SEDICESIMO CAPITOLO

in cui si pronostica un grande futuro per l’elettricità

«Trasportatelo nel laboratorio», disse milady. «Ma fate in fretta. Fra dodici minuti inizia l’intervallo. I bambini non devono vedere.»

In quel momento bussarono.

«Tìmofej, sei tu?» chiese la baronessa in russo. «Come in!»

Erast Petrovič non osava guardare nemmeno da sotto le ciglia, se solo qualcuno se ne fosse accorto sarebbe stata davvero la fine. Udì i passi pesanti del guardaportone e una voce alta, quasi si rivolgesse a dei sordi: «Così tutto va nel migliore dei modi, vostra eccellenza. All right. Ho invitato il vetturino a bere il tè… Tè! Tea! Drink! C’è capitato un diavolaccio duro a morire. Beve, beve, e non gli fa nulla. Drink, drink… nothing. Ma alla fine niente, è svenuto. La carrozzella l’ho messa dietro casa. Behind nostra house. Nel cortile, dico, l’ho messa. Per ora sta lì, e poi me ne occuperò io, state senza pensiero».

Blank tradusse alla baronessa quello che aveva detto.

«Fine», rispose lei, e aggiunse a mezza voce: «Andrew, just make sure that he doesn’t try to make a profit selling the borse and the carriage».

Fandorin non udì la risposta: si vede che il taciturno Andrew aveva semplicemente annuito.

Allora, maledetti serpenti, cosa aspettate a slegarmi, pensò fra sé Erast Petrovič facendo mentalmente fretta ai malintenzionati. Fra un po’ ci sarà l’intervallo. Adesso ve lo faccio io l’esperimento. Purché non mi dimentichi della sicura.

Una grande delusione attendeva tuttavia Fandorin: nessuno prese l’iniziativa di slegarlo. Direttamente sopra al suo orecchio udì un respiro graveolente di cipolla (Timofej, appurò senza fallo il prigioniero), qualcosa che piano piano stridette una volta, e poi una seconda, una terza, una quarta.

«Pronto. L’ho svitato», riferì il guardaportone. «Prendi, Andrej o come ti fai chiamare, portiamolo via.»

Sollevarono Erast Petrovič insieme alla poltrona e se lo presero. Aprendo appena appena gli occhi, vide la galleria e le finestre olandesi illuminate dal sole. Tutto chiaro: lo stavano trasferendo nel corpo principale, nel laboratorio.

Quando, cercando di non far rumore, i facchini entrarono nella sala della ricreazione, Erast Petrovič si chiese seriamente se non fosse il caso di rinvenire e interrompere il processo didattico con grida forsennate. Che lo vedano pure quei bimbetti di quali faccende si occupa la loro buona milady! Ma dalle classi arrivavano dei suoni talmente pacifici, familiari — la regolare voce di basso di un insegnante, lo scroscio di una risata infantile, il ritornello di un coro — che Fandorin non se la sentì. Fa niente, non è ancora il momento di scoprire le carte, si disse per giustificare la sua mancanza di spina dorsale.

Ma dopo era già tardi: il brusio scolastico era alle spalle. Erast Petrovič vide che lo trascinavano su per una scala, udì il cigolio di una porta, una chiave che girava nella toppa.

Perfino attraverso le palpebre chiuse si poteva vedere con quanto fulgore brillasse la luce elettrica. Fandorin socchiudendo un occhio solo fece una rapida ricognizione. Riuscì a scorgere alcune apparecchiature di porcellana, dei cavi, delle bobine di metallo. Tutto questo gli spiacque oltremodo. In lontananza udì il suono attutito della campanella — segno che la lezione era finita — e quasi subito gli arrivarono delle voci squillanti.

«Spero che tutto finisca bene», sospirò lady Esther. «Mi dispiacerebbe se il ragazzo dovesse morire.»

«Lo spero anch’io, milady», rispose il professore senza nascondere la sua agitazione, e fece risuonare un oggetto di ferro. «Ma purtroppo non si fa scienza senza vittime. Per ogni nuovo anche minimo passo del sapere ci tocca pagare un prezzo altissimo. Coi sentimenti non si va lontano. E se questo giovane vi era tanto caro, sarebbe stato meglio che quel vostro orso avesse dato del sonnifero al vetturino invece di avvelenarlo. Così avrei potuto cominciare dal vetturino, e lasciare per dopo questo giovane. In questo modo avrebbe avuto una chance in più.»

«Avete ragione, amico mio, perfettamente ragione. È stato un errore imperdonabile.»Nella voce di milady si avvertiva il più autentico dei rincrescimenti. «Ma voi tentate lo stesso. Spiegatemi ancora una volta, cos’è di preciso che intendete fare?»

Erast Petrovič aguzzò le orecchie: la domanda interessava molto anche lui.

«La mia idea generale vi è nota», disse Blank con animazione e senza più battere la bacchetta di ferro. «Ritengo che la sottomissione dell’energia elettrica sia la chiave del secolo a venire. Proprio così, milady! Da qui al ventesimo secolo mancano ventiquattro anni, non è poi un periodo così lungo. Nel nuovo secolo il mondo si trasformerà fino a risultare irriconoscibile, e questo grande mutamento si compirà grazie all’elettricità. L’elettricità non è semplicemente un mezzo d’illuminazione, come suppongono i profani. È in grado di attuare miracoli grandi e piccoli. Immaginate una carrozza senza cavalli, veloce, pulita, silenziosa! Oppure dei potenti cannoni, capaci di sgominare il nemico con fulmini ben orientati! Oppure una diligenza cittadina senza tiro a cavalli!»

«Questo me lo avete detto già molte volte», disse la baronessa interrompendo dolcemente il suo entusiasta. «Ma spiegatemi l’uso medico dell’elettricità.»

«Oh, questa è la cosa più interessante», disse il professore ancora più eccitato. «Intendo consacrare la mia vita proprio a questa sfera della scienza elettrica. La macroelettricità — le turbine, i motori, le potenti macchine a dinamo — cambieranno il mondo, mentre la microelettricità muterà l’uomo stesso, correggerà le imperfezioni della costituzione naturale dell’homo sapiens. L’elettrofisiologia e la elettroterapia: ecco cosa salverà l’umanità, non certo i vostri intelligentoni, che giocano a fare i grandi politici oppure, vien da ridere a dirlo, imbrattano tele.»

«Avete torto, ragazzo mio. Fanno anche loro qualcosa di molto importante e necessario. Ma continuate.»

«Vi darò la possibilità di rendere l’uomo, qualsiasi uomo, una creatura ideale, liberandolo dai difetti. Tutti i difetti che determinano la condotta umana si annidano qui, nella corteccia cerebrale.»Un dito durissimo batté molto dolorosamente il cocuzzolo di Erast Petrovič. «Per spiegare in modo semplificato, nel cervello ci sono diverse sezioni, alcune controllano la logica, altre i piaceri, la paura, la crudeltà, l’impulso sessuale e così via discorrendo. L’uomo potrebbe avere una personalità armonica se tutte le sue sezioni funzionassero in modo equilibrato, ma questo non avviene quasi mai. Un uomo ha straordinariamente sviluppata la sezione che risponde dell’istinto di sopravvivenza, ed è un vigliacco patologico. Un altro non sfrutta a sufficienza la zona della logica, ed è un imbecille incurabile. La mia teoria consiste in questo, che con l’aiuto della elettroforesi, ovvero di una carica esattamente dosata e indirizzata di corrente elettrica, sia possibile stimolare certe sezioni del cervello e reprimerne altre meno desiderabili.»

«Questo è molto, molto interessante», disse la baronessa. «Sapete, caro Hebchardt, che fino a questo momento non ho posto limite ai vostri finanziamenti, ma come mai siete tanto convinto che una simile correzione della psiche sia, in linea di principio, possibile?»

«Possibile! Su questo non ho il benché minimo dubbio! Sapete, milady, nelle tombe degli incas sono stati scoperti crani con aperture identiche in questo punto?» Il dito picchiò di nuovo due volte Erast Petrovič sulla testa. «Lì si trova la sezione specializzata nella paura. Gli incas lo sapevano e con l’aiuto dei loro strumenti primitivi estraevano ai ragazzi della casta guerriera la codardia, rendendo intrepidi i loro soldati. E i topi? Vi ricordate?»

«Sì, il vostro ‘topo impavido’ che si gettava sui gatti mi ha fatto una certa impressione.»

«O, questo è solo l’inizio. Immaginatevi una società priva di criminali! Un feroce assassino, un maniaco, un ladro, dopo l’arresto non vengono puniti e nemmeno inviati ai lavori forzati; ci si limita a una piccola operazione, e lo sventurato, liberato per sempre da una crudeltà patologica, da una lussuria eccessiva o da un’avidità incontrollabile, si trasforma in membro utile della società! Oppure immaginate di sottoporre uno qualsiasi dei vostri ragazzi, comunque già molto capace, alla mia elettroforesi, che può rafforzare ancora di più il suo talento?»

«Però i miei ragazzi non ve li do», tagliò corto la baronessa. «Potrebbero impazzire per eccesso di talento. Meglio che facciate i vostri esperimenti con i criminali. E cosa sarebbe questo ‘uomo purificato’?»

«Si tratta di un’operazione relativamente semplice. Credo di essere già pronto a eseguirla. Si può colpire la sezione dell’accumulo della memoria, e allora il cervello dell’uomo diventa un foglio pulito, come se vi avessero passato la gomma per cancellare. Si conservano tutte le capacità intellettuali, ma scompaiono le conoscenze e le abilità acquisite. Si ottiene un uomo tutto pulito, come fosse appena nato. Vi ricordate l’esperimento con la rana? Dopo l’operazione non sapeva più saltare, però non aveva perso i riflessi motori. Aveva disimparato a prendere i moscerini, ma il riflesso della deglutizione era rimasto. In teoria le si potrebbe insegnare tutto daccapo. Prendiamo adesso il nostro paziente… E voi due, cosa ve ne state lì a occhi spalancati? Prendetelo, mettetelo sul tavolo. Mach schnell!»

Ecco il momento, adesso! Fandorin si preparò. Però l’infame Andrew lo teneva così saldamente alle spalle, che non era nemmeno il caso di cercare di raggiungere la rivoltella. Timofej fece schioccare qualcosa, e i cerchioni d’acciaio, che opprimevano il petto del prigioniero, si staccarono.

«Uno-due, preso!» comandò Timofej, acchiappando Erast Petrovič per le gambe, mentre Andrew, che continuava a stringere altrettanto saldamente le spalle del prigioniero, lo sollevò con facilità dalla poltrona.

Lo sperimentando fu trasferito sul tavolo e posato sulla schiena, intanto Andrew continuava a reggerlo per i gomiti, e il guardaportone per le caviglie. La fondina si ficcò senza pietà nella vita di Fandorin. Si udirono di nuovo i suoni della campanella: l’intervallo era terminato.

«Dopo l’elaborazione sincronica tramite carica elettrica delle due sezioni del cervello, il paziente si ripulisce fino in fondo della sua precedente esperienza di vita e, per così dire, si trasforma in neonato. Bisognerà insegnarli tutto daccapo: a camminare, a masticare, ad andare al gabinetto, e poi a leggere, a scrivere e così via. Suppongo questo interesserà ai vostri pedagoghi, tanto più che avete già una certa idea delle inclinazioni di questo individuo.»

«Sì. Si distingue per l’ottima reattività, è audace, dotato di un pensiero logico ben sviluppato e di un’intuizione unica. Spero che sarà possibile ristabilire tutto questo.»

In circostanze diverse Erast Petrovič si sarebbe compiaciuto di una caratterizzazione così lusinghiera, ma adesso si sentì raccapricciare dall’orrore; si immaginò steso in una culletta rosa, a emettere suoni privi di senso con il ciuccio in bocca, mentre su di lui si chinava lady Esther e gli diceva con tono di rimprovero: «Uh, che cattivelli che siamo, ci siamo di nuovo bagnati!» No, meglio la morte!

«Ha le convulsioni, sir», disse Andrew aprendo per la prima volta la bocca. «Non starà rinvenendo?»

«Impossibile», tagliò corto il professore. «Il narcotico basta almeno per due ore. Leggeri movimenti convulsivi sono normali. Il pericolo, milady, è uno solo. Non ho avuto abbastanza tempo per calcolare esattamente la forza necessaria alla carica. A darne più del necessario si uccide il paziente o se ne fa un idiota permanente. Se non se ne dà abbastanza, nella corteccia si conservano vaghe immagini residuali, che sotto l’influenza di uno stimolante esterno potrebbero anche conformarsi in una reminiscenza precisa.»

Dopo un silenzio, la baronessa disse con chiaro rincrescimento: «Non possiamo correre rischi. Mandate la corrente più forte».

Si udì uno strano ronzio, e poi uno sfrigolio che mandò brividi per la pelle di Fandorin.

«Andrew, rasate due cerchietti — uno qui e l’altro qui», disse Blank, toccando i capelli del paziente. «Ne ho bisogno per attaccare gli elettrodi.»

«No, meglio che di questo si occupi Timofej», dichiarò decisa lady Esther. «Io invece esco. Non voglio vedere, sennò di notte non dormo. Andrew, tu vieni con me. Devo scrivere dei dispacci urgenti, poi me li porti al telegrafo. Bisogna prendere misure precauzionali, perché fra un po’ noteranno l’assenza del nostro amico.»

«Sì sì, milady, mi sareste solo d’impiccio», rispose distrattamente il professore, occupato con le preparazioni. «Vi comunicherò subito il risultato.»

Le tenaglie d’acciaio che stringevano i gomiti di Erast Petrovič finalmente si allentarono.

Non appena dietro la porta il rumore dei passi che si allontanavano si fu attutito fino a spegnersi, Fandorin aprì gli occhi, con uno scatto liberò le gambe e, piegate di scatto le ginocchia, diede un calcio nel petto di Timofej, così forte, che lo fece volare in un angolo. Un attimo dopo Erast Petrovič dal tavolo era già saltato giù per terra e, socchiudendo gli occhi per la luce, strappò da sotto la falda la sua Herstal segreta.

«Non un passo! Vi uccido!» sibilò con piglio vendicativo il resuscitato, e in quell’attimo, in effetti, aveva voglia di sparare a entrambi, sia a Timofej che sbatteva ottusamente gli occhi, sia al professore pazzo, che per l’incredulità era rimasto immobile con in mano due pinze d’acciaio. Da queste pinze partivano dei cavi sottili collegati a una macchina complicata, che baluginava di fiammelle. Nel laboratorio c’erano diverse cosette curiose, ma mancava il tempo di esaminarle.

Il guardaportone nemmeno cercò di alzarsi da terra e si limitò a farsi ripetuti segni di croce, ma con Blank non andò così bene. A Erast Petrovič era sembrato che lo scienziato non si fosse affatto spaventato, ma fosse solo infuriato per l’ostacolo imprevisto che poteva interrompere l’esperimento. In testa gli sfrecciò questo pensiero: adesso mi si lancia addosso! E il desiderio di uccidere si rimpicciolì, si dissolse senza lasciare traccia.

«Poche sciocchezze! Restate dove siete!» esclamò Fandorin con voce appena tremante.

In quello stesso istante Blank ruggì: «Schweinhund! Du hast alles verdorben!» e si slanciò in avanti, picchiando col fianco il bordo del tavolo.

Erast Petrovič premette il grilletto. Nulla. La sicura! Fece scattare il bottone. Premette due volte di seguito. Dadach! Scoppiò un duplice scroscio, e il professore cadde bocconi, con la testa sotto i piedi di chi gli aveva sparato.

Temendo un attacco da dietro, Fandorin si girò bruscamente, pronto a sparare ancora una volta, ma Timofej si era rannicchiato con la schiena contro al muro e con voce piagnucolosa prese a dire: «Vostra eccellenza, non uccidetemi! Non era la mia volontà! Nel nome di Cristo nostro Signore! Vostra eccellenza!»

«Alzati, canaglia!» urlò imbestialito e assordato dal colpo Erast Petrovič. «Avanti, marsch!»

Spingendo il portinaio nella schiena con la canna, lo mandò nel corridoio, poi giù per le scale. Timofej procedeva a passettini minuti, lamentandosi ogni volta che la pistola gli premeva la spina dorsale.

Passarono di corsa dalla sala della ricreazione, e Fandorin cercò di non guardare nelle porte aperte delle classi con affacciati gli insegnanti e silenziosi bambini in uniformi azzurre che gli spuntavano dietro le schiene.

«Polizia!» gridò al vuoto Erast Petrovič. «Signori insegnanti, vietato far uscire i bambini di classe! Vietato uscire anche a voi!»

Attraverso la lunga galleria, sempre con quei passettini mezzi di corsa, raggiunsero l’annesso. Giunti alla porta bianca e dorata, Erast Petrovič spinse Timofej con tutte le sue forze; il guardaportone spalancò le ante con la fronte reggendosi appena sulle gambe. Non c’era nessuno. Vuoto!

«Avanti, marsch! Apri ogni porta!» ordinò Fandorin. «E tieni conto di questo: prova solo a fare qualcosa, e ti ammazzo come un cane.»

Il portinaio batté appena le mani e trotterellò indietro nel corridoio. In cinque minuti ispezionarono tutte le stanze del primo piano. Non c’era un’anima, salvo in cucina dove, buttato di peso col petto sul tavolo e col viso morto voltato da una parte, dormiva di un sonno eterno quel poveraccio del vetturino. Erast Petrovič guardò solo di sfuggita le briciole di zucchero sulla sua barba, la pozzanghera del tè versato, e ordinò a Timofej di procedere oltre.

Al secondo piano si trovavano i due dormitori, il guardaroba e la biblioteca. La baronessa e il suo servo non erano nemmeno lì. Ma dove diavolo erano finiti? Avevano sentito gli spari e si erano rimpiattati da qualche parte nell’esthernato? O si erano nascosti ed erano fuggiti?

Su tutte le furie, Erast Petrovič agitò la mano con cui teneva la rivoltella, e all’improvviso echeggiò uno sparo. La pallottola rimbalzò dal muro con un fischio e uscì dalla finestra, lasciando sul vetro una stellina ben disegnata coi raggi tutt’intorno. Diavolo, la linguetta era mollata, quindi lo scarico era facile, si ricordò Fandorin, e scosse la testa, per liberarsi dal suono nelle orecchie.

Su Timofej lo sparo inatteso produsse un effetto magico: il portinaio si buttò in ginocchio e prese a piagnucolare: «Vo… vostra ecce… vostra eccellenza illustrissima… Non toglietemi la vita! M’ha traviato il diavolo! Tutto, tutto, come dal confessore! Ho i bambini, la moglie malata! Vi ci porto! Quant’è vero che è santo Dio vi ci porto! Sono in cantina loro, nel sotterraneo segreto! Vi ci porto, solo non dannate un’anima!»

«In quale cantina?» chiese minaccioso Erast Petrovič, e sollevò la rivoltella, come se davvero stesse per attuare una resa dei conti.

«Seguitemi, vogliate seguirmi.»

Il guardaportone si rialzò sulle gambe e, guardatosi attorno un attimo, riaccompagnò Fandorin al primo piano, nello studio della baronessa.

«L’ho visto per caso una volta… Noi non avevamo il permesso di avvicinarci. Ci davano poca fiducia, a noi: gente russa, anime ortodosse, mica di fatta inglese», disse Timofej facendosi il segno della croce. «Solo quel loro Andrej aveva accesso laggiù, mentre noi, niente.»

Corse dietro la scrivania, girò una manopola sul secrétaire, e quello si spostò d’improvviso da una parte, scoprendo una piccola porta di rame.

«Apri!» ordinò Erast Petrovič.

Timofej si fece il segno della croce altre tre volte e spinse la porticina. Questa si aprì silenziosamente e mostrò una scala che portava in basso, nel buio.

Spingendo il guardaportone nella schiena, Fandorin cominciò a scendere facendo attenzione. La scala terminava contro una parete, ma dietro un angolo a destra iniziava un basso corridoio.

«Vai, vai!» disse Erast Petrovič incalzando Timofej che temporeggiava.

Svoltarono dietro l’angolo, in una tenebra fittissima. Si sarebbe dovuto prendere una candela, pensò Fandorin, e infilò la mano sinistra in tasca alla ricerca dei fiammiferi, ma davanti di colpo ci fu uno scoppio e un boato.

Il guardaportone si buttò a terra con un gemito, mentre Erast Petrovič sporse davanti a sé la sua Herstal e premette il grilletto fino a che il percussore non prese a schioccare sui bossoli vuoti. Calò un sordo silenzio. Con dita tremanti Fandorin tirò fuori dalla tasca la scatola e sfregò un fiammifero. Timofej s’era messo come un fagotto informe contro la parete e non si muoveva. Fatti alcuni passi avanti, Erast Petrovič vide Andrew che giaceva lungo disteso. La fiammella tremolante giocò per un po’ negli occhi vitrei dopodiché si spense.

Trovandosi al buio, insegna il grande Fouché, bisogna socchiudere gli occhi, contare fino a trenta perché si restringano le pupille, e solo a quel punto la vista potrà distinguere la minima fonte di luce. Erast Petrovič per sicurezza contò fino a quaranta, aprì gli occhi, e difatti da un punto arrivava una striscia di luce. Allungando davanti a sé il braccio con l’ormai inutile Herstal, fece un passo, un altro, un terzo e vide davanti a sé una porta appena socchiusa, dalla cui fessura si spandeva una debole luce. La baronessa poteva trovarsi solo laggiù. Fandorin si diresse a passo deciso verso la striscia illuminata e spinse energicamente la porta.

Al suo sguardo si aprì una stanzetta modesta con degli scaffali lungo le pareti. In mezzo alla stanza c’era un tavolo con un candelabro di bronzo su cui ardeva una candela che illuminava il viso di lady Esther solcato di ombre.

«Entrate, ragazzo mio», disse lei tranquillamente. «Vi stavo aspettando.»

Erast Petrovič varcò la soglia, e la porta gli si chiuse improvvisamente alle spalle. Rabbrividì, si voltò e vide che la porta non aveva né paletto né maniglia.

«Avvicinatevi», lo invitò piano milady. «Voglio guardare meglio il vostro viso, perché è il viso del destino. Voi siete il ciottolo in cui ho inciampato nella mia strada. Un piccolo ciottolo, in cui era scritto che mi imbattessi.»

Offeso da questo paragone, Fandorin si avvicinò al tavolo su cui vide una liscia scatola di metallo posata davanti alla baronessa.

«Questo cos’è?» chiese.

«Ne parleremo fra un po’. Cosa ne avete fatto di Hebchardt?»

«È morto. Colpa sua: non aveva nessun bisogno di finire sotto la pallottola», rispose poco educatamente Erast Petrovič, cercando di non pensare che nello spazio di pochi minuti aveva ucciso due persone.

«È una grande perdita per l’umanità. Era un uomo strano, posseduto, ma un grande scienziato. Abbiamo un Azazel di meno…»

«Cosa vuol dire Azazel?» si eccitò Fandorin. «Che rapporto c’è fra questo Satana e i vostri orfani?»

«Azazel non è Satana, ragazzo mio. È un grande simbolo di salvatore e illuminatore dell’umanità. Il Signore ha creato questo mondo, ha creato gli uomini e li ha lasciati a se stessi. Ma gli uomini sono così deboli e ciechi che avrebbero trasformato il mondo di Dio in un inferno. L’umanità sarebbe scomparsa da tempo, non fosse stato per certe personalità speciali che compaiono di tanto in tanto fra gli uomini. Non sono demoni e non sono dei, io li chiamo héros civilisateurs. Grazie a ciascuno di loro l’umanità ha compiuto un salto in avanti. Prometeo ci ha dato il fuoco. Mosè ci ha dato il concetto di legge. Cristo ci ha dato un perno morale. Ma il più apprezzabile di tutti questi eroi è il giudaico Azazel, che ha insegnato all’umanità il senso della sua dignità. È detto nel libro di Enoch: ‘Si intrise di amore per gli uomini e svelò loro i segreti conosciuti nei cieli’. Ha regalato all’umanità lo specchio, affinché l’uomo potesse guardarsi alle spalle, ovverosia avesse memoria e comprendesse il suo passato. Grazie ad Azazel l’uomo può occuparsi dei suoi mestieri e difendere la sua casa. Grazie ad Azazel la donna da rassegnata femmina generatrice si è trasformata in un essere umano dotato di eguali diritti, di libertà di scelta, di essere brutta oppure bella, una madre oppure un’amazzone, di vivere per la famiglia oppure per l’umanità tutta intera. Dio si è limitato a dare le carte agli uomini, mentre Azazel insegna loro come giocarle in modo da vincere. Ciascuno dei miei allievi è un Azazel, anche se non tutti lo sanno.»

«Come sarebbe a dire ‘non tutti’?» la interruppe Fandorin.

«Solo alcuni sono iniziati alla causa segreta, solo i più fedeli e inflessibili», spiegò milady. «Questi si prendono sulle loro spalle tutto il lavoro sporco, affinché gli altri miei bambini restino immacolati. ‘Azazel’ è il mio reparto d’avanguardia, che deve gradualmente, a poco a poco, prendere in mano il timone della direzione mondiale. Oh, come fiorirà il nostro pianeta quando avrà a capo i miei Azazel! E questo potrebbe accadere molto presto, fra una ventina d’anni… Gli altri allievi dell’esthernato, quelli che non sono iniziati nel segreto di ‘Azazel’, entrano semplicemente nella vita seguendo la loro strada, portando all’umanità un vantaggio inestimabile. E io mi limito a seguire i loro successi, mi rallegro delle loro conquiste e so che, in caso di necessità, nessuno di loro negherà un aiuto alla loro madre. Ah, cosa ne sarebbe di loro senza di me? Cosa ne sarebbe del mondo? Ma fa niente, ‘Azazel’ è vivo e porterà la mia missione fino in fondo.»

Erast Petrovič si agitò: «Li ho visti io i vostri Azazel, i vostri ‘fedeli e inflessibili’! Morbid e Franz, Andrew e quello con gli occhi di pesce, che ha ammazzato Achtyrzev! Sono loro la vostra guardia, milady? Sono loro i più degni?»

«Non solo loro. Ma anche loro. Ricordatevi, amico mio, vi ho detto che non a ciascuno dei miei bambini è dato trovare la propria strada nel mondo contemporaneo, perché hanno un talento che appartiene a un remoto passato oppure che si rivelerà necessario in un lontano futuro? Avviene questo, che da allievi del genere si ottengono i più fedeli e devoti esecutori. Alcuni dei miei bambini sono il cervello, altri le braccia. Mentre l’uomo che ha fatto fuori Achtyrzev, non era uno dei miei figli. Era un nostro alleato momentaneo.»

Le dita della baronessa accarezzarono distrattamente la superficie lucida della scatola, dopodiché premettero come per caso un piccolo bottone tondo.

«È tutto, caro giovane. Ci restano ancora due minuti. Daremo addio alla vita insieme. Purtroppo non posso lasciarvi fra i vivi. Danneggereste i miei figli.»

«Che cos’è questo?» gridò Fandorin, e afferrò la scatola, che risultò assai pesante. «Una bomba?»

«Sì», gli sorrise partecipe lady Esther. «Un meccanismo a orologeria. L’invenzione di uno dei miei ragazzi di talento. Scatolette del genere ce ne sono a trenta secondi, a due ore, perfino a dodici ore. Non è possibile aprirle per arrestarne il meccanismo. Questa mina è calcolata a centoventi secondi. Io perirò insieme al mio archivio. La mia vita è finita, ma quanto sono riuscita a realizzare non è poi così poco. La mia missione continuerà, e si ricorderanno ancora di me con una buona parola.»

Erast Petrovič provò a sollevare il bottone con le unghie, ma non ottenne nulla. Allora si gettò verso la porta e prese a palparla con le dita, a batterla coi pugni. Il sangue gli pulsava nelle orecchie mentre contava il battito del tempo.

«Lizanka!» gemette disperato Fandorin ormai perduto. «Milady! Non voglio morire! Sono giovane! Sono innamorato!»

Lady Esther lo guardò con compassione. In lei stava chiaramente avvenendo una lotta.

«Promettetemi che la caccia ai miei bambini non diventerà lo scopo della vostra vita», gli disse a voce bassa, guardando Erast Petrovič negli occhi.

«Lo giuro!» esclamò lui, pronto in quel momento a promettere qualsiasi cosa.

Dopo una pausa tormentosa, infinitamente lunga, milady si rischiarò in un sorriso morbido, materno: «D’accordo. Vivete, ragazzo mio. Ma sbrigatevi, avete quaranta secondi».

Infilò la mano sotto il tavolo, e la porta di rame si aprì dall’interno cigolando.

Lanciando un’ultima occhiata all’immobile donna canuta e facendo tremolare la fiamma della candela, Fandorin con un balzo enorme si gettò nel buio corridoio. Per lo slancio picchiò contro la parete, a quattro zampe salì le scale, con uno scatto si raddrizzò e in due salti attraversò lo studio.


Dieci secondi dopo le porte di quercia dell’annesso per poco non schizzarono via dai cardini per la spinta potente mentre un giovane dal viso stravolto volava a rotta di collo per la gradinata. Attraversò la tranquilla strada ombrosa fino all’angolo e solo lì si fermò, respirando a fatica. Si guardò alle spalle, restò immobile.

I secondi passavano, ma non accadeva nulla. Il sole indorava benignamente le chiome dei pioppi, su una panchina sonnecchiava un gatto rosso, da qualche parte nel cortile chiocciavano delle galline.

Erast Petrovič si portò le mani al cuore che picchiava selvaggiamente. Lo aveva ingannato! Lo aveva menato per il naso come un ragazzino! Mentre lei era uscita dal passaggio segreto!

Urlò di rabbia impotente, e dall’annesso, come a rispondergli, gli fece eco un identico ruggito. Le pareti tremarono, il tetto oscillò in modo appena percettibile, e da qualche parte da sotto terra si udì il boato sotterraneo di un’esplosione.

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