso la porta della cucina. Aveva voglia di ridere, di urlare, di correre nel vialetto per sorprendere suo padre, per fargli vedere, per fargli vedere quello che suo figlio era capace di fare.

Con una mano sul pomello della porta, si girò a dare un’occhiata e riuscì a individuare il suo amico solo grazie agli occhi verdi. «Ti prego», disse. «Ti prego.» E corse dentro, arrivando nell’ingresso in tempo per sentire il rumore delle chiavi che giravano nella serratura e i suoi genitori che parlavano nel portico, ad alta voce, ma senza litigare. Si voltò verso le scale per dare l’impressione di essere sul punto di salire, e in quel momento sua madre entrò, chiudendosi la porta violentemente alle spalle e passandogli davanti per andare in cucina. Suo padre la seguiva, più lento, con la giacca sulle spalle e una faccia pallidissima.

«Che cosa fai alzato?» gli domandò in malo modo e non aspettò una risposta. Puntò un dito in segno di comando verso l’alto e seguì sua moglie.

Sto bene, pensò Don mentre si apprestava a salire le scale; grazie di avermelo chiesto, sto bene.

«Non ne posso più», esclamò Joyce ad alta voce e lui si fermò sul pianerottolo.

«Tieni bassa la voce! Il ragazzo ci può sentire!»

Ci fu una risata, breve e amara. «Sentire che cosa? Non sono una bestia e non sono una cretina. Che cosa ti fa credere che mi possa sentire?»

«Cristo, sei pazza, lo sai questo?»

Lei rise ancora e Don si accucciò tenendo una mano sulla ringhiera nel caso avesse dovuto muoversi velocemente.

Le antine degli armadietti vennero sbattute, delle tazzine andarono in frantumi, il rubinetto fu aperto così forte che avrebbe potuto riempire una vasca da bagno. Sentì suo padre ridere, una volta che l’acqua fu chiusa.

«Parola d’onore, sei veramente strana, lo sai? Sei veramente strana.»

«Be’, insomma», disse Joyce. «Ti hanno chiesto solo di alzarti in piedi e di ringraziare il pubblico e ti sei messo a parlare come un politicante! Cristo, temevo solo che ti mettessi a baciare anche i bambini.»

«Non sarebbe stata una cattiva idea.»

Venne mossa una sedia, un’altra cadde per terra.

«Va bene», disse Norman con fatica. «Va bene, mi dispiace.»

«È troppo tardi per scusarsi. Tu e il ragazzo mi avete snobbato e preso in giro fin da quando è iniziata questa storia e ne ho abbastanza! Io mi sono ammazzata di fatica e tu ti prendi tutto il merito, e questo è il ringraziamento che ne ricevo.»

«Io…» Un rumore soffocato — era Norman che cercava di soffocare una risata. «Dio, la prossima cosa che farai sarà quella di accusarmi di aver mandato fuori io Don ad ammazzare quel bastardo.»

«Non mi stupirebbe affatto.»

Il silenzio che cadde fu glaciale e Don si strofinò il braccio libero contro il petto.

«Che stronzata che hai detto, Joyce.»

«Lo so», disse lei, ma senza tono di scusa nella voce. «Io…» Cominciò a piangere e Norman bestemmiò, poi l’acqua riprese a scorrere.

Don non voleva più ascoltare. Salì gli ultimi gradini, percorse il corridoio ed entrò in camera sua. Tolse l’asciugamano dalla lampada e lo lasciò cadere sulla scrivania. Rimase alla finestra per un momento, guardando verso l’albero. Non c’era niente, il cavallo era sparito, ma non si domandò più in che stato fosse la sua mente.

Quando finalmente si lasciò andare sul materasso, lo fece in modo da far sbattere la testa contro la parete. Forse mi hanno sentito, pensò; forse penseranno che ho avuto una ricaduta o qualcosa del genere, e verranno su di corsa per vedere se c’è qualcosa che non va.

Oppure, pensò, chiameranno prima i giornalisti e poi verranno a vedere se sono morto.

E chissà, pensò con un sorriso freddo e impietoso, potrei anche portarli fuori per far vedere loro il mio nuovo cucciolone.

Rimase in quella posizione per un’ora circa prima di riscuotersi e fu allora che notò suo padre sulla porta.

«Stai bene, figliolo?»

«Certo. Stavo solo pensando.»

«Sarà meglio che spegni la luce. Domani non sarà la solita giornata di scuola per te.»

Annuì e tirò su i piedi. «Papà?»

Norman si irrigidì e alzò le sopracciglia.

«Credi…»

Un improvviso rumore di vetri infranti lo interruppe. Scattò in piedi e seguì suo padre nel corridoio. Joyce usciva in quel momento dalla camera da letto con una vestaglia che la copriva a malapena.

«Che cos’è?» domandò nervosamente.

Un altro rumore e il suono di colpi pesanti su qualcosa di metallico.

«Maledizione, la macchina!» esclamò Norman e si precipitò sulle scale. Don lo seguì, nonostante sua madre gli dicesse di restare dove si trovava. La porta era chiusa a chiave e Norman tastò alla ricerca della serratura, la aprì e accese la luce del porticato.

Don si precipitò fuori prima di lui, senza accorgersi dell’ondata di aria fredda che andava a colpirlo sul torace nudo.

«Oh, Dio», sussurrò.

Norman lo spinse da parte e si precipitò sugli scalini, corse per il vialetto e non si fermò fino a quando non si scontrò con il parafango anteriore della station wagon. Il parabrezza era in frantumi, sul cofano c’era un’ammaccatura, e sull’asfalto, sotto il paraurti, c’era la bicicletta di Don. Il manubrio era stato attorcigliato, la ruota anteriore era rotta e metà dei suoi raggi erano sparpagliati come antenne in giro lungo il ciglio della strada.

Norman si girò e andò a fare il giro della casa, Don invece si inginocchiò accanto alla bicicletta, allungò una mano per toccarla, la ritrasse e l’allungò di nuovo, seguendo le linee della distruzione. Quando si spostò e si sporse in avanti per dare un’occhiata alla ruota posteriore, vide un portachiavi di cuoio rosso incastrato sotto la carcassa ormai rovinata.

«Don?» chiamò sua madre dalla porta d’ingresso. «Ti senti bene?»

«Sì», rispose prontamente, facendo scivolare il portachiavi nella tasca. Joyce sussultò quando si accorse del danno.

«Oh, Cristo, Dio mio, guarda qui», esclamò mentre Norman riappariva dal suo giro attorno alla casa, respirando affannosamente e massaggiandosi il fianco con la mano. Allungò una mano tremante, lui gliela prese e la tirò verso di sé, guardando la strada vuota. «Chi è stato?» domandò lei.

«Come diavolo faccio a saperlo?» rispose. «Diavolo, costerà una fortuna farla riparare.»

Joyce fece un passo per avvicinarsi, il vetro scricchiolava sotto le sue pantofole. «Vado a prendere una scopa», disse. «Non possiamo lasciare tutta questa roba per terra. È pericoloso. Si può far male qualcuno.»

«Giusto.»

«Senti, è meglio chiamare la polizia. Don? Va’ a prendere la scopa che sta in garage, per favore. Dammi una mano.»

Don alzò lo sguardo. Nessuno dei due lo stava guardando. Norman fissava l’ammaccatura sul cofano mentre massaggiava meccanicamente la schiena a sua moglie; Joyce stava cercando di togliersi i capelli dagli occhi. Finalmente lei lo guardò, gli indicò il garage, poi spinse gentilmente Norman verso casa.

Don si alzò, si pulì alla meglio i jeans e si piegò per afferrare il manubrio e trascinare via la bicicletta.

«Lasciala lì», disse Joyce. «Ci potrebbero essere delle impronte digitali o qualcosa del genere.»

Lui andò a prendere la scopa, gliela porse e tornò in casa, dove sentì suo padre che stava spiegando alla polizia quello che era successo. Dopo aver riappeso, Norman disse a Don di mettersi una maglietta prima che arrivassero i poliziotti. Non si sa mai, disse. Potrebbero esserci in giro ancora dei giornalisti e quando annuseranno la storia, torneremo a essere l’attrazione del circo.

«Maledizione», imprecò, mentre si dirigeva fuori dalla porta. «Con la fortuna che ho, domani pioverà di sicuro.»


La polizia arrivò e se ne andò in meno di un’ora. Fecero accurate ricerche in giardino, ma non trovarono niente, nessuna traccia, e spiegarono ai Boyd che in casi di quel tipo non si poteva fare molto se nessuno aveva visto niente e non c’erano informazioni di nessun genere. Nessuno era uscito a dare un’occhiata per vedere come mai fosse arrivata la macchina della polizia senza la sirena accesa; nessuno aveva ascoltato la conversazione perché Joyce aveva chiesto di parlare a bassa voce, di bisbigliare. E non avevano domandato niente a Don perché Norman aveva spiegato che il ragazzo stava con lui, dentro casa, quando era successo l’incidente.

Dopo che se ne furono andati, Don trascinò la bicicletta in un angolo del garage e si mise a osservare suo padre che stava togliendo dal sedile i pezzi di vetro. Joyce era in casa a preparare il caffè.

Premette un bottone e il portone del garage si abbassò. Norman alzò lo sguardo e sorrise ironicamente a suo figlio. «A volte si vince, a volte si perde, vero?» disse. «Mi spiace per la bicicletta.»

«Già.»

Don tremò per una folata d’aria e si voltò per tornare in casa, ma si fermò quando vide che qualcosa di bianco ondeggiava nei cespugli di fronte alla casa. Si avvicinò e raccolse una piuma dall’albero.

«Papà?»

Norman emise un verso.

Ne aveva trovata un’altra sul cespuglio accanto, e altre due per terra. «Ehi, papà?»

«Un minuto, okay? Non vorrei tagliarmi un dito con questa roba.»

Spostò dei rami e la bocca si aprì in un’espressione di stupore.

Per terra, sotto il cespuglio, c’era il corpo di un uccello, aveva il collo attorcigliato, gli occhi chiusi e le piume ricoperte di sangue.

«Papà, guarda!»

Norman lo spinse da parte e si inginocchiò, si zittì quando vide la mulilazione e sfiorò il volatile con un piede.

«Cristo», disse. «Era una maledetta anatra.»

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