DECIMO CAPITOLO

in cui figura una cartella azzurra

Il 28 giugno secondo il calendario occidentale, ma il 16 secondo quello russo, verso sera, di fronte all’albergo Winter Queen in Gray Street, si fermò una carrozza a nolo. Il cocchiere in cilindro e guanti bianchi saltò giù di serpa, abbassò il predellino e con un inchino aprì lo sportello nero laccato con su scritto


Dunster Dunster:
Since 1848.
London Regal Tours

Dallo sportello si affacciò dapprima uno stivaletto da viaggio in marocchino ferrato di chiodini d’argento, dopodiché sul marciapiede saltò spedito un florido giovane gentiluomo con un paio di baffoni che stonavano da non credersi con la sua fisionomia fresca, un cappello tirolese con tanto di penna e un’ampia cappa alpina. Il giovane si guardò intorno, vide la stradina tranquilla, che in nulla si distingueva, e con emozione fissò l’edificio dell’albergo. Era un palazzotto a quattro piani in stile georgiano d’aspetto assai scialbo, che aveva chiaramente conosciuto tempi migliori.

Il gentleman ebbe un momento di esitazione, ma poi mormorò fra sé in russo: «Chi non s’avventura non ha ventura».

Dopo tale enigmatica frase salì su per i gradini ed entrò nella hall.

Proprio un attimo dopo, dal pub di fronte uscì un tipo in impermeabile nero che, calato fin sopra gli occhi un alto berretto dalla visiera luccicante, prese a passeggiare davanti all’ingresso dell’albergo.

Tuttavia questa circostanza degna di nota sfuggì all’attenzione del signore appena arrivato, il quale già si trovava al banco e stava esaminando il ritratto scolorito di una qualche dama medioevale in sontuoso jabot, probabilmente la Winter Queen in persona. Il portiere che sonnecchiava dietro il banco accolse lo straniero con una certa indifferenza, vedendolo però elargire un intero scellino al ragazzo che non aveva fatto altro che portargli la sacca da viaggio, lo salutò ancora una volta e con molta più cordialità, per di più adesso prese a rivolgersi al viaggiatore chiamandolo non semplicemente sir, ma your honour.

Il giovane si informò se ci fossero camere libere, chiese la migliore, con l’acqua calda e i giornali, e si registrò nel libro degli ospiti sotto il nome di Erasmus von Dorn di Helsingfors. Dopodiché il portiere senza il benché minimo motivo ricevette una mezza ghinea e prese a chiamare quello straniero tocco di testa your lordship.

Nel frattempo il «signor von Dorn» si dibatteva in dubbi assai seri. Era difficile immaginare la splendida Amalia Kazimirovna in quella pensione di terz’ordine. Qui qualcosa evidentemente non tornava.

In preda allo smarrimento arrivò perfino a chiedere al portiere, tutto piegato in due dallo zelo, se a Londra non c’era per caso un altro albergo che portasse lo stesso nome, per averne l’assicurazione giurata che non solo non c’era, ma nemmeno c’era mai stato, a meno di considerare quella Winter Queen che si trovava nello stesso punto ma era bruciata fino alle fondamenta più di un secolo prima.

Possibile fosse tutto a vuoto; e il viaggio di venti giorni in giro per l’Europa, e i baffi posticci, e la lussuosa carrozza noleggiata alla stazione di Waterloo invece del solito cab, e, infine, la mezza ghinea buttata via per nulla?

Ma ora che la mancia te la sei presa, colombello mio, lavora, pensò Erast Petrovič (lo chiameremo così, nonostante l’incognito).

«Ditemi un po’, caro, non alloggia per caso da voi una certa Miss Olsen?» chiese con ostentata noncuranza appoggiando un gomito al banco.

La risposta, sebbene del tutto prevedibile, fece sì che il cuore di Fandorin si stringesse d’ansia: «No, milord, una lady con un nome del genere da noi non vive e non ha mai vissuto».

Leggendo lo sgomento negli occhi dell’ospite, il portiere fece una pausa a effetto e gli comunicò candidamente: «Comunque il nome ricordato da vostra eccellenza non mi è del tutto sconosciuto».

Erast Petrovič si piegò leggermente ed estrasse di tasca un’altra moneta d’oro.

«Ditemi.»

Il portiere si sporse in avanti e, tutto olezzante di acqua di colonia scadente, sussurrò: «Riceviamo della posta a nome di questa persona. Ogni sera verso le dieci arriva un certo mister Morbid, a giudicare dall’aspetto un servo o un maggiordomo, e prende le lettere».

«Di statura enorme, con grandi favoriti chiari e l’impressione che non abbia mai sorriso in vita sua?» chiese velocemente Erast Petrovič.

«Sì, milord, lui.»

«E ne arrivano spesso, di lettere?»

«Spesso, milord, quasi ogni giorno, e capita che siano più di una. Oggi, per esempio», disse il portiere guardando con aria molto significativa lo scaffale con le caselle, «ne sono arrivate tre.»

L’accenno fu inteso all’istante.

«Vorrei vedere le buste, così, per curiosità», buttò lì Fandorin, facendo risuonare sul banco l’ennesima mezza ghinea.

Gli occhi del portiere si accesero di un luccichio febbrile: stava accadendo qualcosa di inverosimile, di incomprensibile alla ragione, ma tuttavia estremamente piacevole.

«A cose normali questo è severamente vietato, milord, ma… se si tratta soltanto di dare un’occhiata alle buste…»

Erast Petrovič afferrò avidamente le buste, ma lo attendeva una delusione: le buste erano prive di mittente. A quanto pareva, la terza moneta d’oro era andata sprecata. Il capo, è vero, aveva dato il suo benestare non importa a quali spese, «nei limiti della ragionevolezza e negli interessi dell’inchiesta»… Ma cosa c’era sui timbri?

I timbri diedero da pensare a Fandorin: una lettera veniva da Stoccarda, un’altra da Washington, la terza da Rio de Janeiro. Però!

«Ed è molto che miss Olsen riceve qui la sua corrispondenza?» chiese Erast Petrovič, calcolando mentalmente quanto ci potesse mettere una lettera ad attraversare l’oceano. E poi bisognava anche avere avuto il tempo di comunicare in Brasile l’indirizzo di qui! Era un po’ strano. Dopotutto la Bežezkaja non poteva essere arrivata in Inghilterra più di tre settimane prima.

La risposta fu inattesa: «Da molto tempo, milord. Quando ho cominciato a lavorare qui — sono quattro anni — le lettere arrivavano già».

«Come?! Siete sicuro di non confondervi?»

«Ve lo assicuro, milord. È vero che mister Morbid serve miss Olsen da poco, direi dall’inizio dell’estate. In ogni caso prima di lui per la corrispondenza veniva mister Moebius, e prima ancora mister… perdonatemi, non riesco a ricordarmi come si chiamava. Era un gentiluomo che non dava nell’occhio, e poco loquace anche lui.»

La voglia di aprire le buste era spaventosa. Erast Petrovič lanciò uno sguardo interrogativo al suo informatore. Probabilmente non avrebbe resistito a un’altra mancia. Tuttavia qui al consigliere titolare appena nominato e corriere diplomatico di prima categoria venne in mente un’idea migliore.

«Avete detto che questo mister Morbid arriva ogni sera alle dieci?»

«Preciso come un orologio, milord.»

Erast Petrovič mise sul banco la quarta mezza ghinea e, sporgendosi in avanti, sussurrò qualcosa all’orecchio del fortunato portiere.


Il tempo che restava da lì alle dieci fu utilizzato nel più produttivo dei modi.

Innanzitutto Erast Petrovič oliò e caricò la sua colt di corriere. Dopodiché andò nel bagno e, pigiando a turno i pedali dell’acqua fredda e calda, in una quindicina di minuti riempì la vasca. Poltrì una mezz’oretta, e quando l’acqua si freddò, il piano delle mosse successive era già definitivamente formato.

Dopo essersi nuovamente incollato i baffi ed essersi un poco ammirato allo specchio, Fandorin si vestì da inglese che non dà nell’occhio: bombetta nera, giacca nera, pantaloni neri, cravatta nera. A Mosca, probabilmente, lo avrebbero preso per un becchino, mentre a Londra era da credersi che sarebbe rimasto invisibile. E poi la notte sarebbe stato perfetto: si sarebbe chiusa la giacca davanti coprendo il bianco della pettina e tirando dentro i polsini, in modo da dissolversi completamente nell’abbraccio delle tenebre, cosa che per il suo piano era di capitale importanza.

Restava ancora un’ora e mezza per una passeggiata di ricognizione nel circondario. Erast Petrovič svoltò da Gray Street in una larga via, tutta piena di carrozze, e quasi subito si ritrovò al famoso teatro Old Vic, descritto dettagliatamente nella sua guida. Passeggiò ancora un po’ e — quale prodigio! — vide i noti tratti della stazione di Waterloo, da dove la carrozza lo aveva portato al Winter Queen per quaranta minuti buoni — il cocchiere, quel furbacchione, gli aveva preso cinque scellini. Dopodiché si mostrò anche il grigio Tamigi, assai poco accogliente nel crepuscolo serotino. Guardando le sue acque impure, Erast Petrovič si sentì intimidire, e per chissà quale motivo lo prese un cupo presentimento. In questa città straniera era comunque a disagio. I passanti guardavano oltre, non uno che lo guardasse in faccia, cosa che, ne converrete, a Mosca sarebbe stata del tutto inconcepibile. In tutto questo non abbandonava Fandorin la strana sensazione di avere puntato sulla schiena un qualche sguardo malevolo. Più volte il giovane si guardò alle spalle e una volta gli parve di notare una figura in nero che si era messa di colpo dietro a una colonna di manifesti teatrali. Qui Erast Petrovič riprese il controllo di sé, si accusò di ipocondria e smise di voltarsi. I nervi sono davvero maledetti. Ebbe perfino un momento di esitazione — non sarebbe stato meglio rimandare l’esecuzione del piano fino alla sera dell’indomani? In quel modo gli sarebbe stato possibile fare una visita al mattino in ambasciata e incontrare quel misterioso impiegato Pyžov di cui gli aveva parlato il capo. Ma la cautela codarda è un sentimento riprovevole, e poi non aveva voglia di perdere tempo. Perché anche così erano già partite almeno tre settimane in sciocchezze.

Il viaggio in Europa era stato meno spassoso di quanto aveva inizialmente supposto Fandorin nel suo entusiasmo. Il territorio situato oltre Veržbolov, appena passato il confine, l’aveva avvilito con la sua marcata dissomiglianza dalle modeste distese patrie. Erast Petrovič guardava dal finestrino del treno e non faceva che aspettare che i lindi paesini e le cittadine giocattolo finissero e iniziasse il paesaggio normale, ma quanto più il treno si allontanava dalla frontiera russa, tanto più le casette diventavano bianche e le cittadine pittoresche. Fandorin guardava tutto con severità sempre maggiore, ma si proibì categoricamente di mettersi a rammaricare. In fin dei conti, non è tutto oro quel che luccica, ripeteva a se stesso, eppure gli si era sedimentato nell’anima un certo sconforto.

Poi niente, ci fece l’abitudine, e già gli pareva che a Mosca non fosse poi tanto più sporco che a Berlino, mentre il Cremlino e le cupole dorate delle chiese da noi erano una cosa che i tedeschi nemmeno si sognavano. Un altro pensiero lo tormentava: l’agente militare dell’ambasciata russa, a cui Fandorin aveva consegnato il pacchetto sigillato, gli aveva ordinato di non recarsi altrove e di aspettare una corrispondenza segreta per trasmetterla a Vienna. L’attesa si era protratta una settimana, e a Erast Petrovič era venuto a noia bighellonare per l’ombroso Unter den Linden, gli era venuto a noia estasiarsi davanti ai cigni ben pasciuti dei parchi berlinesi.


Lo stesso si ripetè a Vienna; solo che allora gli toccò aspettare per cinque giorni un pacchetto destinato all’agente militare di Parigi. Erast Petrovič si innervosiva immaginando che «miss Olsen», senza stare ad aspettare notizie dal suo Ippolit, se ne fosse andata dall’albergo, dopodiché non ci sarebbe più stato modo di trovarla. In preda ai nervi Fandorin passava le giornate in pasticceria, mandando giù un’infinità di dolcetti alle mandorle e cream soda a litri.

In compenso a Parigi prese l’iniziativa nelle sue mani: fece una visita di cinque minuti alla rappresentanza russa, consegnò al colonnello dell’ambasciata le carte e dichiarò senza possibilità di appello che aveva una missione speciale e non poteva trattenersi un’ora di più. Come punizione per il tempo infruttuosamente perso non si mise nemmeno a guardare Parigi, si limitò a percorrere in fiacre i nuovi boulevard appena tracciati dal barone Hausmann e a passare dalla Gare du Nord. Dopo, sulla via del ritorno, avrebbe avuto ancora tempo.


Alle dieci meno un quarto, nascosto da un numero del Times in cui aveva fatto un buco per spiare, Erast Petrovič stava già seduto nella hall del Winter Queen. In strada lo aspettava un cab previdentemente noleggiato. In base alle istruzioni ricevute, il portiere ostentava di non guardare in direzione dell’ospite pesantemente abbigliato fuori stagione e cercava perfino di starsene girato nella direzione opposta.

Alle dieci e tre minuti tintinnò il campanello, la porta si aprì ed entrò un uomo di statura gigantesca in livrea grigia. Era proprio lui, «John Karlyč»! Fandorin incollò l’occhio sulla pagina con la descrizione del ballo del principe di Galles.

Il portiere cercò furtivamente di richiamare con lo sguardo l’attenzione di mister von Dorn che si era immerso nella lettura proprio al momento sbagliato e per di più, quella canaglia, alzò su e giù le sopracciglia cespugliose, ma l’oggetto dei suoi ammiccamenti, per fortuna, non se ne accorse, o forse ritenne al di sotto della sua dignità girarsi.

Il cab cadde a proposito. Si chiarì che il maggiordomo non era venuto a piedi, ma era arrivato con una «egoista», una carrozza a un posto solo, cui era aggiogato un robusto cavalluccio nero come un corvo. Cadde a proposito anche la pioggerellina insistente: «John Karlyč» sollevò il tettuccio di pelle e adesso manco a volerlo avrebbe potuto scoprire che lo pedinavano.

Il cabman non si stupì minimamente dell’ordine di seguire l’uomo in livrea grigia, schioccò la lunga frusta, e il piano entrò nella sua prima fase.

Imbruniva. Per le strade brillavano i fanali, ma Erast Petrovič, che non conosceva Londra, perse ben presto l’orientamento, confuso com’era dai quartieri in muratura tutti identici di una città estranea, minacciosamente silenziosa. Dopo un certo tempo le case si fecero più basse e rade, nelle tenebre era come se galleggiassero i profili degli alberi, e dopo un altro quarto d’ora cominciò la serie delle villette circondate dai giardini. L’egoista si fermò davanti a una di queste, la gigantesca silhouette se ne staccò e aprì l’alto cancello di ferro battuto. Affacciatosi dal cab, Fandorin vide entrare la carrozza nello spazio cintato, dopodiché il cancello si richiuse.

Il cabman, un tipo sveglio, aveva fermato da solo il cavallo, si era voltato e aveva chiesto: «Sir, devo informare la polizia di questo viaggio?»

«Eccovi una corona e decidete da solo la questione», rispose Erast Petrovič, che aveva deciso di non chiedere al cocchiere di aspettarlo: era troppo sveglio. E poi non sapeva quando sarebbe tornato indietro. Lo attendeva la più totale incertezza.


Scavalcare il recinto non fu difficile, negli anni del ginnasio ne aveva scavalcati anche di più alti.

Il giardino incuteva timore con le sue ombre e ficcava poco ospitalmente i rami in faccia. Di fronte, attraverso gli alberi, biancheggiavano indistinti i tratti di una casa a due piani sotto a un tetto ricurvo. Fandorin, nel tentativo di scricchiolare meno, si spinse fino agli ultimi cespugli (che mandavano una fragranza di lillà; doveva trattarsi di un qualche lillà inglese) e diede un’occhiata di ricognizione. Non era una semplice casa, aveva tutta l’apparenza della villa. All’ingresso c’era un lampione. Al piano terra le finestre erano illuminate, ma lì, probabilmente, si trovavano le stanze di servizio. Di gran lunga più interessante la finestra illuminata al secondo piano (qui si ricordò che gli inglesi, chissà perché, lo chiamano primo), ma come arrivarci? Per fortuna, poco lontano c’era il tubo della grondaia, mentre il muro era ricoperto da un rampicante dall’aria assai prensile. Le abitudini ancora fresche dell’infanzia potevano tornare nuovamente utili.

Erast Petrovič si avvicinò come un’ombra nera al muro e scosse il tubo della grondaia. Pareva solido e non cigolava. Siccome era di importanza vitale non fare fracasso, la scalata avvenne in modo più lento di quanto avrebbe voluto. Infine il piede avvertì il cornicione che per fortuna cingeva l’intero primo piano, e Fandorin, aggrappandosi con grande cautela all’edera, o forse alla vite americana, o magari a delle liane — lo sa il diavolo, come si chiamavano quegli steli serpentini — cominciò ad avvicinarsi a piccoli passi alla misteriosa finestra.

In un primo tempo lo colse una delusione bruciante: nella stanza non c’era nessuno. La lampada schermata da un abat-jour rosa illuminava una scrivania elegante con sopra certe carte, in un angolo, a quanto pareva, c’era un letto bianco. Non si capiva se era uno studio o una camera da letto. Erast Petrovič aspettò cinque minuti senza che succedesse niente, a parte una grassa falena che si era posata sulla lampada sbattendo le ali vellutate. Possibile gli sarebbe davvero toccato ridiscendere giù? A meno di rischiare e penetrare all’interno? Spinse appena l’infisso, che si aprì. Fandorin esitò, maledicendosi per la sua indecisione e l’indugio, ma venne fuori che aveva fatto bene a indugiare: la porta si aprì e nella stanza entrarono in due, un uomo e una donna.

La vista della donna per poco non strappò un ululato di trionfo a Erast Petrovič: era la Bežezkaja! Coi capelli neri pettinati lisci, legati da un nastro vermiglio, con la vestaglia di pizzo su cui era gettato un variopinto scialle zigano, gli sembrò di una bellezza accecante. Oh, a donne di questo genere si può perdonare qualsiasi peccato!

Rivolgendosi all’uomo — il suo viso restava nell’ombra, ma a giudicare dalla statura si trattava di mister Morbid -Amalia Kazimirovna disse in un inglese impeccabile (era una spia, doveva proprio essere una spia!): «Così si tratta proprio di lui?»

«Sì, m’lady. Senza ombra di dubbio.»

«Come mai ne siete così convinto? L’avete visto?»

«No, m’lady. Oggi era di turno Franz. Ha riferito che il ragazzino è arrivato un po’ prima delle sette. La descrizione coincideva fino al minimo dettaglio, avete indovinato perfino i baffi.»

La Bežezkaja proruppe in una risata squillante. «Comunque non lo possiamo sottovalutare, John. Il ragazzo appartiene alla razza dei fortunati, e io questo genere di persone lo conosco bene: sono imprevedibili e molto pericolose.»

Erast Petrovič ebbe un sussulto. Possibile stessero parlando di lui? Ma no, non era possibile.

«Sciocchezze, m’lady. Non avete che da prendere disposizioni… Ci vado io con Franz, e la finiamo una volta per tutte. Camera quindici al secondo piano.»

Ma allora era proprio così! Erast Petrovič alloggiava per l’appunto nella camera quindici, al terzo piano (il secondo in inglese). Ma come facevano a saperlo?! Chi glielo aveva detto?! Fandorin con uno strappo, senza badare al dolore, si staccò quei baffi vergognosamente inutili.

Amalia Kazimirovna, se davvero si chiamava così, si accigliò, la sua voce risuonò metallica: «Non osate! La colpa è mia, il mio errore lo correggo io. Per una volta in vita mia che mi sono fidata di un uomo… Una sola cosa mi stupisce, perché all’ambasciata non ci hanno fatto sapere del suo arrivo?»

Fandorin si fece tutto orecchie. Così avevano i loro all’ambasciata! Guarda guarda! E dire che Ivan Franzevič dubitava ancora! Dillo chi sono, dillo!

Senonché la Bežezkaja si mise a parlare d’altro: «Di lettere ne sono arrivate?»

«Oggi ne sono arrivate tre, m’lady», disse il maggiordomo porgendo le buste con un inchino.

«Bene, John, andate pure a dormire. Per oggi non ho più bisogno di voi», gli disse soffocando uno sbadiglio.

Dopo che la porta si fu richiusa dietro a mister Morbid, Amalia Kazimirovna con noncuranza gettò le lettere sulla scrivania e andò alla finestra. Fandorin arretrò sul cornicione, il cuore prese a battergli selvaggiamente. Guardandolo senza vederlo con gli occhi enormi persi nelle tenebre che si addensavano, la Bežezkaja (non fosse stato per il vetro, avrebbe potuto toccarla allungando una mano) borbottò fra sé in russo: «Che seccatura, perdonami Signore. Starsene qui, a inacidire…»

Dopodiché agì in modo assai strano: si avvicinò a una frivola applique a parete a forma di Amorino e premette col dito l’ombelico di bronzo del libidinoso dio adolescente. La stampa appesa lì accanto (una qualche scena di caccia) scivolò in silenzio da una parte scoprendo uno sportellino di rame dalla maniglia rotonda. La Bežezkaja allungò dalla manica eterea il sottile braccio nudo, girò la manopola a destra e a sinistra, e lo sportellino, con uno stridio melodioso, si aprì. Erast Petrovič premette il naso contro il vetro nel timore di perdersi la cosa più importante.

Amalia Kazimirovna, che somigliava come non mai a una regina egizia, si sporse graziosamente, prese qualcosa dallo scaffale e si voltò. In mano teneva una cartella di velluto azzurro.

Si sedette alla scrivania, estrasse dalla cartella una grande busta gialla, e da lì un foglio scritto fitto fitto. Aprì con un coltello le lettere ricevute e copiò qualcosa sul foglio. Questo la tenne occupata per due minuti al massimo. Dopodiché, rimessi i foglietti e le lettere nella cartella, la Bežezkaja si accese un sigarillo e fece alcune boccate guardando pensierosa un qualche punto nello spazio.

A Erast Petrovič si era intorpidito il braccio con cui si reggeva all’edera, su un fianco gli premeva dolorosamente il manico della colt, e poi avevano cominciato a dolergli anche i piedi che teneva girati in una posizione scomodissima. Non avrebbe potuto reggere a lungo così.

Finalmente Cleopatra spense il sigarillo, si alzò e si allontanò in un angolo lontano e poco illuminato della camera, dove una porta bassa si aprì, si richiuse e ne venne un rumore di acqua corrente. Evidentemente la stanza da bagno era lì.

Sulla scrivania ammiccava allettante la cartella azzurra, mentre le donne, come è noto, si occupano molto a lungo della loro toilette serale… Fandorin spinse l’anta della finestra, poggiò il ginocchio sul davanzale, e in men che non si dica si ritrovò dentro la stanza. Senza smettere di guardare in direzione del bagno, dove continuava a scorrere uniforme l’acqua, prese a svuotare la cartella.

Dentro trovò una grande pila di lettere e la già ricordata busta gialla. Sulla busta c’era questo indirizzo:


Mr. Nicholas M. Croog, Poste restante, l’Hotel des Postes, S. Petersbourg, Russie.


Anche così, niente male. Dentro c’erano dei foglietti divisi in caselle, vergati in inglese nella calligrafia inclinata ben nota a Erast Petrovič. Nella prima colonna c’era un numero, nella seconda il nome di un paese, nella terza un rango oppure una carica, nella quarta una data, nella quinta pure una data: diverse date del mese di giugno in ordine crescente. Per esempio, le ultime tre annotazioni, a giudicare dall’inchiostro, erano state appena prese, e recitavano così:


N. 1053F — Brasile — Capo della guardia personale dell’imperatore — inviato il 30 maggio — ricevuto il 28 giugno 1876

N. 852F — Stati Uniti d’America — Vicepresidente del comitato al Senato — inviato il 10 giugno — ricevuto il 28 giugno 1876

N. 354F — Germania — Presidente di tribunale di distretto — inviato il 25 giugno — ricevuto il 28 giugno 1876


Stop! Le lettere, arrivate quel giorno alla pensione a nome di miss Olsen, erano di Rio de Janeiro, Washington e Stoccarda. Erast Petrovič si immerse nella pila di lettere, alla ricerca di quella brasiliana. Dentro c’era un foglietto senza appellativo e senza firma, due sole righe in tutto:


30 maggio, capo della guardia personale dell’imperatore, N. 1053F


Così la Bežezkaja per un qualche motivo copiava il contenuto delle lettere ricevute su dei fogli, che poi spediva a Pietroburgo a un certo Messieur Nicholas Croog. A che scopo? E perché mai a Pietroburgo? E cosa voleva dire tutto questo?

Le domande facevano ressa, sorgevano una dietro l’altra, ma non c’era tempo di affrontarle: nel bagno l’acqua aveva smesso di scorrere. Fandorin ricacciò in un attimo le carte e le lettere nella cartella, ma non fece in tempo a ritirarsi dietro la finestra. Sulla soglia si fermò una sottile figura bianca.

Erast Petrovič estrasse dalla cintura la rivoltella e ordinò con un sussurro sibilante: «Signora Bežezkaja, una sola parola e vi sparo! Andate a sedervi! Svelta!»

Lei gli si avvicinò piano piano, guardandolo come incantata coi suoi occhi luccicanti, senza fondo, e si mise a sedere vicino alla scrivania.

«Com’è, non mi aspettavate?» le chiese velenoso Erast Petrovič. «Mi consideravate un imbecille?»

Amalia Kazimirovna taceva, il suo sguardo era attento e un po’ stupito, come se vedesse Fandorin per la prima volta.

«Cosa significano queste annotazioni?» chiese lui agitando la colt. «Che c’entra il Brasile? Chi si nasconde dietro questi numeri? Allora, rispondete.»

«È maturato», disse di punto in bianco la Bežezkaja con un tono di voce basso, pensieroso. «E ha tutta l’aria di essere diventato un uomo.»

Lasciò cadere una mano e la vestaglia scivolò dalla spalla tonda, così bianca, che Erast Petrovič inghiottì.

«Piccolo imbecille audace e pronto alle mani», disse lei sempre con lo stesso tono di voce basso, e lo guardò direttamente negli occhi. «E molto, molto carino.»

«Se credete di sedurmi, perdete il vostro tempo per niente», borbottò lui arrossendo. «Non sono così imbecille come credete.»

Amalia Kazimirovna disse tristemente: «Siete un povero ragazzo che nemmeno può immaginarsi in cosa si è invischiato. Un povero bel ragazzo. E ormai non vi posso più salvare…»

«Fareste bene a pensare piuttosto alla vostra, di salvezza!» disse Erast Petrovič cercando di non guardare quella maledetta spalla bianca che si denudava sempre di più. Possibile esista una pelle così luminosa, fatta di latte e neve?

La Bežezkaja si alzò di scatto, e lui indietreggiò, tenendo davanti a sé la canna.

«Sedetevi!»

«Non temete, sciocchino. Come siete colorito. Posso toccarvi?»

Allungò una mano e gli sfiorò appena la guancia con le dita.

«Come brucia… Cosa ne posso fare di voi?»

La sua seconda mano gli si appoggiò teneramente sulle dita che teneva strette intorno alla rivoltella. Gli occhi opachi, immobili, erano così vicini che Fandorin vi vide dentro riflesse due piccole lampade rosa. Una strana passività si impossessò del giovane: si ricordò di come Ippolit lo aveva preavvisato a proposito della farfallina, ma se ne ricordò in un modo come estraniato, quasi non si trattasse di lui.

Dopodiché accadde questo. Con la mano sinistra la Bežezkaja mise la colt da una parte, con la destra afferrò Erast Petrovič per il colletto e lo tirò verso di sé, colpendolo al tempo stesso nel naso con la fronte. Per il forte dolore Fandorin restò accecato, e del resto non avrebbe visto nulla comunque, perché la lampada era volata con un gran fragore per terra e si era instaurata una tenebra infernale. Per il colpo successivo — una ginocchiata all’inguine — il giovane si piegò in due, le dita gli si strinsero convulse, e una vampata illuminò la camera, si udì lo scoppio di uno sparo. Amalia inalò febbrilmente l’aria, cacciò mezzo singhiozzo, mezzo grido, e nessuno picchiò più Erast Petrovič, nessuno gli strinse più il polso. Echeggiò il rumore di un corpo che cadeva. Le orecchie gli ronzavano, lungo il mento gli scorrevano due rivoli di sangue, dagli occhi gli scendevano le la crime, e nella parte bassa dello stomaco gli faceva così male da volere una cosa sola: rannicchiarsi e aspettare che finisse, sopportare finché non fosse passato, muggire finché questo dolore insostenibile non fosse scomparso. Ma non c’era tempo di muggire, di sotto giungevano alte voci, un rimbombo di passi.

Fandorin agguantò la cartella dal tavolo, la gettò dalla finestra, montò sul davanzale e per poco non cadde, perché la sua mano stringeva ancora la rivoltella. Senza capire bene come, scese per la grondaia, aveva molta paura di non trovare più al buio la cartella, che tuttavia era ben visibile sul ghiaino bianco. Erast Petrovič la raggiunse e corse senza badare agli ostacoli attraverso i cespugli, borbottando fittamente sotto il naso: «Bravissimo questo corriere diplomatico… Ha ammazzato una donna… Signore, che fare, che fare… Se l’è comunque cercata… E io non volevo affatto… Adesso dove vado… La polizia mi cercherà… Oppure questi… Assassino… All’ambasciata non si può… Fuggire dal paese al più presto… Neanche questo è possibile… Mi cercheranno, ai porti… Per la loro cartella rivolteranno tutta la terra… Nascondersi… Buon Dio, mio buon Ivan Franzevič, che fare, che fare?…»Mentre correva Fandorin si voltò e vide una cosa che lo fece inciampare, per poco non cadde. Fra i cespugli stava immobile una figura nera in un lungo impermeabile. Al chiaro di luna biancheggiava un viso immobile, stranamente noto. Il conte Zurov!

Con un grido, ormai del tutto attonito, Erast Petrovič scavalcò il recinto, si lanciò a destra, a sinistra (da dove era arrivato il cab?), e dopo avere deciso che tanto era lo stesso corse verso destra.

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