18

Don avrebbe anche scavalcato il cancelletto girevole, ansioso com’era di entrare per vedere che cosa stava combinando lo stallone agli spettatori e alla squadra. Ma c’era un poliziotto che osservava con sguardo cupo gli ultimi arrivati; Don cercò il biglietto nella tasca della camicia, lo porse a una donna dalla faccia rossa che se ne stava nell’angolino che fungeva da biglietteria durante le partite, poi spinse il braccio di metallo fino a quando udì lo scatto.

Entrò e guardò le gradinate. Facce con la bocca spalancata, mani che gesticolavano nell’aria, voci che strillavano su entrambi i lati del campo. Vide le luci scintillanti che trasformavano l’erba rendendola ancora più verde e le lucide divise che si inseguivano attraverso il campo dopo il calcio d’inizio.

Non era successo nulla, pensò con sollievo, appoggiandosi contro il muro di mattoni; non è successo nulla, non ho fatto niente.

Si lasciò cadere per terra, rimanendo seduto per una decina di minuti, non vedendo altro che gambe in movimento e non udendo altro che urla continue che si fondevano in un boato interminabile, senza fine; emise un lamento e si tappò le orecchie, chiedendosi perché mai la gente si eccitasse così tanto per una stupida e rumorosa partita di football da liceali. Non sapevano che Tar era morto? Non sapevano che il ragazzo che giocava con Brian seguendo un certo schema era un volgare sostituto e non il titolare?

Respirò profondamente e velocemente fino a liberare la mente, nel tentativo di far cessare il tremito alle mani.

Certo che lo sapevano. Ma questo non era un omicidio. Era stato solo un tragico incidente e non avrebbero sospeso le lezioni, non avrebbero dedicato un concerto alla memoria di Tar Boston.

Quando il suolo diventò troppo umido per rimanere seduto, si alzò in piedi con una smorfia e si incamminò verso le gradinate. Si accorse con stupore che erano piene, e camminando lungo la cancellata di ferro vide che non c’era rimasto nemmeno un posto libero nel quale intrufolarsi, a eccezione della zona riservata alla banda, nella quale si stavano disponendo i musicisti dopo aver suonato l’inno nazionale. Quando vide Tracey cercò di cogliere il suo sguardo, ma lei stava chiacchierando con i suoi vicini, cercando di evitare che il vento le strappasse il berretto.

Un vento forte proveniente dal lato della porta che faceva sventolare gli stendardi e che era riuscito a far volare più di un cappello, facendolo finire oltre il muro di cinta, verso le case. Alzando gli occhi vide che non c’erano stelle, ma solo un movimento di chiazze scure; la maggior parte delle gente si era portata ombrelli, impermeabili e coperte per potersi coprire quando la pioggia avesse iniziato a cadere, trasformando la partita in uno spettacolo fangoso.

Lentamente fece il giro del campo, evitando di passare davanti ai numerosi gruppi di ragazzini che cercavano di farsi notare dalle ragazzine; vide Jeff seduto su una panca e gli mostrò il pugno in segno di vittoria, non vide invece suo padre, ma notò Chris sul campo, mentre applaudiva e ballava secondo le regole.

Quando giunse di nuovo davanti al cancello principale, era iniziato il secondo tempo. Il punteggio era ancora fermo sullo zero a zero e i tifosi di entrambe le squadre stavano diventando impazienti.

Ricevendo gomitate e insulti, arrivò in mezzo alla pista e rimase a guardare la partita da dietro le barriere antineve che delimitavano il campo da una porta all’altra. C’erano alcuni poliziotti e qualche fotografo, oltre a un gruppo di ragazzini che cercava di sbirciare attraverso lo steccato rosso.

Il quarterback dei Nord mancò la palla. La zona centrale della squadra tentò inutilmente di recuperarla.

Il tabellone elettronico sul lato opposto segnava il passare del tempo con luci ambrate, ma il punteggio rimaneva fisso a zero.

Si avvicinò allo steccato e vi si aggrappò con le braccia incrociate. Ancora un minuto prima della fine del secondo tempo. Le urla si erano affievolite e gli applausi risuonavano fiacchi. A nessuno piaceva una semplice partita in difesa, soprattutto considerando il fatto che il pubblico se ne stava seduto al freddo in attesa della pioggia.

Improvvisamente si ritrovò a guardare Brian che correva verso di lui, con la testa girata all’indietro, seguendo la traiettoria a spirale di quello che sembrava essere un passaggio impossibile: la palla disegnò un arco sopra la testa degli avversari, sembrò esitare un attimo, poi si depositò esattamente nelle mani di Brian.

Le urla ricominciarono, ma Don vedeva soltanto Brian, che evitava un possibile placcaggio, che si liberava degli avversari e che trotterellava oltre la linea della porta precedendo di cinque metri il più vicino dei suoi inseguitori.

Le gradinate esultavano, la banda iniziò a suonare un po’ stonata e Brian fece una smorfia quando lo vide vicino allo steccato.

«Ehi, Paperino, ne vuoi vedere un altro?» gridò, prima di essere sommerso dal resto della squadra e trasportato verso la panchina, dove l’allenatore gli strinse la mano.

Don fu spinto via dai fotografi e dai ragazzini, un poliziotto lo invitò a sedersi al più presto, prima di essere cacciato fuori. Avrebbe voluto replicare, sentendo la tensione che saliva di nuovo, avvertendo una vampata di calore che si diffondeva lungo il corpo. Ma deglutì a fatica e si girò, mentre una parte di lui pensava che gli altri non sapessero chi era lui in realtà, e l’altra parte si rendeva conto che l’invito a lasciarlo solo non era più un semplice invito, ma una minaccia.

Con tutto quello che aveva dovuto subire, quella poteva essere l’unica Regola.

Trovò un posto, molto stretto, alla fine della prima fila, all’estremità delle gradinate. Non riuscì a vedere molto, non vide nemmeno la banda che usciva in campo fra un tempo e l’altro per suonare impettita le sue musichette, né il secondo touchdown conquistato nonostante la difesa degli avversari, degno risultato di una corsa eccezionale subito dopo il calcio d’inizio dell’ultima parte dell’incontro. Non gliene importava poi molto. Se fosse andato a casa, forse avrebbe visto sua madre, ma se fosse rimasto, sarebbe riuscito a parlare con Tracey dopo la partita. Forse lei avrebbe saputo dirgli cosa fare.

Verso la fine della partita gli fu impossibile contenere l’impazienza. Scavalcò lo steccato e iniziò a camminare lungo la pista, passò davanti alla banda e riuscì finalmente a vedere Tracey. Lei fece una smorfia e alzò un braccio per salutarlo; lui indicò l’orologio del tabellone, poi il suo polso senza orologio e infine si batté una mano sul petto. Lei aggrottò le sopracciglia in segno di stupore, poi il suo viso si illuminò e annuì rapidamente. Il sorriso sul viso di Don lasciava trapelare solo parte del sollievo che avvertiva, e rimase fisso sulle labbra mentre lo sguardo si spostava verso gli spettatori; vide suo padre seduto con il sindaco e sua moglie. Joyce era dietro la signora Garziana e indossava ancora il foulard per nascondere i capelli; gli occhiali scuri, invece, erano scomparsi.

Don guardò Norman, poi sua madre, che lo vide e fece un cenno di saluto — un cenno debole e pieno di scuse accompagnato da un sorriso così forzato che Don temette per un attimo che il viso di sua madre andasse in pezzi per lo sforzo. Un sorriso gentile. Un sorriso pubblico, non destinato a lui ma alla gente che le stava attorno.

Le fece un cenno con la mano e si spostò, rendendosi conto per la prima volta che presto o tardi avrebbe dovuto fare una scelta — stare con suo padre oppure stare con sua madre: una scelta comunque necessaria per evitare ulteriori problemi.

La folla ruggì alzandosi in piedi.

Senza guardare il campo, si girò verso il tabellone che indicava il punteggio e vide che Brian aveva messo a segno un altro touchdown: il numero di Brian sul tabellone lampeggiava. Prima che arrivasse alla fine del campo, accadde di nuovo; mentre passava davanti alla panchina in legno degli avversari, avvertì il senso di antagonismo e di sconfitta, la violenza crescente che nasceva dalla frustrazione.

Continuò a passeggiare e finalmente gli avversari conquistarono il loro primo punto.

Per la terza volta si fermò davanti alla banda, cercando di farsi largo fra la folla che si accalcava attorno alla panchina dei Braves e che si riversava in campo, incurante della polizia che cercava di mantenere una parvenza di ordine, ma che in realtà continuava a seguire la partita.

Guardò Tracey e avvertì dietro di sé lo sguardo del padre, con la coda dell’occhio vide anche sua madre che rideva per qualcosa detta dalla moglie del sindaco.

Chiuse gli occhi, ma lei sembrava non capire che quello non era il momento adatto per ridere, e nemmeno per assistere alla partita: quello era il momento di stare con suo figlio anche se non si chiamava Sam.

Rimase in piedi fino a quando udì in modo confuso il segnale di fine partita; a quel punto dovette aprirsi un varco tra la folla dei tifosi, che abbandonava le gradinate per invadere il campo. Lo colpirono a una spalla, poi anche nella schiena, ma lui fece del suo meglio per conservare il sorriso sulle labbra, per dimostrare che era davvero felice per la vittoria della sua squadra; poi vide finalmente Tracey che indicava una fila di gradini.

«Mio Dio», ansimò lei senza fiato, quando lui finalmente la raggiunse e le si strinse vicino. «Da come gridavano, sembrava di essere alla finale del Super Bowl.»

La sua uniforme risultò ruvida al tatto, ma il braccio di Don scivolò con naturalezza attorno alla sua vita, mentre con il resto del corpo faceva da scudo al corpo della ragazza. Tracey ripose il suo strumento nella custodia e si cacciò gli spartiti nella tasca più facile da raggiungere.

«Hai visto i tuoi?»

Lui annuì rigido.

«Devi per caso aspettare qualcuno?»

«E tu?»

«Nessuno.»

Con un: «Andiamo, allora», l’afferrò per la vita stringendola a sé e si incamminarono insieme verso i cancelli. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo; c’erano frotte di ragazzini che avevano improvvisato delle gare di corsa, c’erano giocatori di football che cercavano di sfuggire ai tifosi per andare a cambiarsi e poter festeggiare la vittoria e c’era un gruppetto di musicisti della banda che suonava pezzi di musica che in realtà non aveva mai provato prima di allora.

«Don», chiese allora Tracey, «cosa c’è che non va?»


Joyce si alzò in piedi per applaudire quando udì il segnale di fine partita e non riuscì a sentire nemmeno una parola di quello che Jean Garziana tentava di dirle mentre si incamminavano verso le scale, dirette all’uscita. Donald se n’era andato, inghiottito dalla fiumana di gente che si riversava nel campo, e lei odiò se stessa per quel sentimento di sollievo che avvertiva. Norm era dietro di lei, e quando si girò, le rivolse quella sua tipica occhiata indifferente riservata alle persone che non conosceva. Jean le sfiorò il braccio e lei sorrise automaticamente, accennando alle sue orecchie e poi alla folla che si accalcava. La donna annuì, e tutti e tre cercarono di uscire il più in fretta possibile dallo stadio per poi ritrovarsi nella via della scuola. All’angolo della strada la situazione non era completamente tranquilla, ma almeno c’era molta meno gente.

«Noi andiamo a bere qualcosa», disse allora la donna. «Vuoi venire con noi?» Di fronte all’esitazione di Joyce, aprì il cappotto mostrando la propria divisa da infermiera. «Non staremo via molto, te lo prometto. Inizio il turno a mezzanotte.»

«Ma non ho il vestito adatto», protestò Joyce, osservando la sua camicetta, i pantaloni spiegazzati e le ballerine ai piedi. «Non mi sentirei a mio agio.» Una risata nervosa — sapete com’è.

Anthony Garziana arrivò al fianco di Norman. Quando Jean gli spiegò la situazione, rise di cuore e diede una pacca sulla spalla di Norman. «Non c’è problema, signore mie, davvero non c’è nessun problema», disse. «Joyce, puoi andare avanti e cambiarti. Voglio davvero che tu ti diverta, stanotte. Norm, tu potresti andare con lei e poi riportarla indietro. Poi andremo a bere qualcosa e faremo due chiacchiere. Allora, cosa ne dite?»

Non lasciò loro nemmeno il tempo di rispondere. Prese sua moglie sottobraccio e si girò verso la strada, proprio mentre una limousine gli si fermava davanti. «Ci vediamo allo Starlite, va bene?» La portiera si aprì e lui sparì.

Joyce si strappò via il foulard mentre la limousine si allontanava.

«Sono contento che ti sia fatta vedere», disse Norman.

«Non sono così stupida», rispose lei stancamente.

«Divertente questa, è praticamente quello che ho detto prima a Don.»

«Che cosa?» Gli afferrò il braccio, poi si ricordò della gente che si affrettava verso casa e si sforzò di abbozzare un sorriso. «Che cosa vuoi dire?»

«Io e Don abbiamo parlato un po’», spiegò lui in tono piatto, evitando di guardare verso di lei.

«Che cosa gli hai detto?»

«Che tu e io avremmo dovuto parlare, prima di domattina.» A quel punto la guardò e lei non ebbe il coraggio di distogliere lo sguardo. «È necessario, Joyce. Lo sai benissimo anche tu, dopo le tue prodezze di oggi.»

«Io…»

«Don ti ha visto.»

Improvvisamente avvertì qualcosa di duro e di freddo che le attanagliava lo stomaco. «Oh, merda.»

«Già.»

Fissò con lo sguardo perso nel vuoto le facce che si muovevano rapide e le macchine che sfrecciavano lungo la strada. «Dobbiamo proprio andare, vero?»

«Sì, dobbiamo proprio andare.»

«Allora devo passare da casa per cambiarmi.»

L’afferrò al polso con le dita, e i polpastrelli la strinsero con forza, fino a quando lei cercò di liberarsi dalla stretta. «Ci sarai anche tu, vero?»

«Non mi accompagni a casa?»

«No», rispose lui. «No. Se lo facessi, non riusciremmo più a uscire con il sindaco.»

«Capisco.»

«Davvero?»

«Molto chiaramente, Norman. Molto meglio di quanto tu mi possa credere capace.»

Si liberò dalla stretta e se ne andò, sentendo la durezza del selciato sotto le ballerine e sobbalzando quando una banda di ragazzini le passò di fianco e uno di loro le pestò un piede. Le salirono le lacrime agli occhi, ma poi scomparvero insieme con il dolore.

Don lo sapeva. Lo sapeva. E adesso cosa avrebbe fatto?

È una cosa talmente stupida, pensò mentre aspettava sul marciapiede per poter attraversare la strada; io sono stata stupida. Oh, mio Dio, cosa diavolo posso fare adesso?

Attraversò di corsa la strada, nascondendosi nelle tenebre, rimproverandosi per il modo in cui aveva reagito all’annuncio di Norman. Avrebbe dovuto aspettare di essere a casa, poi avrebbe potuto parlargli con calma; e se non proprio con calma, almeno con una certa logica che gli avrebbe fatto capire quanto stupido fosse stato lui. Ma lui continuava a citarle quel suo dannato padre, a rigirare il dito nella piaga al minimo accenno di resistenza alla sua candidatura per le alte cariche — e lei, temendo di essere sul punto di perdere le sicurezze che si erano guadagnati, aveva chiamato Harold. E Harold aveva risposto esattamente come lei si aspettava che facesse — non con saggi consigli o pacate discussioni, ma iniziando a baciarla sulla guancia una volta usciti da scuola, stringendole la mano e baciandole le dita fino a quando si erano ritrovati sul vialetto d’ingresso della casa di Harold, dall’altra parte della città. Appena entrati nell’appartamento, mentre lei cercava di spiegare, lui l’aveva presa fra le sue braccia e aveva tirato fuori la camicia dai jeans.

Quando aveva sentito passare la sua mano sulla schiena nuda, si era sentita perduta, tutto era perduto a quel punto … e, santo cielo, Don aveva visto tutto!

Mentre apriva la porta di casa, si rese conto che stava battendo i denti per il freddo e per la tensione, e anche per la paura di non riuscire a spiegare a Norman la sua stupidità. No, si corresse con durezza mentre sbatteva la porta, non era stata stupidità. Forse incoscienza. Debolezza. Ma non stupidità.

Corse al piano di sopra, strappandosi di dosso i vestiti. Stava per aprire l’armadio per cercare qualcosa di più adatto a un incontro con il sindaco e sua moglie, quando sentì qualcuno bussare alla porta. Il primo pensiero che le passò per la mente fu che Don avesse dimenticato la chiave, così si infilò la vestaglia e stringendosela stretta, scese di nuovo le scale. Avrebbe dovuto dirgli qualcosa. Era così sensibile che qualsiasi cosa vicina alla verità lo avrebbe ferito. In questo periodo tuo padre e io abbiamo dei problemi — troppo vago e insoddisfacente, e poi era qualcosa che il ragazzo sapeva già.

Aprì la porta e immediatamente si strinse il risvolto della vestaglia attorno alla gola. «Harry, per l’amor del cielo! Cosa diavolo ci fai tu qui?»


Norman era rimasto a guardare sua moglie che correva verso casa, poi si era girato, si era fermato e si era ritrovato solo. Si era messo quasi a ridere — tutte quelle pose, la soddisfazione crudele di farle capire che Don sapeva, tutto sprecato. La sua uscita drammatica era stata rovinata perché non poteva andare allo Starlite, a meno che non avesse camminato per dieci o dodici isolati.

«Buona passeggiata, vecchio stupido», mormorò, ficcandosi le mani in tasca e incamminandosi per seguire la moglie, sbuffando ai claxon che strombazzavano in segno di vittoria, salutando con un cenno della mano alcune persone che avevano gridato il suo nome e fissando le facce che gli passavano davanti: si chiese come fosse possibile che una stupida partita di football del liceo potesse riappacificare tutta quella gente con il mondo.

Fece una breve pausa per accendersi una sigaretta, riparandosi dal vento umido che sembrava preannunciare la pioggia. Il fumo era caldo e lo assaporò per un minuto, poi aggrottò le sopracciglia e gettò il mozzicone sul marciapiede. Si leccò le labbra e deglutì. Stava per lasciarsi andare a un pessimo stato di autocommiserazione, e non era certo il modo più adatto di presentarsi a Garziana.

Raddrizzò la schiena, lasciò cadere le braccia e si mise a fischiettare una marcetta sottovoce, proseguendo lungo la strada e pensando di chiamare un taxi, una volta giunto a casa, per arrivare al luogo dell’appuntamento in un batter d’occhio. Una bella entrata, la prima impressione è quella che conta, il sindaco sarebbe stato soddisfatto.

Devi pensare alla partita, ordinò a se stesso; pensa a tutte quelle situazioni piacevoli, agli applausi, alle urla che hanno accompagnato Pratt mentre afferrava quel pallone, quel fortunato figlio di puttana.

Rallentò il passo alzando il tono della marcetta, e quando si dovette fermare davanti alla casa degli Snowden per far passare Chris, riuscì persino a salutarla e a sorriderle.

E aspettò.

Per vederla scivolare fuori dall’auto, con quelle sue gambe bianche sotto la luce dei lampioni, le trecce che danzavano sul suo petto mentre si girava verso di lui per sorridergli; poi afferrò i pon-pon dal sedile posteriore e fece il giro dietro alla macchina.

«Salve!» disse lei, con le guance rosse e gli occhi scintillanti.

«Salve anche a te!»

«In partenza per i festeggiamenti?»

«Proprio così.»

«Anch’io. Ci vediamo.»

Corse lungo il vialetto e poi su per le scale, ma lui non si fermò a guardarla; si rese conto di quello che stava facendo, ma non gliene importava niente. Proprio in quello stesso istante, Joyce stava pasticciando con i suoi capelli e i suoi trucchi, rimproverandosi duramente per quello che aveva visto Don. Non le avrebbe fatto male rimanere per un po’ da sola, giusto il tempo di calmarsi.

«Signor Boyd?»

Alzò gli occhi. Lei se ne stava in piedi sull’uscio.

«Signor Boyd, mio padre…» E fece un gesto per invitarlo a entrare.

Caspita, pensò; un brindisi per festeggiare la vittoria con un ricco chirurgo non avrebbe fatto certo male. Forse, se avesse giocato bene le sue carte, sarebbe saltato fuori anche un assegno per i fondi procampagna.

Fece finta di riflettere prima di accettare, poi annuì e la seguì dentro casa.

La porta si chiuse silenziosamente, e tutte le luci erano spente.

«Ehi, Chris», chiamò, improvvisamente innervosito.

«Stavo giusto per dire», disse lei dolcemente, «che è fuori città, ma che sicuramente non avrebbe nulla da ridire se la invitassi a bere qualcosa per festeggiare la grande vittoria. E nemmeno mia madre. È andata in Florida, in vacanza.»

Non erano altro che ombre nella semioscurità. Lui afferrò la maniglia della porta e guardò stupito le dita della ragazza che afferravano il suo polso. Per un secondo. Per due. Poi, una alla volta, mollarono la presa e si udirono i pon-pon che cadevano a terra.

«Chris», la mise in guardia, ma non cercò più di toccare la maniglia.

Stupido Boyd. Stupido, non sei che uno stupido pezzo di merda.

«Devo cambiarmi», annunciò Chris, salendo lentamente le scale. Lei non guardò dietro di sé, ma i suoi fianchi e le sue gambe sembravano invitarlo a seguirla.

Considerò soltanto per un attimo quello che stava facendo, la situazione nella quale si stava andando a cacciare, poi decise improvvisamente che il suo comportamento da santo non era bastato a conservargli una moglie, e nemmeno un figlio: era giunta l’ora che si prendesse quello che voleva, che avesse quello che si meritava.

Così la seguì, in punta di piedi, ed entrò nella stanza buia. Lei era distesa nell’oscurità, nuda, con le mani che scivolavano lungo i seni, poi sullo stomaco, poi sulle lenzuola.

Rimase in piedi di fianco al letto. Si sbottonò la camicia.

Si interruppe quando vide il sorriso della ragazza, simile a un ghigno beffardo.

«Bisogna festeggiare», disse lei.

Lui annuì, si spogliò e scivolò sopra di lei, senza toccarla, limitandosi a guardarla fisso negli occhi. Nell’oscurità aveva gli occhi neri e assolutamente privi di espressione; sulle labbra aveva ancora quel sorriso beffardo.

«So benissimo quello che hai intenzione di fare», disse lui in un soffio.

Lei annuì e si spostò in modo che gli occhi di lui incontrassero il suo seno.

«Non funzionerà.»

«Certo», disse lei, abbracciandogli la schiena.

Resistette quel tanto che bastava per dimostrarle che diceva sul serio, per farle vedere che era lui che comandava, poi si abbassò su di lei che lo guidò e lo ascoltò mentre ansimava. Lui sentì che stava spingendo con forza. Alzò lo sguardo verso di lei e la vide con gli occhi fissi al soffitto.


Falcone aprì la porta e la richiuse, afferrò Joyce per una spalla e la trascinò verso il salotto immerso nell’oscurità. «L’ha scoperto, non è vero? Quel figlio di puttana sa esattamente quello che sta succedendo, giusto?»

«Certo che lo sa.»

«Gesù Cristo!» esclamò, abbassando le mani e girandosi verso la finestra. «Joyce, si può sapere cosa cazzo ti eri messa in testa?»

«Io? Io volevo soltanto qualcuno con cui parlare. Sei tu che non sei stato capace di tener ferme le mani.»

«Non mi sembra di averti sentito gridare al violentatore», ribatté lui in tono tranquillo.

La luce dei lampioni filtrava debolmente nella stanza, proiettando strane ombre sui mobili e deformando il profilo dell’uomo.

«Ma tu sapevi quello che stavi facendo», rispose lei. «E lo sai anche adesso, e sai che non avresti dovuto.»

«Oh, Cristo, adesso non dare la colpa a me, okay? Non è mica una telenovela. Sei una donna adulta e…»

Vide che lui osservava fuori dalla finestra con aria sospetta, allora si appoggiò alla sedia di Norman per guardare il prato. Nessuno avrebbe potuto vederli, a meno di usare una torcia, ma forse si trattava di Donald che rientrava oppure, e sarebbe stato ancora peggio, era Norman.

«Che cosa c’è?» bisbigliò.

Lui indicò qualcosa. «Tu mi fai diventare matto, Joyce. Potrei giurare di aver visto una specie di animale, lì fuori.»

Lei rise. Sarebbe andato tutto a posto, Harry la stava prendendo in giro; sì, sarebbe andato tutto a posto.

«Ascolta Harry, non può andare avanti così. Devo ritornare con Norman, quindi perché non…»

«Dannazione, eccolo di nuovo.»

Con un sorriso lei scosse la testa e andò di fianco all’uomo, guardò fuori dalla finestra e lo vide.

Sotto gli alberi la sua schiena arcuata sfiorava i rami più bassi. Attorno a esso si era formata una spessa nebbia, che sembrava nascere dall’erba e colare dalle foglie; la nebbia rendeva indistinti i contorni, ma non il verde luccicante degli occhi.

«È uno scherzo», disse Harry. «È di gesso, o qualcosa del genere. Un travestimento. È per caso uno dei giochi del ragazzo?»

La voce si era fatta dura. «Per caso lui è là fuori e si sta divertendo a farci qualche scherzo, Joyce?»

«Lui si chiama Donald», rispose lei con calma, rimanendo senza fiato quando l’animale alzò la testa e la guardò diritta negli occhi.

«Cristo», mormorò Harry, scuotendo incredulo la testa.

Una delle zampe anteriori raspava l’erba e fiamme di smeraldo si levavano nell’aria, simili a fili verdi che si alzavano dalla cortina di nebbia e si dirigevano verso la casa.

«Non ho bevuto niente», disse Falcone a se stesso, e a voce alta. «Giuro su Dio che non ho bevuto nemmeno un goccetto. Cosa diavolo è, Joyce?»

Ma lei aveva lo sguardo fisso al soffitto, in direzione della stanza di Don: si ricordava perfettamente del poster e del cavallo che vi era raffigurato.

«È solo uno scherzo», insistette Harry, «ma non mi pare molto divertente.»

Lei guardò fuori dalla finestra e vide i muscoli dello stallone raggruppati all’altezza della groppa, vide poi le anche, e fece appena in tempo a gridare prima che lui spiccasse un salto dall’erba e passasse attraverso la finestra.

Si gettò da un lato e con la gamba andò a colpire il bracciolo della poltrona di Norman; fu investita da una pioggia di frammenti di vetro scintillanti che rimbalzarono contro il muro ricadendo sulla sua schiena e sul tappeto, schegge che risuonarono come campanelli nel freddo mortale dell’inverno. Cadendo per terra si era girata e ora vedeva lo stallone che riempiva la stanza, vedeva Falcone che si tirava indietro verso il camino, vedeva l’uomo che afferrava l’attizzatoio e lo brandiva sopra la testa.

Il cavallo si guardò attorno e la vide mentre si spingeva verso l’anticamera. Sbuffò, riempiendo la stanza di nebbia; diede un calcio con gli zoccoli posteriori e la poltrona di Norman finì in un angolo, ricadendo al suolo mentre si contorceva fra le fiamme verdastre; si girò verso Falcone che agitava l’attizzatoio sopra la testa, mancando il bersaglio e perdendo l’equilibrio a un solo passo dal camino.

Una scheggia di vetro, simile a una lama di coltello, si staccò dal soffitto.

Joyce si alzò in piedi, ma si lasciò cadere contro la scala quando vide lo stallone alzare la testa, poi abbassarla, afferrando la giacca di Harry con i suoi lunghi denti scintillanti. L’uomo lanciò un grido e cercò di colpire la bestia, ma il cavallo lo sbatteva da una parte all’altra, come se fosse stato una bambola di pezza. La nebbia si fece più fitta, i lampi verdi si intensificarono e mentre Joyce urlava salendo di corsa le scale, udì il suono inconfondibile delle ossa che si rompono, della spina dorsale che si spezza. Il corpo di Harry fu mollato e gettato contro il muro.

«Don», mormorò, mentre correva lungo il corridoio. «Don, salvami, ti prego, salvami.»

Quando si girò per correre verso la porta, il cavallo era là e la guardava con i suoi occhi verdi, mentre la nebbia saliva dal suo corpo e si infiltrava nel corpo di lei, partendo dalle caviglie e riempiendola di brividi freddi che le fecero male, che le fecero spalancare gli occhi, che rallentarono la sua andatura mentre correva a nascondersi nella sua stanza.

Sulle scale — zoccoli contro il legno, che riecheggiavano, vuoti.


Lo specchio d’acqua era calmo nonostante il vento, anche se ogni tanto una raffica penetrava attraverso i rami e increspava la superficie del laghetto, facendo danzare le foglie morte e facendone cadere altre. Dalla strada provenivano i suoni festosi legati alla vittoria riportata, ma loro non avevano nessun bisogno di festeggiare. Decisero invece di sedersi abbracciati su una panchina di legno umida, rimanendo a fissare l’acqua scura.

«Divorzio», disse Tracey, scuotendo con aria comprensiva la testa. Si era cambiata e indossava una camicia e un paio di jeans, oltre a un pullover leggero sotto la giacca della scuola. «Santo cielo, non so proprio cosa dire.»

Don tirò su con il naso parecchie volte per impedire che le lacrime scendessero, deciso a non farsi vedere piangere da Tracey. «Sai una cosa? Mi odiano.»

«Non essere stupido. Non è vero.»

«Be’, allora forse non gliene importa niente. Non c’è niente che gli interessi al di fuori di se stessi. Cristo, sai che … Non riesco ancora a crederci, ma sai che la settimana scorsa mia madre mi ha chiamato Sam?»

Tracey afferrò una delle mani di Don, abbandonata fra le ginocchia, e la strinse, nel tentativo di riscaldarla un po’.

«E io sono pazzo, Tracey.»

«Stupido.»

«No», disse in tutta onestà, girandosi verso di lei e stringendosi a lei. «No, parlo sul serio. Sono pazzo.» La zittì con un’occhiata e respirò profondamente. Era giunto il momento di farlo, ma era impossibile trovare le parole che stava cercando, allora si alzò in piedi e iniziò a camminare lungo lo specchio d’acqua. Tracey rimase a guardarlo pazientemente, mordendosi le labbra e scrollando le spalle quando il vento si alzò di nuovo.

Lui si fermò dall’altra parte del laghetto e la guardò, alzando poi gli occhi verso gli alberi e verso l’oscurità che sovrastava le foglie. «Non riesco a capire», disse, con un sorriso tremolante. «Voglio dire, anche i tuoi litigano, non è vero? Cioè, so che tipo è tuo padre e immagino che anche loro litighino, giusto? Ma allora perché non divorziano? Perché … cosa c’è che non va fra me e Brian? Perché non mi lascia in pace nemmeno per un attimo?» Il collo si irrigidì e spinse la bocca in fuori; abbassò lo sguardo e vide Tracey che lo osservava, con le mani cacciate in tasca e strette attorno allo stomaco. «Io ho fatto qualcosa, Trace», disse con dolcezza. «Ho fatto qualcosa.»

Lei si alzò in piedi e si incamminò verso di lui, che stese le braccia, quasi a voler tenere l’acqua fra di loro. «Cosa, Don? Ancora quella sciocchezza relativa all’uccisione di Tar?»

Lui annuì.

«Ma è una sciocchezza. Non sei stato tu.»

Lui annuì di nuovo e si portò una mano alla fronte, massaggiandola, poi se la passò fra i capelli. «Tu non capisci.»

«Capisco che sei sconvolto per Tar, e per Mandy, e ora per la storia dei tuoi. Questo sì che lo capisco, Don, ma tu…»

«No.»

Quella parola fu pronunciata con calma, ma ebbe l’effetto di uno schiaffo. Lei fece un passo indietro e girò la testa a causa del vento che li avvolse per un attimo in una pioggia di foglie morte.

In quel preciso momento, Don si mosse verso di lei, sperando che le estremità delle foglie lo riducessero a brandelli per poi seppellirlo e farlo morire soffocato: il giorno in cui le avessero spalate via, di lui non sarebbe rimasto altro che un mucchietto di polvere.

Si incontrarono a metà strada e lei lo abbracciò; Don decise che non le avrebbe detto più niente.

«Don?»

«Tracey, ascoltami, andiamo…»

Lei lo spinse via e lo osservò con attenzione, mentre i capelli neri le sventolavano davanti agli occhi. «Cristo», disse, «credi di essere l’unico ragazzo al mondo ad avere dei problemi? Che cosa cazzo credi di avere che ti rende così unico?»

«Tracey!»

«A te nessuno ha mai dato della puttana, vero? Con te nessuno ha mai cercato di allungare le mani solo perché facevi loro un sorriso.»

«Ehi, Tracey, ti prego, io non…»

«Sai perché i miei non divorziano? Perché mio padre è ancora più cattolico del papa, ecco perché. Perché, anche se forse è il caso, mio padre e mia madre hanno deciso di vivere insieme per il resto della loro vita anche se non si sopportano più, ma Dio proibisce anche solo che si parli di divorzio.» Mise un pugno contro la guancia e la strinse con forza. «Devo portare le gonne lunghe in modo che tu non possa vedere le mie gambe, e devo indossare i maglioni larghi perché mio padre non vuole che tu sappia che anch’io possiedo dei capezzoli.»

«Cristo, Tracey, io…»

«È come vivere in un convento, Don. Io gli voglio bene, non fraintendermi, ma ci sono momenti nei quali vorrei tanto spaccargli la testa. Quindi…» Gli puntò contro un dito, mentre la mano le tremava violentemente. «Quindi non osare venire a dirmi che sei l’unico qui attorno ad avere dei problemi, chiaro? Non provarci neppure, Donald Boyd!»

«Tracey», disse, facendo un passo verso di lei. «Io non volevo dire questo. Volevo dire…»

«Lo so», lo interruppe lei, con un improvviso sorriso, anche se sul suo viso era scesa una lacrima. «Lo so. Ma sembra che tu non voglia capire che non puoi farci niente. Non puoi scappare e sei troppo buono per finire come Brian.» Si avvicinò a lui e gli prese le mani. «Devi imparare ad andare avanti, Don. Come faccio io, insomma. Devi imparare ad andare avanti.»

Lo abbracciò. Poi alzò il viso e lo baciò, e lui assaporò le sue labbra, la sua tenerezza, e per un attimo, durante quel bacio, pensò che forse aveva ragione lei.

Ma finì presto.

Sempre stringendola, scosse la testa.

«Tracey, ti stai sbagliando.»

«Riguardo a che cosa, veterinario?»

«Io ho fatto davvero qualcosa.»


Joyce spostò la panca che si trovava vicino al tavolino e la spinse contro la porta. Poi rovesciò il tavolino con tutto quanto c’era sopra, facendo cadere bottigliette di profumo e lozioni, il portagioielli, una lampada e alcune statuette cinesi; non emise nemmeno un gemito quando una spazzola dall’impugnatura d’avorio le sfuggì di mano e cadde rimbalzando sul suo piede scalzo.

Stava singhiozzando in silenzio, maledicendo i lunghi capelli che continuavano a caderle sugli occhi, maledicendo Norman per non essere lì nel momento del bisogno.

Nell’ingresso — rumore di zoccoli, lento e costante.

Lì vicino c’era una poltrona. Non poteva raggiungere il cassettone, non poteva arrivare fino al letto, così si lasciò cadere per terra, coprendosi la testa con le mani per non ascoltare quella cosa che si muoveva verso la camera, per non vedere la cortina di nebbia che scivolava sotto la porta e si diffondeva sopra al tappeto.

Poi udì qualcos’altro e la testa si drizzò, le mani caddero sul grembo e gli occhi si spalancarono, mentre la bocca si apriva in un urlo strangolato e silenzioso.

Uno strano rumore, gentile, sordo e profondo — la cosa nell’ingresso le stava dicendo che stava per arrivare.

Erano ancora vicino al laghetto e Tracey si stava davvero arrabbiando.

«Adesso devi ascoltarmi», insistette Don. «Solo per un minuto, va bene?»

«Don, io sto cercando di aiutarti. Non sono un’esperta, santo cielo, ma tu…»

«Una volta ti ho chiesto se anche tu avevi un grande desiderio, ti ricordi?»

I suoi occhi si mossero da una parte e poi dall’altra prima di ritornare a fissare il suo volto. «Sì.»

«Ti dirò una cosa…» Un attimo di esitazione mentre lui cercava le parole giuste per dire qualcosa che avesse un senso, per evitare che negli occhi della ragazza ritornasse quel lampo di paura. «Io credo che un desiderio non sia una cosa facile da spiegare. È esattamente quello che tu vuoi che sia. Uno può desiderare di essere sommerso da una pioggia di un milione di dollari, un altro forse di riuscire a prendere sempre voti altissimi senza mai fare un compito. O magari c’è gente che ha desideri più importanti, qualcosa che desidera davvero ardentemente — come tu e il tuo flauto, ad esempio. Tu vuoi fare dei dischi e dei concerti e scrivere la musica più bella del mondo, non è vero?»

Lei annuì un po’ confusa.

«E io voglio diventare un veterinario. Accidenti, cosa c’è che non va in un veterinario? Ma io lo desidero ardentemente, me lo sogno perfino, non riesco a pensare ad altro, ma santo cielo, gli … gli unici amici che sembrano capirmi sono quelli appesi al muro.»

Smise di parlare e cercò di distogliere lo sguardo, ma lei non lo lasciò andare, si limitò ad abbracciarlo ancora più forte per costringerlo ad andare avanti.

«Io parlo con loro», continuò in un bisbiglio imbarazzato. «Io racconto loro molte cose. Tutto. Le mie storie, capisci? E anche di Sam, dei miei, e di quei dannati Brian e Tar, e anche un po’ … be’, direi tanto su di te.»

Le lanciò un’occhiata dura, giusto per vedere se stava ridendo. Ma non stava ridendo; stava piangendo.

«Avevo bisogno di un amico, Trace. Sembrava che il mondo mi stesse crollando addosso e avevo bisogno di un amico, così ne ho scelto uno. Un poster. Un cavallo. Io…» Guardò al di sopra della sua testa, verso l’oscurità. «Ho fatto in modo che venisse da me.»

Allora capì: lo capì dai suoi occhi, dal modo in cui le tremavano le labbra, nonostante il suo tentativo di tenerle ferme con un dito. Poi i suoi occhi si rischiararono e lui capì qualcos’altro — lei gli credeva.

Credeva davvero che lui avesse ucciso Tar.

Non disse nulla quando lui l’allontanò da sé; quando stese la mano per fermarla, però, ebbe un gesto di reazione; quando le sorrise per dimostrarle che andava tutto bene e che non doveva avere paura, lei gli sorrise con il viso pallido e rigido.

«Va tutto bene», disse lui.

Il vento si era fatto più insistente e attorno a loro, sopra di loro, scuoteva i rami e faceva volare le foglie, provocando strani giochi d’ombra sulla superficie del laghetto. Dalla zona ovest della città si avvicinavano i lampi.

Lui guardò oltre l’acqua, lungo il sentiero e poi nella stradina scura che conduceva al campo di football. Non era molto sicuro di volerlo fare, ma ormai era troppo tardi per fermarsi. Tracey aveva diritto di sapere, altrimenti sarebbe scappata via come tutti gli altri, sarebbe tornata da Jeff lasciandolo solo.

«Vieni qui», disse con dolcezza, come se stesse parlando con un amico troppo timido per abbandonare la notte e dirigersi verso la luce che iniziava a illuminare l’aria gelida.

Tracey lanciò un’occhiata verso l’uscita, con il corpo pronto a correre nel caso si fosse avvicinato di un solo passo.

«Coraggio», disse ancora con dolcezza. «Sono io, ti ricordi?»

Sfere bianche danzavano nell’acqua, e ci fu un momento nel quale anche il laghetto diventò circolare, allungando i contorni del ragazzo, confondendo i due corpi sulla riva, scomparendo in un’esplosione di azzurro pallido quando la luce si insinuò sopra la cima degli alberi.

Lui aspettò.

Tracey allungò una mano.

«Forza, coraggio!» bisbigliò lui, come parlando a un cucciolo.

Tracey ricacciò indietro una lacrima.

Cominciò in un lampo e lui non fu tanto sicuro di averlo udito davvero, poi avvertì la presenza di Tracey di fianco a lui; gli aveva afferrato saldamente un braccio e lo fissava negli occhi con tono di sorpresa.

Dal lato esterno del sentiero proveniva un rumore di zoccoli lento e continuo; forse erano i tuoni, ma continuò anche dopo, calmo e vuoto, ferro contro ferro.

Quando lo vide passare attraverso la zona illuminata più lontana, Tracey appoggiò la bocca al braccio di Don. Più scuro delle tenebre. La testa lucente, dondolava, le zampe si alzavano come se volesse impennarsi, mentre dai fianchi saliva un misto di nebbia e di lampi verdi.

«Don», fu tutto quello che riuscì a dire.

Ma lui era troppo intento a guardare lo stallone. Lo vide muoversi in mezzo alle nuvole di fumo da lui stesso prodotte, vide i suoi zoccoli che diffondevano lampi verdi, vide i suoi occhi verdi che lo fissavano e finalmente capì.

Gli zoccoli risuonavano.

La nebbia si faceva più fitta.

Quando raggiunse il lato opposto del laghetto, si fermò, sbuffò e scalciò, lanciando scintille verso la luce.

«Non è un trucco, vero?» disse Tracey, muovendosi fino a trovarsi praticamente dietro di lui.

Il tuono si fece più forte, più vicino, e scompigliò le foglie.

Don scosse la testa.

Era lì, e stava aspettando e non gli avrebbe tolto gli occhi di dosso, non avrebbe mosso un solo muscolo; la criniera era immobile nonostante il vento che sollevava i capelli e li trasformava in aghi al contatto con gli occhi.

«Oh, mio Dio … Tar», mormorò Tracey, con un grido disperato nella voce. «Oh, mio Dio, Don, tu parlavi sul serio.»

«E non sono nemmeno pazzo.»

La nebbia.

Lampi verdi.

«Lo volevo morto», le disse Don senza togliere gli occhi dal cavallo. «Volevo che Tar morisse.»

Tracey chiuse gli occhi. «Don, digli di andarsene.»

«Lui mi aiuta», disse. «Lui mi ascolta e mi aiuta.»

«Don?»

Lui sorrise. «Dannazione, Tracey, hai idea di che cosa significhi?»

Il cavallo fece un passo indietro, immergendosi nella nebbia che usciva dalle sue narici mentre respirava e si muoveva; presto non fu altro che una sagoma indistinta dagli occhi verdi a fessura.

Poi svanì mentre un’esplosione di sirene scoppiava dietro di loro. Si girarono di scatto e videro la nebbia che risaliva lungo gli alberi, videro la superficie del laghetto increspata da piccole onde che si infrangevano contro i bordi in cemento, si girarono una seconda volta e udirono rumore di passi che correvano verso di loro.

Era Luis Quintero, con la pistola in mano, seguito da altri tre uomini. Quando vide i due ragazzi vicino all’acqua rallentò il passo e rimise la pistola nella fondina, ma non si fermò fino a quando non li raggiunse e non afferrò il braccio di Tracey.

«Stai bene?» chiese. Poi guardò severamente Don. «E tu. Stai bene?»

«Papà!»

«Sapevo che saresti venuto qui. Quando…» Indicò Don e fece un cenno a uno degli uomini. «Riporta immediatamente a casa mia figlia.»

«Papà, cosa sta succedendo?»

«Don, per favore, vieni con me.» La voce era dura e preoccupata e Don guardò sopra la sua spalla, verso il sentiero buio e deserto. «Ti prego, Don, dobbiamo fare in fretta.»

«Cosa c’è?» chiese.

Altre sirene, e il tuono, e le prime gocce di pioggia.

«Non posso dirti altro fino a quando non saremo a casa.»

Fece un salto indietro, in preda al panico. «Casa? La mamma? C’entra mia madre? Mio padre?»

«Fino a quando non saremo a casa», ripeté Quintero. «Abbi pazienza. Ti aiuterò.»

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