13

Dormì fino a mezzogiorno, senza muoversi, senza sognare, svegliandosi soltanto una volta — quando il dottor Naugle passò da casa per visitare quello che lui chiamava il suo famoso paziente. Una risata leggera e nervosa — sua madre nell’ingresso con un soprabito in mano, come se fosse sul punto di uscire per tornare al lavoro dei festeggiamenti cittadini. Don aveva la mente confusa, scollegata, e a fatica sentì la voce dell’uomo che gli raccomandava di restare un altro giorno a letto per recuperare le forze più psichiche che fisiche.

Joyce si disse d’accordo e Donald non stette a discutere — non gli piaceva la debolezza che si era impossessata dei suoi muscoli, non gli piaceva l’idea di quello che sarebbe successo a scuola se si fosse fatto vedere barcollante e in cerca di aiuto per andarsene prima della fine delle lezioni.

Non gli piaceva pensare a quello che sarebbe successo se avesse inavvertitamente menzionato il cavallo.

Allora dormì, e questa volta i sogni arrivarono.

Sognò la stanza, le cui pareti si allargavano lentamente finché il suo letto si ritrovava nel mezzo di una caverna di pietra scura piena di gallerie; in una di queste c’era un’ombra, che lo attirava, lo adescava, che chiamava il suo nome senza emettere suoni e che gli ripeteva continuamente che tutto si sarebbe sistemato, alla fine.

Sognò la stanza, e dalle finestre riusciva a vedere il mondo dalla prospettiva di un falco pigro; cambiava e vedeva Ashford, cambiava ancora e vedeva il cavallo che aspettava pazientemente sotto l’acero in giardino, fissando la finestra in attesa del segnale, dicendogli che ormai non doveva avere più paura di niente e di nessuno — avrebbe dovuto solo chiamare e sarebbero arrivati subito i suoi amici.

E sognò ancora la stanza, e sulla sua scrivania si vedevano i resti dell’esplosione del peso che gli tormentava lo stomaco. Si era avvicinato senza toccare terra con i piedi, aveva soffiato sulla polvere biancastra sollevando un tornado, una torre nera che l’aveva circondato prima che riuscisse ad allontanarsi, che si era insinuata dietro i suoi occhi facendogli vedere la folla del concerto, i loro occhi pieni di risate, le loro bocche aperte come quelle di pagliacci, le loro dita che indicavano, le teste che annuivano, i loro ammiccamenti, e i piedi che strusciavano per terra; c’era anche la faccia rossa di Brian Pratt seduto dietro, mentre teneva le mani a cono attorno alla bocca — di’ a tutti che è stato il corvo gigante — e sorrideva con malignità in direzione di Tar Boston che invece aveva sollevato entrambi i medi delle mani — ehi, Paperino! — poi si era girato verso Fleet Robinson, che continuava a fissare stupidamente colui il quale gli aveva rubato la sua vendetta; aveva visto anche la storia di un corvo gigante, raccontata da un pagliaccio vestito con una tuta nera.

Si svegliò alle tre meno dieci, con il viso imperlato di sudore, e si mise a osservare il soffitto dove le ombre si stavano restringendo per la luce già calante del sole.


Norman sedeva nel suo ufficio, senza fare niente di particolare; aspettava che la porta si aprisse da un momento all’altro e che Harry entrasse a riferirgli che lo sciopero degli insegnanti, organizzato per il giorno prima, era stato spostato nel pomeriggio. Ma sembrava che Falcone si fosse reso conto dell’umore del preside, perché se ne stava alla larga, e per questo favore Norman sacrificò mentalmente l’anima di sua moglie a Dio come ringraziamento.

Falcone l’aveva baciata. Di fronte a centinaia di persone, quel figlio di puttana le aveva messo le mani addosso e l’aveva baciata.

«Cristo», esclamò. «Cristo.»

Le telefonate venivano accuratamente selezionate dalle segretarie per cercare di rallegrare un po’ il suo cattivo umore almeno entro la fine dell’ultima lezione. Qualche reporter che veniva da fuori città, qualche membro del consiglio, qualche conoscente che voleva farlo finalmente sorridere.

Subito dopo, chiamò anche il sindaco per suggerire di non perdere più tempo e di incontrarsi per discutere su chi avrebbe potuto sostituirlo. Anthony Garziana stava preparandosi per andare in pensione; aveva diretto Ashford per una decina di anni ed era stanco, non vedeva l’ora che arrivasse il giorno in cui avrebbe potuto impacchettare la sua giovane moglie e la famiglia per andarsene nella sua tenuta sul Golfo del Messico, appena fuori Tampa. Non dava l’impressione del sindaco deputato; gli piaceva lo stile di Boyd e il modo in cui aveva oscurato il grande giorno di Don con qualcosa di suo. Ci vuole del fegato, aveva detto Garziana; Don, gli aveva detto Norman, avrà una medaglia e potrà essere generoso.

Splendido, pensò, e si alzò per stirarsi le gambe. Cristo, aspetta che lo venga a sapere Joyce. Diventerà isterica; rifarà l’arredamento della casa del sindaco prima della fine dell’anno.

Sorrise e decise di andare a fare una passeggiata attorno alla scuola, uscì dalla porta privata e si scontrò quasi immediatamente con Tracey Quintero. Farfugliò qualche scusa, lui la prese per una spalla, la fece calmare e le disse sottovoce quanto fosse orgoglioso di lei.

Tracey si agitò. «Io? Non ho fatto niente.» «Hai chiamato la polizia quella notte … quella notte.» Le si rabbuiò il viso. «Ma l’ho fatto troppo tardi.» «Ma hai fatto paura a quell’uomo, Tracey, gli hai messo paura. L’hai costretto a commettere un errore e ha pagato per questo. E molti di noi ti sono riconoscenti per questo.»

L’espressione della ragazza si fece per un attimo dubbiosa. Arrossì timidamente e poi proseguì, lisciandosi con le mani la camicetta sullo stomaco e sui fianchi per l’imbarazzo, fino alla toilette per le ragazze.

Era sola. Si fermò davanti allo specchio che copriva tutta la parete e si controllò i capelli e la figura, poi aprì il rubinetto dell’acqua fredda per farla scorrere sui polsi. Avrebbe dovuto essere a zoologia, ma aveva la mente un po’ offuscata e aveva chiesto il permesso di uscire; sarebbe rientrata dopo aver controllato le sue condizioni. Era stupido, ma così stavano le cose, e dopo lo strano scontro con il padre di Don si era sentita ancora più confusa.

La notte prima avrebbe voluto restare nel parco anche dopo il concerto, ma suo padre aveva insistito perché tornasse a casa con lui. Era imbarazzato da tutta l’attenzione di cui era stato fatto oggetto e aveva insistito perché anche Thomas Verona ricevesse i suoi complimenti. Nessuno l’aveva ascoltato. Era stato Luis ad arrivare sul luogo, mentre Verona rimaneva in macchina; era stato Luis a scoprire quello che aveva fatto Donald.

La notte della morte dello Squartatore, lei gli aveva domandato che cosa aveva visto. Giravano delle chiacchiere, e non c’era assolutamente la possibilità di trovare libera la linea telefonica dei Boyd. Voleva sapere. Lui non aveva detto niente. Le aveva ricordato con crudeltà che al posto di Amanda avrebbe potuto esserci lei se avesse inciampato, o se si fosse voltata per usare il tubo che stava portando; avrebbe potuto essere lei quella per cui la scuola era rimasta chiusa. Lui si era infuriato, ma si era anche commosso.

Lei non gli aveva creduto.

Persino in quel momento, mentre stava aggiustandosi i vestiti che comunque stavano bene com’erano, non riusciva a immaginarsi Don che picchiava un uomo a morte, non nel modo in cui suo padre gliel’aveva raccontato. Un colpo in testa, sì; un bel colpo o due sulla tempia, certo; ma non in modo da frantumare letteralmente quell’uomo. E quando aveva sentito parlare in televisione di ondate di adrenalina e di rabbia isterica, ancora non era riuscita a crederci. Avrebbe dovuto pensare a Don come a qualcuno che non conosceva.

Jeff aveva detto che Don stava cambiando; e forse anche lei stava cambiando. Come poteva restare quella di prima, mentre sognava tutte le notti la corsa lungo il viale, lo Squartatore all’inseguimento, Amanda che si agitava come se fosse intrappolata da una rete invisibile mentre l’assassino la trascinava dentro il parco … e intanto Tracey guardava, e urlava, e si risvegliava come se qualcuno le avesse dato un calcio nel costato.

Quella sera, si sarebbe decisa. Quella sera gli avrebbe telefonato, e se non ci fosse riuscita, sarebbe andata da lui. A prescindere da ciò che le poteva ordinare suo padre, sarebbe andata da lui per parlare. Non sapeva perché, sapeva solo di doverlo fare e questo, più di ogni altra cosa, stava alla base della sua confusione.

«Che disastro, Quintero», disse alla sua immagine riflessa. «Es verdad, sei un disastro.»

Dopo essersi data un pizzicotto alle guance per riportare un po’ di colore al viso, tornò nel corridoio, guardò da tutte e due le parti e imboccò le scale. Sul primo pianerottolo si fermò, chiedendosi se fosse il caso di tornare in classe, scrollò le spalle e proseguì, infilò il corridoio di sopra e girò a destra proprio mentre Brian Pratt faceva capolino dalla fila di armadietti.

«Ehi!» le disse, prendendola per un braccio mentre cercava di sorpassarlo.

«Brian, devo tornare in classe, okay?»

«Dio», rispose lui, «potresti dire ciao, almeno.»

«Ciao.» Scostò la sua mano e se ne andò di corsa, guardandosi alle spalle solo una volta, tremando al pensiero che Ashford Sud avrebbe potuto vincere l’indomani. Se lui avesse avuto la sua parte di gloria, sarebbe diventato anche più insopportabile di prima. Poi si ricordò di Jeff che le aveva parlato di Don e di come Don era andato in giro a chiedere a tutti se non fosse per caso la ragazza di Brian. Il pensiero le fece piacere e si massaggiò la nuca inconsciamente, mentre sorrideva, poi, improvvisamente, si voltò verso la porta della classe.

Brian era rimasto nello stesso posto e scuoteva il capo. Non poté resistere e gli mandò un bacio prima di entrare in classe.

Brian sorrise stupidamente, si avviò verso di lei, ma poi si fermò quando la vide entrare in classe e scrollò le spalle. Non aveva importanza. L’aveva colpita, un’altra conquista per Pratt; e questa era anche meglio di altre, perché girava voce che fosse la ragazza di Paperino.

Paperino.

Cristo, si sarebbe messo a vomitare se qualcuno avesse menzionato ancora una volta il nome di quello stronzo. Per tutto il giorno non aveva sentito parlare di altro che di Don che aveva fatto questo e Don che aveva fatto quello. Don aveva fatto il mondo in sette maledetti giorni, e la prossima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata quella di camminare sulla fottutissima acqua.

Un colpo di fortuna sul vecchio pazzo, e Paperino era diventato Dio.

Una vergogna, pensò, perché avrebbero potuto essere anche amici. Se solo quel piccolo finocchio avesse smesso di tenergli testa fin dal primo giorno, se solo gli avesse fatto un gesto, avrebbero potuto essere amici. Ma no, lo stronzo aveva pianto, era corso piangendo in casa come un ragazzino. E a Brian non piacevano i ragazzini. Tutte quelle stronzate che stava leggendo sugli uomini sensibili non erano altro che … stronzate.

Il pianto non aveva fatto mai entrare nessuno nella Lega Nazionale di Football.

Sì, decise; era arrivata l’ora di avvicinare Tracey, e presto anche. Non gliene fregava un cazzo che non avesse tette; era interessata a Paperino e questa era una ragione sufficiente.

Strinse gli occhi e fece una smorfia, accorgendosi che il suo buon umore se n’era andato e che ormai non aveva più senso andare alla lezione di chimica. E poi Provetta non faceva altro che assegnare compiti e se non ci fosse andato avrebbe evitato qualsiasi incarico, e così facendo non avrebbe avuto nessuna responsabilità. In quel momento c’erano cose più importanti a cui pensare — come escogitare un sistema per non rendere partecipi Tar e Fleet della gloria per la partita dell’indomani. La Ashford Nord era conosciuta per la difesa in corsa, il che significava che in partita Boston e Robinson avrebbero avuto una giornata campale mentre Brian sarebbe stato utilizzato soltanto per attirare l’opposizione. Ma non questa volta.

La sera dell’indomani avrebbe fatto vedere a tutti di che pasta era fatto, e gli esperti che erano arrivati in città dalla federazione avrebbero assistito a una dimostrazione di palleggio quale non avevano mai visto in vita loro. Con un po’ di fortuna, li avrebbe battuti e avrebbe ottenuto i contratti con un colpo di mazza, anche prima della fine della prima metà.

Si colpì il petto con un pugno mentre si apprestava a scendere le scale a due gradini per volta; arrivò al pianterreno e si diresse verso la palestra di pesi che si trovava di fronte a quella di educazione fisica. Poteva incontrare l’allenatore, ma non se ne preoccupò molto. Brian avrebbe potuto dire che Hedley gli aveva dato il permesso di saltare la lezione per quella volta e lui gli avrebbe creduto, senza nemmeno chiedersi se fosse vero o meno. Brian era la sua stella. Brian faceva il suo lavoro. Se faceva innervosire Brian, se avesse perso un paio di partite, si sarebbe ritrovato a insegnare in qualche asilo per bambini nel Kansas.

L’eco acuta della sua risata rimbombò sulle pareti. Svoltò l’angolo marciando a tempo con il suo fischiettare e si fermò bruscamente quando si trovò di fronte al signor Hedley appoggiato contro la porta della palestra.

«Per caso, si è perso, signor Pratt?» gli domandò l’ometto senza muoversi di un solo passo.

«Dovevo chiedere una cosa all’allenatore», rispose tranquillamente Brian, cercando di contenere l’impazienza.

«Gliela può chiedere dopo la lezione.»

«Non lo troverò più.»

Hedley sollevò il labbro inferiore. «Non lo troverà più? Vuol dire che salterà l’allenamento, oggi? Il giorno prima della grande finale, signor Pratt?» L’uomo scosse il capo. «Non posso credere a questo, signor Pratt. E le suggerisco di dirigersi al primo piano, se intende avere credito e diritto al diploma di giugno.»

Brian dovette lottare con se stesso per evitare di fare a pugni. Un colpo. Un solo colpo e quel piccolo pezzo di merda avrebbe toccato il tappeto. Un solo colpo, pensò anche, sarebbe stato sufficiente per perdere il diritto di ingresso nella federazione e con ciò la sua carriera da professionista. Hedley, lo si capiva dalla sua espressione, sapeva bene tutto questo, e lo rendeva ancora più furioso il fatto che non poteva farci proprio niente.

«Due minuti, signor Pratt, altrimenti sarò costretto a diminuirle il punteggio.»

«Ah, accidenti, signor Hedley», esclamò, allargando le mani in segno di preghiera, «abbia cuore, eh?»

Hedley lo fissò così intensamente che Brian cominciò a pensare che forse il coglione aveva scoperto chi gli aveva sporcato la veranda, e mentalmente si preparò un alibi. Per se stesso. Tar, quel piccolo codardo, avrebbe dovuto pensare per sé.

«Due minuti», ripeté Hedley e se ne andò, con le braccia rigide, come se fosse un maggiore intento a capitanare una parata.

«Stupido coglione», mormorò Brian. «Stupido coglione fottuto.»

Hedley lo sentì, ma non si voltò, non interruppe il passo. Si diresse verso la scala che l’avrebbe condotto in aula. Sarebbe stato un errore rimanere da solo con lui e lo sapeva; ci sarebbero state troppe conseguenze legali ed etiche. Ma Brian l’aveva passata liscia per troppo tempo e, quando l’aveva visto nel corridoio insieme con la Quintero, si era infuriato. Aveva ordinato velocemente di completare le domande sul libro di testo ed era corso via, controllando a fatica il fiatone per arrivare all’angolo prima che il bastardo si facesse vedere.

Il bastardo, pensò, e annuì. La giusta scelta di parole. La madre viveva da sola per la maggior parte del tempo e non c’era nessuno che andasse a rivendicare la paternità su quel mostro. Prese mentalmente nota di rivelare a Candy la verità e trasalì al pensiero che chiunque, e prima di ogni altro lei, poteva citarlo in giudizio.

Sorrise e si accarezzò i baffi. Che cosa avrebbe pensato Brian se avesse saputo che il suo flaccido professorino di chimica maltrattava regolarmente sua madre; che cosa avrebbe fatto quel gnigno senza collo se avesse saputo che nella collezione di fotografie che teneva in cantina ce n’era una serie a colori che ritraevano inequivocabilmente sua madre?

Probabilmente cercherebbe di torcermi il collo, pensò, o di tagliarmi le palle.

«Signor Hedley?»

Cancellò dalla mente l’immagine di Brian Pratt con la bava alla bocca per rimpiazzarla con una più realistica e molto più piacevole, quella di Chris Snowden, che si trovava di fronte alla porta con una pila di libri in braccio.

«Signor Hedley, voleva questi dalla biblioteca?»

Era sul punto di negare, quando improvvisamente si ricordò della ricerca che aveva assegnato come compito per la lezione dell’indomani, e annuì, prese i libri con un cenno di ringraziamento e spalancò la porta come se volesse sorprendere la classe in chissà quale cattivo atteggiamento.

Chris gli fissò la schiena e gli disse mentalmente di andarsene all’inferno prima di voltarsi e di dirigersi nuovamente verso la biblioteca che stava dalla parte opposta del palazzo. Anche se era estremamente noioso spostare i libri da uno scaffale all’altro, ascoltando le necessità di qualche stronzo che voleva un determinato autore e qualche opera di riferimento, era un modo per starsene lontana per almeno quarantacinque minuti dagli insegnanti e dai ragazzi che cercavano di spogliarla senza alzare un dito e per evitare che le ragazze la catalogassero come la classica bionda superdotata e oca.

Inoltre, in questo modo, poteva fare i compiti prima di andare a casa, il che le consentiva di lavorare a pieno ritmo sul suo piano, una volta finite le lezioni.

Quel giorno però stava pensando a quale ragione addurre per giustificare la sua presenza quando fosse comparsa a casa dei Boyd. Aveva pensato di prendere nota dei compiti che Don aveva mancato restando a casa, per poi recitare la parte della Buona Samaritana portandoglieli di persona, ma con il fatto che l’indomani le lezioni finivano prima del solito avrebbe scoperto il suo gioco, perché la maggior parte della scuola non si stava preoccupando dei compiti. Poi si era domandata se c’era qualcosa, nell’ufficio di fronte, che avrebbe potuto servirle, qualcosa che ancora non era riuscita a capire.

In un certo senso, l’idea di vedere Don cominciava a eccitarla. Aveva sentito diverse versioni pittoresche di ciò che lui aveva fatto allo Squartatore e, pur ridimensionando tutte le chiacchiere, doveva essere stata una bella battaglia; e pensare che si sarebbe detto incapace di passare anche sopra l’ombra di Brian senza rompersi una gamba.

Le apparenze, pensò; l’apparenza è tutto, quello era un argomento in cui era più preparata di chiunque altro.

Forse la cosa migliore era di presentarsi a casa Boyd dicendo semplicemente che voleva sapere come stava Don e chiedendo se poteva vederlo per qualche minuto per portargli i falsi saluti da parte dei suoi amici.

A volte, Chris, esageri un po’, lo sai questo? Esageri veramente troppo.

Fu allora che spinse la porta girevole e sentì un tonfo e un verso, e alzò lo sguardo verso le piccole finestre orlate di gomma.

Oh, Cristo! e i suoi occhi si chiusero brevemente quando il signor Boyd abbassò la maniglia per uscire.

«Accidenti, mi scusi», disse, mettendogli una mano casuale sul braccio. «Mi dispiace davvero, signor Boyd, veramente. Non stavo guardando, non l’ho fatto apposta.»

Lui sorrise e si strofinò la spalla mestamente. «Credo che sopravviverò, Chris. Non ti preoccupare.»

«Sinceramente, non l’ho fatto apposta, davvero.»

«D’accordo, non prendertela tanto», le rispose, sorridendo al suo imbarazzo che sfiorava il comico. «Non sono stato ferito a morte. Sopravviverò. Cerca solo di tenere la testa alta d’ora in poi, okay? Vorrei arrivare intero alla fine dell’anno.»

Il suo tocco sulla spalla della ragazza fu più una leggera carezza che una pacca e poi sparì, lasciandola bestemmiare contro se stessa per essersi lasciata sfuggire la prima opportunità di ottenere qualche punto con il vecchio. Avrebbe potuto fingere una ferita momentanea, avrebbe potuto cadergli fra le braccia; ma, ormai, l’opportunità era completamente sfuggita, se l’era bruciata.

«Merda!»

«Signorina Snowden!» la rimproverò la bibliotecaria da dietro la scrivania.

Vaffanculo, vecchia puttana, la maledì mentalmente; se non altro io ho scopato ben più di una volta negli ultimi vent’anni.

Si diresse verso il retro della stanza, prese una pila di libri e si preparò a riordinarli prima del suono dell’ultima campana. Avrebbe dovuto fermarsi a casa per cambiarsi d’abito, per mettersi qualcosa da eliminare con facilità nel caso si fosse presentata qualche occasione. E più ci pensava, più si riscaldava, più l’eccitazione cresceva nel petto andando a centrarsi sotto la pancia. Era pazzesco, ma avrebbe fatto qualche stupidaggine se non fosse uscita rapidamente.

Sistemò rumorosamente un libro. Poi un altro, e altri quattro. Andava su e giù tra gli scaffali, senza preoccuparsi delle occhiate che riceveva per via del rumore che stava facendo. Senza preoccuparsi di sistemare le pagine spiegazzate e dello scricchiolio delle ruote del carrello nel quale aveva messo i libri.

Non poteva andarsene. Doveva restare e fare la brava ragazza, e confondersi con i suoi compagni di classe finché non avesse avuto in pugno quelli che contavano.

«Ehi, sta’ attenta a quello che fai.»

Alzò gli occhi e vide la mano lentigginosa di Fleet Robinson proprio nel punto in cui stava sistemando un libro di storia.

«Scusa.»

«Non c’è problema», le rispose Fleet tra un libro e l’altro. «Andrai al concerto questa sera?»

Guardò di sottecchi verso la bibliotecaria. «Diavolo, no.»

«Nemmeno io. Ti va di andare al cinema?»

«Diavolo, no.»

Lui scrollò le spalle e lei si allontanò alla svelta. L’invito era stato fatto con molta gentilezza, ma lei aveva visto il fantasma di Mandy negli occhi del ragazzo. Non parlerebbe d’altro, pensò, e non aveva intenzione di sprecare una serata a giocare all’amico confessore con un moccioso addolorato.

Fece un altro passo all’indietro e vide gli occhi di Fleet spalancarsi in segno di avvertimento, ma era troppo tardi. Si voltò e, nel movimento, finì sui piedi di Norman Boyd.

«Oh, Dio», mormorò.

Norman aggrottò la fronte. «È un tentativo di assassinio, vero, signorina Snowden?»

«Signor Boyd…» Alzò le mani, scosse il capo e lui le toccò nuovamente la spalla prima di prendere il libro che voleva dallo scaffale. Poi uscì dalla stanza, voltandosi a guardarla, mentre lei era sul punto di piangere. Un sorriso e sparì nel suo ufficio, senza preoccuparsi di lamentarsi. L’aveva fatto deliberatamente per vedere le sue reazioni, per sentire la seta al tatto. Perfettamente legittimo, a meno che lei non fosse più seria di quanto non si raccontasse in giro.

Problemi, Norm, pensò lui entrando dalla sua porta privata; ci saranno problemi piccanti se non fai più che attenzione.

Squillò il telefono e si ritrovò a parlare con Tom Verona, spiegandogli che suo figlio era rimasto a casa per ordine del medico, ma che sembrava essere tornato alla normalità, tutto sommato. No, il ragazzo non aveva detto niente a proposito dello Squartatore e non aveva nemmeno menzionato degli incubi. Gli sembrava, però, che il detective non stesse molto bene. Verona gli spiegò di aver passato una nottata burrascosa. Boyd gli chiese di quella birra che si erano promessi a vicenda e Verona suggerì di andare a berla l’indomani dopo la partita, proponendogli di trovarsi in qualche punto dello stadio. Norm accettò di buon grado. Dopo aver riattaccato, Norm rabbrividì in direzione del telefono. Quell’uomo sembrava stare malissimo e rimpianse immediatamente di aver accettato l’invito — avrebbe dovuto ascoltare per tutta la sera una serie di problemi matrimoniali.

Meraviglioso, pensò, quando nemmeno io so gestire i miei.

Poi suonò la campana e la scuola si vuotò e, dopo aver finito il lavoro, dopo aver firmato l’ultima lettera rimasta sulla sua scrivania, si diresse verso casa.

Il sole si stava già accucciando dietro le punte degli alberi; davanti a lui, sul marciapiede, si muovevano ombre scheletriche e sapeva che non sarebbe riuscito a evitare di andare alla Nord, dopo cena, per ascoltare il programma vocale della scuola. Avrebbe preferito sistemare i piedi sul tavolino e guardare alla TV la partita di football o un film, oppure attraversare la strada per andare da John Delfield a giocare con il suo stupido bassotto o a fare qualche partitina a carte. Avrebbe preferito chiamare Chris per invitarla a casa a fare una bella scopata.

Si fermò all’inizio del vialetto, si grattò il naso e si accorse delle prime stelle che luccicavano debolmente sopra la casa.

Problemi, pensò di nuovo, e non si mise a correre quando sentì il rumore alle sue spalle, qualcosa di grande e lento che colpiva l’asfalto. Sembrava un cavallo, ma non aveva voglia di guardare; primo, perché era impossibile; secondo, perché si ricordò dell’ombra che aveva visto nel laghetto qualche giorno prima.

Non era normale; non era amichevole.


Adam Hedley fissò le fotocopie dei rapporti di laboratorio che aveva scritto a macchina lui stesso la mattina prima e accorgendosi di aver fatto un errore, emise un gemito che rimbombò per tutta la casa. Un errore di disattenzione. Non aveva mai commesso uno sbaglio del genere in tutta la sua vita.

Tenne alto il foglio, lasciando che il raggio tremolante del proiettore cadesse sulla cartella della polizia, ignorando per il momento i sospiri e i lamenti che provenivano dallo schermo che aveva eretto nella sua cantina, per concentrarsi sul linguaggio preciso che aveva usato per descrivere il bastone che Donald Boyd aveva utilizzato per metter fine alla vita di un pazzo.

Dopo averlo letto per la quarta volta, spense il proiettore e si precipitò su per le scale. Non c’era altra scelta; avrebbe dovuto andare alla centrale in cerca di Ronson o di Verona, per vedere se gli permettevano di ripetere gli esami.

Abbottonandosi il cappotto grigio fino al collo, si fermò sulla veranda e arricciò il naso prima di dirigersi verso la sua macchina. La puzza se n’era andata, ma lui continuava a sentirla, a percepirla, e cominciò a pensare che forse era arrivato il momento di cambiare casa.

Avrebbe dovuto chiamare anche l’ufficio del coroner. Se aveva fatto un errore, l’avevano commesso anche loro.

Poi si sedette dietro il volante, fece girare la chiavetta e controllò che non sopraggiungessero altre vetture.

Vide che c’era qualcosa in mezzo alla strada, verso l’angolo più distante, oltre la luce che l’unico lampione sopravvissuto ai teppisti locali emanava.

Era ferma, aspettava, e chissà per quale ragione Hedley fece un’inversione a U e si diresse dalla parte opposta.


Dopo l’allenamento, Brian andò a sollevare i pesi con Tar, Fleet e una mezza dozzina di altri ragazzi della squadra fino all’ora di cena, poi si fece una doccia ben sapendo di essere osservato da Gabby D’Amato e si precipitò a casa accorgendosi che qualcosa alle spalle lo stava tenendo d’occhio, in silenzio, nascondendosi nel buio.


Fleet andò a casa con la berlina ammaccata di Tar, guardando nello specchietto retrovisore tanto spesso che Boston quasi lo cacciò fuori dalla macchina.


Jeff aveva addotto una scusa per non andare a sollevare i pesi quel pomeriggio. Sapeva che Tar aveva detto qualcosa a Brian a proposito dell’altro giorno e non voleva che lo colpissero con un bastone tra le gambe. Fece i compiti, pulì la stanza e ogni volta che passava davanti a una finestra non riusciva a fare a meno di guardare fuori, cercando qualcosa che si nascondeva, domandandosi se fosse il caso di chiamare Tracey, ma timoroso di alzare il ricevitore del telefono.

Lo chiamò suo padre per dirgli che avrebbe lavorato fino a tardi in ufficio, per cui si preparò la cena da solo, dando le spalle alla finestra della cucina.

Dopo aver lavato i piatti, fissò il telefono, si pulì le mani contro i jeans, si tolse gli occhiali e li strofinò con la camicia.

Era uno stupido. Ma sapeva che, se avesse alzato la cornetta in quel momento, non avrebbe sentito niente, nemmeno il rumore della linea libera. Nemmeno un brusio.

Solo il vuoto, come quell’ombra che aveva visto per strada, qualcosa di più che un’ombra, qualcosa di meno della notte.


Dopo cena, Tracey cercò di telefonare a Don. La linea era occupata e ricordandosi della ferma promessa che si era fatta, chiuse la bocca, scese le scale e andò a prendere il cappotto dal guardaroba. Sua madre le domandò dove stesse andando e Tracey glielo spiegò; suo padre ancora non si era mosso dal divano sul quale stava facendo un sonnellino.

«Ti prego», disse sua madre, guardando con paura l’uomo che dormiva, «aspetta che si svegli.»

«Devo andare, mamma. Si tratta della scuola. Don ha una cosa che mi serve.» Prese il polso di sua madre e le sorrise. «Mi serve per domani. Non ti preoccupare, andrà tutto bene.»

«Non lo so. Forse dovresti…»

«Mamma, quell’uomo è morto. Lo ha ammazzato Donald. È morto. Andrà tutto bene, davvero.»

Se ne andò prima che le preghiere si trasformassero in un ordine e fece di corsa i primi cento metri per evitare qualsiasi cambiamento di idea da parte di sua madre. Poi si fermò e si appoggiò contro un albero per respirare profondamente, cercando di scrollarsi di dosso le vertigini che l’avevano assalita. Non c’era molto traffico. Nonostante fossero soltanto le sette, sembrava mezzanotte passata. L’aria sapeva di strano, come se fosse affaticata e si augurasse che il sole si alzasse alla svelta per riscaldarla; il marciapiede era fragile, ricoperto da un sottile strato di ghiaccio che si rompeva sotto i suoi passi; e i lampioni si riflettevano per terra, lanciando riverberi bianchi che la abbagliavano e la costringevano a distogliere lo sguardo.

Faceva freddo; tutto era silenzioso.

Eccetto quel movimento alle sue spalle.

È morto, si disse mentre allungava il passo; è morto, è stato Don ad ammazzarlo e non c’è nessuno qui dietro.

Si voltò di scatto; non c’era nessuno.

Ancora quattro palazzi, poi avrebbe potuto fingere di avere mal di testa così il signor Boyd oppure Don l’avrebbero riaccompagnata a casa.

Che stupida, pensò mentre si avvicinava alla via; stupida, stupida, stupida. Perché non te ne torni a casa e tenti di telefonargli? Che cosa potrai dire, che stavi passando per caso? Passavi per caso da una via che sta a mezzo chilometro di distanza da casa tua? Cristo, Don, mi stavo domandando con chi hai intenzione di andare alla partita domani. Jeff mi ha già domandato di aspettarlo, ma lui capirà se io verrò con te. Stavo solo passando, tutto qui.

Svoltò a sinistra, verso il centro del quartiere, con l’intenzione di girare a destra al prossimo incrocio per evitare dì passare davanti alla scuola.

A metà, sentì di nuovo quel movimento alle sue spalle. E il respiro — pesante, lento, qualcosa di molto più grande di un uomo si stava muovendo alle sue spalle.

Era come a scuola, la stessa cosa che aveva visto nel corridoio al piano di sotto. Lo sapeva senza guardare e, sempre senza guardare, si mise a correre a bocca aperta per respirare meglio, agitando le braccia. Scese dal marciapiede sentendo che continuava a seguirla per la strada.

Ritmico, martellante, tanto somigliante a un cavallo che tentò di voltarsi a dare un’occhiata per assicurarsene, ma non vide nient’altro che un’enorme ombra che si muoveva verso di lei lungo la strada. Un rantolo — è una macchina con i fari spenti, Trace, non fare l’idiota — piagnucolò, si mise a correre più veloce e sentì l’animale — è una macchina! — e aumentò la velocità.

Un’altra occhiata e inciampò.

Sopra la massa nera, nel buio, si vedevano due macchie verdi.

E sotto, un bagliore di scintille verdi si muoveva con lo stesso ritmo.

Recuperò l’equilibrio con l’aiuto delle braccia e sollevando le ginocchia, ma l’angolo distava ancora più di cinquanta metri. Sarebbe stata catturata. Chiunque la stesse inseguendo l’avrebbe presa, e lei sarebbe morta, perché non era morta quella notte.

Sarebbe stata ammazzata da un’ombra dagli Occhi verdi.

Un singhiozzo, ti prego, non aver paura, e qualcosa la sospinse attraverso un prato in direzione di una porta illuminata. Salì tre gradini di mattoni, trovò il campanello con il dito, lo mancò, lo ritrovò e lo premette forte e a lungo finché non si spalancò la porta e comparve Jeff. Lei lo scansò con violenza.

«Chiudila!» gli disse e, vedendo che non si muoveva abbastanza alla svelta, la afferrò e la richiuse appoggiandocisi contro e chiudendo gli occhi.

«Trace?»

C’erano due finestrelle di fianco alla porta. Jeff scostò una tendina bianca, guardò fuori e rabbrividì.

«Trace, che cosa c’è che non va? Ti stava inseguendo qualcuno?»

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