Una macchina della polizia era stata parcheggiata di traverso davanti all’uscita sul viale e Don si mosse in quella direzione sospinto gentilmente da Quintero. Tracey se n’era già andata con un’altra auto di pattuglia, continuando a tenere gli occhi fissi sulla scena, premendo un palmo contro il finestrino, mentre il suo viso veniva illuminato a tratti dalla luce dei lampioni. Un poliziotto aprì la portiera e fece cenno a Don di salire. Lui guardò in direzione del viale e notò altre due macchine che bloccavano di traverso l’imbocco della sua via con le luci di emergenza accese, mentre tre poliziotti si davano da fare per sbarrare l’accesso con dei cavalietti.
«Signor Quintero, che cosa sta succedendo?»
«Don, ti prego», disse Quintero.
A Don mancò il respiro, poi guardò nella direzione opposta e vide le macchine, le luci, la gente che si stava avvicinando frettolosamente al suo isolato. Con un gemito liberò il braccio e cominciò a correre, incurante del traffico. Un autobus sterzò giusto in tempo per evitarlo. Quintero, ormai distante, gli urlò di fermarsi.
All’imbocco della via, saltò lo sbarramento e continuò a correre per qualche metro, poi rallentò e si mise a camminare con andatura stanca, le braccia ciondoloni lungo i fianchi.
Nei giardini dei vicini, la gente era uscita e sostava a piccoli gruppi; sulla strada, di fronte al suo vialetto d’ingresso, c’era una camionetta dei vigili del fuoco e non molto distanti due pattuglie con il motore acceso riempivano l’aria di gas; un’autoambulanza stava facendo retromarcia sul prato.
Riprese a camminare, a fatica, finché non venne afferrato per il braccio da un poliziotto che cercò di tirarlo verso di sé. Si mise a protestare e venne lasciato libero per ordine di Quintero. Ansimando lasciò il marciapiede e si avvicinò a casa sua — all’ingresso che sembrava una voragine aperta, alle luci accese in ogni stanza, al garage, al tetto chiazzato dalle luci d’emergenza delle pattuglie.
«Che cos’è successo?» domandò d’un fiato a Quintero che si era messo al suo fianco e che gli aveva appoggiato una mano sulla spalla. «Che cos’è successo?»
Una sirena. I vigili del fuoco erano attorno alla camionetta e fumavano sigarette in attesa dell’ordine di rientrare. Lampi di fari. Voci che sussurravano istruzioni.
«Che cos’è successo, signor Quintero?», ripeté voltandosi verso il padre di Tracey con sguardo angosciato.
«È tutto molto confuso», rispose l’uomo, cercando di guardare contemporaneamente Don e la casa. «Qualcuno — il signor Delfield, credo che tu lo conosca — ha visto che usciva del fumo da casa tua qualche ora fa. Ci ha chiamati e ha telefonato ai vigili del fuoco.»
Dalla porta principale uscirono degli uomini in uniforme bianca, tenendo in mano una barella su cui c’era un sacco di plastica verde chiuso fino in alto.
«Oh, mio Dio!» singhiozzò Don cercando nuovamente di correre.
«No!» gli gridò Quintero. «Non è tua madre, Don.»
Fu la voce, non la mano, che lo fermò; era stata la voce, non la mano, a dirgli chi c’era in quel sacco.
In casa sua. Quel bastardo era stato con sua madre in casa sua.
«Co-come?»
Quintero si grattò nervosamente i baffi. «Non lo so. Dentro c’è il sergente Verona. Ci sono stato anch’io e non ho visto nessuna fiammata, non stava bruciando niente. Solo…» E fece un gesto verso il corpo che in quel momento veniva caricato sull’ambulanza. Questa partì e venne sostituita immediatamente da un’altra. «Hai sentito di Tar?»
Don annuì, mentre la speranza di essere in un sogno cominciava a svanire.
«Uguale.»
La finestra era stata rotta verso l’interno e, mentre Don guardava, si staccò un altro pezzo di vetro che andò a frantumarsi per terra.
Dal vialetto arrivò un uomo in abito da sera, che si fermò non appena vide Don vicino al marciapiede. Lo salutò e si mise a correre, mentre Don sentì che il suo stomaco si stava capovolgendo. Era il dottor Naugle, che cominciò a parlare ancora prima di raggiungerli.
«… mi hanno chiamato e sono venuto subito. Donald, ti senti bene? Eri…» Spostò lo sguardo verso Quintero che scosse il capo. Poi mise una mano sul viso di Don e lo sentì freddo, umido di sudore. «Portalo laggiù», disse al poliziotto e, in quel momento, Don non se la sentì di discutere — lasciò che lo accompagnassero sul marciapiede e lo facessero sedere, e si costrinse a guardare il disastro che era successo alla sua casa, alla station wagon parcheggiata nel vialetto. «Torno subito, Don. Resta qui. Mi hai sentito, Don? Resta qui.»
Don credette di annuire, ma non ne era sicuro.
«La mamma?»
«Non è ferita», lo rassicurò Quintero. «Te lo garantisco, non è ferita.»
«Allora, dov’è…»
«In camera sua. La porta…» Si guardò attorno, alla ricerca di qualcuno che gli dicesse di smetterla, che gli dicesse che quel ragazzo non doveva sapere com’era stata trovata sua madre, oltre quella porta chiusa a chiave che era stata praticamente sventrata.
«Papà», disse improvvisamente Don, guardandosi attorno.
«Non è qui.»
Si alzò in piedi e cercò di localizzare la fisionomia di suo padre tra la folla che stava raggruppandosi nei giardini dall’altra parte della strada. Le voci erano chiare, sommesse ed eccitate, come se si trattasse di uno spettacolo imprevisto. «Dov’è mio padre?» domandò. «Perché non si trova qui?»
«Don», rispose Quintero, captando la sua espressione. «Don, lo sai quello che è successo qui dentro? Sai chi è stato a fare tutto questo?»
«No!» urlò infuriato da quella domanda, temendo di poter essere incolpato. «No, sono stato con Tracey fin dalla fine dalla partita.»
In quel momento vide Norman emergere da dietro la camionetta dei vigili del fuoco. Correva, poi si abbracciarono, e suo padre gli domandò che cosa stava succedendo.
«Dov’eri?» domandò Don al collo del padre. «Dio, papà, dov’eri?»
Norman gli diede un paio di colpi sulla schiena, poi si staccò, tenendogli un braccio attorno alle spalle. «Ero allo Starlite con il dannatissimo sindaco. Tua madre avrebbe dovuto … Sergente Quintero, che cosa sta succedendo? Per favore, qualcuno mi vuole dire che cosa diavolo sta succedendo?»
Gli infermieri dell’ambulanza fecero un’altra apparizione sulla porta, seguiti dal dottor Naugle. C’era Joyce sulla barella, si vedeva solo la faccia emergere dalle lenzuola; Norman scostò violentemente i poliziotti e si precipitò da sua moglie.
Don stava per seguirlo ma invece si girò verso Quintero. «Aveva detto che stava bene», lo accusò.
«Non è ferita», ripeté l’uomo.
«Allora perché?…»
La barella fu spinta verso il retro dell’ambulanza e Norman rimase a guardare inerme mentre la sollevavano per sistemarla all’interno. Poi scambiò qualche parola con Naugle e tornò verso Don.
«Era seduta sul pavimento», spiegò Quintero e lo ripeté anche a Norman, quando tornò da loro. «Aveva gli occhi aperti, ma era in stato di choc. È tutto quello che so, signor Boyd», aggiunse precipitosamente, per fermare Norman che si stava apprestando a fare delle domande. «Rimane sempre la questione dell’altro uomo. Io…»
«Perché non sei tornato con lei?» domandò Don a suo padre. «Papà, perché non sei tornato con lei?»
Norman aveva gli occhi gonfi e cerchiati di rosso, il collo del maglione spiegazzato. Si voltò a guardare Naugle che stava accanto all’ambulanza, poi si irrigidì e Don si accorse che il sergente Verona stava scendendo dalla veranda. Scorgendoli, il detective si tolse il cappello e se lo girò lentamente nelle mani.
«Chi è stato?» domandò Norman sul punto di afferrare il poliziotto per il bavero. «Chi cazzo ha fatto questo disastro alla mia casa, a mia moglie? È stato Falcone? È stato…»
«Non lo so, Norm. Sono venuto non appena ho ricevuto la notizia. Tua moglie, ovviamente, non è ancora in grado di parlare e il coroner ha potuto dire soltanto che Falcone era…» Si fermò, accorgendosi di Don. «La casa è in uno stato disastroso. È come se una squadra di football avesse appena finito di fare una partita d’allenamento, santo cielo.» Si avvicinò a Quintero e si allontanarono insieme, a testa bassa.
«Papà?»
«È in stato di choc, ha detto», ripeté Norman in tono assente, mentre osservava i due uomini che confabulavano. «Starà bene. È solo in stato di choc. Gesù Cristo, hai visto la casa? Sarà meglio che ci lascino qui qualcuno a sorvegliarla, altrimenti possono entrare a rubarci tutto.»
Don si mosse sul prato e sbirciò attraverso la finestra. Il camino era a posto, si vedeva l’ombra obliqua di una lampada e credette di scorgere della macchie sulla parete scura. Suo padre si avvicinò e gli toccò un braccio.
«Gesù», disse, guardando verso casa. «Gesù, sembra come se ci avessero lanciato dentro una bomba.»
Don non riusciva a pensare, perché ci sarebbe stato troppo a cui pensare, e non protestò quando venne spinto dentro l’ambulanza. Naugle era appollaiato vicino a sua madre; Norman salì per ultimo e chiuse le portiere.
Non sentì la sirena che si faceva largo tra la folla; non vide che lo sbarramento era stato tolto per lasciar passare l’ambulanza. Riuscì a vedere soltanto Joyce, distesa sotto le lenzuola, con i capelli sciolti sulle spalle e il tubo di una flebo infilato nel braccio. Aveva gli occhi chiusi, il colorito giallastro e, di tanto in tanto, il dottor Naugle le passava un fazzoletto sulla fronte e le tastava la vena sul collo, per controllare le pulsazioni.
«Gesù», sussurrò Norman. «Gesù, che disastro.»
La sala d’attesa era piccola e piena di sedie di plastica; c’era anche un piccolo divano di plastica e un tavolino stracolmo di riviste vecchie e spiegazzate ormai lette da tutti. Don si era messo vicino alla finestra che dava sull’ingresso principale e batteva senza sosta un piede sulle piastrelle a scacchi. Ogni tanto si passava una mano sul naso e tra i capelli; ogni tanto si voltava verso le porte a soffietto e guardava nel corridoio in direzione della stanza di sua madre.
L’ospedale era tranquillo. I dottori e le infermiere che passavano non facevano alcun rumore e, anche quando si fermavano a parlare, non si sentiva niente, si vedeva soltanto il movimento delle loro labbra.
Aveva voglia di andarsene.
Non voleva sapere che cosa avrebbe detto Joyce una volta ripresa conoscenza; non voleva sentirla parlare del cavallo o di Falcone, non voleva che la considerassero pazza.
Ma sicuramente sarebbe stato così. Lo sapeva, ed era tutta colpa sua, perché aveva cercato di fare andare le cose per il suo verso.
E il peggio di tutto non era la morte. Quello che lo spaventava non era la morte. Qualcosa era andato storto e in qualche modo aveva perso il controllo di tutto. Se mai era riuscito ad avere qualche controllo, pensò sfregandosi gli occhi con le mani.
Abbassò lentamente le braccia.
Continuò a fissare nel vuoto, fuori dalla finestra.
«Chi è stato?» domandò quietamente Norman alle sue spalle.
Don sobbalzò e si voltò verso il padre, appoggiandosi al davanzale, in difesa. Suo padre si era tolto la giacca e sembrava che i capelli sulle tempie si fossero fatti ancora più grigi. «Che cosa?»
Norman spostò lo sguardo verso la finestra, poi sul pavimento, e si avvicinò. «Scommetto che è stato uno dei tuoi amici, non è vero?»
«I miei amici? Papà, ma cosa stai dicendo? Quali amici?»
Norman strinse le mani in due pugni. «Che cosa diavolo hai fatto a Pratt questa volta, eh? Cosa gli hai detto?»
«Niente. Non ti capisco. Non so a cosa ti riferisci.»
Norman emise un lamento, mentre si sforzava di riaprire le mani, e si lasciò cadere sul divano. «Nemmeno io, figliolo», rispose stancamente. «Cristo, nemmeno io. È tutto…» Si passò il braccio sulla faccia e fece cadere la mano sulla camicia. «Tua madre starà subito bene. È … come ha detto Naugle, è in stato di choc.»
Don tornò a scrutare oltre i pannelli di vetro. «Non ha detto niente?»
Norman scosse il capo. «Su chi può essere stato? No. C’è Verona con lei in questo momento, e speriamo che torni subito in sé. Ma ci metterà un po’ di tempo. L’ha detto anche Naugle.»
«Verona? La polizia?»
Norman si sporse in avanti per afferrare una rivista, fece scorrere le pagine e poi la rimise a posto. «Sì. Perché no?» Si mise a ridere amaramente. «Io sto brindando con il sindaco e parliamo di … be’, parliamo, poi vengo a sapere che tua madre sta per essere portata all’ospedale, e Verona mi telefona dalla scuola perché Hedley…»
Don cercò a tastoni una sedia. «Il signor Hedley?»
«Le disgrazie non vengono mai sole, non scordartelo», rispose Norman con disgusto. «D’Amato l’ha trovato nell’auditorio dopo la partita. Il corpo era sul palco, nascosto su un lato.» Poi sbatté le mani sul tavolo, alzò lo sguardo e disse: «È pazzesco! Quale altra città riesce a sbarazzarsi di un maniaco per rimpiazzarlo subito con un altro?» Si guardò in giro, inerme. «È da impazzire. Non ha nessun senso. Gesù Cristo, tu cerchi di proteggere la tua famiglia, il tuo futuro e cosa ne hai in cambio, eh? Un bel niente, ecco che cosa. Ricevi solo merda, ecco che cosa.»
Don si alzò di scatto dalla sedia.
Norman guardò verso di lui con gli occhi pieni di rabbia. «Se scopro che Pratt ha qualche cosa a che fare con tutta questa storia, lo ammazzo, mi hai sentito?»
«Brian non ammazza la gente», disse Don, quasi urlando. «Come puoi…»
«Potrebbe essere stato un incidente.»
«Cosa?»
«Certo. Quel coglione potrebbe aver fatto … be’, forse qualcosa gli è andato storto, sai.»
«Papà…»
Norman non stava ascoltando. «Maledetto Falcone. Ma ci puoi credere, proprio in casa mia? È pazzesco.» Annuì, d’accordo con quanto lui stesso diceva. «È maledettamente pazzesco.»
Don si avvicinò alla porta e la aprì.
«Dove stai andando?»
«Aria», rispose. «Ho bisogno di aria.»
«C’è tua madre là dentro. Non ti importa che tua madre si trovi là dentro? Dobbiamo essere qui quando si risveglierà.»
«Ho solo bisogno di un po’ d’aria», ribatté e lasciò che la porta si richiudesse alle sue spalle. Attraversò il corridoio e premette il pulsante dell’ascensore. Osservò le porte che si aprivano a scatti. Entrò proprio nel momento in cui il sergente Verona usciva dalla stanza di sua madre. Il detective alzò un dito verso di lui, ma Don fece chiudere le porte e si appoggiò alla parete dell’ascensore.
Sorrise leggermente in direzione delle porte ormai sigillate.
In un certo senso, era anche divertente. Suo padre era stato sul punto di incolparlo di quanto era successo, ma per ragioni tutt’altro che reali.
Ma questo non era stato divertente per niente.
La gabbia dell’ascensore si fermò improvvisamente, le porte si riaprirono e uscì alla luce dell’ingresso del primo piano. Un uomo stava pulendo il pavimento con una lucidatrice che emetteva un rumore sordo; una ragazza stava leggendo un libro al bancone dell’accettazione, mentre fumava una sigaretta. Nessuno lo degnò di un’occhiata mentre attraversava l’anticamera asettica. Sembrava che non ci fossero in giro poliziotti o guardie di sicurezza, né nell’ingresso, né alla porta girevole dalla quale uscì Don.
Faceva freddo; buttò la testa all’indietro per bersi tutta l’aria della notte.
«Ah, sei qui!»
Si mosse e stava per girarsi per tornare all’interno quando, all’improvviso, Tracey gli apparve di fronte e lo abbracciò stretto.
«Ho detto a mia madre di andare all’inferno», disse, ridendo e piangendo nello stesso momento. «Mi aveva detto di non uscire e io l’ho mandata all’inferno. Dio, mi ammazzerà di sicuro quando tornerò a casa.»
Con cautela, Don rispose all’abbraccio e, pieno di gratitudine, abbassò il viso per riposarsi sui capelli della ragazza. Non gli importava niente che lo stessero osservando, anzi, avrebbe ammazzato la persona che avesse osato allontanarli.
Un altro abbraccio e poi lei disse: «Forza, voglio parlarti». Lo prese per un braccio e lo trascinò oltre l’arco circolare che sovrastava l’ingresso dell’ospedale per accompagnarlo sui prati di fronte. Sulla destra c’era il parcheggio per i visitatori, vuoto e malamente illuminato da tre lampioni sull’angolo; lo attraversarono senza parlare. Don alzò lo sguardo soltanto una volta per vedere se riusciva a localizzare la stanza di sua madre.
Più in là, nel punto più buio, trovarono una panchina di cemento sotto un gruppetto di ciliegi ormai scheletrici e si sedettero, fissando i pilastri di mattoni dell’ingresso dell’ospedale che stavano dall’altra parte di quella distesa di asfalto. Più oltre, si vedevano delle case, buie come gli alberi senza foglie che segnavano il margine della strada. Non c’erano macchine in giro. Nessun rumore di claxon. Era la zona ospedaliera e non si potevano fare schiamazzi.
«Come sta tua madre?» gli domandò lei, coprendogli una mano.
A scatti, fermandosi ogni tanto per schiarirsi la gola, le raccontò quello che aveva detto la polizia e quello che suo padre gli aveva riferito a proposito del signor Hedley. Poi le disse quello che sapeva, e che sua madre non sarebbe mai stata creduta nel caso avesse ripreso a parlare.
«Ma non sono stato io!» aggiunse con calore, insistendo quasi volesse chiedere perdono. «Trace, tu mi conosci, non avrei mai voluto che mia madre…» E si ricordò all’improvviso, come se avesse appena ricevuto una gomitata nello stomaco, si ricordò.
«Don?»
«Mio padre mi ha chiesto se è stato uno dei miei amici.»
«Cosa? Non posso crederci.»
«Non ti sto mentendo, Trace. Mi ha chiesto se avevo detto o fatto qualcosa al buon vecchio Brian, perché reagisse così.»
«Non poteva dire sul serio, dai, è preoccupato, tutto qui, Don. Non riesce a pensare come si deve.»
Non ne era sicuro, ma non era nemmeno sicuro che gli importasse qualcosa. «Era con il sindaco, ci puoi credere? Stava facendo un brindisi con il sindaco, mentre mia madre era sul punto di morire!»
«È stato il signor Falcone!» gli ricordò lei dolcemente.
«Lo so.» Si voltò di scatto verso di lei. «E lo sai perché lei non è morta?»
Tracey scosse il capo, poi cambiò idea e annuì. «Il parco.»
Si appoggiò all’indietro e fissò il cielo, domandandosi che cos’era successo alla pioggia, che cos’era successo ai lampi. Si era immaginato tutto e ormai era cambiato tutto. Nemmeno nel suo mondo personale le Regole rimanevano sempre le stesse.
«Invece sì», rispose lei, sorprendendolo perché non si era reso conto di aver parlato ad alta voce. «Quella… quella cosa, Don. È tua.»
«Ma non le ho detto io di ammazzare…»
«Lo so, lo so», rispose. «Lo so, ma è più grave di quanto tu creda.»
Don chiuse gli occhi lentamente; era stanco. Si vergognava di tutta quella stanchezza improvvisa, ma aveva soltanto voglia di raggomitolarsi e di appoggiare la testa sul suo grembo per dormire.
«Comunque faccio fatica a credere a tutta questa storia», continuò, come se stesse parlando a se stessa. «Non è possibile. Lo so quello che ho visto e so quello che hai detto, eppure continua a essere impossibile.»
«È così», rispose lui, guardando i puntini colorati che si formavano sotto le sue palpebre. «Cristo, è così.»
«Ci ho pensato da quando sono tornata a casa fino a quando sono venuta qui. Ho pensato che avevi il potere di farmi vedere cose che in effetti non sono. Ho pensato che fosse tutta una storia inventata da te. E ho pensato che la mia voglia disperata di aiutarti mi avrebbe fatto vedere anche King Kong se me lo avessi domandato.»
Respirava a scatti; Don non riaprì gli occhi.
«Ci ho pensato, Don, l’ho visto. E allora … allora ho creduto che fosse reale e quello che dici tu — non è vero, Don. Non è vero.»
Girò la testa lentamente. «Vuole aiutarmi, non lo capisci questo? È venuto da me perché ho bisogno di aiuto e mi sta aiutando. Ma giuro su Dio che non ho detto niente a proposito di…»
«No, Don», lo interruppe lei, girando a sua volta il capo. «No, ti sta proteggendo, e non è la stessa cosa.»
Norman non pensava di poter sopportare un’altra brutta sorpresa. Si lasciò cadere all’indietro sul divano e si mise a fissare il soffitto, dando a vedere che stava ascoltando quanto gli raccontava il detective solo attraverso un cenno del capo o della mano.
Ma non riusciva a capire perché mai dovesse ascoltare. Verona, per quanto lavorasse duramente e con puntiglio, non era andato neanche vicino alla risposta di tutto quel pasticcio.
«D’accordo», disse, rimettendosi a sedere dritto. «D’accordo, Tom, ne ho sentite abbastanza. È pazzesco e lo sai anche tu.» E pensò: è pazzesco anche tutto il mondo che ci circonda.
«Non mi stai dicendo niente che io già non sappia.» Verona si grattò una macchia scura sotto l’occhio. «Ma che cosa dovrei pensare? Lo so che è difficile, specialmente adesso, ma che cosa dovrei pensare?» Alzò una mano e incominciò a contare. «I test di laboratorio hanno dimostrato che non è stato Don a colpire quell’uomo, come invece lui ha detto di aver fatto. Niente indica che Boston sia stato investito da una macchina. Adam Hedley era ridotto nelle stesse condizioni e figurati se posso credere che una macchina abbia fatto irruzione nella tua scuola, scendendo quella navata, saltando sul palco, solo per investirlo. E poi c’è Falcone…»
«Oh, Cristo, Tom, ma stai ragionando?» Norman afferrò una rivista come se volesse gettarla chissà dove. «Per prima cosa non riesci più a trovare i test. Secondo, lo ammetti tu stesso, non c’è niente che dimostri che Boston non è stato investito da un’auto. E mi rifiuto di credere che mio figlio, grazie a qualche potere misterioso, sia riuscito ad assoggettare due uomini e un ragazzo per picchiarli a morte, uno addirittura in mezzo al viale del parco.»
Si lasciò cadere all’indietro pesantemente. «Inoltre, si trovava in casa quando è stato ammazzato Hedley e si trovava con Tracey Quintero quando Falcone…» Si mise a tossire. Si rifiutava di ripeterlo per l’ennesima volta.
Verona alzò le mani, più in segno di frustrazione che di sconfitta e Norman si dispiacque per lui. In effetti, lui sapeva che era stato suo figlio. Quell’uomo si stava aggrappando a ogni piccolezza che riusciva a trovare, ma solo lo scontro di Don con lo Squartatore e i vaghi test di laboratorio potevano offrire un collegamento.
«Joyce», disse Verona, «ha fatto spesso il suo nome.»
«Be’, Cristo, è suo figlio!»
Joyce era finalmente riuscita a piombare in un sonno profondo e Naugle li aveva fatti entrare tutti e due in camera quando aveva iniziato a mormorare qualcosa in sogno.
«Ha anche nominato un cavallo, se ti ricordi bene.» Fece un breve sorriso triste. «Ti dirò una cosa: io crederò alla macchina nella mia scuola, se tu crederai al cavallo in casa mia.»
«Forse è stata drogata!»
«Per l’amor del cielo, sii serio!»
Era stanco. Voleva tornare a casa. L’unica notizia decente della serata era stata che John Delfield si era fatto aiutare da qualche vicino a costruire un pannello in compensato per coprire provvisoriamente la finestra distrutta. Annotò mentalmente di passare da lui per dargli una mancia, anzi, forse persino un assegno per rifondergli la spesa del materiale.
Si aprì una porta ed entrò Naugle. Norman si alzò di scatto.
«Le ho fatto un’iniezione», annunciò il dottore. «Non ho avuto scelta.»
«Un’iniezione? E perché?»
«Non dormiva abbastanza profondamente», rispose Naugle. «Sta avendo qualche brutto incubo e non voglio che si indebolisca più di quanto non sia già.»
«Benone», disse Norman, tornando a sedersi. «Davvero splendido.»
«Dovresti andare a casa anche tu.»
Norman era sul punto di annuire, ma poi cambiò idea. Voleva restare. Se fosse andato via, gli sarebbe venuta voglia di vedere se Chris era ancora a casa, nel suo letto, se … Scosse la testa e rabbrividì e Naugle gli diede una pacca sulle spalle.
Un’automobile entrò nel parcheggio, abbagliandoli con i fari. Don si riparò con una mano e imprecò sommessamente, ma Tracey si limitò a battergli una spalla e si alzò in piedi.
«Credo che sia Jeff», disse, mentre osservava la macchina che svoltava per andare a parcheggiare.
«Jeff?»
Stava già camminando verso di lui. «Sì, gli ho chiesto di darmi un passaggio. È chiaro che non potevo domandarlo a mio padre.»
«Be’, ti avrei accompagnato io, lo sai», protestò Don, seguendola verso l’auto, «Dio, Tracey…»
Lei si voltò e gli mise una mano sul petto. «Non adesso, Don, okay?»
«Ma che cos’hai intenzione di fare? A proposito del…»
Tracey incavò le guance mordendosele dall’interno. «Non lo so. Davvero … non lo so.»
Si aprì la portiera e Jeff, con gli occhiali bianchi per il riflesso della luce, sorrise mestamente quando Don si abbassò verso di lui.
«Ehi, amico, mi dispiace.»
«Già. È … sì, grazie.»
Tracey si infilò tra di loro e gli prese una mano, se lo tirò vicino e lo baciò. «Ecco», disse con un sorrisetto di soddisfazione. «Ecco fatto.»
«Ma io ho bisogno di te», la pregò Don, ignorando lo sguardo sorpreso di Jeff. «Che cosa devo fare adesso? Ho bisogno di te, Tracey.»
«Lo so. E ci vedremo domani, okay? Se non me ne vado adesso, non potrò più uscire di casa se non per il mio funerale.» Lo baciò di nuovo, velocemente. «Ti prego, Don, resta qui, va bene? Io starò bene se tu resti qui. Tornerò domani, per prima cosa.»
«Prometti», le disse lui con decisione.
«Prometto.»
Non gli andava, ma non poteva farci niente. Aveva ragione e lui lo sapeva, ma non gli andava lo stesso. Come non gli piacque dover fare un breve rapporto sullo stato di sua madre a Jeff, che continuava ad appoggiarsi a Tracey per fargli domande; infine, la ragazza gli batté su una spalla costringendolo a mettersi al volante.
La macchina fece manovra e sparì, lasciando Don ad assaporare il suo bacio, il tocco della sua mano, mentre un senso di frustrazione gli cresceva nel petto.
Avrebbe dovuto rimanere!
Se lo amava davvero…
Distolse lo sguardo e lo rivolse al viale d’ingresso.
Lo amava?
Ma come diavolo poteva amarlo e ferirlo tanto nello stesso momento, lasciandolo solo nel momento in cui lui aveva bisogno di lei per evitare di impazzire, lasciandolo solo quando lui aveva bisogno di lei per trovare una via di fuga?
Si cacciò le mani nella tasca del giaccone e si mise a osservare il suo respiro che si trasformava in nebbiolina.
Forse aveva ragione, pensò allora. Doveva essere così.
Il vento scosse i ciliegi, facendo scricchiolare i rami come se fossero sul punto di spezzarsi.
Ma doveva essere con lui, pensò; non avrebbe dovuto lasciarmi solo nel momento del bisogno. Non avrebbe dovuto farlo! Alzò un pugno e si costrinse a fatica a portarselo alla bocca, invece di scuoterlo in direzione della macchina di Jeff.
Dannazione, Jeff! Maledizione a te, e pensare che dovresti essere amico mio!
Il vento era tagliente sopra l’ospedale. Si vide luccicare una goccia d’acqua nel raggio di luce, poi un’altra sul viale d’ingresso, poi ne sentì una cadergli sulla mano.
Sentì il rumore di uno zoccolo, leggero sull’erba.
Abbassò lo sguardo sul manto verde e si accorse di uno strato di nebbiolina che gli abbracciava le gambe.
Si voltò lentamente, osservò i ciliegi che oscillavano, stringendo gli occhi per proteggersi dalla polvere sollevata dal vento.
Poi notò le due macchie verdi nell’aria, vide un paio di fiammate che si levavano da terra e si accorse dello stallone che gli stava di fronte immobile.
Sentì le gambe molli, lo stallone mosse la testa e Don si avvicinò, ignorando la tensione che gli pesava sullo stomaco, ignorando i pungiglioni che sentiva negli occhi. Si mosse sull’erba e allungò una mano.
Aveva il collo tiepido, liscio e il naso, che gli annusava il palmo della mano, sembrava fatto di velluto.
«Dio», sussurrò, senza aggiungere altro.
Il cavallo nitrì sommessamente, mentre Don piegava il capo e vedeva fiammate color smeraldo che illuminavano la nebbia.
«Me l’ha portata via», disse. «Me l’ha portata via e lei dovrebbe amarmi.» Fece scivolare le mani sulla criniera immobile, nonostante il vento, e continuò ad accarezzargli il collo. Sobbalzò alla vista del fuoco. «La sai una cosa?» gli disse dolcemente. «Papà pensa che sia stato io — la casa, il signor Falcone.» Appoggiò la guancia contro la criniera nera e tiepida. «Quello stronzo.» Un altro sobbalzo e sentì che i polmoni si stavano scaldando. «Quel bastardo. E la sai un’altra cosa? La sai un’altra cosa? Il poliziotto è tornato e continua a controllarmi come se fossi un delinquente da quattro soldi.» Faceva fatica a respirare e, nell’oscurità, riusciva a vedere anche delle macchie rosse. «Era la mia medaglia, era il mio momento, e Brian ha rovinato tutto. Donny Paperino, maledetto!» Si allontanò e i sussulti al petto continuarono senza tregua. «Non posso nemmeno ricevere una stupida medaglia senza che ci sia qualcuno che me la vuole portare via! Che cosa diavolo devo fare, eh? Che cosa diavolo devo fare?»
Si voltò, come se volesse andarsene, poi cambiò idea e indicò la strada con un braccio rigido che cominciò a tremare.
«E lei se ne va via con lui, proprio quando ho bisogno di lei! Che razza di amore è mai questo, eh? Che razza di amore può mai essere quando hai…»
La nebbia e poi rosso. E l’ombra scura tra gli alberi.
«Che cosa devo fare?» domandò. «Che cosa devo fare?»
Uno zoccolo strisciò sull’erba (fuoco verde), gli occhi si rimpicciolirono e poi alzò la testa.
Il cavallo si allontanò. Lo osservò e improvvisamente si rese conto di quanto aveva detto, proprio nel momento in cui il rosso svaniva insieme con le fiamme.
«No, aspetta un minuto», disse e allungò una mano. «Dio, no, non intendevo dire…»
Era sparito.
Don aprì la bocca, ma non emise alcun suono.
Era sparito, la nebbia si attorcigliava in un vortice di nero e fuoco, e ormai non c’erano più domande da fare su quello che intendeva dire Tracey.
Non lo stava aiutando di certo. Lo stava proteggendo contro il dolore e non faceva differenza che lui lo volesse o meno. Quando lui ci restava male, la causa veniva eliminata, qualunque essa fosse. Che lui la conoscesse o meno.
Tracey? Oh, Gesù, ti prego, Tracey, no!
L’ansia lo sfigurò, la paura lo fece vacillare, e, per quanto urlasse, si perdeva tutto nel vento, nella pioggia fredda che colava sul suo viso.