1

Una fredda serata di fine settembre, mercoledì, tempo sereno. La luna era chiazzata da ombre grigiastre e le stelle erano troppo brillanti per essere offuscate dalle luci sottostanti; di tanto in tanto soffiava il freddo alito di un debole venticello che trasportava l’eco dei suoni notturni attraverso gli alberi, spingeva le foglie morte nei tombini, faceva rotolare le ghiande sui cornicioni e schiaffeggiava le mani e i visi della gente in una rigida promessa d’inverno.

Una fredda serata di fine settembre, mercoledì. Buio.


…e allora il ragazzo, che non era così cattivo come lo credeva la gente a causa di tutto ciò che aveva fatto, alzò lo sguardo verso l’albero…


Dal fiume Hudson fino al centro del New Jersey, la terra si alzava dolcemente verso i Monti Appalachi. Le foreste erano sparite, così come la maggior parte dei pascoli, e avevano lasciato il posto a villaggi che si erano trasformati velocemente in paesi e cittadine, incastrati l’uno con l’altro, come un puzzle gigantesco. La cittadina di Ashford, non molto estesa, si trovava sul primo degli altipiani, affacciata verso sud, con le colline alle spalle. Dall’alto sarebbe stato impossibile distinguerla dalle città circostanti — era tutta una grande massa di luci sull’orlo di un rasoio scuro.


…e vide il corvo che sedeva sul ramo più alto dell’albero più grande del mondo. Un corvo gigante. Il più grande corvo che avesse mai visto in vita sua. E il ragazzo si rese conto, immediatamente, che quel corvo sarebbe stato l’unico amico che possedeva al mondo. Poi si mise a parlare con il corvo e disse…


Il parco si trovava proprio nel centro della città, occupava cinque isolati in lunghezza e tre in larghezza ed era circondato da un muro in pietra alto due metri e incappucciato da una colata di cemento, rovinata nei punti dove la gente, di tanto in tanto, andava a sedersi per osservare il traffico sottostante. Nella parte nord c’era un piccolo campo da gioco dov’era stato eretto un palchetto per la banda, illuminato da una mezza dozzina di riflettori, montati sui lati; e sul prato antistante erano state sparse sedie pieghevoli, sedie da campeggio, plaid di lana, giacche autunnali, per evitare che la polvere del campo da baseball e l’umidità dell’erba che stava tendendo ormai al marrone dessero fastidio al pubblico.

Sull’asta posta sul palchetto della banda sventolava lo stendardo dipinto dagli studenti, ormai illeggibile alla luce del tramonto, ma tutti sapevano che doveva pubblicizzare i festeggiamenti per la festa di Ashford che sarebbero iniziati di lì a un mese. Il concerto doveva essere un preludio degli avvenimenti in programma per la celebrazione del compleanno della città — un secolo e mezzo di vita.

I membri della banda del liceo erano seduti sulle loro sedie, indossavano le loro uniformi rosse bordate di nero e oro e suonavano come se stessero facendo l’audizione per condurre la parata del Rose Bowl. Si cimentarono in un Bolero come se ne capissero il significato, suonarono una marcia di Sousa come se lo conoscessero di persona e, quando attaccarono le prime note dell’Ouverture 1812, vennero lanciati fuochi d’artificio, razzi, ruote infuocate e candelotti romani che accesero l’immaginazione degli spettatori.

Oltre il prato, dietro i cespugli poco illuminati, si sentivano delle risatine, qualche movimento e delle lattine che venivano stappate.


…credi che andrà tutto bene?


I genitori, i parenti, il consiglio di istituto e il sindaco applaudivano come se non avessero mai sentito niente di più grande in vita loro.

Il capobanda si distrasse e la banda prese una stecca. Non erano previsti i fischi, per cui l’applauso continuò con la stessa intensità di prima.


…e il corvo rispose, andrà tutto bene se riuscirai a capire chi sono i tuoi veri amici.


In mezzo al parco c’era un laghetto ovale, largo dieci metri, con uno scivolo di cemento che andava a finire in acqua. Non era molto profondo; un bambino di due anni poteva attraversarlo senza correre alcun rischio, ma era sufficiente per riflettere il sole, il cielo e le piante circostanti, tanto da dare l’impressione che là sotto fossero stati catturati gli abissi oceanici. Intorno, c’erano panchine di legno inchiodate al cemento. Accanto a ognuna di esse c’erano delle colonnine con globi di luce bianca, ormai verdi per il passare del tempo e degli anni. La luce che emanavano era soffusa, cadeva mollemente sull’acqua fredda, sulle panchine e sugli undici bambini silenziosi che in quel momento stavano seduti ad ascoltare.

Non stavano sentendo la musica, anche se arrivava da oltre le piante; ignorarono l’applauso secco che arrivava da lontano; erano intenti ad ascoltare il ragazzo in tuta nera, accucciato sul cemento, che dava le spalle al laghetto e teneva le mani incrociate sulle ginocchia.

Aveva la voce bassa, rauca, e teneva gli occhi socchiusi nel tentativo di coinvolgere maggiormente i bambini nella sua storia.

«E allora il ragazzo disse, come faccio a sapere quali sono i miei veri amici? Mi odiano tutti, pensano che io sia un mostro terribile. E il corvo si mise a ridere come un matto e rispose, li riconoscerai quando li incontrerai. Il ragazzo aveva un po’ paura. Sono un mostro, domandò dopo qualche minuto, e il corvo non rispose. Sei un mio amico, gli chiese allora il ragazzo. Ma certo, disse il corvo. Anzi, sono il miglior amico che tu possa mai avere al mondo.»

I bambini cominciarono a stirarsi mentre l’applauso scemava e avvertirono i primi passi sul vialetto centrale. Il ragazzo tremò. Pensava di aver programmato la storia tanto bene da finirla contemporaneamente al concerto, ma si era lasciato trasportare dal racconto, riempiendolo di aneddoti per evitare che i bambini si annoiassero.

Ma ormai aveva perso la loro attenzione. Lo si vedeva dagli occhi, dallo scalpiccio sulle panchine, dalle loro teste che si muovevano leggermente, troppo gentili per ignorarlo completamente, anche se ormai i loro sguardi erano attirati dal vialetto, intenti a vedere chi stava avvicinandosi.

«I corvi non parlano», dichiarò improvvisamente un bambino incappucciato, sfoggiando un sorriso da «io-so-tutto».

«Invece sì», rispose una bambina in giacca a vento.

«Ah sì? Ne hai mai sentito uno, bella?»

«Scommetto che non ne hai mai nemmeno visto uno, Cheryl», disse un altro bambino. «Scommetto che non sai nemmeno come sono fatti.»

La ragazzina si voltò a braccia spalancate. «Donald, io so come sono fatti i corvi.»

Ormai si erano distratti e stavano schierandosi da una parte o dall’altra per il nuovo gioco. I sostenitori del corvo erano in minoranza, ma ce la mettevano tutta aiutandosi con gesti indignati e proteste acute, mentre l’opposizione ironica — composta per lo più dai maschi più grandi — annuiva con condiscendenza, rideva e si prendeva a gomitate.

«Tutti sanno come sono fatti i corvi», disse Don, con un tono così calmo e duro da polarizzare l’attenzione generale. «E tutti sanno che aspetto può avere il corvo più grande del mondo, giusto?»

Qualche testa si mise ad annuire. Gli altri rimasero poco convinti.

Don sorrise nel modo più cattivo possibile, si alzò in piedi e indicò l’albero più vicino, proprio alle loro spalle. La maggior parte si voltò a guardare; gli altri resistettero alla tentazione, avendo capito il trucchetto e non volendo dargli soddisfazione.

Finché la bambina si portò la mano alla bocca e rimase senza fiato.

«Proprio così», continuò, indicando. «Visto? Proprio là, oltre la luce? Guardate bene. Se guardate bene non lo mancherete. Si riescono a vedere le piume nere e scintillanti. E il suo becco, là, dietro quella foglia, è del colore dell’oro e sembra un pugnale, vero?»

La bambina annuì impercettibilmente. Nessuno si mosse.

«I suoi occhi! Guardateli, sono rossi! Se guardate bene — ma non dite una parola altrimenti si spaventa — riuscite a vederne uno proprio là. Visto? È quel piccolo puntino rosso nell’aria. Assomiglia al sangue vero? È come una goccia di sangue che galleggia nell’aria.»

Tutti guardarono.

Tutti arretrarono di qualche passo.

Il parco era silenzioso ormai, a parte il rumore delle foglie.

«Ah, dici un sacco di stronzate», esclamò il ragazzo con il cappuccio e se ne andò frettolosamente, in tempo per scontrarsi con i genitori che si stavano allontanando proprio in quel momento. Sorrise loro e li abbracciò stretti e Don dovette restare da parte, a osservare i bambini che si allontanavano verso i genitori, mentre il laghetto cominciava a riecheggiare di voci, di rumori, di facce che conosceva e che lo ringraziavano per essersi preso cura dei piccoli i quali, altrimenti, si sarebbero annoiati ad ascoltare la musica, e in modo sicuramente più economico di una qualsiasi baby-sitter.

Si mise le mani in tasca e si gettò in spalla la giacca nera della tuta e la camicetta grigia. I capelli castani chiari gli cadevano a ciuffi sulla fronte, si arricciavano dietro alle orecchie e sulla nuca. Era magro, non alto, aveva il viso segnato qua e là da qualche ruga che lo faceva sembrare più vecchio di quanto non fosse in realtà.

Nel giro di qualche minuto, genitori e bambini se ne erano andati.

«Ehi, Boyd, continui a giocare al Cantastorie?»

Guardò sull’altro lato del laghetto e si mise a sorridere inconsciamente. Tre ragazzi si diressero verso di lui, rispondendo al suo sorriso, gli arruffarono i capelli e lo spinsero nel mezzo del gruppo facendolo ridere per tutto il tragitto fino all’uscita a sud, dove erano posteggiate le biciclette.

«Avresti dovuto venire anche tu, Donny», gli disse Fleet Robinson, avvicinandosi e aggrappandosi a un braccio di Don. «C’era Chris Snowden.» Alzò gli occhi al cielo mentre gli altri fischiavano. «Dio, come faccia a vedere la tastiera del piano con quelle tette, resta un mistero.»

«Ehi, non si deve parlare in questo modo davanti a Paperino», dichiarò solennemente Brian Pratt. Poi gli strizzò l’occhio, ma senza gentilezza. «Lo sapete che non gli piacciono questi discorsi di sesso.»

«Va’ al diavolo, Brian», rispose tranquillamente Don.

Pratt lo ignorò. Scansando bruscamente Robinson, si mise in testa al gruppo e cominciò a camminare all’indietro con arroganza, mentre il rosso elettrico della T-shirt e dei pantaloncini corti sfidava il freddo di quella sera autunnale. «Ma se vogliamo toccare il fondo, brutti bastardi, se vogliamo veramente toccare il fondo, allora vi racconto di Tracey. Cristo! Volete sapere che cos’è successo? Gesù, potrei anche morire, non so se mi capite. Ne aveva voglia, ne aveva veramente voglia, sapete? Capite, glielo si leggeva in faccia. Cristo, l’ha chiesto a tutti da quel palco! Oh, mio Dio, avrei voluto che non ci fosse stato suo padre, che fosse di servizio o qualcosa del genere. Le sarei saltato addosso, non appena ha posato il flauto… Oh, Dio, credo di morire!»

La mano di Robinson si strinse, mettendo in mostra i muscoli. «Non ascoltarlo, Don. Innanzitutto, Tracey non gli ha più rivolto la parola fin dall’asilo, a parte quelle poche volte in cui l’ha mandato al diavolo, e poi, lui non vede altro che quello che impara dalle sue riviste.»

«Riviste, merda», proruppe Jeff Lichter. «Ma se quello non sa nemmeno leggere.»

«Leggere?» esclamò Pratt, a occhi spalancati. «Che cos’è?»

«Leggere», spiegò Tar Boston. «In genere si fa quando si apre un libro.» Fece una pausa e si mise le mani sui fianchi. «Ricordi i libri, Brian? Sono quelle cose che stai facendo marcire nel ripostiglio.»

Pratt, sogghignando, fece un gesto volgare. Robinson e Boston, entrambi ben coperti con giacconi da football sopra i rispettivi maglioni, cominciarono a seguirlo, urlando, agitando le braccia, come se stessero precipitando da una collina.

Più avanti, c’era il cancello a sud e, dall’altra parte, si vedevano le luci del Parkside Boulevard.

Jeff era rimasto indietro. Era il più basso del gruppo e l’unico che portava gli occhiali; i lunghi capelli castani gli arrivavano alle spalle. «Che cari ragazzi.»

Don si strinse nelle spalle. «Forse.»

Proseguirono il cammino tra gli intervalli di luce dei lampioni ai lati del vialetto. I tacchi di Jeff risuonavano sul selciato; le scarpe da tennis di Don sembravano fatte di gomma dura.

«Quando ti stancherai?» domandò Lichter.

«Di cosa? Di fare il cantastorie?»

«Sì».

«Non mi stancherò. La signora Klass mi aveva chiesto di badare a Cheryl per un po’ di tempo. Mi aveva promesso qualche dollaro, se riuscivo a tenerla a bada. Poi mi sono ritrovato con tutta la banda di bambini.»

«Già, è la storia della tua vita.»

Don si voltò verso l’amico, ma non vide nulla nel suo sguardo che gli indicasse sarcasmo o pietà.

«Ti paga?»

«Mi pagherà a scuola, domani.»

«Appunto, è la storia della tua vita.»

Al parcheggio delle biciclette, si fermarono a osservare la strada deserta, oltre le colonne di pietra. Pratt e gli altri erano spariti e ormai era rimasto poco traffico a rompere il silenzio del parco.

«Quel pazzo ne ha preso un altro, sai?» proseguì Jeff, guardandosi nervosamente alle spalle, in direzione degli alberi. «Lo Squartatore, intendo.»

«L’ho sentito dire.» Non aveva voglia di parlarne. Non aveva voglia di parlare di nessun pazzo di New York che se ne andava in giro a squartare bambini con le sue stesse mani, per poi mettersi a urlare come un lupo a lavoro terminato. Ne aveva uccisi cinque o sei, più o meno, uno al mese dall’ultima primavera. E il peggio era che nessuno sapeva che aspetto avesse. Poteva essere un vecchio, una donna che odiava i bambini… persino un ragazzino.

«Be’, se viene qui», disse Lichter, con fare minaccioso nell’oscurità, mentre il vento gli scompigliava i capelli sulla fronte, «lo prenderò a calci nelle palle fino a fargliele ingoiare. Altrimenti lo faccio arrestare dal padre di Tracey per mutilazione illegale.»

Don scoppiò in una risata. «Che cosa? Vuoi dire che esiste il termine “mutilazione illegale”?»

«Certo. Non hai mai visto i vestiti che mette Chris? Come se fosse una suora. Quella è una mutilazione, fratello, e dovrebbe essere arrestata per questo.»

Scoppiarono a ridere insieme, scuotendo la testa e condividendo l’opinione comune secondo la quale il corpo di Chris Snowden era più esplosivo della dinamite, più preciso di un proiettile ad alta velocità, più efficace di una bocciatura nel provocare infarti ai maschi dell’università.

Lichter si tolse gli occhiali e se li pulì sul giaccone.«Te lo giuro, è sufficiente per farmi desiderare di essere ancora vergine.»

Questa volta la risata di Don risultò forzata, ma nello stesso tempo annuì. Non era un puritano; non era un problema parlare di sesso e di donne, ma si augurava sempre che gli altri la smettessero con i loro pavoneggiamenti e le loro menzogne. Se avessero continuato tutti su quella strada, un giorno o l’altro si sarebbe lasciato andare e avrebbero scoperto il suo segreto.

«Allora, inizi la settimana prossima a studiare per il compito in classe di biologia?» domandò Lichter con tono malizioso, sottointendendo che già conosceva la risposta.

«Credo di sì», ammise con un sorriso imbarazzato. «Dovrebbe essere uno scherzetto.»

«È vero. Uno scherzetto. E se non lo sarà, noi due resteremo fuori dalla roulette del diploma.» Sospirò profondamente e alzò gli occhi al cielo. «Oh, Dio, altri otto mesi e poi la tortura sarà finita.»

Il vento sollevò della polvere e i due ragazzi dovettero proteggersi il viso.

«La scuola!» esclamò Jeff, dandogli una pacca sulla spalla.

«Già. La scuola.»

Lichter annuì, barcollando leggermente a sinistra mentre iniziava a pedalare, poi virò improvvisamente a destra e sparì. Don si inginocchiò per comporre la combinazione del lucchetto che chiudeva la catena, poi si mise a cavalcioni sulla sella e impugnò il manubrio. Era dritto, aveva perso la sagoma da corsa che aveva una volta. L’aveva modificato subito dopo aver comprato la bicicletta. Non gli piaceva stare piegato, gli dava l’impressione di non avere il controllo e di traballare se non avesse raddrizzato la schiena. Cominciò a pedalare e si fermò una volta arrivato sul marciapiede. A destra, in lontananza giù per la strada, si vedevano in maniera offuscata le luci al neon dello shopping centre di Ashford; davanti a lui, c’era la piccola isola verde che separava il vialone in due corsie; sulla sinistra, la zona si allargava in un quartiere residenziale con case pulite e ben tenute, sebbene, con il passare del tempo, i mattoni fossero diventati marroni e le cromature in alluminio si fossero appannate.

Si guardò alle spalle e improvvisamente sorrise.

Sotto la luce dei lampioni laterali, sul selciato, si vedeva una piuma. La piuma di un corvo, lunga due volte la mano di un uomo. Sembrava quasi blu, era stata trasportata dal vento ed era caduta proprio lì vicino.

Rimase ad aspettare che si fermasse definitivamente accanto alla ruota posteriore della bicicletta e scosse leggermente il capo. Ragazzo, pensò, dove ti eri cacciato quando quel moccioso ha aperto la sua boccaccia?

Ma, come avrebbe detto anche Jeff, quella era la storia della sua vita. Grazie al buon Dio, non c’erano corvi nel suo destino.


Tanker Falwick bestemmiò tra i denti. Le spine del cespuglio dalle foglie rosse si erano impigliate nella manica del suo cappotto e lo stavano imprigionando; era impossibile muoversi con velocità, senza fare rumore. Diede uno strattone rabbioso, si alzò e si appoggiò al muro. Gemette per il dolore che sentì alla gamba, proprio nel momento in cui stava svanendo anche l’ultima possibilità di attaccare una preda decente. Il ragazzo se n’era andato a bordo della sua bicicletta a dieci marce e aveva ormai attraversato la strada. Lontano dal parco, alla luce della luna.

Era troppo tardi. Maledizione, troppo tardi.

«Merda», esclamò ad alta voce, tirando con violenza il braccio impigliato. «Sporchissima merda!»

Dopo un ulteriore sguardo alla luna, oltre gli alberi, riprese a bestemmiare tra i denti, augurandosi che il moccioso, che aveva sperato di ammazzare qualche minuto prima, non fosse l’unica possibilità della serata. Non c’era molta carne in giro, e il suo cuore era troppo piccolo, e fantasticare di sgozzare un ragazzino non era gratificante come farlo nella realtà.

Passarono molte macchine, un autobus mezzo vuoto, un furgoncino con tre punk pigiati l’uno contro l’altro che cantavano a squarciagola e un’altra decina di auto. Non se ne fermò nessuna e, tornando verso gli alberi, non riuscì a sentire altro che il rumore delle sue scarpe incartapecorite che incespicavano nelle foglie. Si fermò un paio di volte prima di sistemarsi definitivamente. Non voleva più ascoltare e, con tutta probabilità, ormai non c’era più nessuno.

Il posto riecheggiava ancora delle voci dei bambini e ogni opportunità che aveva avuto di avvicinarsi a loro era stata ostacolata in un modo o nell’altro.

Si passò la mano sporca e puzzolente sulla bocca senza nemmeno accorgersi dei peli ruvidi che aveva sul mento, sulle guance giallastre, sul collo pieno di rughe. Annusò, tossì e sputò nell’oscurità. Poi si coprì il petto con la giacca stracciata, voltò le spalle al vento che soffiava ormai forte e si diresse verso il centro del parco. Aspettò all’ombra per altri cinque minuti, poi uscì allo scoperto e tirò un lungo sospiro.

Non gli piaceva trovarsi di nuovo in quel posto. Non gli piaceva per niente, nonostante l’abitudine di stare nei luoghi oscuri. C’erano troppi rumori che non conosceva e troppe ombre che lo inseguivano, come prima aveva fatto lui con i bambini che si stavano affrettando verso i propri genitori.

Una notte da dimenticare, in tutto e per tutto — a parte la musica. Si fermò al laghetto, diede un’occhiata al vialetto, si inginocchiò sulla riva di cemento e si sporse a bere un po’ d’acqua fresca.

La musica era stata piacevole. Niente male per un gruppo di fottutissimi ragazzini universitari, ed era persino riuscito a riconoscere qualcuno degli orchestrali. Era rimasto nascosto all’ombra di un lauro pieno di foglie sulla sinistra del palco, annuendo, fischiettando silenziosamente e applaudendo senza far rumore alla fine di ogni pezzo. Aveva pregato che nessuna testa matta decidesse di andare a fumare tra i cespugli durante il programma. Quella sera non aveva problemi di tipo sessuale. Qualsiasi ragazzino avrebbe potuto prendere degnamente il posto di una qualunque puttanella.

Quando si era accorto che non funzionava e che non riusciva a convincere nessuno con la sua forza di volontà, si era avviato verso l’uscita a sud, avendo notato che gli ultimi ad andarsene dallo spettacolo avevano preso quella direzione. Aveva sperato di trovare ancora qualcuno, ma quei ragazzi erano troppo bravi, troppo ben educati, come quei bambini che avevano ascoltato quello sporco bastardo in tuta nera mentre raccontava loro un’assurda storiella di uno stupido corvo gigante.

Gli altri più grandicelli, i maledetti, i mocciosi che avrebbero potuto soddisfarlo anche di più, erano andati verso la strada a gruppetti, come se li avesse tenuti insieme la colla. Specialmente le puttanelle.

Tornò sui suoi passi e si asciugò la faccia con la manica della giacca.

C’era stato un unico momento in cui era stato vicino al ragazzo con la tuta nera. Quando il moccioso aveva indicato proprio il punto in cui si era nascosto; era sicuro di essere stato sorpreso, i poliziotti l’avrebbero inseguito e l’avrebbero fatto fuori senza fargli nemmeno il processo.

Poi il ragazzo aveva farfugliato qualcosa, c’era stata una discussione e Tanker aveva avuto la possibilità di scivolare via senza lasciare tracce.

Quella, pensò con soddisfazione, era stata la parte più facile — perché lui era un lupo mannaro.

Aveva preso piena coscienza della sua condizione molto tempo prima, praticamente subito dopo la liquidazione e tutto il resto. Dicevano che aveva perso il suo tatto con le nuove reclute; dicevano che non si confaceva più all’immagine dell’«esercito moderno»; dicevano che beveva troppo; dicevano che ormai era contro il regolamento picchiare i novellini che non obbedivano ai suoi ordini. Dicevano. Loro, che erano solo dei neonati, quando lui aveva firmato con il suo nome in quell’ufficio puzzolente di Hartford. E gli avevano anche detto che sarebbe stato in grado di trovare un altro lavoro da qualche altra parte e che con la sua pensione avrebbe potuto campare tranquillamente per il resto della vita. Comunque, dopo trent’anni, il resto della sua vita non era ancora passato.

Era partito da Fort Gordon, in Georgia, subito dopo esserci arrivato — a piedi, portandosi i suoi oggetti personali in spalla. Rifiutando diverse offerte di passaggio, era arrivato ad Atlanta, aveva messo le sue cose in un deposito alla stazione degli autobus, poi se n’era andato in giro a far fuori il primo ragazzino sotto i venti che gli era capitato per le mani.

C’era stata luna piena quella notte e, anche se un gruppo di persone l’aveva visto e l’aveva inseguito, era riuscito a scappare. Si era accorto subito della connessione, perché, scappando, aveva sempre la sua ombra alle spalle e così aveva deciso che la luna sarebbe stata per sempre il suo amuleto. L’avrebbe aiutato nella sua nuova vita da civile a fare soldi e a rovinare quei giovani bastardi che credevano di saperla lunga sull’esercito.

Però non era andata così. Per lui erano stati fatti dei piani, che, a quel tempo, ancora non conosceva.

Era passato l’inverno e aveva cambiato diversi lavori; aveva avuto continuamente dei guai per le violente discussioni con datori di lavoro senza palle, con il culo molle e più giovani di lui di almeno vent’anni.

I soldi erano pochi, gli amici avevano sospeso i prestiti e la polizia gli stava sempre alle costole, a mano a mano che i suoi vestiti sbiadivano sempre di più.

La luna aveva altri programmi.

Un altro inverno e poi un altro ancora, fortunatamente mite. Ma il quarto l’aveva trascorso in un rifugio sovrappopolato per uomini senza tetto di New York. L’umiliazione aveva raggiunto il limite quando era stato intervistato da un reporter televisivo liberale strappalacrime al quale aveva cercato di raccontare il servizio che aveva prestato alla nazione, quando invece il reporter voleva solo sapere se era riuscito a passare una notte di sonno tranquillo in quella stanza piena di vecchi.

Vecchi.

Vecchi.

Cristo, era diventato vecchio e non se n’era nemmeno accorto.

Era stato allora che la luna era tornata da lui. L’inverno precedente. Era tornata a salvarlo e a fargli vedere quello che sanno fare i lupi mannari.

Stava vagabondando per l’Ottava strada, passando da un locale a luci rosse all’altro nella speranza di trovare qualcosa di gratuito, essendo completamente al verde, quando un ragazzo, vestito con un paio di jeans attillati e una giacca di pelle, gli aveva toccato il culo mentre passava. Tanker era rimasto di sasso, si era voltato lentamente e aveva scorto lo sguardo negli occhi del ragazzo. Vuoto, come se fosse morto.

Era stato sul punto di vomitare, poi aveva alzato gli occhi e aveva visto la luna, aveva dato un’occhiata al giovane e si era permesso di sorridere. Aveva ancora una buona dentatura e la teneva in esercizio con la masticazione, e non era difficile, abitando in quelle stanze d’albergo che puzzavano di piscio stantio, fare a brandelli il figlio di puttana.

La luna aveva fatto l’occhiolino.

E Tanker era scoppiato a ridere. Aveva lasciato perdere il moccioso e se n’era andato.

Non era stato per il sesso, ma per l’età.

«Moccioso», aveva mormorato. Ecco che cos’erano, mocciosi che si affacciavano al mondo come se sapessero esattamente che cosa fare, lasciandosi alle spalle uomini come lui a marcire nelle fogne, sui tombini, sugli scalini delle chiese che di notte chiudevano il portone.

Mocciosi che non conoscevano il potere di Tanker Falwick, il potere dell’uomo che aveva visto di persona la nascita e la caduta della prima cavalleria armata, che aveva schiacciato sotto i piedi nazisti e fascisti, dell’uomo che non riusciva a capire come mai un carro armato dovesse essere dotato di tutti quei dannatissimi computer, quando l’unico scopo del pilota era di mirare al fottuto bersaglio e abbattere il nemico. Era semplicissimo e lui non aveva bisogno di uno schermo televisivo per poppanti per riuscirci.

Dicevano che non si sarebbe adattato all’esercito moderno; dicevano che era instabile perché aveva combattuto in tutte le battaglie, in tutte le trincee; dicevano che avrebbe fatto meglio ad andarsene in pensione o che altrimenti l’avrebbero richiamato e l’avrebbero abbandonato a se stesso.

Dicevano.

Ma non avevano parlato della luna e di come lui la sentiva sul volto, di come gli scorreva il sangue quando incontrava ragazzini a cui poter squartare la gola e togliere le budella, per sorseggiarne il sangue e mangiucchiarne la carne, prima di lasciare la sua firma finale.

Non avevano mai parlato di questo.

Si alzò, costeggiò il laghetto e si diresse verso il campo di calcio e lo spiazzo da cui aveva assistito al concerto. Avrebbe dormito lì, quella sera, e si sarebbe augurato maggiore fortuna per l’indomani, qualcosa di più di un semplice moccioso, per tenere calma la luna. Ne aveva assolutamente bisogno. Aveva bisogno di riempirsi lo stomaco con qualcosa da lasciarsi alle spalle, per ricordare a quei poppanti che Tanker Falwick era ancora latitante. Non poteva più muoversi a New York, sia nello stato che nella città, perché avevano scoperto il vicolo nel quale abitava quando quel bastardo di negro dai capelli biondi l’aveva visto rincasare una mattina grondante di sangue fresco. Ma non era stato un problema, perché c’era un’intera nazione che aspettava di imparare.

La prima fermata era stata quella cittadina, di cui non ricordava il nome.

Non aveva importanza. Sapeva soltanto che c’erano molti ragazzi che credevano di poter vivere per sempre.


Nonostante fosse una serata feriale e ai suoi genitori non piacesse vederlo rincasare tardi, quando la mattina doveva alzarsi presto, Don decise di non tornare a casa subito. Si mise invece a pedalare per il vialone, per l’isola pedonale del centro e poi si diresse a est, dove raggiunse l’imbocco della sua via. Svoltò immediatamente e proseguì diritto, senza guardare a sinistra, avendo già notato che la station wagon non era ancora parcheggiata nel vialetto d’ingresso, per cui i suoi ancora non erano rincasati. Meglio così, perché era sempre più difficile sopportare il loro comportamento furtivo, come se lui non si rendesse conto di quello che stava succedendo.

Non sapeva dove andare, sapeva solo che non voleva ancora rientrare. Gli piacevano le serate autunnali, il modo in cui l’aria si ghiaccia leggermente sul laghetto, frizzante e pulita e pronta a frantumarsi al più piccolo tocco; gli piacevano gli alberi, tanto scuri da sembrare invisibili, il modo in cui le foglie andavano a raggrupparsi in mucchi dorati e rossastri sui tombini, rendendo l’aria aspra e affumicata; gli piacevano i rumori delle serate autunnali, acuti ed echeggianti, portati da lontano. In qualche modo, erano confortanti quelle poche settimane che precedevano novembre e voleva godersele il più possibile. Prima di tornare, prima di rincasare.

Aggrottò le sopracciglia e diede un colpo al manubrio, scostando bruscamente dalla fronte il ciuffo di capelli. Non era giusto. In effetti, la sua non era stata una vita dura, no davvero, non nel senso comune del termine. La casa era abbastanza grande da permettere a tutti di avere il proprio angolo di intimità e sufficientemente vecchia per non assomigliare alle altre del quartiere; la sua stanza era spaziosa e non aveva mai dovuto mendicare un pasto decente o un vestito decente; era abbastanza sicuro di riuscire ad andare al college l’autunno successivo se manteneva la media che aveva ormai raggiunto; niente di speciale, ma niente di cui vergognarsi.

Ma non aveva voglia di tornare a casa.

Non ancora.

In città c’erano due licei — Ashford Nord e Ashford Sud. Lui frequentava il secondo, il preside era suo padre e doveva lavorare come un matto per raggiungere la media che gli interessava perché era il figlio del capo e i favoritismi erano proibiti. Norman Boyd era in carica già da cinque anni, quindi da prima ancora che suo figlio cominciasse a frequentare. Don se l’era sempre cavata egregiamente senza bisogno che suo padre si incontrasse privatamente con gli insegnanti; o meglio, si era incontrato con loro soltanto una volta per dirgli di non assegnare al figlio buone votazioni soltanto perché era suo figlio e di non prendere però nemmeno provvedimenti disciplinari contro Don, se per caso ci fossero stati disaccordi tra il corpo docente.

Don doveva essere trattato come qualsiasi altro studente, né meglio né peggio.

Così era stato, ne era sicuro. In quel momento, poi, stavano tutti contro il capo, e lo sciopero sui salari e sugli orari programmato per la fine del mese sembrava sempre più inevitabile.

Suo padre non gli credeva.

E nemmeno sua madre, che insegnava alla Ashford Nord.

Lei, comunque, era troppo occupata. Doveva preparare le lezioni e gli esami, aveva la sua pittura che le assorbiva il poco tempo libero, e poi era impegnata con il comitato per la Festa di Ashford, che la teneva fuori casa la maggior parte delle serate della settimana.

E, tra un impegno e l’altro, quando le capitava di pensarci, doveva badare al piccolo Donny.

Maledizione, pensò, strusciando le ruote contro il marciapiede, mentre svoltava l’angolo; il piccolo Donny. Non era colpa sua se Sam era morto, no? Sam, il cui vero nome era stato Lawrence, ma che era sempre stato chiamato Sam perché la mamma aveva sostenuto la sua incredibile rassomiglianza con lo zio d’America; Sam, di cinque anni più giovane di Don, era morto lacerato da una peritonite acuta mentre la famiglia era in vacanza in campeggio a Yellowstone. Quattro anni prima. In mezzo al deserto.

Sam, un nanerottolo che adorava stare ad ascoltare le sue storielle.

Non era stata colpa sua e, in effetti, nessuno lo aveva rimproverato per non aver riferito dei dolori di Sam, ma era l’unico figlio rimasto e probabilmente si stavano assicurando di non lasciarselo scappare prima del dovuto.

Svoltò un altro angolo, rallentò e restò a guardare la strada come se non l’avesse mai vista prima. Era una sensazione strana; chiuse gli occhi, li riaprì lentamente per cercare di rimettere tutto a fuoco.

Sempre più lentamente, mentre la bicicletta era sul punto di vacillare.

Assomigliava alla sua via — le case erano stile Depressione, della fine del secolo, fatte di legno, di mattoni e di pietre levigate dal tempo, con piccoli giardinetti davanti e vecchie querce sul marciapiede in terra battuta. La strada era completamente al buio, perché le foglie, ancora sui rami, offuscavano la luce dei lampioni stradali.

E, ai lati, c’erano parcheggiate numerose automobili.

Non c’era niente di particolare e avrebbe dovuto tirare dritto come il solito. Ma quella sera avvertiva qualcosa di diverso, qualcosa che non riusciva a capire, qualcosa che pensava di aver percepito. Sembrava tutto abbastanza familiare — Tar Boston abitava poco più in giù, in una casetta verde con persiane bianche, senza veranda — eppure la strada non gli sembrava la stessa di sempre.

Andava sempre più lentamente, come se avesse avuto qualcuno alle spalle che tirava una fune impigliata tra i raggi delle ruote.

Chiuse un occhio, poi lo riaprì e si aggrappò forte al manubrio.

Le macchine.

Erano le macchine.

Per quanto potessero essere tutte colorate, in quel momento erano tutte scure — brillavano al buio, aspettavano al buio. Le sfaccettature dei fanali scintillavano come occhi di ragno catturati dalla luce della luna e i tergicristalli erano immobilizzati dall’incedere della brina. Le carrozzerie riflettevano nero; i tetti riflettevano l’ombra degli alberi ormai morti. Sembravano gatti giganteschi della giungla trasformatisi chissà come, sempre più minacciosi.

Infine si fermò in mezzo alla via e rimase a osservarle, leccandosi nervosamente le labbra e immaginandosi che stessero aspettando proprio lui, per dirgli quello che doveva fare. Una scuderia di automobili. No — un esercito di automobili. In paziente attesa dell’ordine di ammazzare.

Tentò di formulare un sorriso con la bocca, mentre annuiva verso di loro e pronunciava il suo nome.

Da qualche parte, in fondo alla strada, poco più in là, un motore cominciò a rombare adagio.

Il metallo scricchiolava.

Un’auto che andava avanti e indietro per parcheggiare.

Si morse il labbro superiore; si stava spaventando.

Vide il guizzo di un faro.

I pneumatici stridevano come se fossero completamente congelati.

Gesù, pensò, e si passò il palmo della mano sulla bocca.

Il motore si spense.

Il metallo smise di scricchiolare.

Si sentiva soltanto il sottofondo attutito del traffico serale proveniente dal centro.

Si spinse un po’ più avanti e si costrinse con difficoltà a svoltare l’angolo, rischiando di schiantarsi sulla strada; poi si diresse sul vialone, verso casa. Gli passò davanti un autobus, sbuffandogli in faccia una nuvola di scarico. Tossì e rallentò di nuovo e si mise a osservare le luci color ambra che svanivano all’orizzonte della strada, dove il buio veniva malamente illuminato dalle luci della cittadina vicina.

Gesù, pensò di nuovo, e rabbrividì. Sapeva che si era trattato solamente del gas di scarico di un motore, sbuffato dalla carcassa metallica di qualcuno che stava riscaldando il motore in un garage. Tutto lì. Eppure qualcos’altro gli aveva attraversato la mente; chissà come sarebbe stato vivere in un posto dove una città non cominciava dove finiva l’altra, chissà come sarebbe stato vivere a New York.

Tremendo, pensò.

Tutto quello spazio aperto, tutti quegli alberi — tremendo e, in ogni caso, Ashford non era brutta come città.

Svoltò nel suo quartiere, vide la station wagon sul vialetto d’ingresso e si infilò in casa. Dopo essersi ripulito le mani sui jeans, portò la bicicletta in garage. Non c’era abbastanza posto per la macchina — troppi attrezzi per il giardino, scatoloni e una miriade di altri oggetti e oggettini ammucchiati là dentro, perché nessuno aveva voglia di pensare a un posto migliore dove sistemarli. Era come un solaio, ma sprofondato al livello della terra.

Esitò un attimo, si ripulì le mani sui jeans mentre un brivido di tensione gli attraversava la schiena. Poi aprì la porta ed entrò in cucina.

«Pensavo», gli disse sua madre, «che ti avessero rapito, santo cielo.»

Загрузка...