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La sfida: fu terribile.

Lo fu ancora di più per la forza implicita, perché lui sapeva che c’era e non sapeva esattamente cosa farsene e come utilizzarla. Sapeva soltanto che non avrebbe sopportato ancora per molto quella prigionia, il puzzo di rovina e di tradimento che riempiva gli scaffali vuoti e che ormai entrava anche nei suoi sogni. Una volta la sua stanza era un’oasi, il posto dove riusciva a studiare, leggere, sognare il suo futuro come desiderava che fosse. Ormai era stata devastata. Corrotta. Sua madre era entrata senza il suo permesso e, sempre senza il suo permesso, gli aveva tolto tutto ciò che riusciva a dargli un po’ di pace.

Aspettò, quindi, che uscissero di casa a metà pomeriggio di domenica per andare a un’altra riunione di un altro comitato che si occupava dei festeggiamenti per il compleanno di una cittadina divisa in due, che non interessava a nessuno fuorché a coloro che volevano vedersi fotografati sul giornale; se n’erano andati senza dirgli una parola, dal momento che ancora si trovava tra le rovine della sua stanza, sicuri di ritrovarlo nella stessa posizione quando fossero rientrati. Li sentì uscire dall’ingresso principale, mentre sua madre rideva del brontolio benevolo di suo padre che si lamentava di non poter vedere la partita a causa della riunione. Ci fu una risposta, Norman scoppiò in una fragorosa risata e la porta venne richiusa con forza.

In quel silenzio improvviso, non riuscì più a sopportare la situazione. Prese il giaccone e se ne andò, maledicendoli e facendo un tale sforzo per evitare di mettersi a piangere da farsi venire il singhiozzo. Una piccola parte di lui continuava a credere che non erano cattivi, che pensavano davvero di aver fatto la cosa più giusta, perché lo amavano e perché non volevano farlo soffrire. Ma che cosa diavolo ne sapevano loro della sofferenza? Che cosa diavolo ne sapevano loro di com’era stato difficile memorizzare tutte le regole e fare del proprio meglio per cercare di seguirle, solo per avere sempre qualcuno alle spalle pronto a cambiare una parola ogni tanto, una regola o il modo di vedere le cose?

Che cosa diavolo ne potevano sapere loro di quello che provava dentro?

Sono stato giovane anch’io, gli aveva detto suo padre più di una volta, anche se fai fatica a crederlo; ma se solo si fosse reso conto di quello che aveva fatto assecondando Joyce e permettendole di strappare via dalla stanza tutti i suoi beniamini, l’unica cosa ohe sentiva di possedere, senza nemmeno avere la fottuta decenza di informarlo prima che entrasse in camera e si accorgesse del vandalismo! A che cosa diavolo stava pensando quando era andato a dire a Brian e a Tar del sospetto che Don nutriva nei loro confronti a proposito di quella fialetta? Cristo, non aveva gli occhi? Non vedeva quello che stava succedendo?

Sarà stato anche giovane; ma ormai non lo è più. Poteva anche ricordarsi di tutto quello che passa per la mente di un ragazzo, ma ormai la sua conoscenza era limitata ai libri che leggeva, a ciò che sentiva dire in ufficio, a ciò che gli raccomandava il Consiglio Distrettuale, composto da una manciata di stupidi, tra uomini e donne, che credevano di ricordare che cosa significa essere giovani, come è la scuola e la violenza che a volte i genitori sanno esercitare anche senza dover ricorrere alle mani.

Proprio come Norman e Joyce; anche loro pensavano di conoscere i ragazzi, ma, maledizione, non conoscevano lui.

E la cosa peggiore, la cosa peggiore e più orribile di ogni altra era che, dal momento che non sapeva come fare, come farsi capire, come mostrare loro che non era il fottutissimo figlio morto e nemmeno un poppante o un cucciolotto … la cosa peggiore era che aveva una tremenda paura di avere voglia di ammazzarli.


Passeggiò qua e là, prima vicino alla scuola dove si sentiva la folla gioiosa e la musica della banda, poi verso il centro della città, senza rendersi veramente conto di dove era diretto finché non passò di fronte alla casa di Tracey. Si fermò sul marciapiede a fissare le finestre chiuse, la veranda vuota, sospirando e domandandosi se non fosse stato, per caso, un po’ troppo duro nei confronti di se stesso; dopotutto gli aveva dato un bacio, anche se non aveva la reputazione di concederli facilmente. In ogni caso, non lo aveva incoraggiato e non era stata nemmeno trascinata via prima di potergli dire quando avrebbero potuto rivedersi.

Aveva solo bisogno di pensare.

Quello non era il posto giusto e il campo era occupato dalla partita.

Proseguì a spalle curve, sollevando appena i piedi dal marciapiede, finché raggiunse il Parkside Boulevard; allora si incamminò verso la periferia occidentale della città, osservando i passanti che lo sfioravano senza riconoscerlo, osservando il traffico che scorreva da un punto invisibile all’altro. C’erano insegne vistose nella maggior parte dei negozi, che annunciavano i saldi in onore della festa che sarebbe iniziata mercoledì; c’erano operai sui pali della luce e del telefono, appesi su scale o più comodamente sostenuti da piattaforme mobili, intenti ad appendere grandi medaglioni ovali che rappresentavano l’emblema della città e gli anni della sua annessione; c’erano furgoni enormi parcheggiati ovunque e qualche imbianchino che dava il tocco finale di vernice qua e là e anche addetti ai lavori stradali che riempivano le buche sui lati delle vie e che le ripulivano dai rifiuti.

Nonostante il cattivo umore, rimase impressionato da tutta quella alacrità e, nel giro di un’ora, il colore della sua depressione si trasformò da nero a grigio. Avrebbe pensato più tardi a quello che lo aspettava a casa; in quel momento voleva solo trovare un posto per dimenticare. Gli sarebbe bastata anche un’ora soltanto per capire che cosa era andato storto così improvvisamente.

Alle quattro e mezzo si ritrovò da Beacher a mangiare un hamburger senza rispondere a Joe che gli aveva domandato come mai non si trovasse alla partita. Quando poi sentì le trombe trionfanti per le vie, si rese conto che la partita doveva essere finita e che la squadra locale aveva vinto. Entro pochi minuti, quindi, il posto sarebbe stato pieno di gente e lui avrebbe dovuto stare ad ascoltare le storie, le risate di tutti, avrebbe dovuto vedere le ragazze e i giocatori, rivivendo con loro l’intera partita. Gli ci volle solo un istante per capire che non aveva bisogno di quell’ambiente per pensare. Scese dallo sgabello senza finire il cibo, lasciò il denaro vicino alla cassa e uscì; vide la macchina di Brian che stava accostando, allora girò immediatamente a sinistra e comperò il biglietto del cinema per lo spettacolo pomeridiano. Era lo stesso film che aveva visto con Tracey, ma anche quella volta rimase distratto; si era seduto in prima fila, tenendo le gambe completamente allungate e le mani intrecciate sul torace, senza però distogliere lo sguardo dal centro dello schermo.

Finché il colpo di uno sparo lo fece risvegliare e vide un uomo vestito di nero che cadeva da una finestra con la faccia insanguinata e un’espressione di terrore negli occhi.

Si agitò a disagio, ripensando al desiderio che gli era venuto quella mattina di vedere i suoi genitori morti. Pensò anche alla forza che bisogna avere per ammazzare un altro essere umano, perché chiunque lo può fare se è convinto, ma bisogna saper superare il terrore che attanaglia l’assassino qualche istante prima.

Intanto, un altro protagonista veniva respinto contro una parete, e bersagliato da un proiettile. Lui rimase affascinato dagli effetti speciali che riuscivano a far apparire la scena tanto reale e tanto divertente nello stesso tempo.

Chiuse gli occhi.

Immaginò Joyce, distesa bocconi sul pavimento della cucina, mentre il sangue le sgorgava da una ferita sulla schiena, con la mano sinistra aggrappata alla gamba del tavolo, come se volesse rialzarsi.

Poi, si spaventò al pensiero che gli attraversò il cervello: Così impara, quella puttana.

Dopo il film, si incamminò verso l’entrata del viale del parco e si appoggiò al muro. Teneva le mani in tasca. Si mise a osservare la strada. Il clacson di una macchina che passava lo fece sorridere; era Tar che salutava dal sedile posteriore della convertibile di Chris Snowden. Guidava lei ed erano diretti a New York; lei lo salutò con un largo sorriso prima che un autobus le passasse davanti.

I giocatori di football, pensò, hanno tutte le fortune. Poi sentì le gambe che si indebolivano e si rese conto di quello che avrebbe dovuto fare, invece di continuare a piangersi addosso. La partita era terminata da tempo. Le tribune erano vuote. E il sole stava preparandosi a tramontare all’orizzonte della città.

Si precipitò, correndo, frenando solo quando si accorgeva di essere troppo sotto sforzo; dieci minuti più tardi, giacca a vento per terra e camicia aperta sul ventre, si ritrovò da solo sul campo.


Non c’era nessuno al mondo che riusciva a stargli al fianco quando muoveva le gambe in quel modo, respirando a pieni polmoni boccate d’aria fresca.

Nessuno.

Le scarpe da tennis si muovevano rumorosamente sulla pista, il vento gli spingeva indietro i capelli e avvertiva un dolore non spiacevole al fianco sinistro.

Era solo sulla pista; quello era il suo mondo, di nessun altro.

Il suo mondo, dove non c’erano trappole, ostacoli, battaglie.

Per un breve istante, aveva desiderato ammazzare i suoi genitori e in quel momento si era dimenticato della Regola: non sfogare mai la sua rabbia sugli altri, nemmeno sui tuoi nemici.

Invece di dar sfogo alla rabbia e al cattivo umore, bisogna parlare. I bastoni e le pietre possono rompere le ossa, ma le parole non fanno male a nessuno.

Cristo, com’era sbagliato! Sbagliato e pietoso!

Le parole erano ciò che i suoi usavano sempre per litigare — sibilando sottovoce, con cattiveria, con veleno. Usavano lamette verbali, invece di clave reali, per ferirsi reciprocamente a morte. Se n’era reso conto soltanto negli ultimi tempi, eppure nessuno dei due riusciva a colpire l’altro. Non erano ancora arrivati a tanto.

Be’, forse, anche quella era una Regola, pensò mentre iniziava il secondo quarto di miglio, ma era piuttosto idiota. A volte sapeva, lo sapeva e basta, che sarebbe stato meraviglioso prendere a pugni in faccia Brian Pratt.

Il problema era che bisognava sapere che cosa fare per cimentarsi in una rissa e lui non lo sapeva. Il secondo sabato dal suo arrivo ad Ashford, quando aveva nove anni, Brian era andato da lui con un gruppetto di amici. Don si trovava in giardino a giocare con i soldatini, da solo, e Brian gli era saltato addosso. Non c’erano state presentazioni, né preavvisi, né minacce. Pratt gli era saltato addosso, l’aveva buttato a terra e l’aveva preso a pugni sulla schiena una dozzina di volte. Poi era tornato verso la sua bicicletta e se n’era andato. Don aveva urlato per il dolore e la confusione, ma non era andato da suo padre perché sapeva già che cosa gli avrebbe detto: Devi cavartela da solo, figliolo, devi dimostrare che tu sei meglio di loro.

Certo. Ma non credere di essere migliore, perché la nuova Regola dice che non è vero. Tu sei uguale a tutti gli altri. Tu sei il figlio del preside, ma sei uguale agli altri. Certo.

Dannatissime Regole. Cambiano sempre, da un giorno all’altro.

Come poteva decidere il modo di comportarsi se loro continuavano a cambiare le Regole?

Le gambe ormai si erano riscaldate, il respiro era regolare. L’aria non era più fredda, la pista non era faticosa. Allungò il passo, aumentando la velocità e lasciando la mente libera di vagare, perché quello era l’unico modo di non pensare al numero dei giri. Non bisogna prestarci attenzione, solo così la situazione è sotto controllo.

Il cielo cominciò a oscurarsi e il pallido fantasma della luna apparve sopra la città.

Correva da solo nello stadio, pensando a Tracey, a Hedley, a Falcone, a Pratt, a Tar Boston e ai suoi genitori. Se la vita fosse continuata in quel modo, avrebbe deciso di restare a scuola per sempre.

Al secondo miglio, con il fiato leggermente più pesante, le gambe continuavano a reggere.

Gli piaceva correre.

Gli piaceva la solitudine, il modo in cui poteva analizzare i propri problemi, proiettando la mente in avanti. A volte stava al suo passo, altre no e altre ancora non aveva nessuna importanza. Ma nessuno era più veloce di lui, non quando era da solo e il vento gli sbatteva sul viso, non quando lo stadio era pieno di gente gioiosa che sventolava fazzoletti rossi al suo passaggio. Vide la linea del traguardo e si rese conto che, con un po’ di fortuna e una piccola spinta, avrebbe battuto il record mondiale. Con un ulteriore giro della pista sarebbe diventato l’uomo più veloce della terra.

La folla era ai suoi piedi.

Sentiva il suo respiro uscirgli dalle labbra e sapeva che era un cattivo segno, ma c’era ancora della riserva da qualche parte, giù nei polmoni, e andò a cercarla. Emise un verso mentre si preparava allo scatto, al suono della campana. La folla era in delirio, suonava trombette, le telecamere della televisione immortalavano la sua smorfia di fatica, simile a quella di un clown.

Hedley si trovava in mezzo alla pista, intento ad arrotolarsi i baffi e a pettinarsi il ciuffo rosso e Don gli correva incontro, senza rompere il ritmo.

Pratt e Boston erano avanti di due lunghezze, pronti a bloccarlo al suo passaggio, ma lui schizzò come un razzo, fece una finta dall’altra parte, lasciandoli storditi a grattarsi le mani come due scimmie.

Tracey gli stava mandando un bacio.

Chrissy si strappava i vestiti di dosso e si leccava le labbra al suo passaggio.

Mamma e papà scuotevano la testa e si giravano per aiutare il piccolo Sam che aveva qualche problema con i lacci delle scarpe.

Di fronte c’era il traguardo, oltre l’ultima curva.

La folla era in tripudio e spingeva la schiera di poliziotti che cercava di contenerla, anche se loro stessi erano eccitati quanto la folla che cercavano di contenere.

Sentiva i battiti del cuore; stava reggendo; sentiva il ritmo dei suoi passi in perfetta sintonia con quello delle braccia e i movimenti della testa; sentiva il suo nome scandito in continuazione, come il rullio di un tamburo, come il boato della prima colata di cemento, come la marcia di un esercito che attraversa una pianura senza alberi.

Correva più veloce, singhiozzando, perché ormai sapeva di dover battere il record, per mettere bene in chiaro con chi avevano tutti a che fare. Così avrebbero saputo tutti che non era più un fottutissimo bambino.

Correva più veloce, spingendo in fuori il torace, e ruppe il nastro proprio nel momento in cui il frastuono era totale e lo investiva, lo inondava, sollevandolo in trionfo mentre attraversava il prato e si lasciava cadere sulla schiena a braccia e gambe spalancate, con gli occhi fissi sulla traversa della porta del campo.

La gente se ne andò, le telecamere, la polizia, le donne sospiranti.

Ma lui non era solo.

Il campo si allargava di fronte a lui e da quella posizione sembrava ancora più lungo; nell’apertura della galleria fatta di mattoni i cui cancelli di legno erano ancora aperti si vedeva qualcosa. Nell’oscurità. Lo stava guardando. Aspettava. Senza muovere un muscolo.

Non c’era luce alle sue spalle, nonostante i lampioni della strada fossero accesi; non proiettava ombre.

Ma c’era qualcosa. Riusciva a vederlo.

E lo stava guardando. Aspettava.

Non faceva rumore.

Si asciugò il sudore dagli occhi e dal viso con il braccio e diede un’altra occhiata.

Era sparito.

Lo stadio era vuoto e lui era sdraiato per terra.

Inspirò profondamente, buttò fuori il fiato, guardò ancora e poi fissò la galleria. «Ossigeno, ragazzo», si disse, mentre si rimetteva in piedi. «Hai bisogno di un po’ del vecchio O2, non so se mi spiego.»

Era sparita la giacca.

Guardò nel punto sulla linea delle cinquanta iarde dove l’aveva lasciata cadere, lo fissò con un tremito di perplessità e poi alzò lo sguardo per sondare tutto il campo. Infine si voltò, per dare un’occhiata anche alle tribune. Era sparita. Sapeva di averla lasciata in quel punto: sentiva ancora lo stacco dalle sue mani e il rumore che aveva fatto, toccando terra. E adesso era sparita. Rimase ad aspettare per qualche istante che qualcuno si mettesse a ridere; aspettò di essere sicuro che non si trattasse di uno scherzo. Una volta appurato questo, resosi conto che ormai non era sicuro più nemmeno sulla pista, si mise le mani in tasca e si diresse verso casa.


È un inferno, pensò Tracey.

Sedeva tutta sola sui gradini di un edificio malandato in un quartiere qualsiasi dei sobborghi cittadini. Ai lati della strada file di macchine parcheggiate, il marciapiede affollato di bambini e non un volto conosciuto, non una voce familiare.

L’inferno.

Quella doveva essere Long Island — alberi, spiagge, case e palazzi eleganti, il posto, che, una volta visto, faceva sparire qualsiasi altro. Ma persino Ashford era meglio, per l’amor del cielo. Per lo meno c’era la partita di football, in cui in quel momento avrebbe dovuto suonare il flauto; c’erano i suoi libri, i suoi animali di pezza, il silenzio della sua stanza; ad Ashford c’era Don Boyd.

Si vergognò solo al pensiero di come lo aveva baciato prima ancora di rendersene conto. Sembrava quasi che l’avesse preso a pugni sulla pancia; si era sentita come se si fosse data una sberla da sola ed era corsa subito in camera sua senza dare a sua madre il solito resoconto minuto per minuto di quello che aveva fatto fuori casa. Forse era arrossita, perché le sue sorelle l’avevano presa in giro a più non posso, facendole continuamente domande finché suo padre si era messo a brontolare — niente chiacchiere, lui doveva guidare, aveva bisogno di concentrarsi sugli idioti che si trovavano per strada come lui.

Si prese le ginocchia tra le mani e si mise a guardare una partita di baseball che si stava pericolosamente trasformando in una rissa, e all’improvviso le venne in mente lo Squartatore, e quello che avrebbe potuto fare a quei ragazzi. Ebbe un tremito. Deglutì. Lanciò uno sguardo verso le finestre sopra di lei, verso la finestra dalla quale si vedeva suo padre che guardava in strada. Gli sorrise, lo salutò e sospirò quando le fece cenno di alzarsi dai gradini e di entrare in casa.

Dannazione, pensò, se è un poliziotto così forte, perché non costringe la nonna a trasferirsi? Almeno in un posto con gli alberi, invece di portarifiuti.

Long Island era un inferno.

Si fermò sull’ingresso, si voltò e fece un sorrisetto amaro. Arnvederci, ventesimo secolo, disse alla strada rumorosa. Devo andare sulla macchina del tempo. Allacciati la cintura di sicurezza, per favore, sarà un viaggio difficile e noioso.


La veranda originale della casa era stata abbattuta molto tempo prima che Don e la sua famiglia si trasferissero, poiché il proprietario precedente era convinto che il legno fosse marcito e non voleva che restasse ferito qualcuno nel caso un’asse o un gradino si fossero staccati. Era stata sostituita da un’altra veranda, che aveva il tetto spiovente e la ringhiera delle scale in ferro battuto nero e attorcigliato. Era l’unica casa del quartiere ad avere una simile veranda e una volta Norman aveva insistito di voler rimettere quella vecchia; era stato prima della morte di Sam. Ormai si limitava a lagnarsi di avere un porticato poco più grande di una tettoia.

Don si sedette sull’ultimo gradino. Era entrato in casa per asciugarsi il sudore e per prendere un maglione, pensando di andarsene subito in camera, quando si era accorto che i suoi non erano ancora tornati. Non avrebbero mai saputo che era uscito. Avrebbero continuato a pensare che era stato obbediente. Si era seduto sul letto e aveva fissato la parete ormai vuota dove una volta c’era lo stallone; poi aveva percepito il vuoto sugli scaffali, il rumore sordo del suo respiro e il freddo che le pareti dipinte di bianco sembravano emanare. Aveva dato un’occhiata alla stanza dei suoi, alla stanza di Sam, poi aveva aperto la porta del solaio ed era salito.

Erano là, raggruppati sugli scatoloni, sparsi disordinatamente sul pavimento polveroso, buttati su un baule che una volta apparteneva a suo nonno. Aveva ingoiato il nodo alla gola, era rimasto immobile e infine aveva raccolto il poster riportandolo da basso. Lo aveva attaccato sopra la scrivania e si era messo a fissarlo pensieroso.

Si vedeva male a causa della luce che se ne stava andando.

Sentiva solo le foglie, le ombre e il silenzio della casa alle sue spalle.

Passarono velocemente un paio di automobili, ma non ci prestò nessun’attenzione; un gruppo di bambini schiamazzava al tramonto, ma non sorrise ai loro saluti; una convertibile rossa stava risalendo la strada, con la radio a pieno volume, e fu solo quando si rese conto che si era fermata nel vialetto di una casa vicina che voltò lentamente la testa, come se fosse troppo pesante per muoversi.

La portiera venne sbattuta.

Chris. Ebbe un fremito. Era Chris Snowden e non era con Tar. Indossava ancora il maglione scuro da cheerleader, le scarpe da ginnastica, ma la gonna a pieghe era stata sostituita da un paio di jeans sbiaditi.

E non stava tornando a casa; stava attraversando i giardini che li dividevano per dirigersi verso di lui.

Si schiarì la gola, mentre si domandava che cosa avesse in mente di fare; voleva prenderlo in giro, voleva tentarlo, oppure si trattava di qualche richiesta per il compito di zoologia.

Aspettò che si fermasse ai piedi delle scale, poi cominciò a scendere un gradino alla volta verso di lei.

«Ciao.»

Aveva diviso in mezzo i capelli chiari, raccogliendoli in due trecce che le ricadevano sul seno. Aveva il viso arrossato, e i grandi occhi erano di un blu così scuro da sembrare quasi nero.

Don le sorrise, cautamente. Gli tornò in mente la sua espressione di ansia quando si era accorta che si era fatto male all’occhio, e la rivide quando lei gli si avvicinò di più, con un mezzo sorriso sulle labbra.

«Sembra migliorare», disse.

«Lo sento appena», rispose lui, toccandosi senza nemmeno rendersene conto. La ragazza si voltò a osservare la strada vuota; lui non riusciva a distogliere gli occhi dal suo profilo. «Ho visto… che eri con Tar, prima. Ho pensato che ve ne sareste andati in città.»

Una scrollata di spalle e un’espressione di vago disgusto. «Si è sentito male. Brian aveva della birra in macchina e dopo la partita hanno avuto un’accesa discussione, da veri uomini. Ha perso Tar.» E, puntando verso casa sua: «E anche la mia auto».

«Che schifo.»

«Quello stronzo non mi ha nemmeno aiutata a pulirla. L’ultima volta che l’ho visto stava andando nel parco.» Un sorriso pieno di ironia la sfiorò maliziosamente. «Se Dio esiste, finirà nel laghetto.»

Don sorrise fra sé dell’idiozia dei due ragazzi e fece del suo meglio per non fissarla quando si voltò verso di lui, appoggiandosi alla ringhiera con le braccia e mettendo il mento sul polso. Non stava succedendo davvero; era qualcosa che la sua mente si stava immaginando per punirlo dell’idea che si era fatto di poter comandare il mondo e renderlo migliore.

«Sei stato alla partita?»

«No. Ho avuto … altre cose da fare.»

Alzò le sopracciglia. «Abbiamo vinto.»

«Vinciamo sempre.»

«Davvero?»

«Ogni anno», rispose lui, facendo chiaramente capire che da qualche parte c’era un libro pieno di cose che riteneva più importanti, oppure meno noiose. «Specialmente da quando Tar e Brian fanno parte della squadra.»

«Oh?» lei socchiuse gli occhi. «Vieni da Beacher più tardi?»

«Non so. Forse. Dipende dai miei.»

Si rizzò improvvisamente, e lui temette di aver detto qualche cosa di offensivo. Chris aveva un’espressione scura sul volto, dagli occhi le partivano rughe lunghe e profonde, che la rendevano più vecchia e che trasformavano i suoi capelli soffici e chiari in una parrucca da strega, le sue guance morbide in un muso ossuto. Quella trasformazione lo sorprese e si scostò leggermente da lei, non riuscendo a sostenere il suo sguardo. Guardò a destra e notò con sgomento la station wagon che si avvicinava.

Ah, merda, pensò; non adesso.

«Sei nei guai, eh?» gli disse lei con comprensione.

Non poté fare a meno di annuire.

«Merda. Anch’io.»

«Eh? Tu?»

«Oh, certo», rispose Chris con velenoso disgusto, e ogni parola aveva il rumore di una frustata. «Succede sempre così, ormai mi sto abituando. Mi dicono: conosci qualche ragazzo, va’ a qualche festa, fatti socia di qualche club. Ne avrai bisogno, Christine, per la domanda al college. Avrai bisogno di tutto.» Sbuffò e si sforzò di fare un bel sorriso mentre la station wagon entrava lentamente nel vialetto. «Sai, Don, senza offesa, ma c’è molta merda nella tua scuola.»

«Non mi offendo. È vero.»

Il suo sorriso, quando si voltò verso di lui, era spontaneo; abbastanza persistente per essere notato; poi scomparve non appena Norman e Joyce aprirono le portiere e scesero dalla macchina. Norman fece segno a Don di aiutarli a scaricare le borse della spesa.

«Una ragazza», disse lei sottovoce, «non può nemmeno farsi una scopata decente da queste parti.»

Don avrebbe voluto ridere, afferrarla e trovare un posto buio e nascosto per finire insieme quella conversazione. Avrebbe voluto dirle che sapeva bene quello che provava. Invece, rimase fermo e tranquillo a mormorare un arnvederci mentre suo padre lo chiamava nuovamente in aiuto. Chris gli sfiorò il braccio in segno di saluto, sorrise di nuovo e andò a presentarsi ai Boyd, prima di avviarsi verso casa. Norman la stava osservando; Don afferrò le due borse più pesanti e arrancò verso casa, dove sua madre gli aveva già aperto la porta e lo stava aspettando.

Andò a depositarle sul bancone in cucina e si rincantucciò in un angolo ad aspettare la bufera.

Norman lasciò cadere il suo carico sul tavolo, imitato da Joyce e, insieme, cominciarono a muoversi per la stanza in modo impacciato, mettendo tutto a posto, senza degnarlo di uno sguardo.

«Credevo di averti detto che dovevi restare in casa», disse suo padre.

«Chris sembra una ragazza simpatica», osservò sua madre con un sorriso ansioso.

«Lo è», rispose Don. «Sai una cosa, mamma? Vuole essere scopata e io sono ancora maledettamente vergine.»

«Sei in castigo», gli ricordò Norman.

«Be’, forse dovresti cercare di conoscerla meglio, che cosa ne dici?»

Avanti e indietro. Come i pupazzetti di un orologio a cucii.

«Forse, mamma. Non lo so.»

«Suo padre è chirurgo, sai. Lavora a New York. Ho sentito dire che è piuttosto conosciuto.»

«E allora perché abita qui?» domandò, trasalendo quando Norman spalancò un armadietto vicino alla sua testa e gli lanciò uno sguardo che richiedeva chiaramente una risposta.

«Non saprei», rispose Joyce da sopra una scatola di preparato per torte che soppesò fra le mani prima di rimettere sul tavolo. «Da quanto ho sentito dire, non le mancano certo i soldi. E non è che questo sia il paese più bello della terra. Credo che si tratti della madre…»

Norman fece cadere con violenza una lattina di zuppa sul tavolo e affrontò il figlio. «Voglio sapere che cosa diavolo facevi là fuori, Donald, quando ti era stato detto esplicitamente di non uscire di casa.»

Lui abbassò lo sguardo verso la punta delle scarpe e ingoiò il nodo che gli stringeva la gola. Cominciò a tamburellare leggermente sul muro con la mano sinistra. Sentiva caldo al torace, caldo alla nuca, e percepiva lo scandire dei secondi come se fossero pietre gettate in una pozza d’acqua. Joyce si diresse verso la porta d’ingresso, falsamente alle prese con chissà che cosa: rimaneva soltanto per dovere, ma aveva una voglia matta di andarsene perché sapeva già che cosa sarebbe successo.

Quella era la Regola; la famiglia non doveva mai sottrarsi alle discussioni.

«Sono in castigo», disse Don. «Questo non significa che non posso stare seduto sotto una stupida veranda, no?»

«Lo sai benissimo che cosa significa», ribatté Norman.

«No», protestò Donald. «Non so benissimo che cosa significa, perché non mi è mai stato spiegato prima, perché non sono mai stato rinchiuso in casa, prima.»

Joyce si coprì la bocca con la mano, Norman si aggrappò all’angolo del tavolo e per un momento Don temette che si avventasse contro di lui.

Poi volse lo sguardo verso sua madre. «Mamma, che cosa ci fanno le mie cose in soffitta?»

«Le tue cose?»

«Quello che c’era sui miei scaffali. Gli animali. Li hai tolti tutti, ricordi? Vorrei sapere perché si trovano in soffitta. Non ho speranza di rivederli al loro posto?»

«Va’ nella tua stanza», disse Norman, prima che lei potesse rispondere. «Va’ in camera tua e non tornare giù finché non ti sarai deciso a moderare il linguaggio.»

«Sam», disse Joyce.

Il tempo si fermò, non ci furono più rumori; niente aria.

Don alzò un pugno mentre Norman guardava sorpreso sua moglie con espressione di disgusto.

«Oh», mormorò lei e si precipitò fuori dalla stanza.

Per un istante Don vide rosso, prima di potersi rendere conto di quello che stava pensando. Abbassò il pugno, si sforzò di aprire le dita e si diresse verso la scala, mentre suo padre lo seguiva. Sul pianerottolo si fermò a guardare verso il basso.

«E se non mi dispiacesse?» disse in tono piatto.

In quel momento si rese conto, seppe con estrema sicurezza, che se suo padre avesse fatto un solo passo, un solo gradino, si sarebbero picchiati. Avrebbe colpito suo padre o forse sarebbe stato suo padre a scagliare il primo pugno. Aveva visto scene come quella nei film e le aveva giudicate stupide, aveva pensato che non avrebbero potuto succedere nella realtà. Fino a quel momento, fino al momento in cui vide lo sguardo di suo padre che lo fissava senza degnarsi di nascondere l’odio che provava, come se fosse uno sconosciuto che lottava contro se stesso perché le Regole dicono che non si può picchiare il proprio figliolo quando ormai ha diciotto anni.

«Fa’ come ti ho detto», disse deciso Norman.

«Vado», rispose lui, senza concedere altro.


Sedeva a gambe incrociate sul letto, con la schiena appoggiata al muro e le mani in grembo.

Evitava deliberatamente di guardare gli scaffali, la scrivania pulitissima, la finestra, il pavimento.

Si immaginava lo stallone, intento a galoppare per i boschi, e pensava.

Per prima cosa pensò a come sarebbe stato da orfano e a come avrebbe potuto trovarsi un lavoro senza lasciare la scuola.

Pensò a Tracey e al motivo per cui non gli aveva proposto di uscire nuovamente con lui, oppure di vedersi a scuola o in giro.

Pensò a Brian e a Tar, e a Fleet, che non era sempre insopportabile, e al motivo per cui veniva chiamato Paperino, quando non era l’unico Donald della scuola; e poi c’era altra gente che aveva nomi più strani e più buffi del suo, altra gente che meritava più di lui di essere presa continuamente in giro.

Pensò a Chris, pensò a come poteva essere fatta sotto il maglione e si domandò quante persone sapessero esattamente com’era, e pensò al motivo per cui era andata a parlargli.

Pensò alle Regole.

Pensò a come avrebbe dovuto fare per venirne fuori prima di crollare e finire in un letto, come un invalido moribondo.

Infine non pensò più a niente.

A mezzanotte si risvegliò.

Per un istante non seppe aggrapparsi a nessun pensiero, ma poi sorrise sentendo dentro di sé una sosta di assestamento. Si guardò il torace e rimase sorpreso nel vedere che aveva i vestiti bagnati; si toccò i capelli, madidi di sudore; toccò il letto e lo sentì umido. Ma non si mosse, perché aveva ancora bisogno di assestarsi. Era l’unico modo in cui riusciva a descrivere quella sensazione: una massa leggera raggruppata su una distesa piena di orizzonti, qualcosa che si muoveva e si assestava e che poi si trasformava in qualcosa di più solido, di più compatto, di incredibilmente più duro.

Allungò le mani, la toccò ed era calda, era rossa e si adattava perfettamente alla forma della sua mano. Poi, per un istante, mentre la osservava, la paura rimase sospesa sopra di lui, come una nuvola minacciosa che brontola prima di emettere il primo tuono. Eppure, nonostante il caldo, il rosso, la durezza, si trattava di qualcosa di estremamente confortante, qualcosa di familiare.

Era sua; era lui.

Un sorriso, appena abbozzato.

Si spostò sull’orlo del letto, toccò terra con i piedi e si aggrappò al materasso.

Accese la luce sopra la testiera e distolse lo sguardo dalla lampadina per abituare gli occhi. Si sporse in avanti con eccitazione, preparandosi a spiegare al suo amico quanto gli era appena successo.

Ma non ci riuscì.

Riuscì solo ad aprire la bocca per emettere un urlo senza suono.

Il poster era ancora là, attaccato sopra la scrivania.

La foresta, la strada, il sole che tramontava.

Il poster era là.

Ma qualcuno aveva cercato di distruggere il cavallo nero. Era leggermente graffiato, come se un coltello o una penna avessero cercato di grattare via l’immagine per lasciare soltanto il paesaggio.

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