15

Meraviglioso, pensò Tar vedendo il signor Boyd che sollevava con un badile i resti dell’uccello morto e andava a metterli in un sacchetto dei rifiuti, voltando la testa. Don era sul vialetto, con le mani in tasca, e fissava la strada. Per un istante Tar aveva pensato di essere stato visto da Paperino, ma non ci fu nessun segno di allarme. Sentì il coperchio della pattumiera che si chiudeva con frastuono, poi il preside uscì dal garage e circondò le spalle di Paperino. Entrarono in casa in quella posizione, la porta si richiuse alle loro spalle e la luce del porticato venne spenta.

«Eccellente», sussurrò Tar. «Meraviglioso.»

Si era nascosto dietro il capannone vuoto degli attrezzi del vecchio Delfield, ma quando infine erano arrivati i poliziotti si era infilato tra una pila di cassette di arance e il muro. Non avevano cercato con molta cura, non lo avevano visto e, dopo essersi assicurato che non sarebbero tornati, si era diretto verso l’abitazione per sbirciare dall’angolo che dava sul davanti, protetto dalle siepi e da una quercia che stava sul marciapiede. Da quel punto era stato in grado di osservare tutto, gli spiaceva soltanto di non poter ascoltare quello che i due bastardi si stavano dicendo.

Aspettò altri cinque minuti, leccandosi le labbra e sorridendo, prima di farsi largo tra i cespugli del vialetto adiacente. Camminò lentamente, nel caso qualcuno stesse osservando, con la mazza da baseball stretta contro la gamba e la giacca da baseball indossata a rovescio. Non appena raggiunse l’angolo, gettò la mazza nel canale per l’acqua piovana, si riaggiustò la giacca e si mise a correre velocemente, tenendo la bocca aperta, come se stesse ridendo silenziosamente. Non vedeva l’ora di tornare a casa e chiamare Brian, di far sapere a quello stronzo che Tar Boston non era solo uno stupido pecorone.

La via della scuola era deserta, e il marciapiede gelato scricchiolava sotto le sue scarpe da tennis. Dopo aver raggiunto l’angolo più vicino, si rese conto del vento freddo che gli tagliava le guance e i polmoni e tirò su con il naso per evitare che iniziasse a colare. In quel momento rimpianse di non avere la macchina, il pezzo di ferraglia vecchio di dieci anni che suo padre gli aveva comperato il giorno del suo ultimo compleanno. Non funzionava bene, a volte si rifiutava persino di partire, ma il riscaldamento andava alla perfezione e in quel momento gli avrebbe fatto comodo.

Rimpianse anche il lusso dell’automobile di Pratt.

Rallentò, corrucciando il viso.

Brutto stupido — era così che l’aveva chiamato Pratt durante l’ultimo allenamento di quel giorno — brutto stupido, tirati subito fuori dai coglioni prima che ti sbatta al muro. Doveva avere qualcosa che lo rodeva, sicuramente, perché aveva rivolto solo un paio di volte la parola sia a lui che a Fleet, includendo anche l’ora di esercizi ai pesi che avevano fatto quando l’allenatore se n’era andato. Era come se fosse incazzato o chissà che altro, e Tar non era riuscito a farsi spiegare che cosa ci fosse che non andava.

Fleet era nello stesso stato, ma era diverso. Tornando a casa quel cretino si era comportato come se stesse sfuggendo la polizia o chissà che altro e aveva continuato a guardarsi alle spalle, tanto che Tar si era innervosito ed era andato quasi a sbattere contro un autobus.

Ma Fleet non aveva detto niente.

E quando Tar si era ritrovato a casa a mangiare la sua cena, gli era venuta l’idea di punire Paperino per avere incolpato lui e Pratt di aver gettato tutta quella merda nel porticato di Hedley. Un’idea veramente fantastica. Un colpo per quel fottuto preside e per Paperino nello stesso momento. Formidabile. E avrebbe chiuso definitivamente la bocca a Brian. L’idea di quell’uccello morto gli era venuta passando davanti alla vetrina del macellaio, che esponeva un’anatra. Dopo era stata faccenda da poco fermarsi alla casa di un amico con due fratellini che tenevano quattro anatre in una gabbia in giardino. Non aveva nemmeno avuto bisogno di guardare l’uccello; l’aveva colpito con un bastone mentre si dimenava in una sacca di tela che gli aveva calato sulla testa; poi gli aveva tirato il collo. Non si era nemmeno sporcato di sangue. Neanche quando l’aveva fatto cadere tra i cespugli, l’aveva guardato. Non ne aveva avuto bisogno. Non gliene importava niente se i Boyd lo trovavano quella stessa notte o il mattino successivo.

Aumentò il passo, come se dovesse raggiungere la meta mentre Pratt, quello stronzo, lo stava bloccando.

La parte più difficile era stata la macchina. Sapeva di avere poco tempo per assestare un paio di colpi decenti prima che lo sentissero, e dopo aver sistemato la bicicletta, si era dato da fare con il cofano della macchina. Aveva fatto finta che il parabrezza fosse la faccia di Boyd, che il cofano fosse il torace di Paperino, ed era stato meraviglioso! Era un peccato che Brian non fosse stato presente. Ma si stava comportando come uno stronzo, come se fosse sicuro che gli esperti l’avrebbero portato via per il Super Bowl subito dopo la partita, Cristo santo!

Svoltò un altro angolo e si diresse verso casa, respirando profondamente e con soddisfazione. Non sarebbe andata così la sera dopo. Avrebbe disfatto Ashford Nord senza nemmeno che quei coglioni se ne accorgessero. Sarebbe stato un campione, e Brian avrebbe dovuto portargli rispetto. Senza dubbio.

Qualcosa si mosse alle sue spalle.

Si voltò e tornò indietro di un paio di passi, ma non vide nient’altro che la strada deserta, le luci dei porticati che luccicavano nell’aria cristallina, le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi, silenziose e scure. Si voltò ancora e gemette quando si accorse di un furgoncino malandato che bloccava la sua automobile nel vialetto — il suo vecchio era tornato prima del solito dalla fabbrica quella sera. Questo significava che avrebbe dovuto far fronte alle manate sulle spalle e alla serie di ricordi che il vecchio aveva dei tempi in cui era una star, il miglior quarterback dello stato, e non sto scherzando, ragazzo, ascoltami quando ti do qualche consiglio perché è il migliore che tu possa sentire in vita tua. Il problema era che il vecchio aveva giocato almeno vent’anni prima di lui, e il coglione non se ne rendeva conto. Non sapeva come avesse fatto sua madre a reggerlo per tutti quegli anni. Lui, di sicuro, non ci sarebbe riuscito. Non appena ottenuto il diploma, se ne sarebbe andato. Via da quella casa e via da quella città e fuori da quel fottutissimo stato, se ne avesse avuto la possibilità.

Qualcosa si mosse.

Merda, pensò, infuriato per come la sola idea di suo padre gli aveva rovinato il buon umore. Merda!

Si guardò alle spalle, con un’espressione di sfida rivolta a chiunque osasse dirgli qualche cosa, a chiunque osasse fiatare. Oltrepassò casa sua a testa bassa e si allontanò, dopo aver sputato al furgoncino, dopo essersi chiuso la cerniera del giaccone ed essersi infilato le mani in tasca. Cazzo, se ne sarebbe andato da Brian, invece di limitarsi a chiamarlo. Sarebbe anche stato meglio, gliel’avrebbe raccontato di persona.

Qualcosa…

Si fermò sul vialone, guardò da entrambi i lati della strada e poi si voltò di scatto, tenendo pronti i pugni.

Non c’era niente, là dietro.

Ma qualcosa si stava muovendo.

«Tu!» urlò.

La luce di un porticato si spense.

Con la testa leggermente inclinata, scese dal marciapiede e guardò curiosamente l’isolato, sotto gli alberi che si perdevano nell’oscurità e che, in alto, formavano una galleria decisamente buia. Cercò di richiamare alla mente l’immagine della faccia disgustata di Don quando aveva ritrovato l’uccello morto, quando si era accorto della bicicletta, perché improvvisamente e inspiegabilmente qualsiasi cosa era meglio che stare a osservare nell’oscurità. Ma non vedeva altro che una linea rotta e sbiadita che si allargava nella notte mentre qualcosa si muoveva verso di lui senza fare rumore.

«Tu, stupido!» urlò.

Funzionava solo un lampione, nella strada.

«Stronzo», mormorò e si voltò, ma senza fare un passo. Improvvisamente non seppe che cosa fare. Beacher era già chiuso e l’idea di andarsene da Brian non sembrava più divertente come qualche minuto prima. Ma non poteva tornare a casa. Non ancora. Non prima che suo padre si fosse scolato le sue solite birre e si fosse addormentato sul divano e non prima che sua madre avesse finito di lavare i piatti. Poi sarebbe riuscito a dare il bacio della buonanotte e ad andarsene a dormire. Il giorno dopo, come l’allenatore continuava a ripetere, era il Grande Giorno e, dopotutto, aveva il diritto di prendersi tutto il riposo che poteva.

Il giorno dopo sarebbe stato un eroe e al diavolo Brian Pratt.

Poi sentì qualcosa muoversi e si voltò di nuovo, tirando un profondo respiro e trattenendolo finché non vide il bassotto di John Delfield che trotterellava verso la luce.


Don era sotto la doccia, dimentico dell’acqua bollente che gli stava arrossando la pelle. Lentamente, tirò da parte la tendina di plastica e si mise a fissare un’altra volta i jeans che si trovavano accanto al cesto della biancheria sporca. Da una tasca faceva capolino un pezzo di cuoio rosso. Lasciò andare la tendina che si richiuse di scatto, mentre l’acqua ricominciava a colpirgli il viso. Si chiese che cosa stesse succedendo. Sapeva a chi appartenevano quelle chiavi. Sapeva che cosa avrebbe dovuto fare subito dopo averle ritrovate. Eppure se l’era messe in tasca e non aveva detto niente. Non aveva ascoltato una sola parola di quello che aveva detto suo padre davanti all’uccello morto, non aveva sentito nient’altro che una leggera sensazione di nausea, che però era riuscito a scacciare.

Norman aveva suggerito di non parlarne con sua madre; era già abbastanza preoccupata per la macchina e non c’era motivo per angustiarla ulteriormente. Aveva avanzato sospetti su Brian, Tar, persino su Fleet, e qualcosa nella sua voce aveva attirato per un istante l’attenzione di Don — la sensazione che a suo padre non piacessero i ragazzi.

Non erano solo degli scocciatori, degli snob, i figli di genitori che consideravano il preside come se fosse un diavolo — erano ragazzi, punto e basta. E a Don era tornato in mente che suo padre, una volta, aveva detto che sarebbe stato meglio se i figli avessero potuto nascere già adulti, in grado di uscire subito di casa, indipendenti e maturi. In quel momento Don l’aveva preso come uno scherzo; ma ormai sapeva bene, e forse anche meglio di Norman stesso, che non era stato affatto uno scherzo.

Questo, più di ogni altra cosa, gli aveva fatto distogliere lo sguardo da quello scempio. Suo padre, nello stato in cui si trovava, sarebbe stato capace di andare dai Boston per fare arrestare Tar — ovviamente dopo averlo sbattuto un paio di volte al muro.

E tutto per una macchina; a volte si vince, a volte si perde, era stato l’epitaffio per la sua bicicletta.

Si allontanò dal getto della doccia, si asciugò la faccia e si sedette sul bordo freddo della vasca con le mani che ciondolavano fra le ginocchia. Tracey aveva ragione; ma non era solo Brian a essere geloso, anche Tar lo era. Dubitava che Pratt avesse ordinato all’amico di portare a termine quella missione, perché non era nello stile di Brian. Ma forse Brian aveva detto qualcosa durante la giornata che aveva indotto Tar a fare una mossa nei confronti di Don, una rappresaglia, per chiamarla come aveva fatto suo padre.

Spostò nuovamente la tendina e guardò verso il portachiavi, sorridendo. C’era del potere in quel pezzo di cuoio da quattro soldi. Lo sapeva e ormai non doveva fare altro che pensare a come utilizzarlo.

La cosa più semplice sarebbe stata la minaccia di mostrarlo a suo padre. E nel caso non avesse funzionato, avrebbe potuto portarlo alla polizia. Tar avrebbe protestato, ovviamente, e avrebbe dichiarato di averlo perso o qualcosa del genere, ma avrebbe causato abbastanza rumore, abbastanza problemi…

«Ti farò sputare sangue.»

Le parole uscirono soffici in quella cortina nebbiosa, ma con sufficiente chiarezza da farlo sospirare.

Qualcuno bussò alla porta, allora chiuse la doccia, afferrò un asciugamano e se lo avvolse intorno al corpo. Sua madre lo chiamò e lui rispose che ne avrebbe avuto solo per qualche minuto. Dopo essersi asciugato, prese i jeans e scivolò nel corridoio. C’era ancora accesa una luce nella stanza dei suoi genitori. Il piano di sotto era buio. Rabbrividendo alla folata d’aria fresca che si avventò sulla sua pelle, si precipitò in camera e si chiuse la porta alle spalle, lasciò cadere i jeans e si buttò sul letto.

Dopo qualche minuto si stirò, si alzò in piedi e si diresse alla finestra.

Il giardino sul retro era vuoto.

Va bene, pensò rivolto al suo amico nell’oscurità, adesso che so che ci sei, che cosa dobbiamo fare?


«Stupido mostricciattolo», disse Tar. Si avvicinò al cane allungando una mano in segno di amicizia. Quel vecchio fagotto era uscito di nuovo, probabilmente passando dalla porticina che Delfield aveva installato nel portone sul retro. A volte il vecchio si dimenticava di mettere il chiavistello e il cane andava in giro per ore nel vicinato, attaccando i bidoni della spazzatura, sradicando fiori dalle aiuole, finché qualcuno lo individuava e lo riportava indietro. Tar l’aveva sempre ignorato, ma una sera il cane lo aveva disturbato mentre beveva una birra e allora lui l’aveva afferrato e l’aveva riportato indietro. Delfield gli aveva dato dieci dollari per il disturbo. Pazzo. Dopotutto si trattava solo di un cane.

Ma, diavolo, pensò mentre si accucciava, dieci dollari sono dieci dollari.

«Forza, stupido», disse con tono amichevole. «Vieni da Tar, altrimenti ti stacco la testa.»

Il bassotto riconobbe la voce e si fermò in mezzo al raggio di luce del lampione, scodinzolando furiosamente.

«Forza, piccolo, vieni da Tar.»

Il cane si sedette sulle zampe posteriori.

«Ah, Cristo.»

Si allungò e fece un altro passo avanti, ma si fermò quando si accorse di un’altra ombra oltre la luce.

Il cane guaì e saltò ai suoi piedi, a testa bassa, con la coda tra le zampe. Tar si guardò intorno e si spostò in mezzo alla strada, schioccando le dita per farsi seguire dal cane e tentando di capire che cosa ci fosse per la strada.

Si alzò il vento.

Sul viale, alle sue spalle, passò sbuffando un camion con rimorchio.

Poi una mano emerse nella luce e afferrò il cane, e comparve John Delfield, che cominciò a scuotere la bestia e ad abbracciarla teneramente.

«Brutta bestia», disse con leggero accento tedesco.

Sorrise a Tar. «Stavi cercando di prenderlo per riportarmelo?»

Tar annuì, domandandosi che cosa diavolo avesse il suo cuore che non voleva calmarsi. Diavolo, era solo il vecchio Delfield, perché mai si era spaventato in quel modo?

Il bassotto si agitava tra le braccia dell’uomo, ma Delfield riuscì a raggiungere la tasca della giacca e a estrarre il portafoglio. Tolse una banconota.

«Prendila», insistette, vedendo che Tar protestava con la mano. «Hai tentato. È come se l’avessi fatto.»

Tar accettò i soldi annuendo con un sorriso e lo guardò sparire dietro l’angolo. È pazzo, pensò; sono tutti e due pazzi. Poi si passò una mano tra i capelli e decise di continuare alla volta di Pratt. Però non aveva più voglia di camminare. Cercò le chiavi della macchina, ma non riuscì a trovarle.

«Che cosa…?»

Si tastò le tasche, le rivoltò e poi alzò gli occhi al cielo e si colpì con una mano la tempia. «Cazzo. Gesù … Cazzo!»

Doveva averle perse mentre stava facendo il servizietto alla station wagon dei Boyd. Cristo, se qualcuno le aveva trovate l’avrebbero fregato. Dannazione, doveva tornare a cercare quelle maledette chiavi. Iniziò a perlustrare il marciapiede e poi si fermò.

Verso la fine dell’isolato, malamente illuminato dai lampioni della strada della scuola, c’era qualcosa. Si sentiva osservato.

Delfield, pensò; quello stupido cane dev’essere scappato un’altra volta e il vecchio è ancora per strada a cercarlo.

Si spostò, uscendo dal raggio di luce, verso il buio, e fu allora che sentì il rumore chiaro di qualcosa che respirava. Qualcosa di grande, che respirava pesantemente.

Si voltò verso il viale, girando lentamente la testa. Si era sbagliato; non era Delfield e non era nemmeno la sua immaginazione.

C’era qualcosa, ed era più scura dell’oscurità, e si stava muovendo verso di lui lungo la linea bianca sulla strada. La sentiva respirare, sbuffare, e sentiva il rumore di qualcosa che picchiava forte sull’asfalto, ritmicamente, costantemente. A meno che non fosse pazzo come Delfield, aveva l’aria di essere un cavallo.

Guardò attentamente e fece un passo verso il viale.

Fremette, incapace di scacciare la sensazione che quella cosa, qualunque cosa fosse, non si trovasse casualmente da quelle parti; era arrivata fin lì per lui. Era stupido. Era tutto una stupidaggine. Non c’erano cavalli ad Ashford e, santo cielo, doveva essere Delfield ancora una volta alla ricerca del suo stupido cane grasso.

Si avvicinò alla luce e si accorse di un guizzo di bagliore verde scuro; i bagliori divennero due e dovette far passare qualche secondo prima di rendersi conto che si trattava di due occhi. Occhi verdi, grandi e allungati, che stavano fissando proprio lui.

La luce del lampione non arrivava a illuminare il centro della strada, ma sulla striscia bianca Tar riuscì a intravedere una massa scura con il profilo di una testa. Si vedeva luccicare soltanto un occhio verde. E per un secondo intravide una serie di denti bianchissimi.

Del vapore, forse del fumo, usciva dalle narici.

«Merda!» esclamò e si diede alla fuga. Non sapeva di che cosa si trattasse, ma non aveva intenzione di restare lì per scoprirlo. Se ne sarebbe andato da qualche altra parte. Forse Brian avrebbe potuto dargli una spiegazione.

Il rumore dei passi aumentò di velocità e quando raggiunse la metà del viale ormai deserto, si guardò alle spalle e riuscì a vederlo bene.

Correva, galoppando veloce, mentre gli zoccoli provocavano scintille verdi e gli occhi lanciavano lampi pieni d’odio.

Crollò la speranza che potesse trattarsi di uno scherzo, che potesse essere Don che lo inseguiva per vendicarsi dell’uccello morto e della bicicletta. E sentì qualcosa che dal più profondo di se stesso gli stava dicendo che era sul punto di morire.

Correva, galoppava, ma, paradossalmente, sembrava una scena girata al rallentatore.

Tar cominciò a correre come un disperato in direzione del centro.

Prima o poi avrebbe incrociato una macchina, la polizia o qualcun altro.

Non guardare. Ma si voltò.

Lo stava seguendo a pochi metri di distanza, tenendosi ben in vista con la sua figura terrificante. Gli occhi verdi lo fissavano, sbuffava fumo verde, e dalle narici si sollevava una nuvola, come se fosse un fantasma color avorio.

Tar riprese a correre ancora più veloce, inciampando in un ramo caduto per terra, scontrandosi con un cespuglio e poi con un albero; fece un giro e si rimise a correre.

Gli zoccoli colpivano l’asfalto, ferro contro ferro.

Sorpreso da un nuovo, improvviso ostacolo, Tar cadde per terra, ustionandosi i palmi delle mani sull’asfalto e sbattendo una guancia con violenza. Gli occhi gli si riempirono di lacrime per il dolore. Rimase a terra per qualche secondo respirando pesantemente, domandandosi dove fossero finiti tutti quanti, come mai nessuno si stesse accorgendo di quello che succedeva. Ingoiò saliva che sapeva di sangue; si raggomitolò e poi cercò di alzarsi in piedi.

Sentì uno sbuffo; si voltò e lo vide davanti a sé.

Tar urlò il nome del padre.

Lo stallone si impennò, avvolto in una nuvola di fuoco verde e bianco.


Squillò il telefono e Tracey si precipitò in cucina afferrando il ricevitore prima che sua madre si svegliasse. Non era riuscita ad addormentarsi ed era scesa da basso per cercare di studiai, nella speranza che i libri le facessero venire sonno. Appoggiò un ginocchio su una seggiola, sapendo chi era ancora prima di alzare il ricevitore, e aspettò qualche secondo prima di rispondere.

«Trace?»

«Don?» Cercò a tastoni la sedia e si sedette nell’oscurità.

«Sei sveglia?»

«Sì, certo.» Scrutò l’orologio a parete, ma la penombra le consentì soltanto di intravedere che era quasi mezzanotte.

«No, non eri sveglia. Ti ho svegliato io. Mi dispiace.»

«Non stavo dormendo, veterinario», gli disse lei quasi con rabbia. «Stavo studiando.» Sospirò lentamente e si appoggiò le nocche di una mano tra gli occhi, sulla fronte. «Che cosa succede, c’è qualcosa che non va?»

«Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?»

«Be’, prima di tutto è quasi mezzanotte di un giorno feriale. E poi stai sussurrando.»

«Anche tu.»

«Non ho voglia di essere ammazzata.»

«Nemmeno io.»

Tracey trascinò la sedia verso il corridoio in modo tale da poter osservare la porta d’ingresso. Suo padre avrebbe dovuto far ritorno da un momento all’altro e non aveva intenzione di farsi sorprendere al telefono. Dopo essersi appoggiata allo schienale, sollevò le gambe e le incrociò all’indiana. «Don, che cosa succede? Vuoi propormi di fuggire con te o qualcosa del genere?»

Lui si mise a ridere e lei fu felice di quella reazione; era da un po’ di tempo che non lo vedeva in quel modo e le fece piacere. «Forza, eroe, che cos’è successo?»

Ascoltò senza fare commenti il resoconto della macchina e dell’uccello che avevano trovato sgozzato in giardino. E quando lui le disse che le chiavi di Boston erano sotto la ruota della bicicletta, Tracey esclamò: «Che stronzo. Che brutto stronzo.» Poi gli domandò che cosa avesse intenzione di fare.

«Non lo so. Pensavo di fargli sapere che io so e chissà che non mi lasci in pace. Ma credo che negherebbe tutto e poi mi rovinerebbe la faccia a forza di pugni.»

«Dio, che disastro.»

Lui non rispose e allora Tracey strinse gli occhi. Non era quello il problema, pensò; non era per quello che aveva chiamato.

«Tracey?»

«Sono sempre qui, eroe.»

Una pausa. «Preferisco veterinario.»

Lei corrugò la fronte. «Certo. Va bene.»

«Trace, questo potrà suonarti stupido, ma tu non hai mai espresso un desiderio?»

Non ho mai espresso un desiderio, pensò lei, ma stai impazzendo, Don?

«Ma certo», rispose. «Ogni anno, il giorno del mio compleanno, mi svuoto i polmoni sulle candele augurandomi di guadagnare un miliardo di dollari e di comprarmi una casa a Beverly Hills. Ma lo fanno tutti.»

«Non esprimi mai desideri sulle stelle?»

«Ma che cos’è? Ehi, stai cercando di farmi fare qualche compito o qualcosa del genere? Si tratta di questo? Stai facendo un’inchiesta?»

«Tracey, ti prego.»

E fu allora che se ne accorse, ma non poteva crederci. Don aveva paura di qualcosa, e non era Tar Boston.

«Okay», rispose lentamente. «Sì, ogni tanto lo faccio.» Si mise a ridere. «Sono stupida, vero?»

«Non si avverano mai? I tuoi desideri, intendo dire.»

«Don … no. Cioè, non credo proprio. Non come se fosse per magia, comunque. Si può desiderare tanto una cosa da farla diventare per incanto reale? No. Bisogna lavorarci e fare in modo che si avveri, ma con le proprie mani, non so se mi capisci.»

«Dio.»

«Ehi, veterinario, mi vuoi per favore dire di che cosa si tratta?»

«Tracey…»

Un rumore di chiavi nella serratura e Tracey disse velocemente a Don che stava rientrando suo padre e che si sarebbero visti il giorno dopo a scuola. Riappese il ricevitore e rimise a posto la sedia proprio nel momento in cui suo padre faceva il suo ingresso. Quando le chiese come mai fosse alzata a quell’ora di notte, lei indicò i libri che stavano nel salotto e gli spiegò che non era riuscita ad addormentarsi; stava per aggiungere qualcos’altro, ma venne fermata dall’espressione del suo viso. Che cos’era successo, non stava bene?

«No», rispose lui malinconicamente. «Qualcuno è stato investito da un tizio che poi è fuggito. Tutto qui.»

«Oh, Dio, no», esclamò Tracey, mordendosi il labbro inferiore. «Era qualcuno che conoscevo?»

Lui si strinse nella spalle. «Non lo so.»

«Papà.»

Suo padre si diresse verso la cucina, ma lei lo fermò appoggiandogli una mano sul braccio.

«Papà?»

«Ti prego, piccola, va’ a letto.»

«Che cos’è successo?» insistette lei.

«È stato come se qualcuno l’avesse investito senza sosta. Andando continuamente avanti e indietro. È talmente mal ridotto che non siamo ancora riusciti a riconoscerlo.»

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