La luce era molto intensa: socchiuse gli occhi per mettere a fuoco.
Lei era in piedi vicino al lavandino, con una gamba piegata, e risciacquava una tazza, mentre la caffettiera sui fornelli dietro di lei gorgogliava rumorosamente. Aveva i capelli lunghi e scuri che le arrivavano a metà schiena e quando li portava raccolti con un nastro lucido, come in quel momento, aveva un’aria tanto giovane che avrebbero potuto scambiarla per una delle sue alunne. E questo soprattutto quando sorrideva, spalancando i suoi grandi occhi. Cosa che fece quando lui si avvicinò e la baciò sulla guancia, sfilandosi la giacca e appendendola a una sedia.
Aveva intenzione di raccontarle delle macchine, ma cambiò idea quando lei distolse lo sguardo, ritornando ai suoi piatti.
«Ero fuori in bicicletta.»
«Fai bene», disse, osservando con attenzione una macchia che non voleva venire via dalla tazza. «L’aria fresca ti fa bene. Elimina le cellule morte del sangue, ma immagino che tu lo abbia già letto nei libri di biologia o roba simile.»
«Esatto.»
Un’occhiata nel frigorifero quasi pieno prima di tirare fuori una lattina.
«Tesoro, quella porcheria gasata ti fa male», disse, appoggiando la tazza e risciacquandone un’altra. Nel lavandino, immersi in acqua calda saponata, c’erano un mucchio di piatti sporchi. Forse il giorno seguente avrebbe trovato il tempo per lavarli tutti. «Non fa bene bere quella roba prima di andare a letto. Ti rimane sullo stomaco, ti fa fare un sacco di ruttini e ti fa venire anche gli incubi.»
«Ma non sto andando a letto.»
Lei lo guardò increspando le labbra. «Donald, adesso sono…» controllò l’orologio a forma di girasole che stava sopra i fornelli «…le dieci e quarantasette. In punto. Domani devi andare a scuola. E anch’io ho scuola. E sono stanca.»
La caffettiera sibilò e venne tolta subito dal fuoco.
«Mamma, sai bene che non era necessario che mi aspettassi, se eri stanca.»
Asciugò le tazze e versò il caffè; tutto in perfetto orario. «E non l’ho fatto. È da quando siamo entrati che tuo padre è al telefono. A proposito», aggiunse, dirigendosi verso il salotto, «stasera ho ascoltato Chris che suonava il piano. Sai una cosa? Mi sembra piuttosto carina. Hai intenzione di fartela amica?»
«Non lo so», rispose lui, continuando a camminare. «Forse».
«Che cosa?»
«Forse!» le urlò dietro e poi, sottovoce: «Chissà, un giorno all’inferno, forse.»
Chris Snowden era la nuova vicina, e nel vero senso della parola. A metà agosto era venuta ad abitare con la sua famiglia a sole tre case di distanza da loro. Aveva i capelli così chiari che sembravano bianchi e una pelle così morbida che le dita sarebbero affondate solo a toccarla; a parte le volgarità di Brian Pratt, era vero che un corpo così lo si vedeva solo al cinema. A prima vista, aveva l’aria dello stereotipo ridicolo — cheerleader, senza cervello, la classica ragazza del capitano della squadra di football. Così era stato per un po’ di tempo, almeno secondo tutti quanti, poi aveva suscitato scalpore e imbarazzo iniziando a uscire con il presidente del consiglio degli studenti. Non aveva bisogno di buoni voti, quindi non aveva bisogno di farsi fare i compiti, e non era nemmeno per farsi dare un passaggio fino a scuola, visto che abitava a soli cinque isolati e andava a piedi ogni mattina — tranne quando pioveva, allora prendeva la sua macchina, una decappottabile rossa sempre coperta. Poi, una settimana prima, era girata la voce che fosse di nuovo sola e tutti sostenevano che si stava soltanto riposando.
Don gonfiò le guance, sbuffò e tirò un sospiro.
Il padre di Chris era un medico famoso e lavorava in qualche prestigioso ospedale di New York; se avesse ascoltato sua madre, avrebbe dovuto portarla in un sacco di posti, in occasione del centesimo e qualcosa anniversario della città — il pic-nic della Festa di Ashford, le feste, i balli, i concerti, la partita di football, ovunque. Un’intera settimana di festeggiamenti. Ma anche se avesse voluto, sapeva di non avere nessuna possibilità.
Arrivando in anticamera, sul punto di girare a destra verso il salotto, udì la voce di suo padre e cambiò idea.
«Non me ne frega assolutamente niente di quello che pensi, Harry. Non ho intenzione di prendere posizione né in un senso né nell’altro.»
Stupendo, pensò Don tristemente, semplicemente stupendo.
La posizione si riferiva all’atteggiamento da adottare in una certa discussione: Harry era il signor Harold Falcone, il suo professore di biologia, nonché presidente del consiglio dei docenti.
«Ascoltami», stava dicendo suo padre, mentre Don sporgeva la testa dalla porta, «ho fatto enormi pressioni per te e per la tua gente da quando ho preso quel posto, e lo sai benissimo. Sono riuscito a ottenere i soldi per i laboratori, per le squadre e per la dannata manutenzione; per l’amore del cielo, non osare venire qui a dirmi che non voglio aiutarti.»
Norman Boyd era seduto sulla sua poltrona preferita, una mostruosità verde dal legno tutto graffiato e il cuscino floscio. Voltava le spalle a Don e la sua figura era rigida.
«Cosa? Cosa? Harry, maledizione, se mia madre non mi avesse insegnato l’educazione, sarei capace di riappendere per delle sciocchezze del genere. Come sarebbe a dire che non me ne frega un cazzo? Certo che me ne frega! Ma per una volta non puoi fare a meno di considerare solo il tuo interesse e renderti conto che mi trovo tra l’incudine e il martello? Santo cielo, vecchio mio, tu che mi urli fesserie in un orecchio e il consiglio che fa lo stesso nell’altro orecchio. Tu mi rimproveri se faccio una cosa e loro se ne faccio un’altra: e vengo criticato da tutti se non faccio assolutamente niente — che poi è esattamente quello che vorrei fare a volte, credimi.»
Si mise a tamburellare con le dita sulla cornetta, alzando lo sguardo verso il soffitto intonacato, poi si passò la mano libera nei capelli castani appena brizzolati. Sotto il maglione bianco a girocollo, il petto si alzò in un profondo sospiro; continuò a tamburellare sulla parte alta della coscia.
«Sarò presente alle trattative, certo. Te l’ho già detto.» Si mosse. «Io non…» Lanciò un’occhiata alle spalle. «Certo che il mio contratto deve essere rinnovato alla fine dell’anno. Lo so benissimo e lo sai anche tu, e anche il consiglio lo sa. Cristo! A quest’ora lo sanno tutti!» Vide suo figlio e abbozzò un sorriso. «Che cosa? Sì! Sì, dannazione, lo ammetto, sei contento? Non voglio rischiare il mio lavoro e il mio avvenire soltanto perché voi teste di cazzo non riuscite a giungere a un accordo durante l’estate. No», disse in tono agrodolce, «non mi aspetto il tuo aiuto anche qualora decidessi di presentarmi per quell’incarico.»
Fece una smorfia e mise giù il microfono. «Quel verme ha riattaccato. Non conosce certo le buone maniere, ed è strano questo in un insegnante. Salve, Don, stasera ti ho visto parlare ai bambini. Hai forse cambiato idea e hai deciso di fare l’insegnante continuando la tradizione di famiglia?»
«Papà», disse lui in tono freddo. «Papà, la settimana prossima ho un esame importante. Il signor Falcone è il mio professore.»
«Lo so.»
«Ma tu stavi urlando con lui.»
«Ehi, non ti farà niente, stai tranquillo.»
Don strinse con forza la lattina. «Dici sempre così.»
«E ho sempre avuto ragione, non è vero?»
«No», rispose a bassa voce. «No, non sempre.» E prima che suo padre potesse controbattere, aggiunse: «Ci vediamo domani. È tardi e la mamma vuole che vada a letto».
Salì le scale lentamente, nel caso che suo padre volesse raggiungerlo, ma si udiva soltanto il rumore di sua madre che portava il caffè e qualche voce di sottofondo. Udì pronunciare il suo nome una volta, prima di arrivare di sopra, ma non aveva nessuna intenzione di stare a origliare. Probabilmente sapeva di che cosa stavano parlando.
Suo padre si sarebbe chiesto se c’era qualcosa che non andava e sua madre gli avrebbe risposto che era solo dovuto al momento della crescita e che Donny era davvero in una posizione delicata e che forse Norm non avrebbe dovuto perdere la pazienza a quel modo con un insegnante del ragazzo. A quel punto suo padre avrebbe fatto una sfuriata, negando l’esistenza di qualsiasi problema, poi avrebbe capito e avrebbe rassicurato la moglie che nessuno degli insegnanti avrebbe osato far nulla, poiché avevano bisogno del suo appoggio per lo sciopero.
Ormai stava diventando una storia vecchia e risaputa.
Perfetto, pensò entrando in camera. Non sono più un figlio, sono un mezzo. Un asso nella manica. Se sbaglio, non è colpa mia, sono gli insegnanti che si comportano in modo imparziale; se prendo un bel voto, non è merito mio, sono gli insegnanti che gli leccano il culo. Splendido. Splendido davvero.
Sbatté la porta, accese la luce e salutò i suoi animali prendendo a calci il letto.
«Non capisco», disse Joyce Boyd, seduta sul divano, quando udì sbattere la porta. «È un ragazzo perfettamente normale e lo sappiamo con certezza, ma non va quasi più da nessuna parte. Se stasera non avessimo insistito, sarebbe rimasto in casa a giocare con i suoi dannati beniamini, di sopra.»
«Ma certo che esce», ribatté Norm, accendendosi una sigaretta e accavallando le gambe. «Ma con tutte le tue iniziative sociali e quel Circolo dell’Arte — per non parlare della roba per la Festa di Ashford — non stai abbastanza in casa per vederlo uscire.»
Lei strinse gli occhi. «Questa è un’accusa.»
«Sì, e allora?»
«Pensavo che fossimo d’accordo di non accusarci più.»
Lui osservò la punta della sigaretta, poi le ginocchia accavallate, e tolse della cenere che gli si era depositata sul petto. Il caffè era sul tavolo di fronte e si stava raffreddando. «Immagino che fossimo d’accordo.»
«Immagino che fossimo d’accordo», lo scimmiottò lei, accoccolandosi sulle gambe. Stancamente, si passò una mano sugli occhi. «Dannazione, Norm», disse con tono stanco, «faccio tutto quello che posso.»
«Certo», rispose lui senza troppa convinzione. «Quando ci sei.»
«Bene, e tu allora?» Le labbra, già sottili, scomparvero, quando le strinse. «Quando è stata l’ultima volta che hai passato una serata con lui, eh? Credo che quel povero figliolo non ti abbia visto per più di un paio d’ore nelle ultime due settimane.»
«Quest’anno scolastico è molto duro», le ricordò il marito in tono piatto. «E poi c’è la possibilità di uno sciopero. Oltretutto, mi vede tutti i giorni a scuola.»
«Non è esattamente la stessa cosa, Norm, e lo sai bene. Là tu non sei suo padre, non nel vero senso della parola.»
Lui sprofondò ancora di più nella poltrona, stirandosi le gambe. «Piantala Joyce, va bene? Sono stanco e il ragazzo è in grado di cavarsela da solo.»
«Se è per questo, anch’io sono stanca», rispose lei seccamente, «ma io devo giustificarmi e tu no, vero?»
«Giustificare che cosa?»
Chiuse gli occhi per un attimo. «Niente», disse con leggero fastidio, prendendo un pacco di opuscoli e facendo scorrere le pagine senza nemmeno guardarle, per poi gettarle da parte. Raccolse poi un foglietto, il programma per la Festa di Ashford. Era una delle responsabili per il coordinamento dei festeggiamenti nei due licei della città. Fece cadere anche quello e strinse la camicia. «Sono anche preoccupata per tutto quel correre che fa.»
Lui ne fu sorpreso e non fece nulla per nasconderlo.
«Intendo dire», aggiunse in fretta, «non è che si limiti al jogging. Non gli interessa mantenersi in forma, oppure entrare nella squadra di atletica o di corsa. Lui si limita a … correre.»
«Be’, che cosa c’è di male? Gli fa bene.»
«Ma è sempre solo», ribatté lei, guardandolo come se dovesse capire. «E non ha nemmeno orari fissi, niente del genere. Corre quando gli gira. E non qui vicino, dietro l’isolato — va sempre nella pista della scuola.»
«Joyce, questo non ha senso. Perché mai dovrebbe correre su un terreno tutto accidentato, rischiando di rompersi una gamba o di slogarsi una caviglia, quando ha una pista a sua disposizione?»
«È solo … non so bene. Solo che mi sembra che ci sia qualcosa che non quadra.»
«Forse lo aiuta a pensare. Ci sono ragazzi che fanno sollevamento pesi, altri che danno pugni a un pallone e Donald corre. E allora?»
«Se ha dei problemi», disse lei in tono serio, «non dovrebbe … non dovrebbe fuggire. Dovrebbe venire da noi.»
«Perché?» chiese freddamente il marito. «Considerando come sei stata ultimamente, perché dovrebbe farlo?»
«Io?»
Quello sguardo lo faceva sentire a disagio.
«D’accordo, noi.» E rimase con gli occhi chiusi.
Dopo qualche istante: «Norman, pensi che abbia dimenticato quella storia dell’ospedale per gli animali?»
«Credo di sì. È dal mese scorso che non ne parla più. Almeno non con me.»
«E nemmeno con me.»
Lui riaprì gli occhi, fissando il camino vuoto, poi si passò distrattamente un dito lungo il naso adunco. «A pensarci bene, credo che non abbiamo affrontato la questione nel modo giusto. Avremmo potuto mostrare un po’ più di entusiasmo.»
«Sono d’accordo.» Lei si sfregò le ginocchia.
Norman assunse un’aria furtiva. «Forse», disse, gettando un’occhiata verso sua moglie, «dovremmo fare come quella coppia di cui parlava il Times. Quelli che affermavano di aver risolto i problemi di sesso del loro figlio portandolo in un bordello». Ridacchiò sotto i baffi. «Forse è vero. Forse dovremmo metterlo in posizione orizzontale.» Rise ad alta voce, scuotendo la testa e cercando di immaginare suo figlio — non certo un attore del cinema, ma nemmeno un mostro — che scopava con una donna. Non ci riusciva. Per quanto ne sapeva, Donald era quasi completamente asessuato.
«Mio Dio», mormorò lei.
«Cristo, stavo solo scherzando.»
«Mio Dio.» Fece un gesto come se volesse afferrare qualcosa sul tavolo, poi ci rinunciò e si alzò in piedi. «Vado a letto. Domani ho lezione.»
Lui aspettò che se ne fosse andata, poi si alzò e la seguì.
«Non è necessario che venga anche tu.»
«Lo so», rispose, «ma domani devo essere in forma.»
Sul pianerottolo lei si girò a guardarlo. «Finiremo con il divorziare, vero?»
Lui afferrò la balaustra con forza e scosse la testa. «Mio Dio, Joyce, possibile che ogni volta che discutiamo finisci parlando di divorzio? C’è un sacco di gente che litiga forte, ma non finiscono mica tutti davanti a un avvocato.»
La seguì lungo il corridoio, oltre la stanza di Don, fino alla loro. Lei accese la lampada sul cassettone e aprì la porta del bagno. Si sbottonò la camicia mentre lui si chinava per togliersi le scarpe. In piedi, sulla porta, con la pallida luce proveniente dalle piastrelle e dal pavimento del bagno, lasciò cadere la camicia e le diede un calcio. Non indossava il reggiseno ma, senza nemmeno vederla in faccia, lui capì che non si trattava di un invito.
«Io so perché», disse lei, armeggiando con la fibbia dei pantaloni.
«Perché, che cosa?»
«Perché non mi ami più.»
«Oh, per l’amor del cielo!» Si era tolto la camicia e stava cercando il pigiama sotto il cuscino.
«No, davvero, lo so. Tu credi che fra me e Harry ci sia qualcosa. È per questo che sei così duro con lui. È per questo che ti rendi ridicolo quando gli parli come stasera.»
«Stai davvero esagerando», disse lui senza troppa convinzione. Si infilò la giacca del pigiama e slacciò la cintura, lasciando cadere i pantaloni. «Spero che tu abbia gusti migliori.»
Lei si voltò verso il lavandino, facendo scorrere l’acqua calda che annebbiò lo specchio. «Non devi fingere, Norman. Lo so, lo so.»
Non aveva nient’altro oltre le mutandine. Aveva i seni ancora piccoli e sodi e una pancia piatta per essere una donna che aveva avuto due figli e non faceva ginnastica. Le sue gambe erano talmente lunghe da sembrare interminabili. La osservò mentre si piegava in avanti per spremere il dentifricio sullo spazzolino, la osservò mentre si guardava allo specchio, girandosi leggermente a destra e a sinistra. La osservò, rattristato, perché non gliene importava più nulla.
È una merda, pensò; mio Dio, la vita è una merda.
Si agitò sotto le coperte, sfregandosi gli occhi per cercare di eliminare quegli strani pensieri improvvisi, poi la guardò di nuovo. «È la verità?» le chiese alla fine. «Con Harry, voglio dire.»
«Sei un bastardo», rispose lei, sbattendo la porta.
Il cappotto non sarebbe stato sufficiente, ma Tanker non aveva nient’altro che potesse essere usato come coperta. Le foglie lo coprivano quasi interamente e i cespugli lo riparavano dal vento, ma non era abbastanza.
Per rilassarsi davvero aveva bisogno di una puttana. Come quella di Yonkers. Due capezzoli che saltavano fuori dal maglione, un culo sodo da ragazzina stretto nei jeans. Mentre la trascinava lungo quel vicolo, dopo averle dato un pugno per non farla gridare, aveva capito che non se ne sarebbe andato senza prenderne almeno un pezzo. Quando l’aveva sbattuta per terra, aveva gli occhi spalancati, e gli aveva sputato sangue in faccia quando l’aveva colpita per la seconda volta: ma era calda, su questo non c’erano dubbi. Ed era rimasta calda fin quando le aveva aperto la gola con il coltello, per poi finire il lavoro con le unghie che si era lasciato crescere appositamente.
Lei era calda e lui adesso aveva freddo, così decise che la prossima doveva essere una puttanella.
Rabbrividì stringendosi ancora di più sotto il cappotto e le foglie, poi chiuse gli occhi e sospirò, aspettando il sonno.
Dopo un’ora aspettava ancora, con gli occhi spalancati che osservavano.
Era il parco.
La luna era alta e lo stava sempre osservando, bisbigliandogli i suoi ordini, ma c’era qualcos’altro, qualcosa nel parco che stava aspettando proprio lui. Cercò di prenderla sul ridere, ma quella sensazione non se ne andava; cercò di cancellarla scuotendo la testa con forza, ma non se ne andava.
Era là fuori, da qualche parte, e sapeva che se non fosse stato per la luna, sarebbe già morto.
Domani, promise a se stesso, mettendosi una mano sul cuore; domani avrebbe trovato una puttanella e le avrebbe tagliato la gola. E se non ci fosse stata la luna, avrebbe ucciso da qualche altra parte.
La porta era appena socchiusa e lasciava filtrare un fascio di luce dall’anticamera fin sulla pelosa coperta marrone. La luce risaliva sul letto, inchiodando il ragazzo sul materasso. Don si distese sopra le coperte, con la testa sul cuscino e le mani incrociate sullo stomaco, per controllare che i suoi beniamini fossero ancora lì con lui.
Sopra la testiera c’era il manifesto di una pantera distesa nella giungla e intenta a leccarsi una zampa, con lo sguardo sempre fisso verso l’obiettivo; sulla parete opposta, di fianco alla porta, c’erano alcuni manifesti di elefanti che trasportavano enormi tronchi in mezzo alla boscaglia: avevano le orecchie spalancate a ventaglio e le zanne molto appuntite e straordinariamente bianche. Ovunque, nella vasta stanza, c’erano fotografie e manifesti di leopardi e ghepardi che correvano, aquile che planavano, puma che cacciavano, c’era anche un cobra visto di spalle, per mettere in mostra gli occhi sulla pelle squamosa. Sul cassettone c’era una finta linee impagliata con i denti bene in vista; sull’altra cassettiera un leone in miniatura impagliato; negli spazi vuoti delle tre mensole ancora da finire c’erano delle statuine di gesso e plastica che aveva fatto e dipinto con le sue mani: artigli, denti, unghie e occhi. E sopra la scrivania, perpendicolare all’unica finestra della camera, c’era un grande manifesto incorniciato con un vetro antiriflettente — una strada di terra battuta fiancheggiata da immensi pioppi scuri che gettavano ombre sul terreno, ombre nell’aria che rendevano più cupo il cielo al crepuscolo e facevano sembrare più luminose le stelle; e lungo la strada, proveniente dall’orizzonte, un cavallo nero al galoppo, con gli zoccoli che emettevano scintille fra le pietre, le narici che fremevano, gli occhi socchiusi e le orecchie spinte indietro. Non aveva né briglie né cavaliere ed era il più maestoso cavallo che avesse mai visto.
I suoi beniamini.
I suoi animali.
Dopo averli osservati una seconda volta, si voltò nascondendo la faccia tra le braccia.
I suoi genitori non avevano più voluto avere animali in casa, dopo che Sam era morto e avevano regalato il pappagallino del ragazzo a una zia in Pennsylvania. Tutto per via dei ricordi; e sembrava non avere nessuna importanza che anche Don volesse bene a quell’uccellino silenzioso.
Quando aveva chiesto con insistenza un sostituto, di qualsiasi tipo — non era certo di gusti difficili — sua madre aveva affermato di avere una grave allergia per i gatti, e suo padre aveva cercato di convincerlo che in casa nessuno aveva abbastanza tempo per occuparsi di un cane in modo adeguato. I pesci erano noiosi, gli uccelli e le tartarughe procuravano un sacco di malattie esotiche inguaribili, mentre i criceti e le cavie erano troppo stupidi e non facevano altro che mangiare e dormire.
Aveva ormai deciso da tempo che non gliene importava niente; se i suoi genitori non erano entusiasti di ciò che aveva pensato di fare della sua vita, perché mai avrebbe dovuto fare tante storie solo per la mancanza di qualche animale?
Perché sì, disse a se stesso, solo per questo.
E improvvisamente era di nuovo estate, con il sole alto nel cielo, lui era da basso in salotto, molto eccitato. C’erano entrambi i suoi genitori che, interrotte le faccende domestiche per un attimo, aspettavano con ansia. A giudicare dall’espressione di sua madre, forse si aspettava che le dicesse di aver deciso di lasciare la scuola, di sposarsi, mentre suo padre era convinto che avesse messo incinta qualche ragazza.
«Ho deciso che cosa fare all’università», aveva annunciato con voce stridula per l’emozione, appoggiandosi con forza alla sedia di suo padre per scaricare i nervi.
«Bene», aveva detto Norman con un sorriso. «Spero che diventerai ricco, così mi potrai mantenere e io non rimpiangerò i tempi in cui lavoravo.»
Si era messo a ridere perché non sapeva esattamente cos’altro fare, e sua madre aveva sfiorato il braccio di Norm.
«Di che cosa si tratta, tesoro?» gli aveva chiesto lei.
«Voglio diventare dottore.»
«Perfetto, figlio di puttana!» aveva esclamato suo padre, trasformando il sorriso in una smorfia piena di orgoglio.
«Oh, mio Dio, Donald», aveva bisbigliato Joyce con gli occhi luccicanti.
«Sicuro», aveva detto, contento nel vedere che il peggio era passato e che non c’erano state scenate. «Amo gli animali e loro amano me; inoltre voglio imparare a conoscerli e a curarli. Riuscirò a farmi pagare per fare quello che mi piace, giusto? Quindi ho deciso che farò il veterinario.»
Il silenzio lo aveva colpito come una mazzata e si era reso conto soltanto dopo parecchi secondi che avevano capito un’altra cosa: avevano pensato che avesse intenzione di diventare medico.
Il sorriso di Joyce si era fatto forzato, ma aveva finto comunque di mostrarsi felice per la sua scelta; dopo un po’ suo padre lo aveva portato fuori e gli aveva detto per la millesima volta che era stato lui il primo della famiglia Boyd ad andare all’università e che Donald sarebbe stato il secondo. Sperava con tutto il cuore che il ragazzo sapesse che cosa stava facendo.
«Essere un insegnante e poi preside», aveva spiegato Norman, «è qualcosa di cui vado ovviamente orgoglioso, figlio mio. Fare il veterinario, be’, non è … be’, non è certo niente di speciale, se ci pensi bene. Voglio dire: secondo la mia idea della medicina, aiutare i gatti non è come aiutare dei bambini.»
«Ma io amo gli animali», aveva ribattuto lui con fare ostinato, «e non mi piace il modo in cui la gente li tratta.»
«Oh. Un altro dottor Dolittle, immagino», aveva ironizzato suo padre.
«Sì. Forse.»
«Don.» Aveva appoggiato la mano sulla sua spalla. «Voglio solo assicurarmi che tu sia veramente convinto. Decidere una cosa del genere è un passo molto importante.»
«Non lo avrei detto se non fossi stato convinto.»
«D’accordo, ma almeno riflettici sopra, okay? Come favore nei confronti miei e di tua madre. Siamo solo in agosto e hai ancora un anno davanti a te. E anche allora non dovrai decidere affrettatamente. Ci sono ragazzi che ci impiegano un sacco di tempo. Prenditi tutto il tempo che vuoi.»
Avrebbe voluto gridargli che ci aveva già pensato abbastanza, invece si era limitato ad annuire e se n’era andato, camminando e correndo per tutto il resto della giornata. Quando alla fine era tornato a casa, non si era più parlato del suo annuncio e da allora l’argomento non era stato più toccato.
Fece una smorfia nel letto: non era così stupido come pensava suo padre — sapeva bene che loro speravano ancora che cambiasse idea e decidesse di curare delle ricche, vecchie signore invece di vecchi barboncini.
Ciò che non sapevano era che lui non voleva curare barboncini, persiani, bassotti o siamesi: lui voleva lavorare con l’equivalente vivente degli animali che aveva in camera.
Avrebbero fatto il diavolo a quattro se l’avessero saputo.
Ma non gliene importava nulla, perché niente al mondo gli avrebbe fatto cambiare idea; ora voleva soltanto che smettessero di discutere.
Come se avessero sentito la sua preghiera, le voci tacquero. Lui si spogliò in fretta e si infilò nel letto. Fissò il soffitto. Si chiese se presto anche lui sarebbe entrato a far parte della categoria dei figli di divorziati, come Jeff Lichter, che viveva con il padre, o come Brian Pratt, che viveva con sua madre.
Una meraviglia, pensò, e si voltò sulla pancia, alzò la testa per osservare con un vago sorriso la pantera, poi il cavallo, poi la lontra sull’altra mensola. Non avevano dei nomi, ma improvvisamente gli venne da pensare a che cosa avrebbero detto Brian o Tar se avessero saputo che a volte parlava con quelle bestie. Non intere conversazioni, solo qualche parola. Ne toccava uno come portafortuna prima degli esami, o chiedeva a un altro di fargli incontrare la-donna-della-sua-vita in modo che gli altri ragazzi non lo prendessero più in giro, oppure chiedeva a un altro di fare in modo che lui potesse, svegliandosi una mattina, scoprire di essere stato trasformato in Superman.
Fece un largo sorriso.
Don Superman! Capace di scavalcare i grattacieli con un solo balzo. In grado di trasportare Tar Boston sopra il parco, per poi farlo cadere a testa in giù in mezzo allo stagno.
Così forte da salvare Chris Snowden dalle grinfie di Brian, per poi aspettare la ricompensa che questa avrebbe voluto dargli. Capace di usare i suoi occhi a raggi X per vedere attraverso i maglioni rigonfi di Tracey Quintero e controllare che tutto fosse al suo posto.
Don Superman.
«Don il Tonto», disse.
A pensarci bene, era divertente il fatto che gli unici con i quali riusciva a parlare fossero i bambini. Per qualche strano motivo, la maggior parte di loro pensava che le sue storie fossero carine, a eccezione di quel piccolo mostricciattolo di quella sera. Soffocò una risata nel cuscino. Meno male che i genitori di quella piccola peste erano ritornati in tempo, altrimenti avrebbe fatto vedere loro quel corvo gigante sull’albero.
E, dannazione, quello sì che sarebbe stato divertente!
Don Superman e il suo amico gigante, Corvo!
Giusto prima di addormentarsi, pregò di svegliarsi e di scoprire che era diventato il ragazzo più carino dell’intera città, anzi, dell’intero stato, e forse anche del mondo.
Qualsiasi cosa, pur di non vedere la piatta faccia del vecchio Don riflessa nello specchio del bagno.