7

L’alba di domenica non venne illuminata dal sole. Pioveva, un acquazzone potente che riempiva i tombini delle strade con una velocità inarrestabile e trasformava i vialetti delle case in torrenti marroni. Aggredite dall’acqua, le foglie cadevano per strada e sui marciapiedi, e il vento attorcigliava intorno ai cavi della luce le decorazioni per la Festa di Ashford attaccate ai lampioni del viale. Il parco era deserto. Una manciata di pedoni si affrettava di negozio in negozio, affollando le pasticcerie piene di focaccine dolci e calde, torte e tartine. Le macchine transitavano rumorosamente. Gli autobus schizzavano acqua dalle pozzanghere fino all’altezza delle spalle. I fari erano appena sufficienti per vederci anche in pieno giorno.

Quando il temporale si attenuò, continuò a piovigginare. E sembrava più freddo per via dell’oscurità. Le pozzanghere non avevano riflessi, dalle finestre non si vedeva niente di chiaro; il vento era calato, ma la gente continuava a tener chiusi i baveri e aperti gli ombrelli e quando si sentiva il rintocco di una campana proveniente dall’altra parte della città, rimbombava come la sirena di una nave che sta per fare il suo ingresso in porto.

Anche nella stanza di Don la luce era tetra, ma lui non se ne accorse. Sedeva sul letto con la schiena appoggiata alla parete, e fissava il poster con gli occhi gonfi e arrossati e le mani immobili sui fianchi. Aveva indosso solo i calzoni corti e il torace si muoveva appena al ritmo del respiro.

Sua madre era andata a controllarlo subito dopo la colazione e lui l’aveva fissata finché non l’aveva vista girarsi e chiudere la porta. Suo padre non si era fatto vedere.

Non gliene importava niente.

Stava concentrandosi sulla preparazione di una nuova lista di Regole.

Squillò il telefono.

Tracey balzò in piedi dal divano e si precipitò in cucina, ma non fece in tempo ad arrivare perché sua madre aveva già risposto. Una zia, almeno così sembrava, e Tracey rimase ad aspettare finché capì che doveva trattarsi di una delle solite conversazioni domenicali lunghissime che si mescolavano agli aromi della cena e alla tranquillità dei pomeriggi, quando la casa era immersa in una pace ordinata, per desiderio di suo padre.

Più tardi, pensò; chiamerò Don più tardi.


Brian era preoccupato per le dimensioni del suo collo. Gli era capitato molte volte di fermarsi davanti allo specchio dell’ingresso, prima di uscire di casa, per controllare che non stesse diventando troppo tozzo, troppo largo. Non aveva intenzione di finire come Tar o Fleet, con il collo che si confondeva con le spalle. Voleva apparire il più normale possibile. Gli stronzi là fuori sostenevano che il collo largo fosse una caratteristica delle persone dementi e stupide e lui non si faceva illusioni — quando avesse finito la sua carriera di professionista sui campi da gioco, avrebbe dovuto cavarsela con un lavoro vero, e non si ottengono lavori seri se si ha un aspetto stupido, gonfio, con una faccia che sembra essere stata investita da un branco di elefanti.

Sistemò lo specchietto retrovisore e tirò il collo del maglione per assicurarsi che non era cambiato niente in quegli ultimi cinque minuti.

« Gesù Cristo », urlò Tar, rannicchiandosi sul sedile. « Ti spiacerebbe, per l’amor del cielo, stare attento a dove stai andando? »

Si sentì la tromba di un autobus. Brian diede una violenta sterzata a destra, un’altra a sinistra, e sorrise mentre la macchina cercava di tenere sull’asfalto bagnato e scivoloso. «Niente paura.»

«Niente paura un accidente, amico», ribatté Tar. Si curvò fino a toccare il cruscotto con le ginocchia, con la testa che si intravedeva a malapena dal finestrino.

«Coniglio!» esclamò Brian con un sorriso.

«Attento.»

Si mise a ridere, scosse il capo e lasciò il viale per deviare in una strada laterale completamente allagata. Erano diretti verso l’appartamento sotto la scuola e dopo essersi dato un’ulteriore controllatina al collo, Brian sbirciò sul sedile posteriore per assicurarsi che non avessero dimenticato niente.

«Continuo a pensare», mormorò Tar, «che avremmo dovuto far venire anche Fleet, sai? Diavolo, è stata soprattutto una idea sua.»

Brian alzò le spalle. Non gliene importava un fico secco. Fleet Robinson era praticamente uscito dal giro da quando si era messo a filare con Amanda Adler. Amanda non era poi così male, considerando che non era ben fornita né di tette né di culo. Forse glielo faceva tirare con qualcos’altro. Sorrise. Forse era così.

Tar aveva ragione, comunque. Fleet avrebbe dovuto essere lì con loro, mentre stavano per entrare in un posto che Dio si era completamente dimenticato di pulire. Le case erano vecchie e cadenti; c’era fango dovunque, dal momento che era piovuto, e le ciminiere delle fabbriche sovrastavano tristemente le punte degli alberi. Potevi a malapena credere di essere nella stessa città, e Brian si chiese come mai tutte le ragazze che venivano da lì avessero corpi così belli.

«Cristo, che porcile!» esclamò Tar, con il mento incollato al torace. Aveva i capelli corti, scuri, molto sfumati sopra le orecchie; il viso sembrava esangue in quella luce tetra del tardo pomeriggio. Annusò l’aria mentre tastava il taschino alla ricerca di una sigaretta, la accese e abbassò il finestrino per fare uscire il fumo. Brian odiava il fumo.

Un’altra svolta e Brian rallentò, proseguendo a passo d’uomo. Da quando avevano lasciato il viale, non avevano incontrato una singola macchina, una singola persona. Si cena presto tra i campagnoli, pensò. Fece schioccare le dita, mentre Tar, sbuffando, si rimetteva seduto e prendeva le borse di plastica dal sedile posteriore. Le sistemò per bene tra le gambe e abbassò il finestrino un altro po’. Nonostante gli elastici che tenevano chiuse le borse, si percepiva l’odore e lui si ripulì le mani sui jeans.

«Splendido», disse Brian.

«Avrebbe dovuto esserci anche Fleet.»

«Cristo, vuoi darci un taglio, Boston? Non c’è, è così e basta, e poi lo rimpiangerà domani mattina quando vedrà l’espressione sulla faccia di Provetta.»

Tar ci rifletté un attimo e concluse che Brian aveva ragione. Come sempre. Anche quando aveva torto.

Una svolta a sinistra, un’altra a destra, e Brian parcheggiò sul lato di una strada deserta, le cui case erano in stato decisamente migliore di quelle che avevano appena passato. Erano ugualmente vecchie, ma, per lo meno, i giardini antistanti erano ben tenuti, le facciate erano pulite e dipinte e per la strada non c’erano troppi rifiuti.

L’acqua gocciolava rumorosamente sui tetti, cadendo dagli alberi.

Brian si sfregò le mani e si appoggiò al volante per scrutare meglio attraverso i tergicristalli. «Eccola», disse, puntando un dito. «Quella verde, la seconda dall’angolo.»

Tar seguì la direzione indicata dal dito e annuì. Poi si mise a studiare l’abitato. «Come diavolo fa a vivere quaggiù, amico? Dal modo in cui parla sembra abbia sempre vissuto in un quartiere residenziale o qualcosa del genere.» Osservò la casa più vicina. «Forse abbiamo avuto l’indirizzo sbagliato.»

«No», fece Brian, anche se stava pensando alla stessa cosa. «Probabilmente abita qui fin dalla nascita. È troppo pigro per trasferirsi.»

«Forse ha un laboratorio segreto in cantina dove fa esperimenti sulle donne.»

«Chi? Provetta? Ma stai scherzando. Se tu fossi una ragazza, lo vorresti uno sgorbio come quello sopra di te?»

Tar si strinse nelle spalle e si mise a ridere, e poi fece un profondo respiro. «Lo sai, ci faranno neri se ci beccano.»

«Chiudi il becco, Boston, okay? Non ci beccheranno, e poi abbiamo deciso che lo stronzo se lo merita, no?»

Tar non ebbe bisogno di starci a pensare.

«Esatto. Ma continuo a domandarmi perché non lo attacchiamo di persona, Paperino. Quell’occhio nero che si è fatto resterebbe l’unica parte decente del corpo.»

«Perché…» rispose Brian, domandandosi come mai Tar dovesse sempre rimuginare sulle cose.

«Allora, perché?»

«Cristo, ma sei stupido?»

«Non sono stupido. Sto solo pensando che…»

«Senti», disse Brian, agitando le mani sul volante, «se lo facciamo di persona, poi sapranno tutti che siamo stati noi, no? Ci ritroveremmo addosso il suo vecchio come se fossimo degli assassini e non otterremmo mai il diploma. Ma se facciamo così, Tar caro, Paperino ne passerà delle belle. Il vecchio se la prenderà con lui, Hedley se la prenderà con lui e, se siamo abbastanza fortunati, anche la polizia se la prenderà con lui. Che cosa diavolo vuoi di più?»

Tar non seppe cosa rispondere. Forse aveva un senso. «D’accordo», disse. «Ma se restiamo qui ancora un po’ qualcuno chiamerà la polizia per noi, non per Paperino.»

Brian mugolò qualcosa in segno di approvazione e diede un’altra occhiata alla casa verde. «Okay. Giriamo l’angolo. Io tengo il motore acceso e, per l’amor del cielo, non dimenticarti dell’altra cosa, d’accordo?»

Mentre Brian si rimetteva in carreggiata, Tar si passò una mano sul naso che si era rotto già tre volte.

«Potrei avere bisogno di aiuto. Ecco perché Fleet doveva venire, nel caso non te ne fossi reso conto.»

«Lo so, lo so.»

«Allora aiutami.»

«Cerca di correre più veloce di me, va bene?»

«Non troppo veloce», mormorò Tar mentre svoltavano per andare a parcheggiare sulla sinistra, contro mano.

Non c’era tempo per continuare a discutere. Non appena la macchina si fu fermata, Tar scese tenendo in mano le borse e a spalle curve si diresse sul retro della casa verde. Fece di corsa il vialetto, si voltò solo una volta e buttò le borse contro la porta d’ingresso. Era già tornato sul marciapiede quando scoppiarono, spargendo sulla veranda sterco di cane, uova marce e aceto.

Di fronte alla proprietà c’era una siepe bassa, e mentre arrivava sul marciapiede ci gettò sopra la giacca a vento di Don Boyd, lasciando una manica penzoloni perché venisse notata. Ritornò di corsa alla macchina, che Brian mise in moto prima ancora che avesse chiuso la portiera.

Non partì facendo stridere i pneumatici, ma fu abbastanza veloce per sparire prima che Adam Hedley scendesse dal primo piano, avvolto in un plaid, e cominciasse ad avvertire l’orrenda puzza.

Brian non rise mentre guidava verso la collina. Si limitò a guardare Tar con un sorriso appena abbozzato.

«Missione compiuta», disse.


Qualcosa si muoveva nella pioggia.

Passava per le strade senza fare rumore; passava sotto i lampioni senza lanciare ombre; camminava in mezzo alle pozzanghere, lasciando l’acqua intatta; sfiorava le siepi senza far muovere i rami.

Un cane sulla veranda accanto alla casa di Adam Hedley cominciò ad abbaiare, tirando la catena che lo imprigionava alla porta, ma poi passò a un uggiolio di benvenuto quando il nuovo arrivato si incamminò su per il vialetto. Fissò il terrier, gli volse le spalle e se ne andò, e il cane iniziò a tremare, alzandosi sulle zampe, ringhiando alla sua ombra, urinando sullo zerbino e prendendosela con la luna.

Qualcosa si muoveva nella pioggia, senza fare rumore.


La stanza era ampia e perfetta. I mobili erano abbastanza nuovi per renderla luminosa e sufficientemente vecchi per essere comodi: il letto aveva il baldacchino, proprio come piaceva a Chris, la scrivania e la sedia arrivavano direttamente da Regent Street, Londra, il morbido tappeto multicolore dall’India, il divanetto a due posti proveniva da un negozietto di Soho che aveva scoperto due anni prima. Le pareti erano ricoperte da carta bianca con fiocchi dorati, il soffitto era stato dipinto di fresco, le lampade di alabastro conferivano un giusto tocco di frivolezza, senza però rendere troppo evidente che la stanza apparteneva a una ragazza che desiderava avere un marito e due bambini per completare la propria vita. Nell’angolo più lontano c’era un piano verticale, con una pila di spartiti in bilico sul sedile.

Vicino alla scrivania c’era una porta aperta che conduceva al suo bagno privato. Era stata una delle condizioni per cui aveva accettato di lasciare Manhattan: avere la maggior privacy possibile per tenersi lontana dagli affari della casa, per isolarsi; se fosse stato possibile avrebbe anche chiesto un ingresso indipendente, ma così avrebbe esagerato. Suo padre, di solito indulgente al punto di farsi manipolare, si sarebbe rifiutato e con tutta probabilità l’avrebbe mandata in quella dannata scuola raffinata del Vermont dove sarebbe stata in mezzo a un mucchio di ragazze, assomiglianti a tante stupide mucche.

A sua madre non importava niente; trascorreva la maggior parte del tempo a scrivere lettere fiume ai figli più grandi che stavano a Yale e a Vassar, oppure se ne andava in Florida a trovare la sua vecchia.

Comunque era perfetta e, qualsiasi reclamo avesse da fare, se lo teneva per sé.

Si spazzolò i capelli allo specchio del bagno, smuovendoli da parte a parte, sbuffando al pensiero di doverseli lavare di nuovo. Non le piaceva lavarli, asciugarli, spazzolarli in continuazione per mantenerli lucidi. Le sarebbe piaciuto tagliarli e tingerli di blu. Ma, se lo avesse fatto, avrebbe avuto un’aria ripugnante, e questo non faceva parte dei suoi piani.

L’asciugamano cominciò a scivolarle di dosso e lo afferrò con un’imprecazione, tenendolo in mano mentre spegneva le luci del bagno ed entrava nella stanza buia. Si trattenne dal premere l’interruttore. Non ancora, pensò. Voleva restare nell’oscurità ancora un po’, ad ascoltare la pioggia che batteva sulla finestra, ad ascoltare quel benedetto silenzio che le indicava che era sola. Emise un sospiro di felicità e andò a sedersi nella poltrona accanto alla finestra, abbracciandosi le ginocchia e guardando fuori. Non c’era molto da vedere con tutta quella pioggia, al tramonto, ma le luci della casa dall’altra parte del suo giardino erano ancora visibili, e si facevano sempre più luminose, mentre le foglie stormivano dall’alto degli alberi.

L’asciugamano scivolò ancora; non se ne preoccupò.

Appoggiò un palmo contro il vetro e rabbrividì per il contatto freddo, premette il viso contro la finestra per cercare di vedere il retro della casa dei Boyd. Era lontana e ostacolata da troppi alberi, però riuscì a vederla, e vide Don, e vide anche suo padre.

Si domandò se avessero lontanamente capito quello che aveva in mente di fare, se Don ci sarebbe rimasto male, sapendo che era coinvolto anche lui. Norman, pensò, non sarebbe stato un problema. Sicuramente no, a giudicare dallo sguardo che le aveva lanciato il giorno prima quando si era salutata con suo figlio, e anche a giudicare dai sorrisi che le lanciava ogni volta che lei riusciva a trovare una scusa per andare a parlargli nel suo ufficio.

Non era uno stupido. Sapeva che si era accorto del suo piano. Aveva capito perché era venuta in quella sporca città a diplomarsi con il più alto punteggio possibile, non importava con quale mezzo; aveva sicuramente capito che un fiore in un giardino incolto è più bello di un fiore in un’aiuola, specialmente quando si tratta di un fiore che fa presa sugli uomini. In un posto come quello, lei faceva la parte dell’orchidea.

Sua madre aveva preferito restare nell’ombra e ne aveva pagato le conseguenze; i suoi amici erano troppo indaffarati a trasformare il lavoro e le dichiarazioni d’amore in considerazioni politiche.

Chris, d’altra parte, sapeva di essere in guerra e solo gli stupidi e le puttane non sanno usare le proprie armi.

Norman aveva capito, glielo aveva letto negli occhi; Don avrebbe capito più tardi, forse, ma non prima che lei fosse pronta.

Un’ombra nel giardino.

Si sporse in avanti, asciugò il vetro e scrutò di nuovo.

Sospirò.

Non era Don, e Norman non era uno stupido.

Era un gatto al quale sorrise mentre si stirava e pensava a come fare la prossima mossa.


Qualcosa si muoveva nella pioggia e il sergente Quintero, chiuso nella macchina di pattuglia, si mise all’erta. Stava aspettando che Verona uscisse dal gabinetto del bar. Si era rifiutato di entrare con lui perché sapeva che avrebbe incontrato qualche donna. Era domenica. Anche di domenica ci sarebbe stata qualche donna sugli sgabelli del bancone, impegnata a bere e a parlare con il proprietario, in attesa che arrivasse qualcuno a riportarla a casa. Era una cosa che lo faceva innervosire e si era rifiutato di entrare quando Tom aveva dichiarato di non poterne più dei continui scossoni dell’auto. Vado a svuotarmi la vescica, aveva detto uscendo dall’auto; Quintero si era limitato a fare un verso e ad abbassare il finestrino per respirare una boccata d’aria fresca.

E aveva sentito il rumore nel vicolo.

Si mise a scrutare, pensando che era uno strano posto per dormirci, osservò la pioggia e decise di lasciar perdere quel vagabondo.

Poi lo sentì di nuovo, che si allontanava lentamente.

Sembrava qualcuno che batteva mollemente per terra con un badile.

Diede un’occhiata alla porta chiusa del bar, poi si strinse nelle spalle e si chiuse bene il bavero attorno al collo. Scese dalla macchina e si toccò con la mano il fianco sinistro per assicurarsi di avere con sé la pistola, poi guardò torvo la pioggia e mosse verso l’imboccatura del vicolo.

Era buio.

Sul retro, lo sapeva per via delle notti insonni passate a rincorrere gli ubriachi, c’era un recinto di legno rotto che conduceva a un giardino. Un bambino avrebbe potuto passare, ma un adulto avrebbe dovuto bestemmiare e scavalcare.

Fu in quel momento che si sentì il rumore del legno che cedeva, come colpi di pistola, e un riflesso lo costrinse a correre tenendo la pistola sempre in mano, mentre gli occhi cercavano di orientarsi nella nebbiolina. Ma nonostante la luce fioca della strada e quelle delle case più a nord, non riuscì a vedere niente, nemmeno quando raggiunse il recinto. Si fermò a osservare di quanto si era allargata la fessura.

Un camion, pensò; qualcuno ci era andato addosso con un camion.

Cercò il colpevole nel vicolo e nella zona intorno e poi decise che doveva essere stato qualche ubriaco ormai scappato verso casa.

Dopo altri cinque minuti ripose l’arma nella fondina e si diresse nuovamente verso la macchina.

E dietro di lui, delicatamente, qualcosa si mosse nella pioggia.


«È come andare allo stesso funerale due volte in un mese», disse Tracey a Jeff, mentre scendevano i gradini dello stadio per andare a mangiare. «Abita in quell’appartamento orribile, al quarto piano di un palazzo in un quartiere che sembra bombardato. Mio padre sta cercando di farla traslocare da quando mio nonno è morto due anni fa, ma lei dice che i suoi amici sono ancora tutti da quelle parti e che non ha intenzione di spostarsi.»

Jeff spinse un dito contro la montatura degli occhiali per sistemarli meglio sul naso e sorrise mentre sedevano e tiravano fuori il cibo dalle borse. Avevano comperato qualche cartone di latte alla caffetteria e delle arance come dessert, e quando si accorsero che Don non c’era, pensarono che potesse essere rimasto fuori. La pioggia domenicale era sparita nonostante le nuvole persistessero, però la temperatura era salita come se stesse splendendo il sole.

Sospirando, Jeff si mise a studiare i sedili, ancora scuri per l’umidità. «Non si vede.»

«Be’, stava studiando matematica.»

«Non ti ha detto niente?»

Lei scosse il capo e una ciocca di capelli si liberò dall’orecchio per andare a coprirle l’occhio. «Comunque aveva un’aria tremenda. Sembrava non aver dormito per tutto il week.»

Mangiarono in silenzio, senza essere abbastanza vicini da toccarsi, ma abbastanza per sentirsi che erano soli in quel posto.

«Tracey?»

Lei lo guardò in modo assente e si domandò come mai non avesse una ragazza. Non era tanto brutto nonostante gli occhiali con le lenti così spesse; aveva per i suoi capelli lunghi e fuori moda una cura quasi femminea e, quando ne aveva voglia, sapeva essere spiritoso in modo piuttosto sarcastico. Forse era perché stava nel terzo gruppo nella squadra di football, il che non lo rendeva certo un incapace, ma neppure gli attirava il tifo osannante dei fan che affollavano le tribune. Una brutta posizione, pensò, e anche un po’ stupida.

«Ehi», le disse lui, tamburellandole la fronte con le nocche. «Ehi, ci sei ancora?»

Si mise a ridere. «Sì.»

«Stai pensando a Don?»

Lei si strinse nelle spalle; non era una bugia, ma nemmeno la verità.

«Andrai al concerto mercoledì, se non piove?»

«Credo di sì.»

«Ti ha già chiesto di andarci con lui?»

Era la stessa cosa che le aveva chiesto sua madre quella mattina, e ieri sera, e ieri pomeriggio. Ma non aveva permesso a Tracey di chiamarlo. Non si faceva così, aveva detto con decisione; bisogna sempre che sia il ragazzo a chiamare per primo. Solo che Maria Quintero non conosceva Donald Boyd. Tracey sapeva che quella sera si era divertito almeno quanto lei e sapeva anche che forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa quando l’aveva riaccompagnata a casa. Ma c’era stato quel bacio e lei era corsa via.

E non appena si era resa conto di quell’errore, in camera sua, avrebbe voluto precipitarsi fuori, impedirgli di andarsene, ma suo padre era rientrato dalla porta della cucina. Non indossava l’uniforme, il che indicava chiaramente che da quel momento avrebbe fatto i turni doppi con il detective Verona, sperando di evitare che lo Squartatore colpisse di nuovo in città.

Non le avrebbe permesso di uscire.

Lei avrebbe fatto qualche protesta e sarebbe stata rispedita immediatamente in camera sua; era tardi, il ragazzo se n’era già andato e il giorno dopo si sarebbero recati a casa di nonna Quintero.

Che cosa poteva fare? L’ultima volta che lo aveva affrontato apertamente, suo padre aveva preso la cinghia e l’aveva rinchiusa al piano di sopra per un intero week end. Sua madre, grazie a Dio, le aveva portato da mangiare di nascosto, l’aveva consolata, ma non era riuscita a fare niente per ottenere la sua libertà.

«Non mi ha detto nemmeno ciao, per tutta la giornata», disse tristemente a Jeff. «Non so se sia impazzito o che altro.»

Jeff sorrise. «Penso che abbia paura.»

«Paura? Di che cosa?»

Lui le puntò un dito contro.

«Sei pazzo.»

Jeff rifletté qualche minuto prima di confidarle che Don aveva domandato praticamente a tutta la scuola se lei avesse una relazione con Brian Pratt. Quando lei rispose con fermezza che non c’era relazione alcuna, che non ce n’era mai stata una e che, finché avesse avuto fiato per respirare, non ce ne sarebbero state, Jeff le garantì che era proprio quello che gli avevano detto tutti.

«Aveva preso il volo, avresti dovuto vederlo.» Sorrise e si scolò l’ultimo latte rimasto. «Quando gli hanno dato il castigo, sembrava essere sulla luna.» Scosse la testa in segno di amicizia. «Non l’ho mai visto ridotto in quello stato. Mai.»

«Davvero?» gli domandò lei, fingendo indifferenza. Ma Jeff la conosceva troppo bene. «Allora non capisco.»

«Che cosa c’è da capire? Te l’ho detto. Ha una paura da morire.»

«Oh, splendido!»

«Ehi, non prendertela, Trace. Se gli fai un cenno o qualcosa del genere, finirà per accompagnarti a casa tenendo i tuoi libri con una mano e la tua nell’altra.»

Lei scoppiò in una risata mentre sentiva che il rossore le copriva le guance. Deglutì, scosse i capelli e saltò in piedi al suono della campana. Due minuti più tardi era nell’ingresso, diretta al laboratorio di Hedley, e fu in quel momento che vide Don appoggiato al muro dell’aula di storia. Rallentò, sperando che si voltasse e la vedesse, rallentò ancora e, infine, decise di passargli vicino e di prenderlo sotto braccio. Colto di sorpresa, lui arretrò di un passo, spalancando gli occhi in un’espressione di panico, finché non la riconobbe.

«Ciao», lo salutò lei allegramente.

«Ciao», rispose Don evitando il suo sguardo.

«Sei in ritardo per la lezione.»

«Già. Anche tu.»

«Ritorni a casa subito dopo la scuola?»

Lui alzò una mano. «Io … credo che andrò a correre un po’.»

La voce di un uomo la chiamò per nome e Don si voltò, dirigendosi verso le scale.

«Ci vediamo», gli sussurrò lei sottovoce, e si sarebbe presa a schiaffi quando notò i visi dei suoi compagni mentre si precipitava al posto. Loro sapevano. Doveva averlo scritto in faccia. Mormoravano, qualcuno ridacchiava e sentì ancora il rossore salire alle guance; imprecò tra sé e sé per tre minuti e infine sentì la tensione allentarsi e le guance di nuovo fresche.

L’ora fu interminabile, e l’ultima lezione le diede la sensazione che fosse venerdì e non lunedì. Si trovava quasi all’uscita con i libri appoggiati al maglione quando si fermò, si voltò e si scontrò con Chris Snowden.

Chris le sorrise appoggiandole una mano sulla spalla. «Calmati», le disse tranquillamente, abbassando la testa in segno di intimità. «L’ho visto che si dirigeva verso l’aula di ginnastica.»

Tracey riuscì soltanto a balbettare un ringraziamento e a correre via, mentre lacrime di imbarazzo le riempivano gli occhi. Dio mio, era davvero chiaro. E se Chris, alla quale non poteva importare poi molto di lei, se Chris era riuscita a capire, allora lo sapeva tutta la scuola. E se lo sapeva tutta la scuola, anche sua sorella minore era venuta a saperlo. Oh, Dio. La cena di quella sera si prospettava un inferno.

Al pianterreno fu tentata di dimenticare tutto e di tornarsene a casa. Era ridicolo. Non era mai corsa dietro a nessun ragazzo in vita sua; era umiliante, e poi aveva anche notato lo sguardo vacuo di Don quando l’aveva preso sotto braccio fuori dall’aula: non aveva avuto nessuna espressione di piacere, né di timore, e non aveva fatto nemmeno un sorriso di circostanza. Niente di niente. Avrebbe anche potuto essere una pianta, o un mattone.

Si incamminò per il corridoio. Era deserto, le luci stavano già affievolendosi ed era anche più scuro per la mancanza di finestre, per le pareti grigiastre e per l’assenza di porte. Le uscite per la palestra e per lo stadio si trovavano dall’altra parte. Aveva detto che sarebbe andato a correre, la soffiata di Chris glielo aveva confermato, per cui si incamminò lentamente verso le porte che sembravano a chilometri di distanza. Da qualche parte si sentiva ridere un gruppo di ragazzi, con tutta probabilità la squadra di football che si stava preparando per l’allenamento. Si levò una voce più acuta, che divenne rauca per poi trasformarsi in una risata; era la squadra di basket femminile che si stava avviando verso la palestra più piccola, di fronte a quella principale.

I suoi passi rumoreggiavano sul pavimento come se avesse avuto i tacchi di ferro.

Si affrettò, sentendosi nervosa, le spalle leggermente rigide, il mento sul petto.

Rallentò, per riflettere se stava facendo la cosa giusta, e si accorse che qualcosa la seguiva.

Passi irregolari, che suonavano vuoti, forti.

Gettò un’occhiata alle spalle, ma non vide nulla e riprese a camminare. Un ragazzo, forse uno dei bidelli, Gabby D’Amato che trascinava una delle sue scope.

L’idea che uno dei custodi dai capelli brizzolati potesse seguirla le fece venire i brividi e aumentò il passo. Non le piaceva quel vecchio; non piaceva a nessuna ragazza. Sospettavano tutte che trascorresse la maggior parte del tempo negli spogliatoi delle donne e sapevano con sicurezza che passava ore di fronte all’ingresso della palestra femminile, per osservarle in pantaloncini corti e maglietta.

Dietro di lei. I passi.

Si ritrovava a pochi metri dall’uscita, e sul pavimento non risuonava nient’altro che il suo passo, si sentiva solo il suo fiato, e il rumore che la seguiva, vuoto e forte, sempre più vicino.

Non guardare, disse tra sé e sé; raggiungi la porta ed esci, va’ a bloccare Don e cerca di strappargli un invito, a costo di strappargli la gola.

Nel frattempo, il rumore forte si faceva più veloce sul legno — più vicino.

Non guardare, idiota; e girò l’angolo.

Il corridoio era vuoto.

Ma si sentivano ancora i passi.

E riuscì a vedere un’ombra enorme che attraversava la parete sul fondo.

Non era un uomo; era sicura che non si trattasse di un uomo, perché se così fosse stato, si trattava di qualcuno che stava arrancando, appoggiandosi in modo instabile contro le mattonelle del muro, contro gli armadietti. Ma non si sentì nessun rumore che assomigliasse a quello che fa una spalla contro il metallo, nessun rumore di fiato pesante, nessun rumore in assoluto a parte quei tonfi sul legno che indicavano chiaramente che si stava muovendo qualcosa.

Qualcosa di più grande di un ragazzo, di un uomo.

Sbatté gli occhi, stringendo al petto i libri, con la bocca e la gola secche, mentre le labbra avevano voglia di far uscire un urlo.

Poi la cosa svoltò l’angolo e lei urlò, superò la porta e uscì precipitandosi giù per la gradinata. Era quasi arrivata sul campo, quando si rese conto che lo stadio era vuoto. Don non c’era. Non c’era nessuno. Era sola.

La scuola la sovrastava e si precipitò verso la pista.

Che cos’era stato?

Non lo sapeva. E non aveva intenzione di fare la stupida andandosene in giro per cercare di soddisfare la sua curiosità. Poteva essere stato un gioco di luci, e potevano essere stati i suoi nervi tesi per dover affrontare Don, ma qualsiasi cosa avesse svoltato quell’angolo non era umana; non poteva essere, a meno che, pensò fermandosi di colpo, non si fosse trattato dello Squartatore che stava cercando qualcuno da ammazzare.

Allora si mise a correre e non si fermò finché non raggiunse casa sua.


La porta dell’ufficio era chiusa, le segretarie se n’erano andate in anticipo e Norman stava alla finestra. Vide la giovane Quintero che correva per strada come se fosse inseguita da un rapinatore. Si sporse per vedere se ce ne fosse veramente uno, ma non c’era nessuno.

Brontolò e andò a sedersi alla scrivania.

«È una puttana», disse allentandosi la cravatta e sbottonandosi il colletto della camicia.

Harry Falcone proruppe in una risata dalla poltrona di fronte, dov’era seduto a gambe accavallate con la giacca sportiva aperta. «Puoi dirlo ancora, se vuoi.»

«Okay, è una puttana.»

Sorrisero, ma non troppo a lungo.

Norman afferrò una matita, la rigirò e la mise sul tampone. «Non puoi farcela, sai. Ti tornerà tutto nel culo, il consiglio non muoverà un dito e i genitori dei veterani verranno a caccia della tua testa.»

Falcone emise un verso che assomigliava a un grugnito o a un lamento e si appoggiò allo schienale, fissando il soffitto. «Che possibilità abbiamo, Norman?»

«Accettare l’offerta che c’è sul tavolo, per prima cosa.»

Falcone rise ironicamente.

«Allora che ne dici di un arbitrato vincolante?»

Un’altra risata; questa volta più amara.

«Be’, allora, che fate, per l’amore del cielo?»

«Cammineremo», rispose Falcone, senza guardarlo in faccia. «Ci metteremo a camminare. Se i voti sono favorevoli questa sera, ci metteremo per strada mercoledì dopo l’ultima campana, a meno che qualcuno non ci sottoponga un contratto con il quale sia possibile vivere.»

«Pazzesco.»

«Questa», disse Falcone, drizzandosi sulla sedia, «è la tua opinione.»

Norman si voltò all’improvviso, guardò verso il prato e comandò a se stesso di rilassarsi.

«Hai qualche dichiarazione che desideri farmi leggere alla facoltà questa sera?»

«Leggi l’ultima», gli rispose amaramente. «Non ho nient’altro da dire.»

«Cristo, Norm, sei uno stronzo, sai? Sei veramente uno stronzo. Hai la possibilità di sistemarti per tutta la vita, potresti diventare un eroe e gli insegnanti della scuola si ammazzerebbero per te, ma tu continui a insistere nel tagliarti la gola.»

Brutto figlio di puttana, pensò; brutto figlio di puttana maledetto.

Girò la sedia, lasciò cadere la matita e appoggiò i gomiti sulla scrivania. Falcone stava sorridendo. Norman afferrò il compito di Don. Il sorriso dell’insegnante non cambiò.

«So quello che stai facendo», disse Norm pacatamente. «E così non funziona. È evidente che stai cercando di arrivare a me attraverso Joyce e attraverso Donald. Così non funziona, per cui piantala, Falcone. Lascia fuori dalla merda mio figlio.»

«Oh, Dio», sospirò l’altro, alzandosi e lisciandosi i risvolti mentre si dirigeva verso la porta. «È una minaccia, signor preside?»

Norman considerò l’idea di ritrattare, di porgere una mezza scusa. Sapeva come avrebbe agito quell’uomo se lui non lo avesse fatto — una dichiarazione alla facoltà sulle accuse del preside, forse anche una spifferata alla stampa. Norman sarebbe diventato all’istante il cattivo, il tirapiedi del consiglio per tutti quanti. Norman sta perdendo il controllo perché ha perso il controllo della scuola, e chi avrebbe voluto che un uomo di quel genere si trovasse in posti di potere nella città?

«Harry», disse richiudendo il compito e mettendoci sopra un pugno, «mettiamola in questi termini; ti faccio mangiare i coglioni se tenti ancora qualche idiozia del genere. Credimi, Harry. Ti romperò il culo.»

Falcone esitò un attimo prima di dirigersi verso la soglia, si voltò leggermente e lo guardò senza tremare. «Ti posso concedere il figlio», rispose con voce appena udibile, «ma che mi venisse un colpo, signor Boyd, se capisco perché stai mettendo di mezzo anche la tua cara mogliettina.»

La porta si chiuse.

Norm scattò in piedi, pronto a reagire, ma si sentì afferrare da una mano sulla spalla che lo fece sedere di nuovo. Non c’era nessuno nella stanza, ma per lui era lo stesso e cominciò a tremare quando si rese conto di com’era stato vicino ad ammazzare quell’uomo. Si morse il labbro inferiore fino a farsi male, per cercare di ritornare in sé, e poi mormorò: «Non è leale. Non è proprio leale.»

Poi si schiarì la gola rumorosamente e decise che non era il caso di portare a casa il lavoro, e al diavolo le relazioni. Sorrise, si alzò e andò a prendere il cappotto che stava nel mobiletto dall’altra parte della stanza. L’abitudine lo fece uscire dalla porta privata che dava direttamente sul corridoio, dove svoltò a destra per dirigersi verso l’ingresso principale. E quando uscì sul piazzale di cemento, notò che Gabby stava ammainando la bandiera dall’asta, si fermò un momento, come se facesse parte della cerimonia, accennò un saluto con le dita al custode e riprese a camminare.

La macchina di Adam Hedley passò a gran velocità.

Norman lo osservò, pregando che l’insegnante di chimica non si fermasse per domandargli se sapeva nulla della giacca a vento trovata il giorno prima sulla sua siepe. La giacca che Don aveva dichiarato di aver perso due giorni prima.

«Non ho chiamato la polizia», gli aveva detto per pietà Hedley quella mattina. «La scuola ha anche troppi problemi in questi giorni con quel maniaco per le strade. Per non parlare dello scandalo che causerebbe durante i festeggiamenti di questa settimana.»

«Ti ringrazio, Adam», aveva risposto lui, troppo sorpreso per la prova che aveva in mano per dire qualcosa di più.

«Ne sono sicuro.» Poi Hedley gli aveva stretto la mano, trattenendola qualche secondo più a lungo del necessario.

«Desidero solo che la tua assicurazione si occupi di questo, Norman. Cerchiamo di non farlo sapere in giro. Sarebbe un disastro, non credi?»

Norman aveva annuito senza parlare. Sapeva esattamente a che cosa si stava riferendo l’insegnante, che cosa avrebbe potuto fare Falcone con un’informazione di quel genere — il preside non riusciva nemmeno a gestire suo figlio, come faceva a gestire una scuola intera di ragazzi come lui?

Lo sapeva. Eppure si rifiutava di credere, nonostante la giacca, che Don avesse potuto fare una stupidaggine del genere.

Ma c’era stata la fiala, la sua giacca, e poi il comportamento recente di Don si stava facendo sempre più strano.

Credo che scambierò qualche parola con lui questa sera, pensò.

O forse no. Forse domani.

Pensò: della corda — dagli un po’ di corda e si appenderà da solo, così non mi accuserà nessuno.

«Cristo», mormorò. «Sei un bastardo, Boyd.»

Ma non cambiò idea.

Quando raggiunse l’angolo di casa sua, si fermò e gettò un’occhiata alle spalle. La strada era vuota, il sole stava calando lanciando gli ultimi raggi di luce rossastra attraverso i rami. Poi osservò la sua casa nascosta tra gli alberi e le ombre e scoprì, con un certo senso di colpa, che non aveva voglia di rincasare. Se non ci fosse stata Joyce ad aspettarlo per chiacchierare, ci sarebbe stato Don, nascosto in camera sua.

Aveva visto il ragazzo solo un paio di volte durante il giorno; una volta nel corridoio prima dell’ora di pranzo, mentre camminava come uno zombie con un’aria sconvolta e poi poco prima dell’ultima campanella, mentre si stava dirigendo verso il suo armadietto. Norman era stato sul punto di chiamarlo nel suo ufficio, ma aveva cambiato idea vedendo Fleet Robinson che si fermava, gli sussurrava qualcosa nell’orecchio e gli dava una pacca sulle spalle. Don si era girato e aveva sorriso, aveva annuito e si era spostato. Ma continuava ad avere un aspetto sconvolto e non era soltanto per quel dannatissimo occhio nero; era per il modo in cui guardava la gente — un modo vacuo, come se lui fosse poco più di una conchiglia con il corpo corroso dalle abitudini. Era stato così per la maggior parte della giornata precedente, secondo quanto aveva detto Joyce. Era ancora offeso per l’insolenza del ragazzo e non si sentiva pronto a rivolgergli la parola. Il ragazzo doveva imparare che l’infrazione alle Regole significava sopportarne le conseguenze.

E se aveva qualcosa a che fare con quella sciocchezza combinata a Hedley, avrebbe pagato anche qualcosa di più.

Una leggera brezza smosse le foglie che si erano raggruppate sul tombino mentre lui si affrettava verso casa, con le mani in tasca, a capo chino e con la pelle umida. Passò davanti all’abitazione degli Snowden, mentre Chris stava facendo marcia indietro nel suo vialetto d’ingresso, con la macchina scappottata, nonostante il brutto tempo; sorrise e fece un cenno di saluto quando la guardò, attirato dal rumore del motore. Mormorò un saluto, lei si voltò e se ne andò, lui rimase fermo per un istante, intento a guardare i capelli della ragazza che volavano al vento.

Vuole venire a letto con te, vecchio mio.

Deglutì e si guardò attorno prima di rendersi conto che la voce che aveva sentito era la sua. Poi il silenzio.

Ma era la verità, non c’era dubbio. Faceva quel lavoro da troppo tempo per non capire la differenza tra un flirt innocuo e un flirt organizzato per ottenere votazioni migliori. Chris era decisamente il tipo che sapeva che cosa voleva, più calcolatrice di chiunque altro avesse mai conosciuto. Poi si affrettò a complimentarsi con se stesso per non essere caduto nella sua trappola. Non era difficile contraccambiare un flirt; non era doloroso e non sarebbe importato a nessuno. E sarebbe stato facile, anche perché sapeva bene che non avrebbe garantito un otto solo perché la ragazza era carina, aveva un bel sorriso o un paio di occhi che non lo faceva dormire di notte.

Ma quella volta, d’altra parte, avrebbe potuto essere più difficile. Sospettava che se non fosse riuscita a comprometterlo sul materasso, avrebbe trovato comunque il modo di comprometterlo per coinvolgimento. In ogni caso, doveva fare molta attenzione.

Scoppiò in una risata allegra e genuina, mettendo il piede sul gradino che conduceva alla porta principale. Calcolatrice o meno, era carino pensare che non veniva considerato troppo vecchio per fare quel tipo di sforzo. Anzi, si sentiva quasi lusingato.

Stava per ridere di nuovo, quando mise un piede nella pozzanghera che c’era sul vialetto, e si girò all’improvviso.

L’acqua era chiara e pulita e sull’orlo c’era un’ombra che non era proiettata né da un albero del giardino, né da una grondaia, e nemmeno da lui stesso che stava passando di là.

La fissò, chiudendosi bene attorno al collo il bavero del cappotto.

L’ombra non si mosse.

Suggeriva qualcosa di molto grande, di scuro, ma quando esaminò la strada, il marciapiede, il giardino, la veranda, non vide niente.

L’ombra era sempre là e, anche quando diede un calcio all’acqua per smuoverla e scaraventarla sull’erba, persistette.

«Cristo», disse.

Diventava sempre più grande.

Più scura.

Mise un piede nella pozzanghera e osservò l’ombra che scivolava sulla scarpa.

Poi alzò subito lo sguardo e tirò un sospiro di sollievo. Una nuvola. Era una nuvola nera che si era fatta più compatta per la luce calante del giorno. Niente di più, pensò Norman, niente di più.

Aveva già la mano sulla maniglia della porta, quando sentì il rumore alle sue spalle.

Ovattato. Vuoto. Leggermente irregolare, come pietre che cadono leggere su un pezzo di legno vuoto e umido.

Stava risalendo il vialetto.

Non si voltò. Girò il pomolo con decisione, aprì di scatto la porta ed entrò in casa. Se la chiuse alle spalle senza guardare indietro e rimase fermo nell’ingresso vuoto per diversi secondi prima di togliersi il cappotto.

C’era qualcosa che gli aveva suggerito che non era stata la nuvola a lanciare quell’ombra.

Qualcosa strascicava e Don apparve sulla cima delle scale.

Un rumore vuoto e attutito, poi qualcosa bussò pesantemente alla porta alle sue spalle, che subito dopo si aprì con violenza.

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