In compagnia di Lizanka (a quel «Lizzi» Erast Petrovič proprio non riusciva ad abituarsi) si stava altrettanto bene chiacchierando che tacendo.
Il vagone ondeggiava sulle giunzioni, di tanto in tanto si udivano i ruggiti della sirena del treno che avanzava a velocità da capogiro attraverso boschi insonnoliti, avvolti nella nebbia che precede l’alba, mentre Lizanka ed Erast Petrovič stavano seduti sulle morbide sedie del primo scompartimento e tacevano. Il più del tempo guardavano alla finestra, ma di tanto in tanto si lanciavano occhiate, e se i loro sguardi si incrociavano senza volere, questo avveniva senza il minimo imbarazzo, anzi, in modo allegro e piacevole. Ormai Fandorin lo faceva apposta di voltarsi dalla finestra con la maggiore accortezza possibile, e ogni volta, quando riusciva a cogliere con il suo lo sguardo di lei, Lizanka scoppiava a ridere.
Non conveniva parlare anche perché in quel modo si sarebbe svegliato il signor barone, il quale stava sonnecchiando tranquillo sul divano. Solo un attimo prima Aleksandr Apollodorovič aveva sostenuto con Erast Petrovič una discussione animata sulla questione balcanica, ma poi, quasi a metà frase, aveva preso di colpo a russare lasciandosi cadere la testa sul petto. Adesso la testa gli dondolava assecondando il battito delle ruote del vagone: ta-dam, ta-dam (là-qua, là-qua); ta-dam, ta-dam (là-qua, là-qua).
Lizanka rideva piano di chissà quali suoi pensieri, e quando Fandorin la guardò con aria interrogativa gli spiegò: «Voi siete così intelligente, sapete ogni cosa. Prima avete spiegato tutto a papà di Midchat pascià e di Abdul Hamid. E io sono così stupida, non potete nemmeno immaginarlo».
«È impossibile che voi siate stupida», le sussurrò Fandorin con convinzione profonda.
«Io vi racconterei anche una cosa, però mi vergogno… Ma ve la racconterò lo stesso. Non so perché ho l’impressione che non riderete di me. Intendo dire, riderete insieme a me, ma non senza di me. Vero?»
«Verissimo!» esclamò Erast Petrovič, ma il barone mosse le sopracciglia nel sonno, e il giovane tornò a sussurrare. «Io non riderò mai di voi.»
«Guardate che me lo avete promesso. Io dopo quel vostro arrivo avevo immaginato di tutto… E avevo delle fantasie così belle. Però molto tristi e con un finale tragico. Per via di Povera Liza. Liza ed Erast della novella di Karamzin, vi ricordate? A me è sempre piaciuto moltissimo il nome Erast. Immaginavo: giaccio bella e pallida in una tomba, tutta circondata da rose bianche, vuoi perché sono affogata, o perché sono morta di tisi, mentre voi singhiozzate, e anche il papà e la mamma singhiozzano, mentre Emma si soffia il naso. È buffo, vero?»
«Buffo», confermò Fandorin.
«È proprio un miracolo che ci siamo incontrati così alla stazione. Eravamo andati ospiti da ma tante, e saremmo dovuti tornare ieri, ma papà ha dovuto trattenersi per affari al ministero e abbiamo cambiato i biglietti. Non è un miracolo?»
«Quale miracolo?» si stupì Erast Petrovič. «È il destino.»La finestra incorniciava un cielo strano: tutto nero, ma bordato di scarlatto lungo l’orizzonte. Sul tavolo biancheggiavano i poveri dispacci dimenticati.
Il vetturino portò Fandorin attraverso tutta la Mosca mattutina, dal capolinea della linea ferroviaria Nicola Primo fino al quartiere residenziale di Chamovniki. Era una giornata pulita e gioiosa, mentre nelle orecchie di Erast Petrovič non si spegneva ancora il saluto d’addio di Lizanka: «Allora verrete immancabilmente oggi! Promesso?»
Aveva organizzato a meraviglia le ore della sua giornata. Prima di tutto sarebbe andato all’esthernato, da milady. Alla direzione dei gendarmi era meglio passarci dopo, per parlare col direttore, e se gli fosse riuscito di chiarire qualcosa di importante con lady Esther, allora avrebbe spedito un telegramma a Lavrentij Arkadevič. D’altra parte nel corso della notte potevano essere arrivati i dispacci mancanti… Fandorin estrasse dal nuovo portasigari d’argento un lungo sigarillo che accese con un certo impaccio. Non sarebbe stato meglio passare prima dalla gendarmeria? Ma il cavalluccio già trottava per via Ostoženka, e tornare indietro era stupido. Quindi: prima da milady, poi alla direzione, poi a casa, a prendere le sue cose e traslocare in una pensione come si deve, poi si sarebbe cambiato, avrebbe comprato dei fiori e per le sei si sarebbe trovato alla Malaja Nikitskaja, dagli Evert-Kolokolzev. Erast Petrovič sorrise beato e canticchiò: «Lui era un consigliere titola-are, lei la figlia di un genera-ale, lui le dichiarò timidamente il suo amo-ore, lei lo ca-a-acciò con orro-ore».
Ed ecco il noto edificio con il cancello di ghisa, e il servo con l’uniforme azzurra vicino alla garitta dipinta a strisce come da regolamento di polizia.
«Dove posso trovare lady Esther?» gridò Fandorin, chinandosi dal suo sedile. «Nell’esthernato o nelle sue stanze?»
«A quest’ora di solito sta nelle sue stanze», riferì diligentemente il custode, e la carrozza rimbombò oltre, nel vicolo silenzioso.
Giunto alla palazzina a due piani della direzione, Fandorin ordinò al vetturino di aspettarlo, preavvertendolo che l’attesa avrebbe potuto rivelarsi lunga.
Il solito portinaio arrogante, che milady chiamava Timofej, oziava vicino alla porta, solo che non si scaldava al sole, come la volta prima, ma si era messo all’ombra, perché il sole di luglio arrostiva di un calore incomparabilmente più forte di quello di maggio.
Adesso Timofej si comportò in modo del tutto diverso: manifestando un talento psicologico fuori del comune, si tolse il berretto, fece un inchino e chiese con voce melliflua chi doveva riferire. Qualcosa, evidentemente, era mutato nell’aspetto esteriore di Erast Petrovič nel mese appena trascorso, così che non suscitava più nella razza dei portinai l’istinto tribale di «menare e scacciare».
«Non c’è bisogno di annunciarmi, vado da solo.»
Timofej si piegò ad arco e aprì la porta senza obiezioni, fece poi passare il visitatore in un ingresso rivestito di damasco, e da qui, per un corridoio molto illuminato dal sole, Erast Petrovič arrivò fino alla nota porta bianca e oro. Questa gli si aprì incontro, e un certo soggetto lungo e smilzo con la stessa uniforme azzurra di Timofej e le stesse calze bianche guardò con aria interrogativa il nuovo venuto.
«Fandorin, funzionario della Terza sezione, per una questione urgente», disse severamente Erast Petrovič, tuttavia la fisionomia cavallina del servo si mantenne impenetrabile, e fu necessario passare all’inglese: «State polke, impector Fandorin, on urgent official business».
Anche questa volta, nemmeno un muscolo tremò su quel viso di pietra, tuttavia il senso di quanto aveva detto fu capito; il servo abbassò impettito la testa e scomparve dietro la porta, richiudendosi dietro le ante.
Poco dopo vennero riaperte. Sulla soglia c’era lady Esther in persona. Nel vedere quella sua vecchia conoscenza, sorrise contenta: «O, siete voi, ragazzo mio. Ma Andrew aveva detto un certo signore importante della polizia segreta. Venite, venite. Come state? Come mai avete un’aria così stanca?»
«Sono appena sceso dal treno di Pietroburgo, milady», prese a spiegare Fandorin entrando nello studio. «Dalla stazione sono venuto direttamente da voi, per una questione molto urgente.»
«Davvero?» annuì addolorata la baronessa, mettendosi a sedere su una poltrona e invitando con un gesto il suo ospite a sederlesi davanti. «Voi, certo, volete parlare con me del caro Gerald Cunningham. È un incubo, non ci capisco nulla… Andrew, prendi il cappello del signor poliziotto… È al mio servizio da tempo, è appena arrivato dall’Inghilterra. Ottimo Andrew, mi mancava. Va’ pure, Andrew, amico mio, per il momento non ho più bisogno di te.»
L’ossuto Andrew, che a Erast Petrovič non pareva affatto ottimo, si allontanò con un inchino, e Fandorin prese ad agitarsi nella dura poltrona, cercando di trovare una posizione più comoda — la conversazione aveva l’aria di continuare per un po’.
«Milady, sono molto addolorato di quanto è successo, tuttavia il signor Cunningham, il vostro aiutante più vicino nel corso di molti anni, risulta coinvolto in una vicenda criminale delle più serie.»
«E adesso chiuderete i miei esthernati russi?» chiese piano milady. «Dio, cosa ne sarà dei bambini… Avevano appena cominciato ad abituarsi a una vita normale. E quanti talenti fra di loro! Rivolgerò una petizione all’autorità suprema… magari mi permetteranno di portare i miei allievi all’estero.»
«Vi preoccupate senza motivo», le disse con gentilezza Erast Petrovič. «Ai vostri esthernati non succederà nulla. Alla fin fine, sarebbe un delitto. Volevo solo farvi alcune domande su Cunningham.»
«Ma certo! Tutto quel che volete. Povero Gerald… Sapete, era di una famiglia molto buona, nipote di un baronetto, ma i suoi genitori erano affogati sulla via del ritorno dall’India, e il ragazzino era rimasto orfano a undici anni. Da noi in Inghilterra le leggi sull’eredità sono molto dure, va tutto al primogenito, sia il titolo sia il patrimonio, mentre i più giovani spesso restano senza il becco di un quattrino. Gerald era il figlio minore di un figlio minore, senza mezzi, senza casa, i parenti non si interessavano a lui… Stavo scrivendo appunto le condoglianze a suo zio, un gentleman del tutto incapace, che non aveva il benché minimo interesse per Gerald. Che ci volete fare, noi inglesi diamo un grande significato alle formalità.»Lady Esther mostrò un foglio di carta vergato in una calligrafia grande, démodé, con tanti uncini e complicati tratti di penna. «Alla fine ho preso il bambino con me. Gerald manifestò straordinarie capacità matematiche, e io pensavo che sarebbe diventato un professore, sennonché la vivacità dell’intelletto e l’amor proprio non sono di grande aiuto nella carriera scientifica. Ben presto notai che il ragazzo godeva di autorità fra gli altri bambini, che gli piaceva essere il capo. Aveva innato il talento del leader: una rara forza di volontà, senso della disciplina, la capacità di separare senza fallo in ogni uomo i lati forti da quelli deboli. All’esthernato di Manchester lo elessero capoclasse. Immaginavo che Gerald avrebbe voluto entrare nel servizio di Stato oppure occuparsi di politica; sarebbe potuto diventare un ottimo funzionario coloniale, e col tempo, magari, perfino un governatore generale. Quale non fu il mio stupore, quando espresse il desiderio di restare con me e occuparsi dell’insegnamento!»
«Come no», annuì Fandorin. «In quel modo ebbe la possibilità di sottomettere alla sua influenza menti infantili non ancora rafforzatesi, dopodiché restare in contatto con i diplomati…»disse Erast Petrovič senza concludere la frase, colpito dall’improvvisa congettura. Dio, come è semplice! È stupefacente che non lo abbiano scoperto prima!
«Ben presto Gerald diventò il mio insostituibile aiutante», continuò milady, senza badare a come era mutata l’espressione in faccia al suo interlocutore. «Era un lavoratore pieno di abnegazione, instancabile! E aveva un raro dono linguistico; senza di lui mi sarebbe stato semplicemente impossibile seguire il lavoro delle filiali in così tanti paesi. So che il suo nemico è sempre stata un’ambizione incontenibile. Per via del trauma psichico infantile, il desiderio di dimostrare ai parenti che poteva ottenere tutto anche senza il loro aiuto. Avvertivo di tanto in tanto che c’era una strana incongruenza: non era assolutamente possibile che con le sue grandi capacità e ambizioni potesse accontentarsi del modesto ruolo di pedagogo, sia pure con uno stipendio non disprezzabile.»
Ma Erast Petrovič non la stava più ascoltando. Nella sua testa era come se si fosse accesa una lampadina elettrica, illuminando tutto quello che prima era immerso nel buio. Tornava ogni cosa! Il senatore Dobbs che non si sapeva da dove fosse spuntato, l’ammiraglio francese «che aveva perso la memoria», l’efendi turco di origine ignota, e anche il defunto Brilling — sì sì, anche lui! Non umani? Marziani? Inviati dell’altro mondo? Ma no! Erano tutti allievi degli esthernati, ecco cos’erano! Erano dei trovatelli, solo che non erano stati buttati alle porte dell’orfanotrofio, al contrario, era stato l’orfanotrofio a lanciarli nella società. Ciascuno era stato preparato in modo acconcio, ciascuno era in possesso di un talento abilmente scoperto e accuratamente coltivato! Non a caso Jean Intrepid era stato lanciato proprio sulla traiettoria della fregata francese: evidentemente il ragazzo aveva capacità marinaresche fuori dell’ordinario. Ma non si capiva perché c’era stato bisogno di nascondere da dove era venuto fuori un ragazzo così pieno di talento. E invece no, si capiva benissimo! Se il mondo avesse saputo quanti brillanti carrieristi uscivano dall’allevamento di lady Esther, allora sarebbe stato in guardia. Invece così era come se tutto avvenisse per conto suo. Una spintarella nella direzione giusta, e il talento si rivelava immancabilmente. Ecco perché ogni membro della coorte degli «orfani» otteneva successi così sconvolgenti nella carriera! Ecco perché era così importante per loro riferire a Cunningham dei loro avanzamenti di servizio: perché così confermavano la loro forza, la correttezza della scelta fatta! Ed era perfettamente naturale che tutti questi geni non fossero dediti davvero a niente salvo alla loro congregazione… dopotutto era la loro unica famiglia, una famiglia che li aveva difesi da un mondo crudele, li aveva allevati, aveva dischiuso in ciascuno di loro un «io» irripetibile. E poi una famigliola di quasi quattromila geni sparsi per il mondo! Ah questo Cunningham, questo «talento di leader»! Anche se, ferma…
«Milady, ma quanti anni aveva Cunningham?» chiese Erast Petrovič aggrottando la fronte.
«Trentatré», gli rispose di buon grado lady Esther. «Il 16 ottobre ne avrebbe compiuti trentaquattro. Il giorno del suo compleanno Gerald dava sempre una festa per i bambini, ma i regali non venivano dati a lui, era sempre lui a regalare qualcosa a ognuno. Secondo me spendeva così tutto il suo stipendio…»
«Non torna!» gridò Fandorin disperato.
«Cos’è che non torna, ragazzo mio?» si stupì milady.
«Intrepid è stato trovato in mare venti anni fa! Allora Cunningham aveva solo tredici anni. Dobbs si è arricchito un quarto di secolo fa, quando Cunningham non era ancora orfano! No, non è lui!»
«Ma cosa state dicendo?» chiese l’inglese nel tentativo di capire, strizzando confusa i chiari occhietti azzurri.
Ma Erast Petrovič la fissò in silenzio, colpito da una spaventosa congettura.
«Così non era Cunningham…»sussurrò lui. «Eravate sempre voi… Voi stessa! Voi c’eravate venti, e venticinque, e quaranta anni fa! Ma certo, chi altri! Mentre Cunningham, in effetti, era soltanto il vostro braccio destro! Quattromila vostri allievi, di fatto i vostri figli! E per ciascuno di loro voi siete come una madre! Era di voi, e niente affatto di Amalia che parlavano Morbid e Franz! A ciascuno ‘la signora’ aveva dato uno scopo nella vita, ciascuno lo aveva ‘indirizzato sulla sua strada’! Ma questo è spaventoso, spaventoso!» disse Erast Petrovič gemendo come dal dolore. «Intendevate servirvi fin dall’inizio della vostra teoria pedagogica per creare una congiura mondiale.»
«Be’, non proprio fin dall’inizio», ribatté tranquilla lady Esther, nella quale si era verificato un certo indefinibile ma del tutto evidente mutamento. Non pareva più la vecchietta pacifica e affettuosa, gli occhi le si erano accesi d’intelligenza, di autorità e di una forza indomabile. «All’inizio volevo soltanto salvare dei poveri, diseredati cuccioli d’uomo. Li volevo rendere felici, tutti quelli che potevo. Che fossero cento o mille. Ma i miei sforzi erano una goccia nel mare. Io salvavo un bambino, ma il feroce Moloc della società ne macinava intanto altri mille, milioni di piccoli uomini, in ciascuno dei quali era brillata all’inizio la scintilla divina. Allora ho capito che la mia opera era insensata. Non si prosciuga il mare con un cucchiaino.»La voce di lady Esther aveva preso energia, le spalle curve si erano raddrizzate. «Inoltre ho capito che il Signore mi aveva dato le forze per fare di più. Potevo salvare non un pugno di orfani, potevo salvare l’umanità. Magari non nel corso della mia vita, magari venti, trenta, cinquanta anni dopo la mia morte. Questa era la mia vocazione, la mia missione. Ciascuno dei miei bambini è qualcosa di prezioso, il coronamento dell’universo, il cavaliere di una nuova umanità. Ciascuno porterà un vantaggio inestimabile, con la sua vita cambierà il mondo per il meglio. Scriverà sagge leggi, scoprirà i segreti della natura, creerà capolavori artistici. E di anno in anno ce ne saranno sempre di più, col passare del tempo trasfigureranno questo mondo infame, ingiusto, criminale!»
«Quali segreti della natura, quali capolavori dell’arte?» chiese amaramente Fandorin. «Dopotutto a voi interessa solo il potere. L’ho visto, avete tutti generali e futuri ministri.»
Milady fece un sorriso condiscendente: «Amico mio, Cunningham si occupava solo della categoria F, molto importante ma non certo l’unica. ‘F’ sta per Force, ossia tutto quanto ha a che fare col meccanismo diretto del potere: la politica, l’apparato dello Stato, le forze armate, la polizia e così via. Ma c’è anche la categoria ‘S’ — Science, la categoria ‘A’ — Art, la categoria ‘B’ — Business. E ce ne sono altre. In quarant’anni di attività pedagogica ho indirizzato sulla loro strada sedicimilaottocentonovantatré persone. Forse non vi rendete conto con che impeto negli ultimi decenni si sono sviluppati la scienza, la tecnica, l’arte, la legislazione, l’industria? Davvero non vedete che nel nostro diciannovesimo secolo, a partire dalla sua metà, il mondo è diventato improvvisamente più buono, ragionevole, bello? Si sta verificando una vera e propria rivoluzione pacifica. Ed essa è del tutto necessaria, altrimenti l’ingiusta organizzazione della società porterà a una nuova sanguinaria rivoluzione, che getterà l’umanità molti secoli indietro. I miei bambini salvano il mondo giorno per giorno. Aspettate soltanto e vedrete che altro avverrà negli anni a venire. A proposito, ricordo che mi avevate chiesto per quale motivo non prendo ragazze. Quella volta, perdonatemi, vi ho mentito. Prendo anche le ragazze. Assai poche, ma ne prendo. In Svizzera ho un esthernato speciale, dove vengono educate le mie care figliole. Si tratta di un materiale del tutto particolare, forse ancora più prezioso dei miei figli. Una delle mie allieve, mi pare, la conoscete», disse milady ridendo maliziosa. «Adesso, è vero, si sta comportando in modo irragionevole e ha dimenticato momentaneamente il suo dovere. Questo alle donne giovani succede. Ma tornerà immancabilmente da me, le conosco io le mie ragazze.»
Da queste parole fu chiaro a Erast Petrovič che Ippolit nonostante tutto non aveva ucciso Amalia, ma l’aveva portata da qualche parte, tuttavia la menzione della Bežezkaja riaprì vecchie ferite e indebolì assai l’impressione (va riconosciuto, assai buona) fatta sul giovane dai ragionamenti della baronessa.
«La buona causa… questo certamente è notevole!» esclamò lui infervorandosi. «Ma cosa mi dite dei mezzi? A quanto pare per voi uccidere un uomo è come schiacciare una zanzara.»
«Questo non è vero!» ribatté con ardore milady. «Mi rincresce sinceramente di ciascuna delle vite perdute. Ma è impossibile ripulire le stalle di Augìa senza imbrattarsi. Ogni morto mi salva mille, un milione di altri esseri umani.»
«E chi sarebbe stato salvato da Kokorin?» chiese invelenito Erast Petrovič.
«Col denaro di questo inutile libertino io educherò per la Russia e per il mondo mille teste luminose. Non ci si può far niente, ragazzo mio, non l’ho creato io questo mondo crudele, in cui ogni cosa ha il suo prezzo. A mio parere in questo caso il prezzo è assolutamente ragionevole.»
«E la morte di Achtyrzev?»
«Tanto per cominciare, lui chiacchierava troppo. In secondo luogo, aveva troppo esasperato Amalia. E in terzo luogo, l’avete detto voi stesso a Brilling: il petrolio di Baku. Nessuno potrà impugnare il testamento scritto da Achtyrzev, è tuttora valido.»
«E il rischio di un’indagine di polizia?»
«Sciocchezze», disse milady alzando le spalle. «Io lo sapevo che il mio caro Ivan avrebbe sistemato tutto. Fin dall’infanzia si è distinto per la sua brillante mente analitica e il talento di organizzatore. Che tragedia che non ci sia più… Brilling avrebbe sistemato tutto in modo ideale, se non ci si fosse messo di mezzo un giovane gentleman cocciuto da non dirsi. Noi tutti siamo stati davvero molto, molto sfortunati.»
«Un momento, milady», la interruppe Erast Petrovič che cominciava finalmente a capire che sarebbe stato il caso di preoccuparsi. «E perché siete così franca con me? Possibile crediate davvero di potermi attirare dalla vostra parte? Non fosse per il sangue versato, sarei tutto dalla vostra parte, però i vostri sistemi…»
Lady Esther, sorridendo imperturbabile, lo interruppe: «No, amico mio, non spero di fare propaganda con voi. Purtroppo ci siamo conosciuti troppo tardi — la vostra mente, il vostro carattere, il sistema di valori morali hanno già avuto il tempo di formarsi, mutarli adesso è praticamente impossibile. Sono franca con voi per tre motivi. Prima di tutto, siete un giovane molto sensato e suscitate in me la più sincera simpatia. Non voglio che mi consideriate un mostro. In secondo luogo, avete compiuto un grosso passo falso, a venire direttamente qui dalla stazione senza informare prima i vostri superiori. E in terzo luogo, non è per caso che vi ho fatto sedere in quella scomodissima poltrona con lo schienale così stranamente ricurvo».
Fece un movimento impercettibile con la mano e dagli alti braccioli uscirono due cerchioni d’acciaio che serrarono mortalmente Fandorin alla poltrona. Senza ancora rendersi conto di quanto gli era successo, si dimenò nel tentativo di alzarsi, ma non potè compiere il benché minimo movimento, mentre le gambe della poltrona era come se avessero messo radici nel pavimento.
Milady suonò il campanello, e nello stesso istante entrò Andrew, che doveva essere rimasto a sentire dietro la porta.
«Mio ottimo Andrew, per piacere, fa’ venire al più presto il professor Blank», ordinò lady Esther. «Strada facendo spiegagli la situazione. Sì, digli anche di prendere il cloroformio. Il vetturino invece lascialo alle cure di Timofej.»Sospirò tristemente: «Non c’è altro da fare…»
Andrew si inchinò senza una parola e uscì. Nello studio regnava il silenzio: Erast Petrovič ansimava, lottando con la trappola d’acciaio e cercando di trovare il modo di prendere da dietro la schiena la Herstal sua salvatrice, sennonché quei maledetti cerchioni lo stringevano così forte che gli toccò rinunciare all’idea. Milady osservava con partecipazione i movimenti corporei del giovane, scuotendo di tanto in tanto la testa.
Ben presto risuonarono nel corridoio dei passi veloci, ed entrarono in due: il genio di fisica professor Blank e il muto Andrew.
Guardando in un lampo il prigioniero, il professore chiese in inglese: «È una cosa seria, milady?»
«Sì, piuttosto seria», sospirò lei. «Ma rimediabile. Certo, dovremo darci un po’ da fare. Non voglio ricorrere senza necessità al mezzo estremo. Così mi sono ricordata che voi, ragazzo mio, sognavate da tempo di compiere un esperimento su materiale umano. A quanto pare se ne presenta l’occasione.»
«Però non sono ancora del tutto pronto a lavorare con il cervello umano», disse Blank incerto, guardando un ammutolito Fandorin. «D’altra parte, sarebbe uno spreco farsi sfuggire questa occasione…»
«In ogni caso bisogna addormentarlo», osservò la baronessa. «Avete portato il cloroformio?»
«Sì, subito.»Il professore ne estrasse una fiala dalla tasca capace e ne impregnò abbondantemente un fazzoletto da naso. Erast Petrovič avvertì un pungente odore di medicinale e fece per ribellarsi, ma con due balzi Andrew saltò sulla poltrona e con incredibile forza agguantò il prigioniero alla gola.
«Addio, povero ragazzo», disse milady, e si voltò.
Blank si tolse dalla tasca del gilet l’orologio d’oro, lo guardò da sopra gli occhiali e serrò fermamente la faccia di Fandorin con il fragrante straccio bianco. Ecco in quale occasione tornò utile a Erast Perovič la dottrina salvifica dell’incomparabile Chandra Johnson! Il giovane non inalò l’aroma proditorio in cui non era evidentemente contenuto nessun prana. Era arrivato il momento di esercitarsi nel trattenimento del respiro.
«Un minuto sarà più che sufficiente», dichiarò lo scienziato, premendo con forza il fazzoletto sulla bocca e il naso del condannato.
E otto e nove e dieci, prese a contare mentalmente Erast Petrovič, senza dimenticare di spalancare in maniera convulsa la bocca, strabuzzare gli occhi e simulare le convulsioni. A dire il vero, se anche avesse desiderato inspirare non sarebbe stato così semplice, visto che Andrew gli premeva la gola con una morsa di ferro.
Il conto era arrivato fino a ottanta, i polmoni lottavano con le loro ultime forze contro la sete d’aria, ma l’infame straccio continuava a raffreddare con il suo liquido il viso in fiamme. Ottanta, ottantasei, ottansette, continuò Fandorin passando a una disonesta abbreviazione, cercando con le sue ultime forze di imbrogliare quel contatore di secondi insopportabilmente lento. Di colpo si rese conto che doveva smetterla di agitarsi, era già un po’ che avrebbe dovuto perdere conoscenza, e si ammorbidì, si arrestò, e per maggiore verosimiglianza allentò anche la mascella inferiore. Arrivato a novantatré Blank tolse la mano.
«Perbacco», constatò, «che organismo resistente. Quasi settantacinque secondi.»
Il «privo di sensi» lasciò cadere la testa su un fianco e finse di respirare in modo regolare e profondo, sebbene morisse dalla voglia di afferrare l’aria con la bocca affamata di ossigeno.
«E pronto, milady», comunicò il professore. «Possiamo passare all’esperimento.»