Da via Mjasnizkaja, dove si trovava la Direzione investigativa, fino alla pensione Ai boiari dove, a giudicare dal bollettino, «alloggiava temporaneamente» la signora Spizyna, c’erano una ventina di minuti di cammino, e Fandorin, seppur divorato dall’impazienza, decise di percorrerli a piedi. Quell’aguzzino di un «Lord Byron», che gli stringeva tanto spietatamente i fianchi, aveva scavato una breccia talmente sostanziosa nel suo bilancio, che il costo di una carrozza avrebbe potuto riflettersi nel più sostanziale dei modi sotto la voce «alimentazione». Masticando un pasticcino allo storione, da lui acquistato all’angolo col vicolo Gusjatnikov (non bisogna dimenticare che, in preda ad agitazione investigativa, Erast Petrovič aveva saltato il pranzo), misurava a passi veloci il boulevard Čistoprudnyj, dove vecchiette antidiluviane in cuffietta e mantellina distribuivano briciole di pane a piccioni grassi e poco cerimoniosi. Sull’acciottolato sfrecciavano carrozzelle e phaeton cui Fandorin non riusciva assolutamente a tener dietro, col risultato che i suoi pensieri presero una piega risentita. In sostanza, non si può fare l’investigatore senza disporre di una carrozza con un bel tiro di cavalli al trotto. Pazienza per la pensione Ai boiari in via Pokrovka, ma poi da lì bisognava ancora scarpinare fino al fiume Jauza, dal commesso Kukin… un’altra mezz’ora almeno. Una perdita di tempo fatale, si affliggeva Erast Petrovič (e diciamolo subito: esagerando non poco), eppure il signor commissario preferisce far risparmiare quindici copechi allo Stato. Ma per lui, guarda caso, per il suo vetturino personale, la direzione stanzia ogni mese ottanta rubli d’argento. Eccoli qui, i privilegi dei capi: uno se ne torna a casa col suo vetturino personale, mentre a un altro tocca scarpinare sulle sue due gambe per una necessità di servizio.
Ma ecco che a sinistra, sopra il tetto del caffè Souchet, già occhieggiava il campanile della chiesa della Trinità, accanto a cui si trovava la pensione Ai boiari, e Fandorin accelerò il passo, pregustando importanti scoperte.
Mezz’ora dopo, con andatura avvilita e sconfitta, si trascinava per il boulevard Pokrovskij dove a nutrire i colombi, altrettanto ben pasciuti e insolenti di quelli del boulevard Čistoprudnyj, non c’erano più signore della buona società, ma delle bottegaie.
La conversazione con la testimone non fu delle più consolanti. Erast Petrovič aveva trovato la signora proprio per un pelo, mentre già si accingeva a montare su un calesse stracarico di bauli e involti per trasferirsi dalla vecchia capitale nelle terre avite del governatorato di Kaluga. Per economizzare la Spyzyna viaggiava all’antica, non in treno, ma con certi suoi cavallucci.
In questo Fandorin ebbe indubbiamente fortuna, perché se la signora avesse avuto fretta di raggiungere la stazione, addio conversazione. Ma il succo della chiacchierata con la loquace testimone, che Erast Petrovič affrontò da un verso e dall’altro, si riduceva a questo soltanto: Ksaverij Feofìlaktovič aveva ragione, la Spizyna aveva visto proprio Kokorin; si ricordava della finanziera, e anche del cappello tondo, e perfino delle scarpe di pelle lucida con i bottoni, di cui nessuno dei testimoni dei giardini di Sant’Alessandro aveva fatto menzione.
Non restava che sperare in Kukin, in relazione al quale Grušin, molto probabilmente, si sarebbe dimostrato ancora una volta nel giusto. Il commesso aveva cianciato senza pensare, e adesso per colpa sua gli toccava attraversare tutta Mosca, esponendosi alle risate del commissario.
La drogheria Brykin e figli affacciava direttamente sul lungofiume con una porta di vetro su cui era raffigurato un pan di zucchero; da lì il ponte si vedeva come ad averlo sul palmo di mano, questo Fandorin lo notò subito. Notò anche che le finestre del negozio erano spalancate (evidentemente per il caldo soffocante), e magari Kukin aveva potuto udire anche lo «scatto metallico», dopotutto da lì fino al più vicino pilone in pietra non c’erano più di quindici passi. Dalla porta si affacciò con aria incuriosita un uomo sulla quarantina con una camicia rossa, un gilet nero di panno, pantaloni di fustagno e stivali a collo di bottiglia.
«Vi serve qualcosa, eccellenza?» gli chiese. «Non avrà mica perso la strada?»
«Kukin», gli domandò severamente Erast Petrovič, che dalle spiegazioni imminenti non si aspettava niente di confortante.
«Ai vostri ordini», gli rispose guardingo il commesso sollevando le folte sopracciglia, ma indovinò subito. «Voi, eccellenza, magari siete della polizia? Ve ne sono molto riconoscente. Non mi aspettavo di ricevere da voi un’attenzione così tempestiva. Il signor poliziotto alla stazione di polizia ha detto che i superiori avrebbero preso in esame la faccenda, ma non me l’aspettavo, non me l’aspettavo davvero. Ma cosa stiamo qui sull’ingresso! Vogliate favorire in negozio. Le sono così grato, ma così grato.»
Fece un inchino, e aprì la porta, e fece anche un gesto di invito col braccio, pregandolo di entrare, ma Fandorin non si mosse dal suo posto. Disse in modo autorevole: «Io, Kukin, non vengo dalla stazione di polizia, ma dalla polizia investigativa. Ho l’incarico di cercare lo stu… l’uomo di cui avete informato il sorvegliante della stazione».
«Lo studente?» suggerì con prontezza il commesso. «Come no, me lo ricordo benissimo. Mi ha fatto una paura, lo perdoni il Signore. Non appena l’ho visto in piedi sul pilone, con l’arma puntata alla testa, mi sono sentito gelare il sangue. Ecco fatto, ho pensato, risiamo all’anno scorso, qui non ci verrà più nessuno nemmeno per tutto l’oro del mondo. E che colpa ne ho io? Cosa ci trovano lì, da venire ad ammazzarcisi, neppure ci avessero spalmato il miele. Se ne fosse almeno andato sulla Moscova, lì è più profondo, e anche il ponte è più alto, e poi…»
«Chetatevi, Kukin», lo interruppe Erast Petrovič. «Descrivetemi piuttosto lo studente. Cosa indossava, che aspetto aveva e in base a cosa avete deciso che si trattava proprio di uno studente.»
«E come faceva a non essere uno studente, tutto il suo aspetto, vostra eccellenza», disse stupito il commesso. «Aveva l’uniforme, e i bottoni, e le lenti sul naso.»
«Come sarebbe a dire l’uniforme?» saltò su Fandorin. «Indossava forse l’uniforme?»
«E come poteva essere altrimenti?» disse Kukin guardando con commiserazione l’inconcludente funzionario. «Sennò come facevo a capire che era uno studente? Cosa crede, che non sappia distinguere dall’uniforme uno studente da un piccolo ufficiale?»
A questa giusta osservazione Erast Petrovič non aveva nulla da obiettare, così prese di tasca il suo bel bloc-notes con la matita per annotare la testimonianza. Il bloc-notes Fandorin lo aveva acquistato prima di entrare in servizio all’Investigativo, se lo era portato dietro per tre settimane senza mai usarlo, ed ecco che adesso finalmente gli tornava utile: in una sola mattina aveva già riempito alcune paginette con la sua calligrafia minuta.
«Raccontatemi che aspetto aveva l’uomo.»
«Un uomo come tanti. Nulla di rimarchevole, un po’ brufoloso in faccia. Quelle lenti, ripeto…»
«Che genere di lenti, occhiali o pince-nez?»
«Quelle col nastrino.»
«Pince-nez, allora», sfregò con la matita Fandorin. «Altri segni particolari?»
«Era piuttosto curvo. Le spalle manca poco gli arrivavano sopra il cocuzzolo… Per il resto, ve l’ho detto, era uno studente come tanti…»
Kukin guardò perplesso il «piccolo ufficiale», che rimase a lungo in silenzio, socchiudeva gli occhi, muoveva le labbra, faceva frusciare le pagine del suo quadernetto. Il tipo doveva avere qualcosa in mente.
«L’uniforme, brufoloso, il pince-nez, piuttosto curvo», aveva scritto nel bloc-notes. «Be’, un po’ brufoloso; questa è una sciocchezza. Nell’elenco degli effetti personali di Kokorin non viene nominato nessun pince-nez. Che gli sia caduto? Possibile. Nemmeno i testimoni parlano di pince-nez, ma non li hanno interrogati specificamente sull’aspetto del suicida; e a che scopo poi? Curvo? Mmmm. Nelle Notizie di Mosca, a quanto ricordo, si parla di un ‘giovane aitante’, però il reporter non ha presenziato agli eventi, Kokorin non l’ha visto, così potrebbe essersi inventato il ‘baldo giovane’ per l’effetto. Resta l’uniforme da studente, questa è inconfutabile. Se quello sul ponte era davvero Kokorin, viene fuori che nell’intervallo di tempo fra le undici e mezzogiorno e mezzo si è messo la finanziera per un suo qual che motivo. E cosa c’è da notare? Che dalla Jauza fino alla via Ostoženka e poi di nuovo alla ‘Società assicuratrice antincendi di Mosca’ il cammino non è breve, in mezz’ora non ce la si fa.»
A quel punto Fandorin comprese, non senza un crampo allo stomaco, che gli restava una sola via d’uscita: prendere il commesso Kukin per la collottola, trascinarlo al comando di polizia di via Mochovaja, all’obitorio, dove, sotto ghiaccio, giaceva tuttora il cadavere del suicida, e richiederne l’identificazione. Erast Petrovič si raffigurò il cranio disfatto con la crosta di sangue e cervello secco, e per una associazione di idee del tutto naturale si ricordò della Krupnova, la moglie di un commerciante che era stata assassinata e continuava a visitarlo nei suoi incubi. No, non aveva proprio nessuna voglia di andare nella «ghiacciaia». Ma fra lo studente del ponte Malyj Jayzskij e il suicida dei giardini di Sant’Alessandro un legame c’era, e andava chiarito al più presto. Chi avrebbe potuto dirgli se Kokorin era brufoloso e gobbo, se portava il pince-nez?
Tanto per cominciare la signora Spizyna, che però, con tutta probabilità, doveva avere già raggiunto la regione di Kaluga. Poi il cameriere del defunto, come diavolo si chiamava? Non importa, l’investigatore lo aveva comunque tirato fuori dall’appartamento, e adesso vallo a cercare… Restavano i testimoni dei giardini di Sant’Alessandro, e prima di tutto quelle due signore con cui Kokorin aveva parlato negli ultimi istanti della sua vita, loro molto probabilmente lo avevano esaminato in ogni particolare. Ecco cosa aveva annotato nel bloc-notes: «Eliz. Aleksandrna von Evert-Kolokolzev, anni 17, figlia di consigliere titolare, signorina Emma Gottlibovna Pful, anni 48. Via Malaja Nikitskaja, casa privata».
Senza spendere per il vetturino non c’era proprio modo di farcela.
Fu una lunga giornata. Uno splendente sole di maggio, per nulla stanco di illuminare la città dalle cupole d’oro, stava calando svogliatamente sull’orizzonte dei tetti, quando Erast Petrovič, che aveva pranzato con un paio di monetine da dieci copechi, scese dalla vettura davanti a un’elegante magione dalle colonne doriche, la facciata con gli stucchi e il portico in marmo. Vedendo che il suo passeggero si era fermato in preda all’incertezza, il vetturino gli disse: «È proprio questa la casa del generale, non dubitatene. Mica è il primo anno che portiamo la carrozza a Mosca».
E se ora non mi fanno entrare? si chiese con un sussulto Erast Petrovič spaventato all’idea che lo potessero mortificare. Impugnò il lucido martelletto di bronzo e batté due volte, Il massiccio portone dai due bronzei musi leonini si aprì subito, e mostrò un portiere dalla ricca livrea coi galloni d’oro.
«Venite per il signor barone? Dall’ufficio?» gli chiese sbrigativamente. «Devo riferire o solo trasmettergli delle carte? Ma entrate pure.»
Nello spazioso ingresso, illuminato in abbondanza sia dal lampadario sia dalle bocchette a gas, il visitatore s’intimidì del tutto.
«Veramente cercavo Elizaveta Aleksandrovna», spiegò. «Erast Petrovič Fandorin, polizia investigativa. Per necessità urgente.»
«Dell’investigativa?» chiese con cipiglio il guardiano. «Sarà mica per il fatto di ieri? Non ci pensate nemmeno. Sappiate che la signorina ha singhiozzato manca poco tutto il giorno e questa notte ha dormito malissimo. Non vi lascerò entrare e non ho nessuna intenzione di annunciarvi.
Sua eccellenza ha già minacciato quelli della stazione di polizia di staccargli la testa, dopo che ieri hanno tormentato Elisaveta Aleksandrovna coi loro interrogatori. Tornatevene in strada, in strada.»E quel mascalzone prese pure a spingerlo col suo pancione verso l’uscita.
«E la signorina Pful?» gridò disperato Erast Petrovič. «Emma Gottlibovna, anni 48? Mi basterebbe scambiare due parole almeno con lei. È una faccenda di Stato!»
Il guardaportone schioccò con aria importante le labbra.
«Da lei la posso anche lasciare andare, sia pure. Da quella parte, andate lì sotto la scala. Lungo il corridoio la terza porta a destra. La signora governante abita lì.»
Bussò e gli aprì una signora alta e ossuta che appuntò sul visitatore tondi occhi castani.
«Dalla polizia, Fandorin. Siete la signora Pful?» chiese con una certa insicurezza Erast Petrovič, e a ogni buon conto lo ripetè in tedesco. «Polizeiamt. Sind sie Fräulein Pful? Guten Abend!»
«Buona sera», gli rispose severamente l’ossuta signora. «Sì, sono Emma Pful. Entrate. Sedetevi laggiù su quella sedia.»
Fandorin si mise a sedere dove gli era stato indicato; su una sedia viennese dallo schienale ricurvo, accanto alla scrivania su cui stavano appoggiati con grande precisione alcuni manuali e intere pile di carta da lettere. Era una bella stanza, chiara ma assai noiosa, priva com’era di vita. Solo sul davanzale c’erano tre vasi di rigogliosi gerani, l’unica macchia luminosa nell’intera stanza.
«Siete fenuto per quello stupido giovane che si è sparato ieri?» chiese la signorina Pful. «Ieri ho risposto a tutte le domante del signor poliziotto, ma se volete farmene delle altre, chiedete pure. Mi rendo ben conto che il laforo tella polizia è importantissimo. Mio zio Günter prestava servizio nella polizia sassone col grado di Oberwachtmeister.»
«Io sono registratore di collegio», spiegò Erast Petrovič, che non desiderava venire preso anche lui per un caporale, «ho il quattordicesimo rango.»
«Certo, conosco i ranghi», annuì la tedesca, indicando col dito il nastrino della divisa. «Allora, signor registratore di collegio, vi ascolto.»
In quel momento la porta si aprì senza che nessuno avesse bussato, e nella stanza volò una signorina bionda dall’incantevole visino acceso.
«Fräulein Pful! Morgen fahren wir nach Kuncevo! Parola d’onore. Papà ha dato il permesso», comunicò lei dalla soglia, ma, alla vista dell’estraneo, si arrestò e tacque confusa, senza che questo impedisse ai suoi occhi grigi di guardare intentamente e con la più viva curiosità il giovane funzionario.
«Le paronesse educate non corrono, camminano», l’ammonì la governante con severità simulata. «Soprattutto se hanno cià diciassette anni belli e compiuti. Se invece di correre camminaste, avreste avuto il tempo di federe che c’era uno sconosciuto e di salutarlo come si defe.»
«Buongiorno, signore», bisbigliò la miracolosa visione.
Fandorin si alzò in piedi e fece un inchino, sentendosi in grandissimo imbarazzo. La ragazza gli piaceva terribilmente, e il povero giovane si spaventò al pensiero che all’improvviso avrebbe potuto innamorarsene a prima vista, cosa assolutamente da non farsi. Perfino ai vecchi prosperosi tempi del suo papà una simile principessa non sarebbe stata minimamente alla sua portata, e men che mai adesso.
«Buongiorno», disse molto seccamente, aggrottando severamente le sopracciglia e aggiungendo mentalmente: «Pensavate di mettermi in una situazione penosa? Lui era un consigliere titolare, lei qualcosa come la figlia di un ge nerale! No davvero, signorina, non contateci! Ho ancora un bel po’ di carriera da fare, io, prima di raggiungere il rango di vostro padre!»
«Registratore di collegio Fandorin Erast Petrovič, direzione della polizia investigativa», disse presentandosi con tono ufficiale. «Conduco l’inchiesta sul caso dello sfortunato evento ai giardini di Sant’Alessandro. È insorta la necessità di fare ancora alcune domande. Ma se vi dispiace — capisco benissimo che il fatto vi ha sconvolta — mi accontenterò di una conversazione con la sola signora Pful.»
«Sì, è stato orribile.»Gli occhi della giovane, già di per sé notevolissimi, si allargarono ancora di più. «È vero che ho chiuso gli occhi e non ho visto quasi nulla, e poi sono rimasta priva di sensi… Ma mi interessa talmente! Fräulein Pful, posso restare anch’io? Vi prego! Dopotutto, sono anch’io una testimone alla pari di voi!»
«Per parte mia, nell’interesse dell’indagine, preferirei anch’io che la signora baronessa assistesse», dichiarò timidamente Fandorin.
«L’ordine è sempre l’ordine», assentì Emma Gottlibovna. «Io, Lizchen, ve lo ripeto sempre: Ordnung muss sein. Bisogna obbedire alla legge. Potete restare.»
Lizanka (perché in cuor suo Fandorin, avviato a precipitosa rovina, già chiamava così Elizaveta Aleksandrovna) si mise prontamente a sedere sul divano di cuoio, guardando il nostro eroe a occhi spalancati. Lui riprese il controllo di sé e, rivolgendosi a Fräulein Pful, chiese: «Siate così gentile da farmi il ritratto di questo signore».
«Del signore che si è sparato?» precisò lei. «Na ja. Occhi marroni, capelli castani, piuttosto alto di statura, senza baffi o barba, nemmeno i favoriti, fiso giovanissimo ma non molto pello. Adesso l’abbigliamento…»
«L’abbigliamento dopo», la interruppe Erast Petrovič.
«Avete detto che il viso non era bello. Perché? Per via dei brufoli?»
«Pickeln», tradusse arrossendo Lizanka.
«A sì, i brufoli», disse la governante ripetendo con gusto la parola che non aveva capito subito. «No, il signore non aveva brufoli. Aveva una bella pelle sana. Ma il viso non era molto bello.»
«Come mai?»
«Malvagio. Guardava come se non volesse uccidere se stesso, ma qualcun altro di completamente diferso. Oh, è stato un incubo!» si eccitò al ricordo Emma Gottlibovna. «La primavera, il bel tempo, il sole, le signore e i signori a passeggio, un giardino meraviglioso tutto in fiore!»
A queste parole Erast Petrovič avvampò e guardò in tralice Lizanka che però, si vede, era abituata da tempo al curioso modo di esprimersi della sua duenna, e guardava alle cose in modo altrettanto fiducioso e radioso.
«E il pince-nez l’aveva? Magari non sul naso, gli spuntava dal taschino? Con un nastrino di seta?» chiese Fandorin incalzando di domande. «E non avete avuto l’impressione che fosse un po’ gobbo? Ancora una cosa. So che portava la finanziera, ma non c’era nulla nel suo aspetto che tradisse lo studente — i calzoni dell’uniforme, per esempio? Non li avete notati?»
«Io noto sempre tutto», rispose con sussiego la tedesca. «I calzoni erano pantaloni a quadretti di ottima lana. Il pince-nez non l’afeva affatto. Non era affatto gobbo. Quel signore aveva un bel portamento.»S’impensierì e poi chiese inaspettatamente a sua volta: «Un po’ gobbo, pince-nez e studente? Perché dite così?»
«Perché me lo chiedete?» domandò guardingo Erast Petrovič.
«Strano. Lì c’era un signore. Uno studente gobbo col pince-nez.»
«Come! Dove!?» esclamò Erast Petrovič.
«Un signore così io l’ho visto… jenseits… dall’altra parte della cancellata, sulla strada. Stafa lì e ci guartava. Ho anche pensato che a quel punto il signor studente ci avrebbe aiutate a mandar via quell’uomo orribile. Ed era molto gobbo. Questo l’ho visto dopo, dopo che l’altro signore si era già ucciso. Lo studente si è voltato e se ne è andato via velocissimo. In quel momento ho visto quanto era gobbo. Questo succede quando non si insegna ai bambini a star seduti composti fin da piccoli. Stare seduti nella posizione ciusta è molto importante. Le mie allieve stanno sempre sedute nel modo giusto. Guardate la Fräulein baronessa. Vedete come tiene la spina dorsale? È molto pello!»
A questo punto Elizaveta Aleksandrovna arrossì, ma con tanta grazia che Fandorin perse per un attimo il filo, sebbene le informazioni della signorina Pful fossero indubbiamente di un’importanza eccezionale.