Sabato pomeriggio Don andò con sua madre a fare acquisti. Durante la spedizione lei citò dubbiose e a volte stranissime statistiche che mettevano a confronto l’introito annuale e le conseguenti imposte dei veterinari e dei chirurgi, e concluse ironicamente che l’eccitazione e la soddisfazione professionale che si provano infilando le mani nei retti e nelle gole degli animali era almeno pari a quella che si prova lavorando in una fabbrica di vestiti, come faceva suo nonno. Don scoppiò a ridere e fu sul punto di confidarle i suoi progetti.
Una volta tornati a casa, il padre in camera sua, intento a fissare i posters dei suoi beniamini.
«Non sei un po’ troppo grande per questi?» domandò Norm e se ne andò senza aspettare una risposta.
Lunedì Don, nell’ingresso della scuola, si aggrappò al braccio di Jeff e per poco non gli fece cadere tutti i libri per terra.
«Jeff, hai un minuto?»
«Ehi, il Povero Detenuto. Che cosa succede? Sta per suonare la campana. Hai un occhio spaventoso.»
«Grazie mille, amico. Così mi sento meglio, davvero. Senti, volevo chiederti una cosa su Tracey Quintero.»
«Che cosa vuoi sapere? La conosci quanto la conosco io.»
«Voglio sapere se sta con Brian.»
«Brian? Brian Pratt, il coglione? Quel Brian?»
«Smettila di scherzare, Jeff, devo sapere.»
«Cristo, ma in che mondo vivi? Ma certo che no. Ehi, hai sentito di quel ragazzo che è stato ammazzato nel parco la settimana scorsa? È stato lo Squartatore, dicono. Ha ridotto quel poveraccio come se fosse cibo per cani, sai. Quello dev’essere un vero maniaco, ti pare? Ha ammazzato cinque ragazzi a New York. Ragazzi come noi, intendo dire, non dei bambini.»
«Jeff, non mi interessano i paranoici, io sto parlando di Tracey.»
«E io ti ho detto che non sta con Brian, okay?»
«Ma l’altra sera al parco, dopo il concerto…»
«Ti riferisci a quella battuta sul suo sguardo?»
«Be’…»
«Boyd, sei davvero così ingenuo?»
«Non riesco a capire.»
«Brian pretende di vedere il desiderio nello sguardo di qualsiasi cosa che assomigli vagamente a una femmina. E se gli dai retta, sembra che sia andato a letto con tutte.»
«Ma lei no.»
«Con lui? Accidenti, no.»
«Cristo. Oh, … Cristo.»
«Mi vuoi spiegare di che cosa si tratta o dovrò leggerlo sul giornale della scuola?»
«Non posso, Jeff. È suonata la campana. Siamo in ritardo.»
Quel pomeriggio, il detective sergente Thomas Verona fece il suo ingresso nell’ufficio di Norm, accompagnato dal sergente di guardia, Luis Quintero. Dopo aver scambiato qualche battuta, Quintero li lasciò soli per andare a fare qualche domanda alle segretarie nell’ufficio accanto e Verona incominciò a chiedere al preside se non avesse mai sentito delle chiacchiere o delle voci a proposito di uno straniero che si aggirava nei pressi della scuola. Norm era sicuro di non aver sentito niente del genere, ma se la polizia desiderava interrogare anche gli studenti o gli insegnanti durante l’orario di lezione, avrebbe dovuto parlarne prima con il consiglio di istituto. Per lui non sarebbe stato un problema, anche se non capiva il motivo di tutto quell’interesse, dal momento che l’uomo doveva essersene già andato. Di solito fanno così, aveva detto al poliziotto che lo fissava sbigottito; lo Squartatore colpisce una volta e poi cambia città. Verona, il cui padre aveva lavorato ai mulini e che conosceva Norm fin da piccolo, gli confidò ufficiosamente che, nel caso l’assassino avesse avvicinato qualche studente e fosse così venuto a sapere delle celebrazioni per la Festa di Ashford, c’era una vaga possibilità che si fosse trattenuto in città, perché a partire da metà settimana ci sarebbe stato un sacco di movimento per le strade e lui sembrava sentirsi al sicuro tra la folla. Quando Norm gli chiese come mai ancora non l’avessero catturato, Verona, sempre ufficiosamente, rispose che non avevano nessuna descrizione, nessuna impronta digitale, nessun pezzetto di vestito, nessuna goccia di sangue che consentissero di ricostruire un profilo fisico anche solo approssimativo. Non potevano dargli un volto, anche se ormai ne conoscevano la forza. Norman non chiese ulteriori dettagli, ma si ripromise di tenere le orecchie aperte e di consigliare agli insegnanti di evitare di trattenere i ragazzi oltre l’orario scolastico. Verona apprezzò la cooperazione e gli suggerì di smetterla di fare tanto il distaccato dopo tutti quegli anni di conoscenza reciproca. Propose di andare a bere una birra insieme, una volta o l’altra. La moglie di Verona faceva parte del comitato di Joyce e il detective gli confidò di essersi stancato di fare il vedovo di casa, tutto per colpa dei preparativi per la Festa di Ashford. Norman scoppiò a ridere senza però provare alcun divertimento.
Dopo l’ora di educazione fisica, Don riuscì ad avvicinare Fleet, durante la doccia, vincendo l’imbarazzo di trovarsi di fronte a un ragazzo nudo per la prima volta in vita sua. Gli ci volle qualche secondo per smettere di fissare quella coltre di lentiggini che ricopriva il viso di Fleet.
«Ehi, Fleet, Trace … sai se è la ragazza di Brian?»
«Trace? Passami il sapone, amico, puzzo come un maiale: Tracey Quintero, la figlia del poliziotto?»
«Già.»
«No. Da ciò che ho sentito dire, non sta con nessuno.»
«Non scherzare.»
«Amico, curati quell’occhio! Mettici sopra una bistecca o qualcosa del genere, altrimenti diventerai cieco, sicuro come l’oro. Cristo, Brian sa essere … lascia perdere. Ehi, ti interessa Trace?»
«Non lo so. Ehi, Fleet, andiamo, quello è il mio sapone. Non darlo a tutti quanti.»
«Sai, faresti meglio a prendere in considerazione Chrissy Snowden, amico. Non osare dire ad Amanda che te l’ho detto io, mi taglierebbe le palle, ma è un gran bel pezzo di ragazza, non so se sei d’accordo.»
«Forse.»
«Forse? Cristo, Don, vuoi dire che non ti è mai capitato di pensare a quella gattona?»
«Io…»
«Donny, sei davvero senza speranza. Sei una persona in gamba, ma sei davvero senza speranza.»
«Lo credo anch’io.»
«È un bene che non ti sia scontrato con quel tipo che ha fatto fuori quel ragazzo. Con tutta probabilità, l’avresti invitato a cena. Sei un buon diavolo, Don, ma hai bisogno di un po’ di grinta, capisci ciò che intendo? Ci vuole una buona dose di resistenza intestinale quando si tratta di affrontare il mondo reale.»
«Me la cavo anche da solo, e ridammi il sapone, maledizione.»
«Credo che sia meglio per te se racconti a tutti di esserti fatto quell’occhio nero in una rissa. Ci guadagneresti un po’ di rispetto e avresti tutte le donne che vuoi, non so se capisci.»
«È un po’ troppo tardi, ormai.»
«Non è mai troppo tardi per dire qualche bugia, non so se capisci.»
«Sì, capisco.»
«E poi, da ciò che ho sentito dire, sotto quei bei maglioncini di Tracey, c’è il sogno di un falegname — è piatta come una tavola.»
Don non era sicuro se si trattava di un incubo o di un sogno. Camminò per il resto della settimana con un leggero sorriso stampato sul viso e aveva una buona parola per tutti, incluso Brian Pratt; non era arrossito nemmeno quando Chris gli era andata vicina nell’ingresso della scuola per sfiorargli la guancia con un dito, sussultando alla vista del bozzo rosso che aveva sull’occhio e augurandosi, con tono caldo e suadente, che non gli facesse troppo male; anche se si era messo a balbettare qualche cosa alla ricerca di una risposta, lei non si era messa a ridere, si era limitata a sorridere e se n’era andata, salutandolo con l’occhiolino. D’altro canto, non aveva sentito una sola parola degli insegnanti ed era stato ripreso due volte per essere stato sorpreso a sognare a occhi aperti durante le lezioni. L’annuncio di Falcone secondo cui la correzione dei compiti in classe sarebbe stata ultimata per la settimana seguente non riuscì a metterlo in agitazione; non notò lo sguardo di Hedley fino a un’ora più tardi; quando gli insegnanti lo scuotevano dal suo sguardo fisso, non si rendeva conto di quello che stavano spiegando; gli dicevano tutti che era un maleducato e che avrebbero fatto rapporto in direzione e, quando Tar Boston gli pasticciò l’armadietto con la penna, giovedì, si limitò a scrollare le spalle e ad andarsene senza prendere i libri.
Non stava bene. Si stava comportando come un pazzo, lo sapeva, ma non poteva farci niente. Stava cominciando a rimpiangere quell’invito affrettato, eppure tra una lezione e l’altra coglieva l’occasione per gironzolare tra le classi nel tentativo di captare lo sguardo di Tracey, per ammiccarle in modo casuale, per offrirle un semplice sorriso e per ricordarle con una sola occhiata l’appuntamento che si erano dati.
Non l’aveva mai vista.
Fino a venerdì a mezzogiorno non era riuscito ad avvicinarla quel tanto per farle un cenno e stava cominciando a convincersi che lo stesse evitando, imbarazzata per non essere riuscita a inventarsi una scusa abbastanza valida per annullare l’appuntamento. Sapeva, senza ombra di dubbio, che avrebbe trovato un messaggio che lo aspettava a casa — le era venuto il mal di testa, doveva andare dal parrucchiere, doveva tornare da sua nonna a Long Island e doveva partire subito dopo la scuola. Al termine dell’ultima lezione era sicuro che Brian l’avrebbe convinta ad accettare la sua compagnia, facendo qualche classica battutina su Paperino e, siccome lui era quello che era, non faceva nessuna differenza che i suoi sentimenti venissero urtati.
Mentre ammucchiava i libri nell’armadietto, gli venne quasi voglia di piangere; nel dirigersi verso l’uscita laterale per poi correre sul vialetto, fu quasi sul punto di urlare il nome di Tracey. Ma si trattenne. Anche quella era una regola — nessuno diceva niente se era sua madre a urlare, a piangere, ma lui non poteva farlo. E nemmeno suo padre. Controllati e risolvila da te, gli aveva detto suo padre; controllati e risolvila da te. È così che si comporta un uomo.
Controllati.
Risolvila da te.
E fu solo a metà scala che gli venne in mente che quello doveva essere il suo ultimo giorno di punizione.
Al diavolo; non sarebbe rimasto. Per nessun motivo al mondo avrebbe accettato di restare seduto in una stanza ammuffita, a fissare il soffitto mentre la vita gli sfuggiva dalle mani. Afferrò la ringhiera e proseguì per le scale, più lentamente, ascoltando il rumore che i tacchi facevano sui profili di ferro dei gradini. No; doveva correre. Doveva pensare. E per pensare, doveva correre.
«Don?»
Suo padre era sul pianerottolo in basso, accanto a Gabby D’Amato, il capobidello. Diede un’occhiata all’orologio e poi alzò lo sguardo facendo un’espressione fintamente ironica.
«Non ti stai dimenticando qualcosa?»
Si sentì il viso in fiamme e avrebbe voluto dire a suo padre di piantarla, di prendere la punizione e di impiccarsi, perché lui non se la meritava di certo e non aveva fatto niente. Ma chi era suo padre per permettersi di giocherellare con la sua vita?
E voleva gridare, perché cazzo il vecchio non gli si levava di dosso e andava a mettere sotto pressione qualcun altro, tanto per cambiare?
Avrebbe voluto dirlo.
Stava per riuscirci.
Ma poi gli venne da pensare a che cosa sarebbe successo a casa, a quello che avrebbe detto sua madre, a come lo avrebbe trattato suo padre.
Controllati, risolvila da te.
Merda, pensò; oh, merda.
E poi fece un sorriso da agnellino e tornò verso l’armadietto per prendere qualcosa da leggere. Da sotto arrivava il chiacchierio dei due uomini, che ridevano serenamente, si sentì anche la pacca che Norman batté sulla spalla ossuta del vecchio bidello. Se ci fosse stato il cavallo nero, pensò mentre tornava nell’ingresso, li avrebbe sbattuti al muro senza pensarci un secondo.
A cena, sembrò quasi di essere tornati ai vecchi tempi. Suo padre era in vena e sua madre squittiva eccitata, parlando dell’incontro del comitato che aveva avuto luogo quella sera stessa a scuola, per cui non ebbe la possibilità di raccontare loro quello che gli era successo dopo la punizione.
Prima Tar e Brian.
Li aveva incontrati nel corridoio, lo avevano immobilizzato in un angolo e lo avevano preso a manate sulle spalle, intervallate da qualche pugno leggero sul braccio.
«Ehi, stronzo», aveva detto Tar, di umore nero almeno quanto i suoi capelli, «stai cercando di cacciarci nei guai?»
«Che cosa?»
Brian, convinto com’era che il suo viso dai lineamenti duri e decisi e che i suoi capelli biondo stoppa lo facessero assomigliare a un marine, l’aveva preso per la cintura e l’aveva tirato violentemente verso di sé. «Tuo padre ha fatto quattro chiacchiere con noi, amico. Ci ha detto di non fare più cosacce nell’aula di Hedley.»
Oh, Cristo, aveva pensato Don. Oh, Cristo.
«Be’, non ci ha fatto niente», aveva proseguito Tar, sorridendo e mostrando a Don una fila di denti macchiati di nicotina, «ma ha detto che ci terrà d’occhio, vero, Brian?»
«Esattamente.»
«State a sentire, ragazzi», aveva risposto Don, trattenendo il respiro quando si era sentito afferrare alla cintura da un dito penetrante.
«No», aveva risposto Brian. «Sta’ a sentire tu, Paperino. Sta’ attento a quello che fai perché il piccolo Tar e io non dimentichiamo tanto facilmente. E sta’ sicuro che non perdoniamo.»
Dopo un piccolo sorriso, se n’erano andati e, nell’avvicinarsi alla porta, Brian si era voltato e aveva detto: «Fa’ attenzione, Paperino. Colpirò quando meno te l’aspetti.»
Subito dopo era arrivato Falcone, tutto tremante. «Hai avuto problemi con i ragazzi, Donald?»
«No, signore.»
«Oh, bene.» E gli aveva teso il compito in classe dicendo con un sorriso: «Ecco, Boyd, è tutto tuo». Aveva dato un’occhiata al voto e si era sentito male, trattenendosi a fatica.
Poi aveva cominciato a vedere rosso.
Il rosso tanto familiare che era solito vedere quando era sul punto di perdere le staffe (controllati), quella nuvola rossa che cominciava ad avvolgerlo tutto da capo a piedi e che se n’era andata solo perché era riuscito a ricordarsi della regola (risolvila da te). Ma era stato difficile. Hedley e la signora Klass non avevano fatto altro che ricordargli per tutta la settimana le sue responsabilità, durante le ore di punizione, gli avevano rinfacciato tutti i sogni a occhi aperti che faceva e il calo della media dei voti. E poi anche questa.
Era durato solo un istante e, una volta sparito il rosso, si era appoggiato tremante al muro, dopo che Falcone se n’era andato.
Ma la cena fu carina e preferì non menzionare il compito in classe per timore di essere rimproverato per il resto della vita. E non parlò né di Brian né di Tar. Norman avrebbe detto che si era limitato soltanto a dare loro un avvertimento più che amichevole, non avrebbe mai creduto che prima o poi suo figlio avrebbe pagato a causa della boccaccia paterna.
Dopo il dessert, si fece una doccia, si lavò i capelli e quasi urlò per la difficoltà che incontrò nel trovare un paio di jeans puliti. Emise un sospiro in direzione del cavallo, pensando all’appuntamento che aveva e augurandosi di non sembrare troppo ridicolo, e toccò il naso dell’animale in segno di portafortuna. Una camicia, un pullover a V, le scarpe della domenica, poi si precipitò nell’ingresso alla ricerca del portafoglio, proprio nel momento in cui suo padre usciva dalla cucina addentando una mela.
«Esci con gli amici, eh?» chiese Norman.
«No», rispose allegramente sua madre dalla cucina. «Credo abbia un appuntamento.»
«Davvero? Non stai scherzando?»
«No», confermò sua madre. «Davvero.»
Don ebbe l’impressione di essere invisibile e si spostò per catturare l’attenzione di suo padre. «Già», disse, sperando in un’approvazione. «Andremo al cinema. Forse poi passiamo da Beacher. Non so. Lei deve essere a casa per mezzanotte.»
«Ah, Cenerentola», commentò sua madre, ridendo, e lui si chiese come mai le si fosse fatto tanto acuto il tono della voce.
«Chi è?» domandò Norman, mentre allungava un miracoloso biglietto da dieci dollari proprio nel momento in cui Don si stava girando dall’attaccapanni con in mano la giacca a vento. «Un anticipo sulla paga settimanale», gli disse, notando il suo istante di esitazione. «Diamine, perché no? È qualcuno che conosco?»
«Forse», rispose Don, indossando il giaccone e aprendo la porta. «Tracey Quintero.»
«Quintero?» Norman aggrottò le sopracciglia per un istante. «Oh! Sì, sì. La piccola italiana. È nella tua classe. È splendida.»
«Spagnola, papà. È spagnola. Suo padre è di Madrid. È un poliziotto.»
«Oh, bene.»
«Ricordagli di questa sera, Norm», gli gridò Joyce, tra lo scroscio d’acqua del rubinetto.
Don aspettò, sorridendo alla vista del padre che alzava gli occhi al soffitto. «Ti ricordi della riunione, vero?»
«Certo», sorrise. «Lo so, dovrò essere di ritorno prima di voi, la chiave è nel garage, nel caso perdessi la mia, e sarà meglio che torni prima di voi, altrimenti passerò qualche … guaio.»
Norman sorrise e gli diede una pacca sul braccio. «Cerca di fare attenzione, okay? Non fare diventare tua madre isterica solo per un ritardo.»
Joyce urlò qualcos’altro, ma venne sommerso dal rigurgito dello scarico del lavandino; Don fece un cenno con il capo a suo padre e se ne andò il più velocemente possibile. Conosceva quello sguardo — era tipico di quando Norman pensava fosse arrivato il momento di parlare da uomo a uomo, il che, generalmente, succedeva quando l’uno o l’altro aveva solo cinque minuti a disposizione. E generalmente veniva interrotto prima di proferire la frase iniziale.
Dio, c’era andato vicino, pensò; si scrollò le spalle in modo melodrammatico e fece un gesto di saluto a sua madre, che si trovava in mezzo al tinello, intenta ad asciugarsi le mani con Norman al suo fianco. Facevano sempre così, come se stesse partendo per la guerra e, a meno che non fosse rincasato prima di loro, li avrebbe ritrovati nella stessa posizione, leggermente brilli per tutto il bourbon che avevano l’abitudine di bere guardando la televisione.
In attesa del loro piccolo.
Ma quella sera, la fortuna lo aveva assistito; dovevano andare a una riunione — con gli insegnanti, i funzionari pubblici e il comitato per la Festa di Ashford — e non avrebbe dovuto sorbirsi quella scenetta.
Sbrigati, si disse. Non era il momento di pensare a loro quando doveva preoccuparsi di se stesso — per quello che doveva dire, per come dirlo, per come fare impressione su Tracey senza incespicare con la lingua. Non aveva mai dato appuntamenti tanto seri; si trattava sempre di riunioni con amici al Beacher’s Diner, vicino al teatro. Forse, una volta, era stato un locale raffinato, ma ormai era solo un ristorante con il solito bancone all’entrata. Durante i giorni feriali chiudeva alle nove, nei fine settimana sfamava la folla che usciva dal cinema.
Il problema era che, quando si trovava da solo con una ragazza, non riusciva a mettere insieme più di una dozzina di parole in modo coerente, dal momento in cui andava a prenderla fino a quando doveva riaccompagnarla a casa.
Controllò l’orologio alla luce di un lampione e iniziò a camminare di buon passo. Tracey abitava sette quartieri più a sud e due più a est e lui non voleva arrivare in ritardo. Sperava solo che quella sera suo padre fosse di turno; quell’uomo lo spaventava a morte. Era basso, tarchiato come un barile di cemento e, se mai gli era capitato di scambiare qualche parola di cortesia con qualcuno al di sotto dei quarant’anni, Don ancora non l’aveva sentito.
Ti prego, Dio, supplicò mentre svoltava nella via, ti prego, fa’ che il sergente Quintero non sia in casa.
E mentre si avviava alla porta, controllò di avere le unghie pulite.
«Giuro su Dio», disse Brian, con la voce che superava il brusio degli altri seduti con lui al bancone. «Davvero, erano proprio qui fuori.» Allargò le braccia, spingendo indietro le mani e flettendo le dita. «Sono venuti a rompere proprio qui, santo cielo.»
Ci fu qualche risatina, qualche grugnito e Joe Beacher, con il grembiulone tutto macchiato e il cappello da chef ammosciato, lo fissò minaccioso finché Pratt si decise a chiedere scusa per il linguaggio.
La parte davanti del ristorante era occupata da un lungo bancone con diciotto sgabelli e cinque jukebox e, vicino alla vetrata, erano collocati nove tavolini; c’era una sola cameriera, coadiuvata dallo stesso Joe Beacher che preferiva starsene in quella parte del locale con il suo grembiulone piuttosto che nella più elegante sala sul retro, in giacca e cravatta. L’arredo era in formica e alluminio; sulla parete accanto all’ingresso c’era un orologio rotondo e, sopra, una serie di cartelloni che annunciavano gli avvenimenti cittadini, le vendite di beneficenza e il programma del Piccolo Teatro di Ashford. Di fronte al registratore di cassa c’era un piccolo passaggio che portava direttamente alla sala da pranzo sul retro, dove le pareti erano ricoperte di legno e di acquarelli, raffiguranti le quattro stagioni. Qui, i tavoli erano più spaziosi e le cartelle del menu erano in cuoio rosso; qui, i camerieri erano tre, coadiuvati dal cognato di Joe, vestito di nero, che elargiva gentilezze a tutti e un pizzico di classe. In quel momento la sala era piena di famigliole e signorotti che si affrettavano a finire il pranzo per essere puntuali allo spettacolo delle nove e un quarto; e, nonostante le apparenze da Dottor Jekyll e Mister Hyde, il cibo era il migliore della città.
Don rimase fermo sulla porta, esitante, con Tracey alle spalle, finché lei gli diede una spinta. Sorrise leggermente e si decise a entrare; la fece passare per prima e la seguì fino a un tavolino rosso vicino alla vetrata. Mentre le stava spostando la sedia, dal bancone si levarono dei fischi; dopo essersi seduto, udì la pernacchia di Pratt.
Don sussultò, ci fu una risata che divenne sempre più forte con l’aumentare del rossore sulle sue guance.
«Maledizione», mormorò tra i denti, mentre Tracey gli sorrideva, consigliandogli amabilmente di ignorarli e tendendogli il menu ricoperto di plastica che si trovava dietro il contenitore dei tovagliolini di carta. Respirò profondamente e annuì, poi si mise a studiare la lista della vivande, anche se, in effetti, la conosceva già a memoria.
«Ehi, Don», disse Tar Boston, girando sullo sgabello, «bel colpo, vero?»
Anche se credeva fosse andato tutto bene, non era veramente sicuro che non fosse successo niente di male, che non fosse stato sparso del sangue, che non ci fossero state delle sparatorie. Non poteva esserne sicuro perché era stato impegnato a sbirciare di sottecchi Tracey, indeciso se prenderle la mano, se circondarla con un braccio, o se darle addirittura un bacio. La conosceva da anni, ma non erano mai usciti da soli; l’aveva considerata un’amica fin dai tempi delle medie, ma quando si era sfilata la giacca e aveva visto quello che aveva sotto i vestiti, un figurino niente male, non aveva più saputo che cosa fare. Non era più Tracey, l’amica; quella era Tracey, una donna, e improvvisamente non aveva più saputo quali regole seguire.
La consapevolezza di quel cambiamento lo aveva distratto per tutta la durata del film; non aveva visto niente e sentito poco, ma sarebbe stato in grado di dire con esattezza a chiunque glielo avesse chiesto quante rughe aveva l’angolo dell’occhio destro di Tracey, per quanti centimetri si allungava il colletto bianco della camicia in direzione dell’orecchio, in che modo si intersecava il groviglio di riccioli che le ricadevano sulla nuca.
Canticchiando ironicamente la canzone della scuola, Brian scese dallo sgabello e si stirò, annunciando a tutti che era ora per i veri uomini di andare nel bar vicino per assistere allo Sporco Harry che affrontava, suo malgrado, Pratt. Ci furono dei grugniti e soltanto Tar lo seguì verso la porta, lasciandosi le ragazze alle spalle. Fleet e la sua ragazza, Amanda, si fermarono al loro tavolo chiedendo com’era stato il film.
«Noioso», rispose Tracey. Poi, in direzione di Amanda: «A meno che non ti piaccia Eastwood».
Amanda si aggrappò al braccio di Fleet e finse uno svenimento; venne però subito punita con uno scapaccione sul sedere da colui che invece doveva essere il centro dei suoi interessi.
Don scoppiò a ridere e si rilassò, domandandosi ad alta voce che cosa avrebbe mai detto l’allenatore nel vedere tre dei suoi migliori giocatori in giro a quell’ora di notte, proprio il giorno prima della partita.
«Quell’uomo», disse Fleet, «non si rende conto che un atleta carino e aggraziato come me ha bisogno di un po’ di relax e di stimoli prima di intraprendere l’attacco in trincea.» Sorrise. «Però parlo bene, eh? Mandy mi fa fare sempre le parole incrociate a letto.»
Amanda lo colpì forte sulla schiena e lui rispose con uno sguardo cattivo, poi si unì alla risata generale e si diresse alla porta. Prima che si richiudesse del tutto girò il capo e sventolò un pugno nella loro direzione.
Don gli rispose con un sorriso, dispiacendosi che Robinson se ne stesse già andando. Era stato un disastro e, per la prima volta in tanti anni, avrebbe desiderato essere circondato da altri ragazzi. Persino le loro battutine sarebbero state meglio che starsene seduto come uno stupido a giocare con la saliera, a risistemare le posate e il sottopiatto di carta e a mettere infine le mani incrociate sul tavolo come se dovesse scontare una punizione.
«Ti senti bene?» gli domandò Tracey. «Sei stato completamente zitto da quando siamo partiti di casa.»
Don chinò il capo e rispose: «Bene. Sto bene, non c’è nessun problema».
«È stato un film orrendo.»
«Già.»
«Mio padre ti ha spaventato, vero?»
Alzò lo sguardo, evitando di spostare la testa, e rimase piacevolmente sorpreso nel vederla tanto tranquilla. Comunque, non poteva negarlo: Luis Quintero lo aveva spaventato a morte, presentandosi in uniforme in mezzo al salotto per recitargli la filastrocca minacciosa: «Questa è la mia bambina e cerca di non dimenticarlo; non fare lo stupido con lei, non corromperla, non osare ripresentarti in questa casa se solo le sfiori un capello». Poi gli aveva stretto solennemente la mano ed era uscito dalla stanza, lasciandolo solo a domandarsi che cosa diavolo fosse mai potuto succedere a quell’uomo per renderlo così antipatico.
Tracey gli spiegò che si trattava dello Squartatore. Le ci era voluta un’ora per convincerlo che Don non era un assassino e che lei non avrebbe dovuto farsi monaca solo perché stava per uscire con un ragazzo.
«Fa … sempre così?» le domandò infine.
Lei sospirò e rispose: «Se è in casa quando devo uscire, sì. La mamma alza le mani come se dovesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. Se fosse per loro, dovrei portarmi dietro mia zia Theresa come dama di compagnia, santo cielo».
Non seppe se dire che gli dispiaceva o meno, ma lei si accorse della sua comprensione e coprì la mano di lui con le sue, la strinse e poi si ritrasse lentamente.
«Bene», riprese in modo esplosivo, «di che cosa parliamo?»
Don non lo sapeva, ma di qualcosa dovettero parlare, perché il cibo arrivò e fu mangiato e lui si ritrovò a un tratto davanti alla casa di Tracey, tenendo la ragazza per mano e augurandosi di non sentirsi dire che doveva andare a trovare sua nonna anche il giorno dopo. Avevano passeggiato, da un capo all’altro della città, rìdendo davanti alle vetrine, inventandosi delle parole con le iniziali delle targhe che incontravano, scambiandosi le opinioni sugli insegnanti che avevano in comune. Lui non aveva parlato del risultato del compito di biologia. Lei aveva menzionato lo Squartatore soltanto una volta, passando davanti a un bar dove una coppia di uomini sporchi si tenevano in piedi appoggiandosi al muro e avevano fra le gambe due borse scure. Uno sonnecchiava, l’altro li osservava con intenzione, sogghignando al loro passaggio. Avevano incontrato un terzo derelitto all’angolo successivo, ma lui li aveva ignorati, troppo impegnato com’era a grattarsi la faccia pallida con le mani ruvide.
Tracey aveva supposto che chiunque di quei tre avrebbe potuto essere l’assassino, ma a lui avevano fatto un’impressione di uomini deboli; quel tipo, quel pazzo, doveva essere Maciste per fare quello che faceva alle sue vittime.
«Mio padre», aveva obiettato lei, «è più basso di te ed è capace di rompere il manico di un badile sul ginocchio, quando è arrabbiato.»
Fu in quel momento che gli porse la mano e fu in quel momento che il buonumore e la conversazione subirono un’interruzione.
«Be’», disse lei, guardando verso casa sua, separata dalle altre dal vialetto pavimentato che conduceva nel giardino sul retro.
«Già.»
Si fermò davanti a lui e guardò verso l’alto. Le ombre le scivolavano sul volto, rendendolo più morbido, più liscio, e lui non poté trattenersi dallo sfiorarle una guancia con un dito.
Dio, che pelle liscia.
«Divertiti domani», fu l’unica cosa che Don riuscì a dire.
Lei sporse le labbra. «Già, è vero. Però preferirei venire alla partita.»
Lui si strinse nelle spalle.
Lei si avvicinò, lo fissò, poi si alzò verso di lui e gli diede un bacio. «Ci vediamo lunedì.»
Ormai lei aveva già fatto i gradini e aveva oltrepassato la porta, quando gli venne in mente di contraccambiare quel bacio e si mise a camminare con le mani in tasca, passandosi la lingua sulle labbra per risentire il sapore di Tracey, per ricordarla e, infine, per rendersi conto che lei non aveva promesso di richiamarlo, né di vederlo domenica.
Ci vediamo lunedì, si era limitata a dire.
Nonostante il bacio, le sue intenzioni erano state chiare: Non telefonarmi, ti chiamo io, e non stare con il fiato sospeso.
«Merda», disse. «Merda, amico, hai rovinato tutto.»
Si diede del cretino per tutta la strada e non si accorse nemmeno dei suoi genitori che stavano ancora in salotto, a osservarlo, mentre si richiudeva violentemente la porta alle spalle.
«Ciao», li salutò infine, trattenendosi dal precipitarsi in camera. C’era qualcosa che non andava. Sua madre non osava guardarlo e suo padre tamburellava le dita sul ginocchio. «Che cosa succede? È andata bene la riunione?»
«La riunione è andata benissimo», rispose Norman. «Finché ho scambiato qualche parola con il signor Falcone.»
Chiuse gli occhi lentamente, poi li riaprì di scatto. «Aspetta un minuto», disse, e corse in stanza prima che riuscissero a fermarlo. Prese il quaderno e lo sfogliò finché non trovò il foglio del compito in classe, si precipitò da basso e tornò ad affrontare suo padre, lisciando il compito sul petto per togliere le pieghe che si erano formate.
«Don…»
«Aspetta», disse, e glielo porse. «Guardalo, papà. Dacci un’occhiata.»
«Donald», iniziò a dire Joyce, ma si fermò non appena si accorse dello sguardo del figlio che implorava pazienza.
Norman guardò il compito e lo lesse, muovendo impercettibilmente le labbra. Una volta finito lo passò a Joyce, sospirando prima di tornare a sedersi.
«Be’?»
«Don.» Norman chiuse gli occhi e spinse in fuori il labbro inferiore; stava cercando le parole più giuste.
«Sembra un po’ difficile, se devo essere onesto.»
«Difficile?» ripeté lui, cercando di controllare il tono di voce prima che si facesse troppo acuto. «Difficile? È molto più che difficile, è impossibile, papà! Mi ha persino tolto dei punti che non avrebbe mai tolto ad altri. L’ha corretto prima degli altri di proposito, l’ha fatto deliberatamente. Prima del compito mi ha … mi ha detto che avrei avuto bisogno di tutta la fortuna possibile. Ha detto così, papà, lo giuro su Dio.»
Norman lasciò cadere il compito sulle gambe e si appoggiò la guancia sulle mani, fissando il fuoco.
«Non posso crederlo, Don.»
«Papà…»
«Maledizione, stammi ad ascoltare e smettila di interrompermi, figliolo. Anche se ultimamente ci sono state delle discussioni tra noi due, continuo a credere che quell’uomo sia un professionista e sarà meglio che anche tu cominci a pensarla in questo modo. Non posso credere che abbia voluto riservarti un trattamento diverso dagli altri di proposito. Sarebbe troppo ovvio, non capisci? Cristo, non dovrei fare altro che paragonare il tuo compito con uno qualsiasi della stessa classe e mi accorgerei subito se ce l’avesse con te.»
«Ma è così! Aspetta lunedì, posso portarti un centinaio…»
«No», disse Norman con violenza, ma senza alzare il tono di voce. «Non lo farò. È un ottimo insegnante, Don, e non voglio offenderlo in questo modo.»
«Sei fissato», fece eco sua madre.
Si sentiva confuso, incapace di esprimersi, di parlare.
«Donald», interloquì lei, ormai prossima alle lacrime, «se hai intenzione di andare al college, non puoi permetterti di prendere dei voti così bassi. Non più. Sono importanti queste cose per i college; vengono a controllare se il motivo per cui ti si è abbassata la media è che ormai la scuola sta finendo. È ovvio che sei distratto da … un numero indefinito di cose, perciò, Donald, resterai in casa finché non dimostrerai di poter fare di meglio.»
Le lacrime cominciarono a scorrergli dagli occhi e si sentì come il protagonista di un sogno in cui si era perso e non sapeva più come ritrovare la strada per tornare a letto, a casa. Nelle orecchie sentiva un boato e dalla gola non passava più aria. Ingoiò la saliva, nella speranza di ritrovare la voce, combattendo per non infrangere le regole davanti a suo padre; guardò Norman che stava ancora fissando il fuoco.
Aveva mal di testa e sapeva che il cranio gli si sarebbe spaccato in due se non fosse tornato immediatamente in camera sua.
Tese la mano e Norman gli ridiede il compito.
Guardò senza espressione sua madre e si voltò.
Nell’ingresso, vide fluttuare ombre rossastre.
Si muovevano alle sue spalle, mettendolo a disagio; lo avevano punito, ma non era giusto, anche se loro pensavano proprio il contrario.
Se ne andò. Lentamente. Così lentamente da farsi venire i crampi al polpaccio sinistro. Dovette aggrapparsi alla ringhiera per evitare di precipitarsi di sopra come un pazzo.
Il boato stava crescendo, sembrava una bufera invernale intrappolata in una conchiglia.
Il rosso oscillava, nonostante si sforzasse di tenere presente le Regole.
Poi aprì la porta e per poco non si mise a urlare.
Sugli scaffali c’erano soltanto i libri, la scrivania era stata ripulita, a eccezione di una penna che era stata sistemata con cura nel centro, e i poster erano spariti dalle pareti.
Era solo.
Si chiuse la porta alle spalle e si incamminò verso il letto, si sedette sull’orlo e fissò il vuoto.
Erano spariti, i suoi amici erano spariti e lui era rimasto solo.
Il rosso divenne più scuro e poi sbiadì.
«Donald», mormorò dopo cinque minuti. «Mi chiamo Donald, maledizione. Maledizione, Sam è morto.»