8

Joyce, scura in volto, entrò in casa carica di borse della spesa. La tracolla le stava fastidiosamente scivolando dalla spalla e aveva sulla punta della lingua un’imprecazione, ma la faccia di suo marito la fece ammutolire. Era pallido e si stava allontanando da lei come se fosse stata un cadavere appena risuscitato dalla tomba.

«Dio», disse. «Spero davvero di non essere così brutta.»

Norm riuscì a fare un debole sorriso dopo essersi asciugato la fronte con il palmo della mano e si precipitò a prendere una delle borse. Seguendola in cucina, le domandò com’era andata la giornata, la aiutò a sistemare le lattine e le scatole negli armadi e infine si decise a chiederle se sapesse cosa stava rodendo il loro figlio.

«Domandalo a lui», rispose lei, afferrando un tegame da sotto il lavandino. «Sei tu che parli la lingua dei giovani, a quanto si dice in giro.»

«Ehi, siamo nervose oggi, vero?» le disse, ma senza la solita amarezza.

Lei lo guardò lasciarsi andare su una sedia, accendersi una sigaretta e fissare il fumo finché svaniva nel vuoto. «Per me è stata una giornata di merda, ma per te dev’essere stata un inferno.»

«Ci sei vicina», le rispose.

E mentre preparava un pasto veloce, qualcosa da mangiare in cinque minuti senza sentirsi troppo pieni, ascoltò il suo racconto sul tiro che Hedley aveva subito durante il week end, sugli allenatori che si lamentavano perché gli insegnanti si erano messi d’accordo nel trattenere i giocatori migliori per rovinare la finale di venerdì contro la Ashford Nord, e sugli insegnanti stessi e su quel figlio di puttana di Falcone con la sua minaccia di far sfilare per strada tutti i docenti nel giro di due giorni.

Lei non disse niente, perché sapeva che anche una sola parola sbagliata gli avrebbe fatto perdere la pazienza. C’erano tutti i sintomi.

E sapeva anche che lui aveva scelto deliberatamente di parlare della storia di Harry solo alla fine di quella tirata noiosa. Forse aveva pensato di coglierla di sorpresa; forse aveva pensato che si sarebbe schierata in difesa di quell’uomo rivelando in quel modo il suo amante non più segretissimo.

O forse non aveva pensato proprio a niente e stava solo divagando, nella speranza di far uscire tutto lo schifo di quella giornata prima di rilassarsi e di mettersi a pensare al giorno dopo.

Dopo tre sigarette lui era sfinito e il silenzio la rese nervosa. Si voltò dai fornelli e lo vide che la osservava.

«Mi dispiace per la cena», disse lei, facendo un gesto verso la zuppa e i panini. «C’è un…»

«Incontro del comitato, questa sera», finì lui al suo posto. «Lo so.»

«Be’, è così», ribatté Joyce. «Dio mio, inizia tutto mercoledì, sai.»

«Lo so.»

«E visto che ci siamo, ti vorrei dire che quello che ti ostini a chiamare capobanda è un vero coglione, Norm. Si comporta come se fosse sul podio della Filarmonica di New York, santo cielo. Non gli stiamo mica chiedendo il sangue, dopotutto. E lui sta già parlando di una paga extra!»

«Lo so.»

Sbatté una mano sul bancone. «Vuoi, per favore, smetterla di rispondere in quel modo? Se sai tutto così bene, perché diavolo non gli parli, visto che ormai te l’ho già chiesto un centinaio di volte?»

«Forse trecento, chi le conta più?» rispose lui.

«Cristo.»

Gli girò le spalle e mescolò la zuppa, mentre con la mano libera si tirava la coda di cavallo sopra le spalle e la scuoteva, cercando di rilassarsi, di trovare un modo per convincerlo a parlare con Donald. Lei non riusciva a farlo. Quando era andata a dargli un’occhiata domenica e l’aveva visto con quell’espressione sul viso, si era resa conto che non avrebbe mai potuto fare con lui una conversazione decente ed era corsa via dalla stanza.

Era orribile.

Era innaturale.

Ma dopo averlo visto in quello stato, non malato ma chissà che altro, si vergognava ad ammettere di avere paura di lui.

«Hai parlato con Don?» gli domandò infine, con un tono di voce basso, e schiarendosi la voce per l’imbarazzo.

«No. Ero appena rientrato quando sei arrivata tu.»

«Allora lo farai?»

«Quando sarò pronto.»

Il cucchiaio andò a sbattere contro la parete del tegame.

«Se vuoi sapere la verità», disse lui, dando la sensazione di essere meno arrabbiato, ma non meno stanco, «credo che il ragazzo abbia bisogno di una sculacciata, ma è troppo grande per questo. Se cercassi di farlo, con tutta probabilità mi tirerebbe un pugno sui denti.»

Un anno prima, un mese prima, una settimana prima si sarebbe rivoltata con violenza per aver soltanto osato suggerire un’idea del genere; ma quella sera si limitò ad annuire senza permettergli di vedere la sua espressione.

«In effetti, credo che sia innamorato.»

Sollevò il cucchiaio pieno di zuppa per assaggiare se si era scaldata e tornò a mescolarla. «Non credi anche tu?»

«Sì, credo che abbia i calori per la figlia di Quintero. Il poliziotto.»

«Norman, vorrei che non parlassi in quel modo.»

«In che modo?» chiese con tono di innocenza, di noncuranza.

«Quando dici che Don ha i calori per qualcuno. Se è innamorato, è innamorato e questo non significa necessariamente che debba fare del sesso con una bambina.»

Ma non è innamorato, pensò, sperando quasi che lui le leggesse nel pensiero. Non è innamorato. Lo so. Sono sua madre e lo so.

«Be’, forse», concesse lui. «E c’è un’altra cosa.»

«Che cosa?»

«Se non la smetti con quel cucchiaio, avremo colla a cena.»

Non era stato tanto spiritoso, ma lei rise comunque mentre si dirigeva nell’ingresso per chiamare suo figlio, avvertendolo che la cena era pronta e che era meglio si affrettasse prima che si raffreddasse tutto. Non ci fu risposta. Lo chiamò di nuovo, pensando a quanto aveva desiderato che assomigliasse di più a Sam, che non aveva mai avuto bisogno di essere chiamato due volte, che non aveva mai procurato problemi.

«Donald!»

Sentì la porta aprirsi, sentì i passi nell’ingresso e sorrise nel miglior modo possibile quando lo vide apparire sul pianerottolo.

«Non ho molta fame, mamma», disse.

«Be’, sarà meglio che tu scenda e mangi quello che puoi. Non ti farà male e non voglio che ti ammali proprio durante le feste di questa settimana.»

«Sì», rispose lui, diede un’occhiata alla sua stanza e cominciò a scendere. Lentamente. Fece scivolare la mano sulla ringhiera finché non si trovò a un passo da lei. Il sorriso c’era ancora, ma così da vicino riuscì a vedere i suoi occhi, riuscì a vedere il suo sguardo, uno sguardo cupo che la fece sentire una formica sul punto di essere schiacciata, per capriccio di un ragazzo comune e inspiegabilmente terrorizzante.

«Coraggio», gli disse bruscamente e si allontanò.

Lui la seguì e lei aumentò il passo e riuscì a sopprimere con fatica un sospiro di sollievo quando notò che Norman era ancora seduto alla tavola. Persino una lite in quel momento sarebbe stata meglio di niente.

Ma Norm si limitò ad annuire e Don rispose annuendo a sua volta e durante la cena si scambiarono parole tanto gentili, tanto formali, tanto stupidamente insensate che per la prima volta le capitò di desiderare la presenza di Harry. Lui avrebbe saputo che cosa fare. Era rimasto, nonostante il modo di vestire e le maniere che usava con gli studenti, un tipo vecchio stile quando si trattava di affrontare i ragazzi, e lui avrebbe saputo come fare per trattare con quello straniero che era suo figlio.

A cena terminata, mentre lei stava raggruppando le stoviglie nel lavandino, Don chiese: «Avete intenzione di divorziare?»

Joyce si voltò di scatto lasciando cadere per terra rumorosamente una terrina che però non si ruppe. «Dio mio, Donald, ma che cosa dici?»

«Torna nella tua stanza», gli ordinò Norman con uno strano tono di voce.

«Era solo una domanda», disse Don, scrollando le spalle. Poi si alzò, piegò il tovagliolo di carta e uscì.

«Cristo», esclamò Norman prendendo una birra dal frigorifero.

«Norm, che cosa dobbiamo fare?»

Lui la guardò, ubriaco, e fece uno sforzo per ruttare.

«A me sembra», disse, mentre si dirigeva nella stanza della TV, «che il problema sia tuo. Sei tu quella che pensa che non ti amo più, ricordi?»

«Ma…»

E restò sola, con le mani imprigionate in un asciugamano, mentre le labbra si muovevano senza emettere suoni e il suo sogno di fuggire via con Harry in qualche paradiso remoto le parve d’un tratto il sogno di una vecchia zitella.

Poi guardò l’orologio e si rese conto che stava facendo tardi. Oh, merda, pensò, gettò l’asciugamano per terra, si precipitò nell’ingresso e disse: «Io vado. Tornerò verso le undici».

«Sarò qui.»

«Parla con Don, okay?»

Alzò una mano — forse sì, forse no.

Vai al diavolo, pensò, e riuscì a mettersi dietro al volante prima di scoppiare in lacrime. Non per molto, e senza fare rumore. Solo quel tanto che bastava per provare a se stessa che era ancora in grado di farlo e che ancora le importava qualcosa nonostante i sogni a occhi aperti, nonostante Falcone. Non era facile; qualche settimana prima aveva ammesso con se stessa che non era niente per lei, nemmeno un rifugio tra le sue tempeste private. Le importava ancora meno, per essere completamente onesta, dell’avvocato che si era presa subito dopo la morte di Sam. Era stato un episodio per cercare un senso, almeno così aveva dichiarato, e così Norman aveva creduto concedendole il suo perdono; ma questa volta stava cercando qualcos’altro, qualcosa che non riusciva a definire, e cominciava a essere stanca di tentare. Probabilmente si trattava, pensò amaramente, di una donna sull’orlo della menopausa, alla ricerca della sua adolescenza in uno specchio che mentiva.

Emise una risata a quell’immagine e fece retromarcia sulla strada, andandosene con il proposito di tornare prima possibile. Forse allora avrebbero potuto parlare, tutti e tre, su quello che stava succedendo e quello che avrebbero potuto fare, e di come si amavano tutti quanti. Dovevano farlo. La domanda di Don di quella sera l’aveva dimostrato.


Qualcosa si muoveva nell’oscurità.


«Sai, mio padre mi ucciderà», disse Tracey, camminando il più velocemente possibile per non sentire il freddo che era arrivato con la sera di lunedì.

«Ma non sei in ritardo», le rispose Amanda. Aveva i capelli lunghi e neri tenuti insieme da un nastro nero, e teneva la giacca aperta nonostante i rigori della sera. «Dio, non penserai che sia il tuo guardiano o qualcosa del genere.»

«A volte pensa di esserlo», ribatté lei, con un sorriso. Amanda aggrottò le sopracciglia e scosse il capo. «È uno strazio che sia tanto vecchio stile a volte, sai? Ma … be’, ha solo paura, tutto qui. È per via dello Squartatore.»

«Per l’amor del cielo, quel pazzo con tutta probabilità si trova a mille miglia di distanza, ormai. Non può essere tanto stupido da restare qui in giro, no? Cristo, forse ha già raggiunto l’Ohio o chissà quale altro posto.» Si mise a ridere. «Con tutto il casino che hanno fatto, non sono riusciti a scoprire niente.»

«Ehi», mormorò Tracey.

«Oh, scusa», disse Amanda senza dispiacersi. Scrollò le spalle e aumentò l’andatura.

«Va bene.»

«No, dico davvero.»

Amanda tacque per un po’, poi disse: «Mi chiedo se Provetta resterà in piedi tutta la notte».

«Ancora?»

«Sì, certo. Non hai sentito Brian oggi? Ha detto che il vecchio puttaniere è stato in piedi tutta la notte a ripulire la veranda. Aveva una pila elettrica e quando è passato Brian l’ha spenta. Credo che non avesse voglia di far vedere a nessuno quello che stava facendo. Scommetto che userà un po’ di quella porcheria nel laboratorio, sai? Candeggina fatta in casa.» Si mise a ridacchiare e a mimare uno scienziato che versava una soluzione da una provetta all’altra. «Forse se n’è anche bevuta un po’. Forse crede che gli faccia rispuntare i capelli.»

«Tutta la notte, eh? Non stai scherzando?»

«Te lo giuro», rispose Amanda, avvicinandosi e abbassando la voce. «Sono contenta che non ci sia andato Fleet. Con la fortuna che ha, li avrebbero beccati, sospesi e buttati in prigione.» Tirò su con il naso e si guardò alle spalle. «Il vecchio puttaniere però deve aver capito. Ci sta addosso fin dall’inizio della scuola. Credo che non voglia farci diplomare.» Proruppe in una risata, dando una manata sulla spalla di Tracey. «Non sopporta che Fleet continui a prendere degli otto, sai? Crede che Fleet sia uno stupido solo perché gioca a football. Forse è geloso di lui, chissà?» Rise più forte e Tracey girò lo sguardo imbarazzata.

Il viale era vuoto, c’erano solo i lampioni e le ombre e non fu difficile ad Amanda sentire il rumore di passi alle loro spalle. Si voltò, ma non vide niente.

Tracey si accorse della mossa. «Sentito?» disse e si avvicinarono al bordo della strada per essere pronte a scattare dall’altra parte in caso di necessità.

«Che sciocchezza.»

«Cosa?»

«Questo», rispose Amanda, riferendosi al modo in cui cercavano di restare in bilico sul bordo. «È a chissà quante miglia di distanza.»

«Certo», disse Tracey.

«E poi gli frantumerei le palle se tentasse di farmi qualcosa.»

Tracey annuì, tastando la borsetta che teneva a tracolla. «Ho un pezzo di tubo di piombo, qui dentro. Gli spaccherei il cervello.»

«Piombo?» Amanda era impressionata. «Non stai scherzando?»

«Me lo ha fatto portare papà.»

«Be’, è naturale. È un poliziotto.»

«Non so se saprei usarlo.»

«Cosa?» Amanda si fermò, fissandola incredula. «Sei stupida, Trace. Sei… una stupida! Ma certo che sapresti come usarlo. Se ti trovi di fronte alla morte, gliela faresti vedere al bastardo.»

Tracey rifletté per un istante e poi annuì. «Credo di sì.»

Superarono un altro isolato e il freddo aumentò, acutizzando il suono dei loro passi sul marciapiede, rendendo più brillante e penetrante la luce dei lampioni.

Camminavano a braccetto.

Il viale continuava a rimanere vuoto.

«La sai una cosa?» sussurrò Amanda.

«Che cosa?»

Si guardò attorno e sollevò la testa. «Quel bastardo è uno stronzo, ecco che cosa!» disse ad alta voce.

«Uno stronzo!» urlò Tracey.

«Più stronzo della merda», fece eco Amanda.

«Stronzo di merda!» urlò Tracey e proruppe in una risata che le fece mancare il fiato.


E Tanker rideva di loro in silenzio, osservandole mentre si affrettavano sul marciapiede, quasi correndo in direzione del parco, con le luci dei negozi alle spalle, e si facevano coraggio per affrontare l’oscurità. Conosceva bene quel metodo, l’aveva usato un sacco di volte quando doveva attraversare qualche territorio nemico e non aveva voglia di morire.

C’era un’unica differenza…

Lui non era morto.

Loro invece ci sarebbero rimaste secche.

Si teneva nascosto tra gli alberi in mezzo al viale, quasi esattamente dalla parte opposta alla loro, facendo percepire la sua presenza senza però farsi vedere, senza fare rumore, solo incurvando il labbro quando si erano messe a correre come matte per un tratto, subito dopo che la più bassa delle due aveva smesso di tossire.

Era una tentazione prendere due puttanelle in una volta, e i brividi lo scuotevano tanto da fargli venire i crampi alle gambe, mentre aveva la sensazione che i capelli gli venissero strappati dallo scalpo. Era da molto che non si sentiva così male e si era rallegrato quando le nuvole in cielo si erano leggermente diradate, lasciando uscire la luna: si era anche rallegrato per la pioggia di fine settimana. Aveva tenuto nascosti i suoi amici mentre si era trovato in quella cella odorosa di piscio, in mezzo a una manciata di altri uomini, stronzi raccolti da due poliziotti la notte di sabato. Uno di essi, un piccolo idiota dalla carnagione scura e pieno di moccio, sembrava avere più paura di un cane bastonato. Comunque, Tanker non aveva tentato di fuggire, perché non sapevano che aspetto avesse, non sapevano chi fosse, non sapevano quello che aveva fatto. Li aveva seguiti facendo finta di essere più debole e indifeso di quello che era, dicendo «signore» ogni volta che parlava, dando un nome falso, dormendo sulle loro fottute brandine e mangiando il loro fottuto cibo che, tutto considerato, non era poi tanto male.

Ma quella mattina l’avevano rilasciato e gli avevano consigliato, non molto gentilmente, di non vagabondare più nella zona delle tavole calde, dei cinema, del parco e persino delle fottutissime chiese. Motivazioni del cazzo per allontanarlo dalla città. Due di loro si erano diretti ai confini della città, uno se n’era andato al bar più vicino e Tanker si era rimesso a posto, si era pettinato e ripulito nel miglior modo possibile e si era messo davanti alla fermata degli autobus della stazione di polizia. Sapeva di essere osservato e aveva fatto un cenno di saluto dopo essere salito sull’autobus che l’avrebbe condotto al parco.

Gli idioti non avevano fatto nessun controllo per vedere dove si sarebbe diretto.

Era chiuso. Dio, che voglia gli era venuta di squartare quando era uscito dalla centrale, che voglia di vederli mangiarsi le mani per quello che si erano fatti scappare.

Ma si era trattenuto perché i brividi stavano facendosi più forti, aveva bisogno di farlo, e sapeva che loro pensavano si trovasse quasi in California ormai, proprio come gli stronzi di Yonkers, di New York, di Binghampton pensavano che si trovasse in qualche altro posto, mentre lui invece si trovava ancora là.

Idioti. Idioti belli e buoni e lui era sempre stato a quel gioco.

Una delle due puttanelle si mise a ridere, nervosamente, e finalmente lui non ne poté più. Erano proprio nel punto più congeniale, allora si alzò e corse in mezzo alla strada deserta.

La prima a vederlo fu la puttanella più bassa, che si mise a urlare e iniziò a correre, lasciando cadere sul marciapiede i quaderni; uno si aprì, facendo volare fuori i fogli in direzione del tombino. L’altra si voltò a guardarlo sorpresa, sentì il richiamo frenetico dell’amica e si mise a correre con qualche secondo di ritardo.

Ma era rimasta troppo indietro e Tanker si mise in posizione per affrontarla, spingendola contro il muro del parco, sempre di più, sorridendo mentre si muoveva finché lei non urlò un nome e si lanciò oltre il cancello aperto.

La puttanella si fermò quando si accorse che Tanker stava cercando l’apertura, ma lui le tornò sopra con una finta e una bestemmia, mentre i suoi strilli venivano appannati dalle lacrime. Non gliene importava niente. Quando fosse arrivato aiuto, i brividi sarebbero spariti da un pezzo.

Si mise a correre. Con agilità. In punta di piedi. Silenziosamente. Si nascose nella boscaglia subito dopo aver oltrepassato il cancello, all’inseguimento della puttanella che faceva rumore con le scarpe e con il fiato pesante e con le invocazioni d’aiuto.

All’altezza del laghetto venne allo scoperto e l’afferrò.

Lei urlò così forte da farlo vacillare e prima che riuscisse a bloccarla gli graffiò la guancia con le unghie. Urlando. Scalciando, nel tentativo di colpirgli i genitali. Quando la schiaffeggiò urlò di nuovo e gli si aggrappò. Lui la prese per i polsi e la trascinò in avanti, facendola girare e gettandola nell’acqua.

Lei annaspò per tornare in superficie e rimase a guardare, con l’acqua che le gocciolava dalle ciglia e dal mento mentre lui si avvicinava lentamente.

«No», disse.

Lui si limitò a sorridere e continuò a muoversi.

Amanda saltò sul cornicione di cemento e cadde, scivolando sulle suole umide. Tanker si buttò su di lei prima che riuscisse a riprendere equilibrio e, con un triste sorriso sulla bocca, le spinse la faccia contro il cemento.

«Puttana», disse, digrignando i denti.

Amanda si lamentò per il dolore e sputò sangue.

Le spinse di nuovo la faccia, passò le mani tra i suoi capelli bagnati, tenendole un ginocchio conficcato sulla schiena.

«Puttana.»

Lei si lamentò di nuovo, poi tacque.

«Puttana», disse per la terza volta e la trascinò per i capelli nella boscaglia. Poi le strappò di dosso la giacca e la gettò da parte, la girò sulla schiena e si mise sopra di lei. Aveva ragione, come il solito — una puttana. Si poteva vedere dal modo in cui il maglione si era attaccato ai seni, dal modo in cui la croce d’argento della catenina che aveva al collo si prendeva gioco della religione in cui avrebbe dovuto credere, del modo in cui sanguinavano le ferite della fronte e del mento.

Era una puttana e Tanker aveva fame. Lanciando uno sguardo di gratitudine verso la luna invisibile, si lasciò cadere accanto a lei, le mise una mano sulla guancia e si leccò due volte le labbra prima di squarciarle la gola.

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