Fu una cena piuttosto affrettata. Joyce trascorse più tempo a gesticolare e a blaterare che a mangiare. Norman perse la pazienza più di una volta nel tentativo di mantenersi controllato e Don spazzolò tutto quanto aveva nel piatto, fece il bis e prese in considerazione anche una terza porzione per vedere di calmare il vorace appetito che si era impossessato di lui. Eppure continuava ad avere acidità di stomaco e il suo tic si rifiutava di lasciare in pace l’angolo dell’occhio sinistro. Era il nervoso, pensò, per l’ansia sempre crescente di sua madre, che sfiorava l’isteria, per l’imminente cerimonia di apertura delle festività di quella sera al parco, e per l’irascibilità di suo padre. Più si avvicinava l’ora di uscire, più Norman si faceva scorbutico, finché Don decise di scusarsi e si precipitò di sopra a cambiarsi.
Si chiuse la porta alle spalle, accese la luce e si costrinse a guardare il poster che aveva tolto dall’armadio e rimesso al suo posto.
Il cavallo al galoppo era sparito.
Lo guardò soltanto una volta. Riusciva solo a immaginarselo mentre correva attraverso il prato, con gli occhi verdi scintillanti, in direzione di Falwick, come lui stesso gli aveva comandato.
Andò alla finestra e vide soltanto il buio.
«Don», lo chiamò sua madre mentre passava davanti alla sua porta. «Sbrigati, tesoro, altrimenti faremo tardi.»
Le dita si rifiutavano di allacciare i bottoni, di chiudere le scarpe, di pettinare i capelli; gli tremavano le labbra mentre tentava di scrollarsi di dosso una sensazione di gelo invernale che gli aveva paralizzato le braccia, ormai incapaci di svolgere qualsiasi lavoro; gli bruciavano gli occhi per la polvere che mandava stilettate di fuoco bianco al cervello, un fuoco vorticoso che si mescolava fino a formare la figura infiammata di un cavallo.
Corse nel bagno per svuotare lo stomaco di quanto aveva mangiato.
Inginocchiato sul pavimento, con le mani aggrappate ai lati del water, sentì Joyce che si lamentava a proposito di qualche macchia che le aveva rovinato il vestito, sentì Norman che si lagnava dei fotografi che sicuramente l’avrebbero fatto apparire come un cadavere per via del vestito nero che lei gli aveva consigliato.
Un ulteriore rigurgito di bile prima di piangere lacrime amare annaspando alla ricerca dell’aria, poi Don tirò lo sciacquone e prese un asciugamano. Inumidì la spugna sotto il rubinetto, strizzò l’asciugamano e se lo gettò sulla faccia. La camicia era bagnata, ma lo choc era stato un sollievo; aveva la gola infiammata, ma quando si alzò in piedi per bere un po’ d’acqua non ottenne la reazione che si sarebbe aspettata. L’acqua scivolò giù senza difficoltà e allora sorrise alla propria immagine riflessa con aria sardonica, mentre gli gocciolavano i capelli e il viso e gli occhi si stavano arrossando.
«Grande eroe», mormorò. «Assomigli a Tar dopo tre giorni di ubriacature.»
Si asciugò rapidamente, si lavò i denti e si pettinò i capelli; tornò in camera per cambiarsi camicia e pantaloni, trovò una giacca sportiva che avrebbe potuto indossare e si precipitò al piano di sotto, dove si mise ad aspettare nel salotto guardando fuori dalla finestra.
La strada era buia e una leggera brezza faceva oscillare le ultime foglie rimaste sugli alberi. Passò una coppia abbracciata che però non indossava cappotti pesanti.
Il signor Delfield, dall’altra parte della strada, stava litigando con il suo bassotto che non voleva farsi mettere al guinzaglio e che, liberandosi dal collare, fece perdere l’equilibrio al pover’uomo. Questi si mise a inseguirlo agitando un pugno mentre con l’altra mano sbatteva nervosamente il guinzaglio sul marciapiede. Passò la convertibile rossa, decappottata e con la radio ad alto volume. Il vento soffiava a raffiche, una ghianda rotolò sul vialetto e finì nell’oscurità.
Dove sei? pensò, sentendo il freddo che filtrava dal vetro.
Non ci fu risposta e non aveva più tempo per rifare la domanda. Joyce era nell’ingresso e faceva tintinnare le chiavi mentre chiamava Norman e diceva a Don di lasciare una luce accesa in modo da non rompersi una gamba quando fossero rientrati, mentre si domandava ad alta voce che cosa avesse dimenticato, che cosa potesse andare storto, che cosa avrebbe pensato la gente se i festeggiamenti fossero iniziati con un tonfo invece che con un fuoco d’artificio.
Don seguì i genitori in giardino, dove respirò a pieni polmoni, vide il signor Delfield precipitarsi in casa tenendo in braccio il suo cagnolino scodinzolante e andò a sedersi sul sedile posteriore senza fretta.
Arrivati al parco, furono costretti a parcheggiare a nord, mentre Joyce si lamentava perché avrebbero dovuto uscire a un’ora più decente per trovare un posto migliore.
Ai cancelli esitò, in ascolto. Non si sentiva nient’altro che il mormorio di una folla che attendeva pazientemente, il rumore di una portiera che si chiudeva, i tacchi delle scarpe di sua madre sul selciato.
Attorno al palco della banda erano state sistemate a semicerchio delle sedie pieghevoli. Le luci erano brillanti e puntate sull’orchestra, che prese posto tra gli applausi della folla. Era presente una troupe televisiva che si aggirava in mezzo a un gruppetto di giornalisti, mentre il sindaco e le personalità locali guardavano con sospetto verso le telecamere.
Don era seduto tra i suoi genitori e non gli piaceva il modo in cui gli altri lo guardavano, lo puntavano, illuminati da sorrisi avidi. I Quintero erano seduti alle sue spalle, e lui trascorse la maggior parte del tempo a bisbigliare con Tracey sulla stupidità di tutta quella messa in scena, rispondendo ai saluti e ai sorrisi che riceveva dai conoscenti.
Il capobanda salì sul podio e il pubblico sedette; si voltò verso il microfono e si schiarì la gola, causando un fischio nell’impianto acustico. Si mise a ridere nervosamente; il pubblico lo imitò nella risata. Li ringraziò tutti per essere intervenuti e presentò il sindaco Garziana, che per quindici minuti non parlò d’altro che della storia di Ashford in modo tanto noioso da far innervosire le file posteriori e da far raggelare il sorriso sui visi degli spettatori antistanti.
Seguì un momento di pausa drammatica, poi si passò alle presentazioni dei membri del comitato per la Festa di Ashford, dei presidi di entrambi i licei e di una dozzina di altre persone che avevano dato il proprio contributo per festeggiare il compleanno della città.
Norman e Joyce si erano messi vicini e Don ammiccò loro quando Norman si girò verso la folla a salutare.
Il sindaco fece un’altra pausa, poi riprese a parlare con voce tanto bassa da obbligare tutti a trattenere il respiro per non perdersi qualche parola. Menzionò lo Squartatore e presentò Don.
Lui non si mosse, nonostante l’entusiasmo dell’applauso.
«Forza», lo spronò Joyce, abbracciandolo dolcemente.
Non ci riusciva. Le telecamere stavano riprendendolo e il sindaco stava sorridendo, mentre il capo della polizia era balzato sul palco con un pacchetto nelle mani.
«Vai, Donald», gli sussurrò Norman, spingendolo violentemente.
Non ci riusciva.
Dove sei?
Tracey si sporse in avanti e gli arruffò i capelli. «Va’, veterinario», gli mormorò in un orecchio.
Lui sorrise, scosse la testa e si alzò. Si lisciò la giacca, si sentì la gola asciutta e la distanza da percorrere tra i flash e i riflettori gli sembrò lunghissima. Udiva solamente il rumore delle sue scarpe.
Cupo. Sordo. Ferro contro ferro.
L’applauso si fece più forte e quando raggiunse la posizione tra il capo della polizia e il sindaco, cercò di sorridere timidamente, incapace di vedere niente al di là della barriera di luci bianche.
Il sindaco disse qualcosa — Don sentì menzionare il nome di Amanda e notò il silenzio che ne seguì — e aggiunse qualcos’altro prima di stringergli vigorosamente la mano; e improvvisamente apparvero altre persone che si inginocchiavano, si azzuffavano per riprenderlo con le telecamere, mentre i flash lampeggiavano, e urlavano consigli per prendere una posa piuttosto di un’altra, si calpestavano, si schiacciavano l’uno contro l’altro, come un’idra dagli occhi bianchi.
Il capo della polizia disse qualcosa e gli porse il pacchetto. La sua medaglia, un certificato e un ringraziamento ufficiale della città alla quale aveva risparmiato ulteriori dolori.
L’applauso gli stordì le orecchie, il sindaco gli diede una pacca sulla spalla e il capo della polizia gli strinse la mano senza nemmeno guardarlo in faccia. Poi si ritrovò di fronte al microfono e tutto taceva. Si sentiva solo il fruscio delle telecamere che lo stavano inquadrando, lo scalpiccio dei piedi che si muovevano sull’erba e lo scricchiolio di alcune sedie.
Tutto taceva e gli ci volle qualche istante per rendersi conto che lo volevano sentir parlare. Doveva dire qualcosa. Doveva spiegare a tutti come un ragazzo aveva potuto picchiare a morte un assassino.
Da qualche punto nell’oscurità, oltre la barriera di luci, si levò una voce: «Ehi, Paperino, di’ loro che è stato il corvo gigante».
Alzò di scatto lo sguardo, alla ricerca della voce e delle risate che seguirono.
«Io…»
Non era abbastanza vicino al microfono e soltanto il sindaco fu in grado di sentire la sua voce. La risata continuò e si allargò alimentando il suo nervosismo, mentre la folla lo guardava, sperando di convincerlo che si trattava solo di una burla e che la gratitudine non era scomparsa.
Il sindaco gli diede una leggera pacca sulla nuca e lo spinse un po’ più in avanti; il capobanda si schiarì la voce. La risata si spense e tornò la quiete.
Si sentiva solo il vento fra gli alberi.
Abbassò gli occhi e vide i suoi genitori — Joyce stava asciugandosi una lacrima e Norman aveva un’aria corrucciata; alle loro spalle notò Tracey, aggrappata al braccio di suo padre.
«Grazie», riuscì infine a dire e si allontanò dalla piattaforma prima che qualcuno lo potesse fermare.
Ci fu un applauso leggero e breve, e quando raggiunse il suo posto, il capobanda aveva già iniziato a battere la bacchetta.
La stazione di polizia era deserta, a eccezione dell’appuntato e del fattorino e di Thomas Verona, che si trovava al secondo piano in un ufficio che dava sulla via principale. Il suo turno finiva a mezzanotte, ma si sentiva come se le tre fossero già passate da un pezzo — aveva gli occhi annebbiati, le mani tremanti e ogni volta che cercava di concentrarsi su qualcosa per più di qualche minuto, tutto cominciava a girargli attorno tanto vorticosamente da costringerlo a chiudere forte gli occhi per non perdere l’equilibrio.
Si massaggiò la guancia mentre guardava fuori dalla finestra. I pedoni erano pochi e le macchine che si fermavano al semaforo all’angolo erano per la maggior parte di cittadini circostanti; passavano solo per tornare a casa. Cominciò a grattarsi l’altra guancia, mentre immaginava di assistere al concerto. Susan era presente, sedeva con i Quintero e si augurava di poterli raggiungere. Ma non ci sarebbe riuscito. Era la sera di Luis, non la sua — era stato Luis a trovare il ragazzo e a prendersi cura di lui in attesa dell’ambulanza, era stato Luis che era riuscito a chiarire l’incidente tra un autobus e una macchina che aveva oltrepassato la divisione del viale.
Luis Quintero meritava tutta l’attenzione possibile; d’altra parte, qualcuno doveva restare alla centrale quando mancava qualche collega.
Però sarebbe stato carino poter essere seduto accanto a Susan e tenerla per mano. Sarebbe stato molto meglio che stare seduto in quell’ufficio.
«Merda», mormorò e si allontanò dalla finestra. Appoggiò i palmi delle mani sulla scrivania e fissò la pila di cartellette che aveva di fronte. I risultati degli esami sulle ferite di Falwick. I risultati degli esami su Amanda Adler e sulle altre vittime dello Squartatore. I risultati degli esami del sangue trovato sui vestiti e sulle mani di Boyd. Il rapporto dell’autopsia. Le sfiorò con un dito e tremò. Burocraticamente, si trattava solo di indizi preliminari, ma, per lui, erano certamente sufficienti per chiudere tutto, archiviare e passare a qualcos’altro.
Ma non ci riusciva.
Continuava a ripensare all’esile figura del ragazzo disteso sul letto d’ospedale, che comunicava paura solo con lo sguardo e nel modo di parlare, e che evitava di rispondere veramente alle domande che gli ponevano. C’era qualcosa che non andava. Quel comportamento lasciava pensare che il ragazzo volesse nascondere qualche cosa, per coprire una banda che aveva appena fatto a pezzettini un sergente in pensione. Lui l’aveva sospettato fino a quando erano arrivati i primi risultati e aveva capito di aver sbagliato, un’altra ipotesi campata per aria.
Un ragazzo. Una vittima.
Il rumore di passi nel corridoio gli fece alzare lo sguardo in tempo per vedere un uomo in giacca bianca che passava davanti alla sua porta aperta.
«Ciao, Ice.»
I passi si fecero esitanti e tornarono indietro. Sulla porta si affacciò un uomo basso, dai capelli riccioluti e dallo sguardo costantemente malinconico. «Che devozione! Non ti capisco», gli disse.
Verona gli sorrise, alzò il dito medio e lo batté su un foglio di carta verde. «Questa cosa qui.»
Ice Ronson si allungò senza spostarsi dalla sua postazione. «Esatto, Tom. È un pezzo di carta.»
«È il caso Boyd.»
«Okay. È un pezzo di carta che riguarda il caso Boyd.»
Tolse un pezzo di gomma da masticare dal taschino della giacca e se lo mise in bocca. Fece un palloncino e lo risucchiò prima che potesse scoppiare. «E allora?»
«E allora, chi ci ha lavorato sopra? Non riconosco la firma qui sotto.»
Alzò il foglio e aspettò che Ronson attraversasse la stanza per andare a vedere. «Cristo, voi altri non sapete nemmeno scrivere i vostri nomi, eccetto che sugli assegni.»
«Ehi, amico, non è facile stare in trincea», ribatté Ronson, estraendo un paio di occhiali dallo stesso taschino della gomma. «Dobbiamo lavorare con sostanze chimiche particolari, con misure delicate, tenendo continuamente presente che la vita di un uomo è appesa a un … merda, ma è impossibile! Perché non ti prendi una lampada decente, eh? Si diventa ciechi qui dentro.» Spostò il documento sotto la luce fluorescente che pendeva dal soffitto. «Oh, sì, è Adam. È la sua firma.»
«Adam?»
Ronson sospirò per l’ignoranza della gente con cui doveva lavorare. «Adam Hedley, non lo conosci? Un chimico davvero brillante che perde tempo a insegnare al liceo. Gli piace il lavoro della polizia e lo fa nel tempo libero, quando non deve curare i mocciosi. Sai, potrebbe fare il libero professionista, guadagnerebbe il quadruplo di adesso. È uno stupido, se vuoi sapere la mia opinione. Ma è un genio.»
Verona annuì. «Buon per lui. Ma anche Einstein si è sbagliato, una volta in vita sua.»
«Anche tre.»
«Ice, guarda, c’è qualcosa che non va, vero?»
Ronson alzò le mani. «Tom, ti ho detto che l’ha fatto Adam.»
«Allora l’ha fatto sbagliato.»
Ronson si appoggiò sull’orlo della scrivania e scosse la testa. «Io posso farlo sbagliato, capo, ma non Adam. È un maniaco. Ripete un test un miliardo di volte e continua a spedire reperti all’FBI, nel caso si fosse sbagliato.»
Verona si appoggiò all’indietro. «Be’, questa volta si è sbagliato.»
Ronson scosse la testa; Verona stava dichiarando l’impossibile.
Il detective sospirò, prese un fazzoletto e si asciugò la faccia. «Ice, leggi.»
Finito di leggere, piegò la cartelletta. «Interessante.»
«Interessante? Merda! »
Il chimico scosse la testa e si tolse gli occhiali, si mise in bocca un ulteriore pezzo di gomma da masticare e fece un altro palloncino mentre si dirigeva verso la porta. Qui appoggiò un braccio contro lo stipite e si girò leggermente dicendo: «Credo che se Adam ha ragione, e probabilmente è così, avrai qualche problema, Dick Tracy».
«Lo stesso vale per te, amico», rispose Verona senza sorridere, spostando la sedia verso la finestra e grattandosi la guancia, mentre tornava a immaginare Susan che stava ascoltando la musica e si augurava di mancarle almeno quanto lei mancava a lui.
Poi guardò torvo il riflesso scuro sul vetro, prese il cappotto dall’attaccapanni e uscì. Aveva intenzione di prendere un’auto e di andare a fare un giro per ripulirsi la mente da tutti i pensieri. Forse così sarebbe riuscito a trovare una spiegazione sul motivo per cui non erano state rinvenute tracce di legno sul corpo di Falwick. E sul motivo per cui sul bastone che aveva usato il giovane Boyd non erano stati rilevati sfilacciamenti, o perdite di legno.
Poco prima di raggiungere l’uscita si fermò a riflettere, poi cominciò a scendere le scale verso il pianterreno e si diresse verso la stanza sul retro, dove venivano tenute le prove.
Aprì la pesante porta di ferro, se la richiuse alle spalle e si incamminò tra le pile di reperti sistemati sugli scaffali. Quando trovò la scatola di Boyd, la prese e si sedette sul pavimento mettendosela fra le gambe. Non c’erano molte cose — frammenti di stoffa in sacchetti di plastica, pezzi d’erba e di terra, e ogni sacchetto era chiuso con un nodo all’estremità. La luce era bassa, proveniva da un’unica lampadina in mezzo alla stanza, ma tenendo la mazza vicino agli occhi riuscì a vedere bene e scosse la testa di fronte alle strisce scure sulla corteccia. Soppesandola, si rese conto che anche solo un paio di collisioni contro il cranio di un uomo sarebbero state sufficienti per provocare qualche scheggiatura.
Ma lo Squartatore era morto e la chiusura del caso era stata decisa da un funzionario sollevato e giubilante che l’aveva riferito al sindaco, la cui prima reazione era stata quella di domandarsi se era il caso di dichiarare festa nazionale.
Si alzò, soppesò ancora il bastone, lo rimise a posto, riordinò la scatola e aprì la porta prima di spegnere la luce.
Non era stato il ragazzo.
Maledizione, non era stato il ragazzo.
Poi lo sentì. Il rumore di passi che si dirigevano a destra, verso di lui, quindi a sinistra, lungo il corridoio della caldaia. Aspettò, ascoltando il rumore dell’acqua che gorgogliava e sbuffava nei tubi lungo il soffitto.
«Ice?»
I passi si stavano avvicinando, lenti, regolari, e Verona mosse inconsciamente la mano verso la pistola che teneva sotto l’ascella. Si rimproverò per la tensione che avvertiva, ma non riuscì a frenarla quando vide l’ombra che si stava ingigantendo sulla parete.
«Ronson, maledizione, smettila di giocare!»
I passi si fermarono, ma l’ombra rimase.
Verona tastò alle sue spalle con la mano libera e girò la maniglia della stanza delle prove. Era troppo vecchio, a quarantatré anni, per avere delle allucinazioni, ma sapeva con sicurezza che ciò che aveva visto non era umano.
I passi ricominciarono a muoversi, sordi e leggeri.
L’ombra si fece più scura, si allargò nell’aria calda del corridoio impregnata di polvere.
Aveva la pistola e la porta era aperta, ma abbandonò qualsiasi idea di fuga dalle scale quando sentì lo sbuffo di un animale, quando i passi si fecero più vicini e le luci si spensero.
Verona si precipitò nella stanza, chiuse la porta e fece scattare la serratura; continuò a tenere la pistola in mano mentre premeva un orecchio contro la porta di ferro, ben sapendo che non avrebbe sentito niente, ma nella speranza di udire almeno le vibrazioni nel caso l’intruso avesse tentato un attacco.
Arretrò leggermente quando ebbe la sensazione che qualcosa si fosse fermato fuori dalla porta. Sussultò urtando con la spalla contro uno scaffale e bestemmiò quando sentì che qualcosa grattava sulla porta.
Non c’erano altre uscite, non c’erano finestre, nessun condotto per l’aria o per il riscaldamento; non c’era nessun altro posto dove andare eccetto la parete sul retro, dove avrebbe potuto appoggiarsi ad ascoltare il fruscio, il suo cuore, e dove avrebbe sentito la pistola diventare calda e scivolosa tra le sue mani.
Norman stava parlando con un reporter, Joyce stava conversando con il sindaco e Don sedeva rigido sulla sua sedia, augurandosi di andarsene alla svelta.
Sembrava che nessuno avesse aspettato altro che l’ultima nota dell’ultimo pezzo musicale per buttarsi su di lui, per stringergli le mani, per congratularsi o anche solo per stargli vicino così da essere ripresi da qualche fotografo. Alla prima opportunità si era guardato attorno, ma i Quintero se n’erano già andati e quando aveva chiesto a suo padre se poteva andare da Beacher, lui gli aveva risposto che sarebbe stato meglio farsi una bella dormita. Non sforzarti, aveva detto Joyce prudente, non così alla svelta.
Don aveva annuito, evitando discussioni; si sentiva come avvolto da una nube soporifera e faceva fatica a tenere gli occhi aperti e a sorridere continuamente a tutti. A un certo punto, quando stava cominciando a pensare di passare in mezzo alla folla e di tornare a casa da solo, incrociò lo sguardo di Chris che passeggiava in compagnia di un robusto signore dal viso florido che avrebbe potuto essere suo padre. Gli sorrise per prima, lui accennò un’espressione dolorosa, facendole capire con un gesto della testa che era intrappolato e che non riusciva a tornare a casa. Lei gli sorrise, mimando il gesto di un cappio attorno al collo, con gli occhi fissi e la lingua penzoloni, e proseguì nel cammino, guardandosi solo una volta alle spalle. Poi la folla la inghiottì.
Infine, quando cominciò a sentire un ronzio alle orecchie, si decise ad alzarsi e a tirare il braccio a suo padre. Norman cercò di farlo smettere senza nemmeno guardarlo, poi si voltò e si accorse dell’espressione del ragazzo. Un sorriso, una stretta di mano, e Don si sentì trasportato verso sua madre. Il sindaco se n’era andato da un pezzo, al suo posto c’era una manciata di persone, tra cui Harry Falcone.
«Joyce», disse Norman, facendo un brusco cenno in direzione dell’insegnante, «dobbiamo tornare a casa.»
Lei si rifiutò e gli altri si lamentarono con lui per il suo comportamento asociale, finché la tirò per il braccio e le indicò Don. «Oh, Dio, scusatemi», disse lei, cominciando a salutare tutti senza fare altre obiezioni. Falcone strinse la mano a Don in segno di congratulazioni e anche a Norman per solidarietà, e diede un bacio a Joyce appoggiandole le mani sulle spalle.
Nella station wagon Joyce si levò le scarpe ed emise un rumoroso sospiro. «Accidenti, ma li hai visti?» esclamò, mentre si allontanavano dal marciapiede. «Cristo, mi hanno quasi staccato le mani.»
«E che cosa ne è stato degli altri membri del comitato?» domandò Norman, prendendo una curva troppo velocemente e facendo stridere le ruote. Frenò bruscamente e mandò la moglie quasi a sbattere contro il vetro.
«Diavolo, anche loro hanno avuto la loro parte di gloria, non ti preoccupare», rispose lei. «Dio, ma una donna non può avere un momento di grandezza in questa città?»
«Hai fatto un buon lavoro, mamma», disse Don frettolosamente dal sedile posteriore, mentre si teneva a fianco la sua medaglia nella scatola ancora chiusa.
«Grazie, tesoro.»
«Ha ragione», approvò Norman, con un’esagerata dimostrazione di buon umore. «Un gran lavoro, signora Boyd. Se vuoi diventare sindaco, io voglio il posto di accalappiacani.»
«L’avrai», promise lei.
«Hai fatto un grande lavoro.»
Cinque minuti dopo imboccarono il vialetto di casa con il vento che li spingeva contro la porta; soffiava lungo la strada sollevando un polverone di foglie e terriccio, agitando gli alberi, facendo sbattere rumorosamente le persiane. Una lattina rotolò verso il tombino, un cane ululò e da qualche parte, oltre l’angolo della strada, qualcuno sbatté una finestra.
Entrarono spingendosi a vicenda nell’ingresso e si avviarono in cucina, mentre Joyce proponeva di lasciar perdere il caffè in favore di un bicchierino di brandy.
«Che tempismo», urlò dal ripostiglio, mentre Norman preparava tre bicchieri. Fece capolino dalle tendine della porta posteriore e in punta di piedi porse la bottiglia a suo marito che incominciò a servire. «Fantastico! Un solo saluto in più e saremmo annegati.»
Don fu sul punto di dirle che non stava ancora piovendo quando sentì gli scrosci portati da un turbine di vento, che colpivano le finestre e l’erba del giardino. Sarebbe stato un acquazzone veloce, ma aveva ragione — il tempismo era stato perfetto, doveva avere una divinità che la proteggeva. Poi sussultò quando suo padre gli porse il bicchiere tiepido.
«Fa’ pure», disse Norman, ridendo per l’espressione di sorpresa. «È un’occasione speciale. Non sto cercando di corromperti.» Si schiarì la gola e proseguì dicendo: «Credo … a noi».
«Giusto», approvò Joyce sorridendo e vuotò il bicchiere tutto d’un fiato.
Don fu più prudente, annusò il liquore arricciando il naso e poi lo ingoiò a fatica nonostante il bruciore che sentì subito dopo il primo sorso. Non riusciva a capire perché stessero brindando, ma non aveva intenzione di rovinare tutto, rifiutandosi di bere; quando alla fine riuscì a svuotare il bicchiere, il fuoco nel suo stomaco si era ridotto a piccoli tizzoni ardenti che lo avrebbero tenuto al caldo fino all’alba.
Sbadigliò.
Squillò il telefono e Joyce andò a rispondere; indicò con il pollice che la chiamata era per lei e sparì in salotto. Don sbadigliò di nuovo mentre fuori la pioggia si calmava e Norman si riempiva un altro bicchiere.
«Faresti meglio ad andare a letto», gli suggerì suo padre, mentre si toglieva le scarpe e metteva i piedi sul tavolo. «Domani hai la scuola.»
«Caspita, non mi merito nemmeno un giorno di vacanza per quello che ho fatto?» Si costrinse a ridere, per dimostrare che si trattava di uno scherzo. «E poi il dottor Naugle ha detto che mi devo riposare, ricordi?»
Stranamente, suo padre prese in considerazione l’idea e rispose che ne avrebbero riparlato l’indomani. Non fece altri tentativi; si diresse subito verso le scale, lanciò un bacio a sua madre che gli rispose con espressione assente e corse di sopra a due gradini alla volta, si precipitò in camera e si lasciò cadere sul letto.
Teneva ancora in mano la scatola di velluto. Accese la luce sul comodino, salutò la pantera che si stava ancora leccando la zampa e aprì il coperchio.
«Dio!», esclamò. «Cristo santo.»
Era grande quanto il palmo della sua mano, in oro pesante, con la scritta in rilievo: Per Servizio Pubblico, a Donald Boyd. La lesse ad alta voce agli amici che lo circondavano e poi appoggiò la scatola sulla scrivania. Evitando di proposito di guardare la parete, si voltò e si sbottonò la camicia, si levò le scarpe e i pantaloni e rimboccò il copriletto. Sentiva il poster alle sue spalle, ne percepiva la vuotezza, la nebbia, il peso degli alberi.
Quando spense la luce, percepì il buio alla finestra.
Sbadigliò talmente forte da farsi male alle mascelle; si stirò con tanta violenza da far dolorare i muscoli delle gambe; chiuse gli occhi, si girò su un fianco e abbracciò il cuscino; sospirò augurandosi che il sonno arrivasse alla svelta, si mise supino e sentì la federa del cuscino battere fredda contro la guancia. I piedi inciampavano nelle lenzuola.
La coperta era troppo pesante; ma il lenzuolo da solo non era sufficiente.
Andò nel bagno per lavare via il sapore di brandy dalla bocca.
Rimase fermo sul pianerottolo ad ascoltare i genitori che conversavano in cucina; rimase per una mezz’oretta e non sentì mai menzionare il suo nome.
«È l’ora di andare», mormorò, mentre tornava nella sua stanza. «Bel lavoro, ragazzo, siamo davvero orgogliosi di te, lo sai.»
La lampada era ancora spenta. Si diresse alla finestra, dove rimase a osservare il vento che soffiava tra le case, mentre la luna, di tanto in tanto, riusciva a far capolino tra gli squarci delle nuvole.
Mi dispiace, vero? domandò al cielo notturno. La mamma ha lavorato duramente per questo; non vuole che io le rubi l’attenzione.
Ma era solo un palliativo, un tentativo di comprensione, lui lo sapeva, lo sapeva bene che doveva sentirsi anche peggio. Ma non ci riusciva. Si sentiva come se qualcosa gli fosse stato portato via prima che lui ci riuscisse da solo, come se qualcosa di unicamente suo si fosse perso nel momento in cui aveva sentito la voce di Brian che si levava dal parco.
Irrigidì la mano destra e con le dita andò ad accarezzare la testa della lince rossa; poi più in alto, fino a sfiorare il leopardo.
Il respiro si condensava sul vetro. Le nuvole si richiusero. Si vedeva solo una luce proveniente da una casa poco più avanti e le ombre degli alberi sull’erba scura.
Se esisti davvero, pensò allora, dove sei? Dove sei?
E non fece nessun movimento quando vide due grandi occhi verdi che si aprivano lentamente e si fissavano su di lui.