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La settimana successiva segnò l’inizio di ottobre, caratterizzato da una partita di football persa, nella quale Brian fallì tre touchdowns e Tar e Fleet persero la palla una volta ciascuno; da un articolo apparso su un settimanale nel quale si diceva che il preside della Ashford Sud stava ritardando la conclusione di importanti negoziati rifiutando di appoggiare gli insegnanti della scuola per ragioni politiche; e da una serie di macabri resoconti trasmessi dal telegiornale della sera di New York relativi allo Squartatore. Dal momento che la sua ultima vittima era morta circa due settimane prima, la polizia ipotizzava che si fosse suicidato oppure che avesse lasciato lo stato: tale notizia riempì Don e Jeff di brividi di macabra delizia.

Martedì mattina, Chris Snowden si trovava solo a pochi metri davanti a lui, in direzione della scuola, e lui non riusciva a decidere se mettersi a correre per raggiungerla e sperare in una chiacchierata — forse gli si sarebbe gettata fra le braccia — oppure rimanere indietro e limitarsi a osservarla. Al bar lui e Jeff arricciarono il naso di fronte a un piatto di maccheroni al forno bruciacchiati e giunsero alla conclusione che Chris se la stava facendo con uomini più vecchi in quel periodo — ragazzi dell’università o forse addirittura con i loro padri.

Poi Don osservò Tracey Quintero che raccoglieva il suo vassoio e lo portava fino al punto in cui un inserviente lo afferrava per ripulirlo e passarlo a un altro cliente.

«Ehi, Jeff, credi sia possibile che qualcuno si innamori di due donne contemporaneamente?»

«Certo. È possibile.»

«Deve essere possibile per forza. Voglio dire, ogni donna ha qualcosa di diverso da offrire a un ragazzo, no? E un ragazzo non può trovare tutto quello che cerca in una sola donna, giusto? Quindi è necessario che lo cerchi in donne diverse, non ti pare?»

Jeff lo guardò di traverso. «Cosa?»

«È logico, non ti sembra?»

«Certo, se sei pazzo è logico.»

«Be’, io non sono pazzo, però mi sembra logico e penso di essere innamorato.»

«Hai voglia», lo corresse Jeff. «Hai solo voglia.»

«Bell’amico.»

«Be’, dannazione, Don, è una vera stronzata, sai?»

«Pensavo che fossi d’accordo.»

«Lo ero prima di sentirtelo dire.»

Diede una forchettata ai maccheroni, rompendo la crosticina di formaggio, e tirò un profondo sospiro aprendo il cartone del latte. Mentre stava bevendo, Chris fece il suo ingresso, da sola, lo vide, gli sorrise e uscì di nuovo.

«Mio Dio», mormorò.

«Forse gli piaci.»

Non osava crederlo: e poi non la conosceva neppure.

«Oppure», gli disse Jeff, mentre si alzava, «conosce il tuo vecchio e vuole darsi un certo tono, non so se mi spiego.»

Don lo guardò sconsolato e Jeff si rese conto di avere commesso un errore: non potendo rimediare, corse fuori. Don lo guardò uscire, poi si alzò e lo seguì lentamente. Lichter gli aveva fatto venire in mente una ragazza con la quale era uscito quand’era più giovane. Era convinto di aver trovato un biglietto di sola andata per il paradiso, a giudicare dal modo in cui lei lo trattava, gli correva dietro, lo faceva divertire e gli insegnava i preliminari dell’amore. Poi, un giorno, dallo spogliatoio, l’aveva sentita parlare con Brian: ridacchiava e giurava sulla tomba di sua madre che usciva con lui solo ed esclusivamente per via di suo padre.

«Non ho intenzione di sbattermi troppo per uscire di qui», aveva detto. «E tu credi che un fottuto professore abbia il coraggio di bocciarmi considerando che perdo tempo dietro al figlio del preside?»

Ma lo avrebbe fatto, dopo la rottura di quel venerdì sera. Le aveva chiesto se era tutto vero, ma lei aveva negato tutto, allora aveva perso la pazienza, dimenticando uno degli insegnamenti fondamentali dei suoi genitori: mai urlare o minacciare perché serve solo a screditarti e a metterti sulla difensiva. Una minaccia deve essere portata avanti, altrimenti è perfettamente inutile: se devi minacciare qualcuno assicurati di avere i mezzi per farlo.

Lei gli aveva riso in faccia.

E sebbene se ne fosse andata prima della fine dell’anno, non ne aveva gioito troppo. Il fatto che se ne fosse andata dimostrava che la storia era vera, e i rapporti con gli altri non furono più gli stessi.

Mercoledì rivide Chris, che lo ignorò.

Questo avrebbe dovuto farlo sentire meglio; invece, si sentì ancora più spregevole, soprattutto quando il responsabile dell’orientamento gli spiegò quanto gli sarebbe costato portare a termine gli studi di veterinaria. A suo padre sarebbe venuto un colpo e sua madre si sarebbe commossa e gli avrebbe permesso di cercarsi un lavoro per coprire parte delle spese.

Si era quasi dimenticato del compito di biologia di venerdì.


«La riunione è finita», disse Joyce.

Harry batté con forza i cuscini dietro di sé e si mise a osservarla con un sorriso sbilenco sul viso mentre si rivestiva. «Digli che è durata più del previsto.»

«Durano sempre più del previsto. Sai bene che lui non ci crede.»

Falcone scrollò le spalle: non gliene importava.

Quando lei ebbe finito, si girò per osservarlo: il lenzuolo gli copriva appena l’inguine, i riccioli scuri ricadevano arruffati sul viso. Un vero patrizio, pensò: mettetegli addosso una toga e avrà l’aria di un senatore romano sul punto di accoltellare un imperatore.

Il sorriso rivelava bianchi denti incapsulati. «Facciamo il bis?»

Le sarebbe piaciuto. Odiava se stessa per questo, ma le sarebbe piaciuto. Voleva che la toccasse con violenza, non con dolcezza, voleva sentire il peso del suo corpo che la schiacciava sul materasso, voleva provare l’oblio che le procurava quel corpo — e voleva tagliargli la gola per quello che la stava costringendo a fare alla sua famiglia.

«No.»

«Peccato», disse lui. «Quando inizierà lo sciopero sarà difficile riuscire a vederti.»

Raccogliendo i capelli in modo da poterli legare con il nastro, Joyce uscì dalla stanza e prese il soprabito. Un attimo di esitazione — forse aveva dimenticato qualcosa che Norman potesse notare? — poi aprì la porta dell’appartamento.

«Ehi.»

Lei aspettò un attimo.

«È stato bello, piccina.»

Bastardo, pensò lei sbattendo la porta dietro le spalle e iniziando a tremare mentre si avvicinava verso l’uscita di emergenza, scendendo lentamente le scale.

Era tutto così stupido, una specie di fantastica storia d’amore — un uomo che arriva e riesce a vincere le tue resistenze, trasportandoti nell’estasi silenziosa. In parte la colpa era di Norman: le sue preoccupazioni nel mandare avanti la scuola e il suo desiderio non ufficiale di diventare sindaco l’avevano portato a trascurarla.

Lei non era più una compagna, ma una donna che doveva rimanere dietro di lui, vivendo nella sua ombra.

Il problema stava nel fatto che non era mai stata capace di avere segreti con suo marito. I suoi occhi, troppo grandi per poter ingannare, la tradivano ogni sera, ed era convinta che lui si stesse prendendo gioco di lei, tormentandola in modo tale che alla fine avrebbe ammesso tutto davanti a lui.

Mentre andava a casa, assicurandosi di arrivare dalla direzione del posto nel quale la presunta riunione aveva avuto luogo, si mise una mano sul seno e avvertì qualcosa del tocco di Harry.

Sarebbe stato tutto maledettamente più facile, pensò, se solo fosse riuscita a decidere se il rimanere con Norman era frutto dell’abitudine o di amore autentico. E nel caso si trattasse della seconda ipotesi, cosa avrebbe fatto Harry se avesse deciso di troncare la loro relazione?


La temperatura si abbassò appena prima dell’alba e il suolo fu ben presto ricoperto della prima brina della stagione. I parabrezza avevano assunto un’aria spettrale e i prati sembravano coperti di zucchero: andando a scuola osservò che il suo fiato si trasformava in nuvolette. Era una sensazione piacevole e obbligò se stesso a camminare a grandi passi nel tentativo di svegliarsi. Non aveva dormito molto quella notte: qualcosa dentro di lui non faceva che ricordargli l’esame. Si era svegliato all’improvviso ed era rimasto seduto alla sua scrivania fino al sorgere del sole, rileggendo i suoi appunti e chiacchierando con il cavallo al galoppo che non aveva la minima pietà per i suoi dubbi.

Quando sua madre era tornata dall’assemblea del comitato, si era improvvisamente irrigidito, pensando di ricevere una sgridata per essere rimasto alzato così a lungo: si era stupito quando l’aveva udita passare davanti alla porta senza nemmeno fermarsi, emettendo strani suoni come se stesse piangendo.

Alla fine dell’isolato girò a sinistra, dopo avere attentamente evitato di guardare in direzione della casa di Chris. Attraversò la strada e accelerò il passo, tenendo gli occhi spalancati, sperando che quell’aria fredda potesse infondere un po’ di lucidità in quel suo cervello annebbiato.

Alla sua sinistra si trovavano piccole case ammassate l’una contro l’altra, soffocate da alberi, azalee e arbusti sempreverdi. Due isolati più in giù le casette erano interrotte da un alto cancello chiuso con grosse catene, quasi sepolto sotto l’edera che arrivava fino in cima. Sull’altro lato iniziava un prato ben curato che saliva e scendeva lungo lievi pendii, in direzione dei campi per gli allenamenti e dello stadio e arrivava fino alla parte centrale della scuola — un edificio di mattoni rossi e marmi bianco-grigi, due piani sul lato anteriore e tre su quello posteriore dove la terra scompariva; alte finestre, ampi corridoi piastrellati, un auditorio che poteva contenere più di ottocento persone, costruito negli Anni Trenta e mai sostituito.

L’Ashford Nord, dall’altro lato della città, era stata costruita nel 1959, con mattoni e marmo bianco: era un edificio a un solo piano, con le finestre verniciate e sembrava una fabbrica.

Dal marciapiede, Don salì tre gradini che portavano su uno spiazzo in cemento dal quale partivano altri dodici gradini bassi fino alle porte a vetri dell’ingresso. Di fianco all’entrata, l’erba era di un colore marrone spento e si vedevano visi affacciati alle finestre che scrutavano gli studenti che si affrettavano, per poi fermarsi a bighellonare in attesa del suono della campanella.

Non si fermò, nonostante qualcuno lo avesse chiamato; spinse la porta e svoltò bruscamente a sinistra verso gli armadietti che si trovavano in fondo al corridoio. Armeggiò con la combinazione del lucchetto e afferrò i libri che gli sarebbero serviti per le prime tre ore di lezione. Qualcuno passò correndo e lo salutò urlando: lui si limitò a fare un cenno con la mano senza nemmeno girarsi; era stanco e non aveva voglia di parlare con nessuno, almeno fino a quando non si fosse finalmente svegliato.

Ma non si svegliò.

Cadde quasi addormentato durante matematica, schiacciò un pisolino di un paio di minuti durante la lezione di inglese e, per quanto riguarda tedesco, dovette tenere le dita a lato degli occhi per impedire che questi si chiudessero. Nessuno degli insegnanti se ne accorse. E nessuno dei suoi compagni.

Poco prima delle dieci e mezzo, passò davanti all’ufficio con la porta a vetri e vide suo padre in piedi, di fianco al tavolo della segreteria, in compagnia del professor Falcone. Stavano parlando a bassa voce, ma piuttosto animati, a giudicare dal modo in cui suo padre sbatteva il giornale contro una gamba e si grattava quel suo naso da falco, quasi fosse un pugile; quando si mosse, con espressione preoccupata, il professore di biologia si precipitò fuori dalla porta a vetri, andando quasi a sbattere contro il ragazzo. Non si scusò nemmeno: se ne andò via e la gola di Don si fece completamente secca. Le voci nel corridoio risuonavano e gli fecero venire il mal di testa: ritornò barcollando verso il suo armadietto, tirò fuori il libro e gli appunti di biologia e si infilò nella sala da studio, cercando di concentrarsi su quell’argomento.

A sua madre non importava più niente di suo padre.

Aprì il libro e giocherellò con le immagini trasparenti che illustravano con colori vivaci le contrazioni interne di una rana.

A suo padre non importava niente di sua madre. Quella notte, nella sua stanza buia, quando avevano ricominciato a litigare dopo il ritorno di Joyce, gli era parso di aver udito il nome del professor Falcone.

La leggera colazione che si era preparato da solo gli si era bloccata sullo stomaco e ora minacciava di risalirgli in gola; dovette deglutire quattro volte per essere sicuro di non vomitare. Poi, senza nemmeno rendersene conto, iniziò a lamentarsi, e fu solo la risatina soffocata alle sue spalle che lo avvisò dell’arrivo del professor Hedley.

«Signor Boyd?»

Alzò lo sguardo e fissò un paio di occhiali con montatura di corno. «Sì?»

«Per caso si sta esercitando da solo per cantare nel coro, signor Boyd?»

Di nuovo la stessa risatina, e la risata schietta di Tar e Fleet, seduti dall’altra parte della stanza.

Impallidì. «No, signore.»

«Allora posso suggerirle di fare un po’ più di silenzio in modo che gli altri possano continuare il loro lavoro?»

«Sì, signore. Mi dispiace.»

«Grazie, signor Boyd.» Hedley si girò, lo stomaco di Don sobbalzò di nuovo e il rumore prodotto dall’acidità risuonò come un altro lamento. Hedley si girò lentamente. Era un uomo più largo che alto, con una frangia impomatata di capelli rossi e un bel paio di baffi. «Signor Boyd, forse non mi ha sentito.»

Avvertì il sudore che gli si gelava sotto le ascelle. Lo stavano guardando tutti, aspettando che tenesse testa al professore come avrebbero fatto Tar o Brian. Ma riuscì soltanto a sbattere le palpebre, indicando inutilmente la sua pancia e gesticolando per far notare il suo stomaco malandato, mentre l’acidità gli risaliva verso la bocca e le guance iniziavano a bruciare.

Hedley strinse le sue piccole mani dietro la schiena e ruotò sui talloni. «Come avrà certamente imparato nel corso dei suoi studi di storia americana, signor Boyd, questa è una società democratica. Non ci sono privilegi. Per nessuno. Quindi le consiglio di stare in silenzio, oppure dovrà trattenersi oltre il normale orario scolastico.»

Annuì tristemente.

Le risatine cessarono immediatamente, quando l’uomo ritornò al suo banco.

Privilegi, pensò con amarezza; quel figlio di puttana. Perché non era potuto andare all’Ashford Nord, come avrebbe voluto sua madre? A nessuno importa se tua madre insegna arte.

Anche se a tua madre non importava più niente di tuo padre.

Mise una mano sulla bocca e cercò di rimettersi a studiare, ma le parole erano annebbiate e le illustrazioni si agitarono come impronte digitali confuse; quando si ritrovò nel corridoio, la folla lo spingeva e lo urtava come fosse stato una foglia nella tormenta. Ma non gliene importava nulla. Avrebbe fatto un buon esame perché gli piaceva la biologia e tutto quello che gli insegnava sugli animali, come ad esempio la parte di zoologia di quel pomeriggio, subito dopo fisica. Ma non sopportava che lo urtassero e tutti quegli spintoni gli davano fastidio: si lasciò quasi prendere dal panico quando si accorse che la colazione aveva ripreso ad agitarsi. Barcollando andò verso i gabinetti dei ragazzi più vicini e, trovatone uno vuoto, si sedette con la testa stretta fra le mani. Iniziò a ruttare. Aveva in bocca un sapore di latte acido. Sputò a vuoto e si augurò di riuscire a vomitare una volta per tutte, o almeno di calmare lo stomaco e di stare un po’ meglio.

Suonò la campanella.

Saltò in piedi facendo cadere i libri, li raccolse e corse lungo il corridoio. Il professor Falcone stava chiudendo la porta.

«Ah, Donald», disse, «sono contento che tu sia arrivato.»

Riuscì ad abbozzare un sorriso sofferente e andò a sedersi il più in fondo possibile, come faceva sempre in tutte le materie, fin dove i professori permettevano. Poi lasciò cadere i libri a terra e rimase ad aspettare, mentre Falcone distribuiva i fogli e spiegava come andavano utilizzati. Il giovane professore aveva un’aria sportiva — né giacca, né cravatta, solo un paio di pantaloni lucidi e una camicia aperta sotto un golf leggero. I capelli non erano ben pettinati e i riccioli erano bagnati, come se fosse appena uscito dalla doccia. Il viso e il corpo erano del tipo mediterraneo: molte delle ragazze se lo covavano con gli occhi, e anche alcuni ragazzi.

Finalmente arrivò da Don, tenendo in mano il foglio e non mollandolo nemmeno quando Don lo afferrò. Continuava a parlare, invece, ricordando alla classe che quello era probabilmente il compito più importante di tutto il semestre, dal momento che valeva un terzo del voto finale: se questo fosse andato male, l’esame di gennaio sarebbe diventato davvero determinante.

Alla fine lasciò andare il foglio e sorrise.

«Mi sono spiegato, signor Boyd?»

Si era spiegato benissimo, ma Don non aveva capito perché si fosse rivolto proprio a lui.

Falcone si sporse in avanti, spingendo il foglio al centro del banco, poi aggiunse con calma: «È meglio che tu lo faccia molto bene, Boyd. Ne avrai bisogno».

Gli ci volle un intero minuto prima di riuscire a mettere a fuoco le domande. Falcone era davanti a lui, appoggiato alla lavagna con le braccia incrociate sul petto e gli occhi semichiusi. L’orologio sopra la porta scattò. Fleet stava osservando attentamente il suo polso, Tar scarabocchiava e Brian fissava il campo da football fuori dalla finestra. Don sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi. Non riusciva a credere a quanto aveva udito e si rifiutava di credere che fosse una minaccia. Non poteva andargli male. Conosceva la materia e conosceva l’insegnante. Guardò la prima domanda e rispose quasi senza pensare, poi continuò con le altre, finendo giusto quando suonò la campanella.

Non poteva essere una minaccia.

I fogli vennero ammonticchiati sulla cattedra, i libri finirono nell’armadietto, Don prese il sacchetto di carta che conteneva il suo pranzo e uscì dall’edificio da una delle porte che davano sul retro. Nonostante la brina del mattino, il sole era caldo e Don attraversò un vialetto di cemento che terminava con un muro alto un metro e mezzo inframmezzato da aperture regolari. Ne scelse una, vi passò in mezzo e si ritrovò sulla gradinata più alta dello stadio, con il campo da gioco in basso e le gradinate inferiori destinate agli esterni di fronte. I sedili non erano altro che alti gradini di cemento e improvvisamente si rese conto che metà della scuola e delle attrezzature sembravano fatte con lo stesso materiale, probabilmente bianco e pulito in origine, ma divenuto grigio e marrone con il passare del tempo e a causa delle intemperie.

Il panino al prosciutto che si era preparato aveva un pessimo sapore.

Non poteva essere stata una minaccia.

«Se ti ammazzassi, non riuscirebbero mai a eliminare le tracce di sangue.»

Fece un salto e lasciò cadere il panino, poi lo afferrò di nuovo bruscamente e lanciò un’occhiata di traverso.

«Penetra fino in fondo, sai? Dritto nel cemento. Potrebbero strofinarlo per giorni e giorni ma arriverebbero soltanto a odiare le tue budella. È un pessimo modo per farsi commiserare, credimi.»

Fece un sorriso e si spostò di qualche passo.

Dietro di lui c’era Tracey Quintero che scuoteva la testa. «Sei davvero così giù?»

Aveva capelli e carnagione scuri, e il golf troppo largo sembrava ancora più bianco, mentre la gonna a pieghe aveva un’aria un po’ fuori moda. Non aveva delle belle curve, era piuttosto spigolosa, e Don pensò che fosse sì carina, ma non del tutto bella, tranne quando sorrideva mettendo in mostra tutti quei denti. Spagnola, e si chiedeva a volte come sarebbe stata con quei costumi colorati che indossavano i ballerini di flamenco.

«Credo di sì.»

«Biologia ti è andata male?» Aveva Falcone nel pomeriggio, ma non voleva delle risposte.

«Sì. No. Credo di no.»

«Come ti è sembrato?»

«Okay, credo.» Addentò il panino che sapeva di sabbia dopo essere caduto per terra. «Più difficile del solito.»

Lei annuì con indifferenza, sporgendosi in avanti per appoggiare le braccia sulle gambe, poi entrambi si misero a osservare due classi che facevano ginnastica: cercavano di correre attorno alla pista a sette corsie del campo di football. Una risata si alzò verso di loro, seguita da un fischio acuto, poi un intenso profumo di lillà lo assalì, confondendolo per un attimo: si girò, annusò quell’odore e capì che si trattava della ragazza.

Lei indicò un ragazzo alto e dinoccolato dai capelli rossi che correva sull’ultima curva senza il minimo sforzo. «È per questo che lo chiamano Fleet-la-lepre? Perché corre così forte?»

Devo essere gentile e risponderle, pensò; già, perché lo chiamano così? Mio Dio, devo persino parlare di lui, oggi.

«Sì», rispose.

«Ma allora dovrebbe correre invece di giocare a football», disse lei, mangiandosi un po’ le consonanti.

«Le borse di studio per il football sono molto più generose.»

«Accidenti», rispose lei, fissandolo negli occhi. «Mio Dio, mi sembra un po’ cinico.»

Lui si strinse nelle spalle. «È la verità. Fleet ha bisogno della borsa di studio per poter andare a scuola, e riesce ad averla con il football. È il miglior wide receiver della contea.»

«Pensavo che fosse Tar.»

Gli era rimasta una briciola di pane sulle labbra, lui la prese con un dito, la osservò e se la mise in bocca. «Tar gioca come running back.» Aggrottò la fronte. «E lo sai.»

Lei si appoggiò indietro, con i libri appoggiati al petto senza forma. «L’avevo dimenticato.» Lanciò un’occhiata dietro di lui, verso la scuola. «Ehi, Don!»

«Eh?»

«Sai che intenzioni ha tuo padre per quanto riguarda lo sciopero?»

Lui guardò Fleet che stava gesticolando e lanciando baci a Tracey. «Non lo so. Non sono il suo consigliere politico.»

Tracey ignorò quella battuta sarcastica. «Spero che faccia qualcosa. Voglio dire, accidenti, siamo all’ultimo anno! Se ci abbassano i voti per uno sciopero … mio Dio!» Faceva dei segni sulla copertina di uno dei suoi libri. «Mio padre li ammazza tutti, te lo assicuro. Davvero.»

Suo padre era un poliziotto. Don sapeva che lo avrebbe fatto sul serio.

«Sinceramente non so che cosa succederà.»

«Ah. Okay.» Guardò l’orologio. «Sta per suonare la campanella.»

«Sai che cosa vorrei fare?» disse Don, nella speranza che lei non se ne andasse. «Vorrei avere il coraggio di bigiare almeno una volta prima di finire la scuola. Solo una volta.»

«Tuo padre ti ammazzerebbe», rispose lei in fretta.

«Lo farebbe davvero», ammise lui con una smorfia maliziosa. «Ma scommetto che sarebbe un sacco divertente.»

Lei si mise a esaminare il suo viso, poi i suoi occhi e alla fine gli fece un grande sorriso. «Non hai la faccia tosta per farlo. Ti conosco abbastanza bene per saperlo.»

«Esattamente», rispose lui, senza più malizia. «Sono troppo prevedibile.»

«Sei degno di fiducia», lo corresse lei. «Tu sei degno di fiducia, ecco la verità.»

Le classi dei ragazzi sfilavano lungo il campo, Fleet era rimasto indietro e cingeva con un braccio una ragazza con la coda di cavallo.

«Stupendo. Lo farò incidere sulla mia tomba. Verrò ricordato come il vecchio nonno di qualcuno famoso.»

L’espressione di lei si inasprì. «Hai la luna storta, eh? Cristo!»

Si alzò contemporaneamente a Tracey, fece cadere il sacchetto del pranzo e dovette rincorrerlo per evitare che il vento lo facesse scendere lungo i gradini. Poi la seguì incespicando, raggiungendola appena in tempo per aprirle la pesante porta di vetri e metallo. Lei gli fece l’occhiolino e un inchino beffardo, poi entrò ed entrambi rimasero in piedi sul pianerottolo proprio mentre la campanella suonava. Sulle scale si udivano rumori di scarpe che battevano sui gradini metallici; i corridoi risuonavano.

«Ti andrebbe di andare al cinema o da qualche altra parte domani sera?»

Lei apparve sorpresa all’udire quella domanda, quasi quanto lui nel formularla. Cristo, pensò, Brian mi ammazzerà.

Le scale si riempirono di gente e si ritrovarono separati, ma prima di andarsene lei gli urlò un «Ti chiamo stasera», che era poi la classica frase poteva voler dire tutto e niente. Cristo, pensò mentre scendeva in palestra, sei davvero un idiota, Boyd. Santo cielo, sei un perfetto idiota.

Quando arrivò negli spogliatoi e iniziò a cambiarsi, Fleet era ancora lì e Tar stava entrando, passandosi un orrendo pettine nei capelli incredibilmente neri. Iniziarono a parlare della partita che avrebbero giocato contro la squadra della Nord durante il fine settimana, poi parlarono dello Squartatore e infine dello sciopero che li avrebbe mandati in vacanza fino a dopo Natale.

«Ehi, Donny», urlò Tar allacciandosi le scarpe da tennis, «di’ a tuo padre di non rompere più le balle, ok? Ho proprio bisogno di un po’ di vacanza.»

«Col cazzo», disse Fleet, a torso nudo e con un asciugamano sulle spalle. «Mio caro Tar, a lui non gliene frega niente di noi poveri cristi. Non sai che in realtà è una spia del suo paparino, incaricato di controllare fra le fila? Agente Segreto dell’ultimo anno.»

Anche se Tar stava soltanto scherzando, il viso di Don si indurì. Si alzò, incamminandosi attraverso il corridoio affollato. Un gruppo di ragazzi cercò di prenderlo in giro per suo padre e per lo sciopero, ma lui riuscì a liberarsene con rabbia. Era stanco di sentire quelle storie, stanco di essere chiamato spia — e alcuni di loro lo dicevano sul serio — stanco di essere chiamato Donny — il Papero, stanco di essere trattato in modo speciale anche se tutti affermavano il contrario.

Si fermò sul pavimento lucido della palestra, con le mani sui fianchi.

Brian urlò:«Ehi, Paperino!» e una palla da basket lo colpì direttamente sul naso.

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