QUATTORDICESIMO CAPITOLO

in cui la narrazione imbocca tutt’altra direzione

Il povero Erast Petrovič, che non ci capiva più niente, fece alcuni passi in avanti.

«Fermo!» gli abbaiò esasperato il capo. «E non agitate quella pistolettina, non è carica. Almeno aveste guardato il tamburo! Non si può essere così fiduciosi, vi prendesse il diavolo! Credere si può solo a se stessi!»

Brilling si tolse dalla tasca sinistra un’altra Herstal, identica, invece la fumante Smith Wesson la gettò sul pavimento, direttamente ai piedi di Fandorin.

«La mia rivoltella ha tutte le cartucce al completo, cosa di cui adesso vi convincerete», prese a dire febbrilmente Ivan Franzevič, che a ogni parola si arrabbiava sempre di più. «Adesso la metto in mano allo sventurato Cunningham, così risulta che vi siete uccisi fra di voi nel corso di una sparatoria. Un funerale dignitoso e discorsi pieni di partecipazione vi sono garantiti… So bene quanto questo conti per voi. E non guardatemi a quel modo, cucciolo maledetto!»

Fandorin capì con orrore che il suo capo era andato completamente fuori di cervello, e in un tentativo disperato di risvegliarne la ragione improvvisamente intorbidatasi gli gridò: «Ma capo, questo sono io, Fandorin! Ivan Franzevič! Signor consigliere di Stato!»

«Consigliere effettivo di Stato», lo corresse Brilling con un sorriso di serpente. «Siete rimasto indietro sui fatti della vita, Fandorin. Sono stato promosso con decreto dell’autorità suprema il sette di giugno, in seguito al successo dell’operazione per la neutralizzazione dell’organizzazione terroristica ‘Azazel’. Potete quindi chiamarmi ‘vostra eccellenza’.»

La silhouette scura di Brilling contro lo sfondo della finestra pareva come ritagliata con le forbici e incollata su carta grigia. I rami morti dell’olmo alle sue spalle si allargavano in tutte le direzioni come una ragnatela di malaugurio. In testa a Fandorin passò come un lampo. «Un ragno, un ragno velenoso, ha intessuto la sua ragnatela, e io ci sono finito dentro.»

La faccia di Brilling si deformò penosamente, ed Erast Petrovič comprese che il capo si era già portato al livello necessario di esasperazione e adesso gli avrebbe sparato. Non si sa da dove gli sia venuto il seguente pensiero impetuoso, che subito si suddivise in una catenella di pensierini brevissimi: alla Herstal bisogna toglierci la linguetta, altrimenti non spara, la sicura è dura, questo richiede mezzo secondo o un quarto di secondo, non fa in tempo, non fa assolutamente in tempo…

Con un grido da strappare il cuore, socchiudendo gli occhi, Erast Petrovič si slanciò in avanti, mirando con la testa al mento del capo. Non li separavano più di cinque passi. Fandorin non udì lo scatto della sicura, e lo sparo esplose verso il soffitto, perché entrambi — sia Brilling che Erast Petrovič —, volando attraverso il basso davanzale, sbatterono contro la finestra.

In tanto slancio Fandorin picchiò il petto contro il tronco dell’olmo secco e, spezzando rami e lacerandosi il viso, precipitò verso il basso. Colpì terra con un rimbombo tale da fargli venire voglia di perdere conoscenza, ma glielo impedì il vivido istinto di conservazione. Erast Petrovič si mise a quattro zampe e prese a guardarsi intorno inebetito.

Il capo non si vedeva da nessuna parte. In compenso la sua piccola Herstal nera poggiava contro il muro. Fandorin, così com’era a quattro zampe, ci balzò su come un gatto, l’afferrò e girò la testa da ogni parte.

Ma Brilling era scomparso.

Erast Petrovič pensò a guardare in alto solo dopo avere udito un rantolo stentato.

Ivan Franzevič" stava sospeso per aria nel più assurdo e innaturale dei modi. Le sue scarpe lucide oscillavano appena sopra la testa di Fandorin. Da sotto la croce di San Vladimiro, da dove sulla camicia inamidata gli si allargava una macchia cremisi, spuntava l’aguzzo ramo rotto che aveva trapassato il generale di nuova nomina. La cosa più spaventosa di tutte era lo sguardo degli occhi chiari, puntato direttamente su Fandorin.

«Che schifo…»pronunciò il capo distintamente, facendo smorfie non si capiva se di dolore o di ribrezzo. «Che schifo…»E con voce roca, irriconoscibile, esalò l’ultimo respiro. «Azazel…»

Un’onda di ghiaccio attraversò il corpo di Fandorin, intanto Brilling continuò a rantolare per un mezzo minuto ancora dopodiché tacque.

Quasi avessero atteso questo istante, da dietro l’angolo si udì un battere di zoccoli, un cigolio di ruote. Stava arrivando la carrozza con i gendarmi.


L’aiutante generale Lavrentij Arkadevič Mizinov, capo della Terza sezione e capo del corpo dei gendarmi, si stropicciò gli occhi arrossati dalla stanchezza. Le cordelline dorate sull’uniforme da parata tintinnavano sordamente. Nelle ultime ventiquattr’ore non c’era stato il tempo di cambiarsi, quanto a dormire un po’, meno che mai. La sera prima un corriere aveva portato Lavrentij Arkadevič via dal ballo per l’onomastico del granduca Sergej Aleksandrovič. Ed era cominciato tutto…

Il generale lanciò un’occhiata poco amichevole al ragazzino seduto di sbieco, coi capelli arruffati e il naso graffiato ficcato in certe carte. Non aveva dormito per due notti, ma era fresco come un fringuello. E si comportava come se si trovasse da tutta una vita negli uffici supremi. Bene, pratichi pure le sue stregonerie. Certo quel Brilling! Di questo proprio non vuole farsene una ragione!

«Allora, Fandorin, ce n’è ancora per molto? O vi siete lasciati prendere ancora una volta da una delle vostre ‘idee’?» gli chiese severamente il generale, sentendo che dopo una notte insonne e una giornata sfinente lui non avrebbe più potuto avere nessuna idea nuova.

«Un momento, eccellenza illustrissima, un momento», borbottò lo sbarbatello. «Ci sono altre cinque annotazioni. Vi avevo avvertito dopotutto che l’elenco poteva essere stato cifrato. Vedete, che codice astuto, metà delle lettere non si indovinano, e poi nemmeno riesco a ricordarmi di tutti quelli che erano lì… Aha, questo è il direttore delle poste di Danimarca, ecco chi è. Bene, e qui chi abbiamo? La prima lettera non è decifrata — una crocetta, la seconda una crocetta pure quella, la terza e la quarta — due M poi ancora una crocetta, poi N, poi D con segno interrogativo, e le ultime due mancano. Viene fuori ++MM+ND(?)++.»

«Quante sciocchezze!» sospirò Lavrentij Arkadevič. «Fosse qui Brilling avrebbe risolto tutto in due secondi. Così siete convinto che non si sia trattato di un attacco di follia? È difficile immaginarsi che…»

«Ne sono convinto senza ombra di dubbio, vostra eccellenza illustrissima», ripetè per l’ennesima volta Erast Petrovič. «E l’ho udito pronunciare distintamente ‘Azazel’. Ferma! Mi sono ricordato! Nell’elenco della Bežezkaja c’era un commander. Suppongo sia lui.»

«‘Commander’ è un rango delle flotte britannica e americana», gli spiegò il generale. «Corrisponde al nostro capitano di secondo grado.»Prese a passeggiare irosamente in lungo e in largo per la stanza. «Azazel, Azazel, che vorrà mai dire questa storia di Azazel! Ora vien fuori che non ne sapevamo un bel niente! L’inchiesta moscovita di Brilling non vale un fico secco! Era una sciocchezza, una messinscena, un mucchio di balle — sia i terroristi, che l’attentato al principe ereditario! E allora ci ha messi su una falsa strada? Ci ha rifilato qualche morto? O ci ha rifilato davvero qualche imbecille di nichilista? E anche questo è possibile, era un uomo molto, molto efficiente… Maledizione, ma dove sono i risultati della perquisizione? Ci hanno già messo più di ventiquattr’ore!»

La porta si aprì pian pianino, nell’apertura si affacciò una fisionomia smunta, emaciata, con gli occhiali d’oro. «Vostra eccellenza illustrissima, il capitano Belozerov.»

«Finalmente! Lupus in fabula! Fatelo entrare.»Nel gabinetto, socchiudendo stancamente gli occhi, entrò un ufficiale dei gendarmi non più giovane, che Erast Petrovič aveva già visto il giorno prima in casa di Cunningham.

«Ecco, vostra eccellenza illustrissima, l’abbiamo trovato», riferì a voce bassa. «Abbiamo suddiviso tutto il palazzo e il giardino in quadrati, abbiamo rovistato tutto, frugato dappertutto, niente. A quel punto l’agente Eilenson, investigatore d’ottimo fiuto, ha pensato di picchiettare ogni parete nella cantina dell’esthernato. E cosa credete, Lavrentij Arkadevič? È stata scoperta una nicchia segreta, una specie di laboratorio fotografico, e lì venti scatole, in ciascuna fino a duecento schede circa. Un codice strano, come dei geroglifici, del tutto diversi da quelli della lettera. Ho dato disposizioni affinché le scatole siano portate qui. Ho messo in moto l’intero reparto decifrazioni, adesso si mettono al lavoro.»

«Bravo, Belozerov, bravo», lo lodò soddisfatto il generale. «E questo, col fiuto, presentatelo per una decorazione. Allora, andiamo al reparto decifrazione. Andiamo, Fandorin, interesserà anche a voi. Finirete dopo, adesso non c’è fretta.»

Salirono di due piani, si infilarono svelti in una galleria che non finiva più. Voltarono a un angolo. Incontro a loro correva un funzionario agitando le braccia.

«Che guaio, vostra eccellenza illustrissima, che guaio! L’inchiostro impallidisce direttamente sotto ai nostri occhi, non riusciamo a capire perché!»

Mizinov trottò in avanti, cosa che non si addiceva davvero alla sua figura corpulenta; i lambrecchini dorati sulle spalline gli sbattevano come le ali di una farfalla. Belozerov e Fandorin superarono poco rispettosamente il dirigente spilungone e irruppero per primi attraverso l’alta porta bianca.

La grande stanza, tutta occupata da tavoli, era in allarme. Una decina di funzionari si aggiravano su ammassi di ordinate schede bianche disposte a pile sui tavoli. Erast Petrovič ne prese uno, vide delle lettere appena distinguibili, simili a geroglifici cinesi. Proprio davanti ai suoi occhi i geroglifici scomparvero, e la scheda diventò bella pulita.

«Che diavoleria è mai questa!» esclamò il generale ansimando. «Degli inchiostri simpatici?»

«Temo, vostra eccellenza illustrissima, che sia molto peggio», disse un signore dall’aria professorale, esaminando in controluce la scheda. «Capitano, avete detto che l’archivio era conservato in qualcosa di molto simile a una camera oscura?»

«Proprio così», confermò con deferenza Belozerov.

«E non vi ricordate com’era l’illuminazione? Non c’era una luce rossa?»

«Proprio così, c’era per l’appunto una luce rossa.»

«È quello che pensavo. Ahimè, Lavrentij Arkadevič, l’archivio è perduto e ricostruirlo è impossibile.»

«Come?!» s’agitò il generale. «Non è pensabile, signor consigliere di collegio, dovete trovare una soluzione. Siete un maestro nel vostro campo, un luminare…»

«Ma non un mago, vostra eccellenza illustrissima. Evidentemente le schede sono state trattate con una soluzione speciale e ci si può lavorare solo con un’illuminazione rossa. Ormai lo strato su cui erano riportate le lettere è stato esposto alla luce. Un metodo astuto, niente da dire. Mi ci imbatto per la prima volta.»

Il generale alzò le folte sopracciglia e sbuffò con aria minacciosa. La stanza piombò nel silenzio — stava per scoppiare un temporale. Tuttavia il tuono non rimbombò.

«Andiamo, Fandorin», disse il direttore della Terza sezione a voce bassa. «Bisogna che terminiate il vostro lavoro.»


Le due ultime annotazioni in codice non riuscì a decifrarle — erano informazioni giunte l’ultimo giorno, il tredici di giugno, e Fandorin non poteva conoscerle. Era arrivato il momento di trarre delle conclusioni.

Passeggiando per il gabinetto, il vecchio generale Mizinov ragionava a voce alta: «Allora, mettiamo insieme quel poco che abbiamo. Esiste una certa organizzazione internazionale dalla denominazione convenuta di ‘Azazel’. A giudicare dal numero delle schede, che non potremo mai leggere, ne fanno parte 3854 membri. Di quarantasette di questi, o meglio quarantacinque, visto che due annotazioni non sono decifrate, sappiamo qualcosa. Tuttavia non molto, solo la nazionalità e la posizione occupata. Né il nome, né l’età, né l’indirizzo… Che altro sappiamo? I nomi di due Azazel morti: Cunningham e Brilling. Inoltre, in Inghilterra c’è Amalia Bežezkaja. Sempre che il vostro Zurov non l’abbia uccisa, che si trovi tuttora in Inghilterra, e che si chiami realmente così… ‘Azazel’ opera in modo aggressivo, non arretra davanti all’assassinio, lì c’è evidentemente un qualche scopo globale. Ma quale? Non sono massoni, perché io stesso sono membro di una loggia massonica, e non delle meno importanti. Mmmm. Fatemi la cortesia, Fandorin, questo non l’avete sentito.»

Erast Petrovič abbassò rispettosamente gli occhi.

«Nemmeno è l’Internazionale socialista», continuò Mizinov, «perché questo non è pane per i denti dei signori comunisti. E poi Brilling non poteva essere un rivoluzionario, questo lo escludo. Non importa di cosa si occupasse in segreto, ma i nichilisti il mio caro aiutante li catturava sul serio e con molto successo. Ma cosa mai si proponeva allora ‘Azazel’? È questa la cosa più importante! E non abbiamo nemmeno un appiglio. Cunningham è morto. Brilling pure. Nikolaj Krug era un semplice esecutore, una pedina. Quella canaglia di Pyžov è morto. Tutti gli agganci sono stati tagliati…»disse Lavrentij Arkadevič allargando agitato le braccia. «No, non ci capisco assolutamente nulla! Conoscevo Brilling da più di dieci anni. Ero stato io stesso a fargli fare carriera! Lo avevo scoperto io! Giudicate voi stesso, Fandorin. Quando ero governatore generale di Charkov ho organizzato ogni genere di concorso fra i ginnasiali e gli studenti, al fine di stimolare nella giovane generazione i sentimenti patriottici e la tendenza alle riforme utili. Mi presentarono un giovinetto sgraziato, smunto, un ginnasiale dell’ultima classe, che aveva scritto un tema molto pratico e appassionato su questo argomento, ‘Il futuro della Russia’. Credetemi, per spirito e biografia era un autentico Lomonosov, privo di genitori o parenti, orfano, aveva studiato senza spendere un soldo, e aveva passato subito l’esame di ammissione alla settima ginnasiale. Un puro talento naturale! Lo presi sotto la mia protezione, gli assegnai una borsa di studio, lo iscrissi all’Università di Pietroburgo, dopodiché lo presi al mio servizio e non me ne sono pentito nemmeno una volta. Era il migliore dei miei aiutanti, il mio uomo di fiducia! Aveva fatto una carriera splendida, aveva aperte tutte le strade! Che mente lucida, paradossale, che spirito di iniziativa, che efficienza! Santo cielo, e io che pensavo di dargli in sposa mia figlia!» esclamò il generale prendendosi la testa fra le mani.

Erast Petrovič, rispettando i sentimenti dell’alto superiore, osservò per delicatezza una pausa e tossicchiò.

«Vostra eccellenza illustrissima, stavo pensando… Certo, come appiglio è piccolo, però qualcosa c’è…»

Il generale scosse la testa, quasi a cacciar via inutili ricordi, e si sedette alla scrivania.

«Vi ascolto. Dite, Fandorin, dite. Nessuno conosce questa storia meglio di voi.»

«Io, ecco cosa…»disse Erast Petrovič che guardava la lista e sottolineava qualcosa con la matita. «Qui abbiamo quarantaquattro persone: due non le abbiamo indovinate, mentre il consigliere effettivo di Stato, ossia Ivan Franzevič, non conta più. Di loro almeno otto non sono così difficili da calcolare. Pensate un po’, vostra eccellenza illustrissima. Quanti direttori della difesa può avere l’imperatore del Brasile? Oppure il numero 47F — direttore di dipartimento belga, inviato l’11 giugno, ricevuto il 15. Accertare di chi si tratti sarà facile. E due. Terzo: il numero 549F — viceammiraglio della flotta francese, inviato il 15 giugno, ricevuto il 17. Quarto: numero 1007F — baronetto inglese di nuova nomina, inviato il 9 giugno, ricevuto il 10. Quinto: numero 694F, ministro portoghese, inviato il 29 maggio, ricevuto il 7 giugno.»

«Questo lasciamolo perdere», lo interruppe il generale che lo stava ascoltando con grande attenzione. «In Portogallo a maggio hanno cambiato il governo, quindi i ministri del gabinetto sono tutti nuovi.»

«Davvero?» chiese contrariato Erast Petrovič. «Va bene, allora non ne abbiamo otto, ma sette. Allora il quinto è un americano: il numero 852F, sostituto del presidente del comitato al senato, inviato il 10 giugno, ricevuto il 28, per l’appunto quando mi trovavo lì. Sesto: numero 1042F, Turchia, segretario personale del principe Abdul Hamid, inviato il 1° giugno, ricevuto il 20.»

Questa informazione interessò molto Lavrentij Arkadevič.

«Ah sì? Oh, questo è molto importante. È proprio il 1° giugno? Così. Il 30 maggio c’è stato un rivolgimento in Turchia, hanno rovesciato il sultano Abdul Aziz, e il nuovo governante Midchat pascià ha chiamato al trono Murad V. E il giorno dopo hanno già nominato per Abdul Hamid, che è il fratello minore di Murad, un nuovo segretario? Dite un po’, che fretta! Questa è una notizia di estrema importanza. Non sarà che Midchat pascià sta già facendo i suoi piani per liberarsi anche di Murad, e insediare sul trono Abdul Hamid? Eh eh… Bene, Fandorin, questa non è una faccenda alla vostra portata. Il segretario lo individuiamo in un attimo. Adesso telegrafo subito a Nikolaj Pavlovič Gnatev, il nostro ambasciatore a Costantinopoli, siamo amici di vecchia data. Ma continuate.»

«E per ultimo, il settimo: numero 1508F, Svizzera, prefetto di polizia cantonale, inviato il 25 maggio, ricevuto il 1° giugno. Calcolare gli altri sarà assai difficile, per molti perfino impossibile. Ma se si riuscisse a individuare almeno questi sette e tenerli sotto osservazione segreta…»

«Datemi qua l’elenco», disse il generale allungando la mano. «Prenderò subito disposizioni perché inviino ordini cifrati nelle ambasciate corrispondenti. Evidentemente dob biamo collaborare con i servizi speciali di tutti questi paesi. A parte la Turchia, dove abbiamo una bella rete nostra… Sapete, Erast Petrovič, sono stato brusco con voi, non offendetevi. Apprezzo molto il vostro contributo e tutto quello… Solo che mi ha fatto male… Per via di Brilling… Be’, potete capire.»

«Capisco, vostra eccellenza illustrissima. Anch’io, in un certo senso, non meno di voi…»

«Bene, ottimo. Lavorerete da me. Elaborerete ‘Azazel’. Creerò un gruppo speciale, vi destinerò gli uomini più esperti. Dobbiamo dipanare assolutamente questa matassa, a ogni costo.»

«Vostra eccellenza illustrissima, avrei bisogno di andare a Mosca…»

«Perché?»

«Vorrei fare due chiacchiere con lady Esther. Lei stessa, che è una persona non tanto terrestre, quanto celeste» (qui Fandorin sorrise) «non poteva certo essere al corrente della vera attività di Cunningham, ma conosce questo signore fin dall’infanzia e potrebbe farci sapere qualcosa di utile. Sarebbe meglio non avvicinarla ufficialmente, attraverso la gendarmeria, vero? Ho la gioia di conoscere un poco milady, di me non avrà paura, e poi io parlo inglese. Magari scopriamo qualche altro aggancio… Magari attraverso il passato di Cunningham arriviamo a qualcosa…»

«Va bene, è un tentativo. Partite. Ma solo per un giorno. Adesso andate a dormire, il mio aiutante vi troverà una sistemazione. E domani vi recherete col treno della sera a Mosca. Se avremo fortuna, prima ancora della sua partenza cominceranno ad arrivare le prime risposte cifrate dalle ambasciate. La mattina del 28 siete a Mosca, parlate con lady Esther, la sera tornate qui, e subito a rapporto da me. A qualsiasi ora, chiaro?»

«Chiaro, vostra eccellenza illustrissima.»


* * *

Nel corridoio del vagone di prima classe del treno Pietroburgo-Mosca un signore anziano molto importante, con folti baffi spioventi e una spilla di brillanti nella cravatta, fumava un sigaro, intanto guardava con curiosità non celata la porta chiusa dello scompartimento numero uno.

«Ehi, carissimo», disse chiamando a sé col dito paffuto il conduttore del vagone-letto che era comparso a proposito.

Costui volò all’istante verso il passeggero titolato e gli fece un inchino: «Comandi».

Il signore lo prese con due dita per il colletto e soffocando le sue parole gli disse con tono di basso: «Quel giovanotto che viaggia nel numero uno, chi è? Lo conosci? È spaventosamente giovane».

«Me ne stupisco anch’io», riferì con un sussurro il conduttore. «Perché il numero uno, è noto, è riservato alle persone molto importanti, non tutti i generali possono capitare lì. Solo chi viaggia per una faccenda di Stato urgente e di responsabilità.»

«Lo so», disse il signore esalando un filo di fumo. «Ci ho viaggiato anch’io una volta, per un’ispezione segreta dalle parti di Odessa. Ma questo è proprio un ragazzino. Sarà il figlio di qualcuno? Jeunesse dorée?»

«Assolutamente no, i figli non li mandano nel primo, su questo c’è una regola severa. A meno che non siano figli dell’Imperatore. Questo ha incuriosito anche me, ho guardato l’elenco di viaggio del signor direttore del treno», disse il conduttore abbassando ancora di più la voce.

«Ebbene?» chiese con impazienza il signore curioso.

Assaporando una lauta mancia, il conduttore si portò un dito alle labbra: «Terza sezione. Investigatore di faccende particolarmente importanti».

«Capisco che sia ‘particolarmente’: quelle ‘semplicemente’ importanti non le mandano nel primo.»Il signore tacque significativamente. «E cosa fa?»

«Mah! Non appena si è chiuso nel suo scompartimento, pensi, non è uscito nemmeno una volta. Gli ho offerto due volte il tè, neanche a pensarci. Lo trovo in uno stato! Immerso nelle sue carte, se ne sta lì seduto, senza alzare la testa. La partenza da Pietroburgo l’hanno ritardata di venticinque minuti, ricordate? Per via di lui. Aspettavano il suo arrivo.»

«Oho!» esclamò il passeggero. «Ma è una cosa inaudita!»

«Succede, ma molto di rado.»

«E il nome non è segnato sulla lista dei passeggeri?»

«Per niente. Né il nome, né il rango.»


Intanto Erast Petrovič non faceva che cercare di afferrare il significato delle avare righe delle relazioni e si arruffava nervosamente i capelli. La gola gli sì stringeva sempre più per un orrore mistico.

Subito prima della sua partenza per la stazione, nell’appartamento di Stato dove Fandorin aveva dormito per quasi ventiquattr’ore di seguito senza mai svegliarsi, si era presentato l’aiutante di Mizinov per dirgli di aspettare: erano arrivati i primi dispacci dalle ambasciate, adesso li avrebbero decifrati e consegnati. Fu necessario attendere quasi un’ora intera, Erast Petrovič aveva paura di far tardi al treno, ma l’aiutante lo tranquillizzò.

Appena entrato nell’enorme scompartimento rivestito di velluto verde, con una scrivania, un morbido divano e due sedie di noce con le gambe avvitate al pavimento, Fandorin dissigillò il pacchetto e si immerse nella lettura.

Erano arrivati tre dispacci: da Washington, da Parigi e da Costantinopoli. Avevano tutti la stessa intestazione: «Urgente. A sua eccellenza illustrissima Lavrentij Arkadevič Mizinov in risposta al dispaccio N. 13476-8Ždel 26 giugno 1876». I rapporti erano firmati dagli ambasciatori stessi. Qui la somiglianza finiva. I testi erano come segue:


27 giugno (9 luglio) 1876, 12. 15. Washington. La persona che vi interessa è John Pratt Dobbs, nominato il 9 giugno sostituto del presidente del comitato al Senato per il budget. È persona molto nota in America, un riccone di quelli che qui chiamano self-made man. Età anni 44. Il periodo iniziale della sua vita, luogo di nascita ed estrazione sono ignoti. Si suppone si sia arricchito all’epoca della corsa californiana all’oro. È considerato un genio dell’imprenditoria. All’epoca della guerra civile fra Nord e Sud è stato consigliere del presidente Lincoln per le questioni finanziarie. L’opinione corrente vuole che proprio per gli sforzi di Dobbs, e niente affatto per il valore dei generali federali il Nord capitalista abbia riportato la vittoria sul Sud conservatore. Nel 1872 eletto al Senato per lo Stato della Pennsylvania. Da fonti informate è noto che Dobbs è pronosticato ministro delle Finanze.


9 luglio (27 giugno) 1876, 16. 45. Parigi. Grazie all’agente a voi noto Coco siamo riusciti a chiarire attraverso il ministero della Guerra che il 15 giugno al rango di viceammiraglio è stato promosso il controammiraglio Jean Intrepid, recentemente destinato al comando dell’unità navale del Siam. Si tratta di una delle figure più leggendarie della flotta francese. Venti anni fa una fregata francese scoprì in mare aperto, lungo la costa del Portogallo, un’imbarcazione con dentro un ragazzo evidentemente salvatosi dopo un naufragio. Per il trauma il ragazzo aveva completamente perso la memoria, non poteva dire né il suo nome, e neppure la sua nazionalità. Preso come mozzo, ricevette il cognome dal nome della fregata che lo aveva trovato. Ha fatto una brillante carriera. Ha partecipato a numerose spedizioni e guerre coloniali. Si è distinto particolarmente nel corso della guerra messicana. L’anno scorso Jean Intrepid ha fatto a Parigi una vera e propria sensazione, sposando la figlia maggiore del duca di Rohan. I dettagli del curriculum di servizio della persona di vostro interesse li invio nel rapporto allegato.


27 giugno 1876, 2 del pomeriggio. Costantinopoli.

Caro Lavrentij, la tua richiesta mi stupisce moltissimo. Il fatto è che Anvar efendi, verso il quale hai manifestato un interesse così pressante, da un certo tempo si trova anche al centro della mia attenzione. Questo soggetto, che fa parte del seguito di Midchat pascià e Abdul Hamid, in base a informazioni in mio possesso è una delle figure centrali di un complotto che sta maturando a palazzo. C’è da aspettarsi presto il rovesciamento dell’attuale sultano e l’insediamento di Abdul Hamid. A quel punto Anvar efendi diventerà inevitabilmente una figura insolitamente influente. È molto intelligente, ha ricevuto un’educazione europea, conosce una quantità innumerevole di lingue orientali e occidentali. Purtroppo non disponiamo di informazioni biografiche dettagliate su questo interessante signore. È noto che non ha più di 35 anni, non si sa se sia nato in Serbia o in Bosnia. È di origini oscure e non ha parenti, fatto questo foriero di molto bene per la Turchia, qualora Anvar diventasse un giorno visir. Immaginate soltanto: un visir privo della solita orda di avidi parenti! Da queste parti semplicemente non è mai successo. Anvar è una specie di eminenza grigia di Midchat pascià. Membro attivo del partito dei Giovani Turchi. Ho soddisfatto la tua curiosità? Adesso soddisfa tu la mia. Che bisogno hai del mio Anvar efendi? Cosa ti è noto di lui? Fammelo sapere subito, potrebbe rivelarsi importante.


Erast Petrovič stava leggendo i dispacci per l’ennesima volta, sottolineò nel primo: «Il periodo iniziale della sua vita, luogo di nascita e l’estrazione sono ignoti». Nel secondo: «Non poteva dire né il suo nome, e neppure la sua nazionalità»; nel terzo: «È di origini oscure e non ha parenti». La cosa si faceva piuttosto terrificante. Veniva fuori che tutti e tre erano spuntati come dal nulla! Di colpo in un certo momento erano affiorati dal non essere e immediatamente avevano preso ad arrampicarsi verso l’alto con un’ostinazione davvero disumana. Cos’erano mai, i membri di una qualche setta segreta? Oh, e se nemmeno si trattasse di uomini, se fossero venuti da un altro mondo? Mettiamo, inviati del pianeta Marte? Oppure qualcosa di peggio: una qualche diavoleria? Fandorin si rannicchiò al ricordo del suo incontro notturno con il «fantasma Amalia». Un altro essere di provenienza ignota, questa Bežezkaja. E per di più l’invocazione satanica, «Azazel». Oh, qui c’è puzza di zolfo…

Bussarono furtivamente alla porta, ed Erast Petrovič, rabbrividendo, infilò la mano dietro la schiena, nella fondina segreta, e palpò l’impugnatura scanalata della Herstal.

Nell’apertura della porta si affacciò la fisionomia servile del conduttore.

«Vostra eccellenza, stiamo per raggiungere una stazione. Non vorreste sgranchirvi le gambe? C’è anche il buffet.»

Per via di questo «eccellenza» Erast Petrovič raddrizzò le spalle e si sbirciò furtivamente allo specchio. Possibile lo prendessero davvero per un generale? Allora, «sgranchire le gambe» non era male, e poi camminando si pensa meglio. Gli si aggirava per il capo una certa idea confusa, e non faceva che scivolare via, non voleva lasciarsi afferrare, ma gli dava speranza — era come se gli dicesse: prendimi, prendimi.

«Magari. Quanto ci fermiamo?»

«Venti minuti. Ma non preoccupatevi, andate pure a spasso.»Il conduttore fece una risatina. «Senza di voi non si parte.»


Erast Petrovič saltò giù dalla scaletta sulla piattaforma inondata di luce della stazione. In alcune finestre dello scompartimento l’illuminazione era già spenta: evidentemente, alcuni passeggeri erano andati a dormire. Fandorin si stirò con gusto e incrociò le mani dietro la schiena, preparandosi al moto destinato a promuovere una più intensa attività intellettuale. Sennonché in quello stesso istante, dal medesimo vagone, era sceso il signore imponente, baffuto, col cilindro, che indirizzò verso il giovane uno sguardo pieno di curiosità e allungò la mano verso la sua graziosa accompagnatrice. Nel vederne l’incantevole, fresco visino, Erast Petrovič si sentì raggelare, mentre la signorina si illuminò tutta ed esclamò con voce squillante: «Papà, è lui, quel signore della polizia! Ti ricordi, te l’avevo raccontato? Ma quello che era venuto per me e la signorina Pful, a farci l’escussione!»

L’ultima parola era stata pronunciata con evidente piacere, e i chiari occhi grigi guardarono Fandorin con vivo interesse. Bisogna riconoscere che gli eventi da capogiro delle ultime settimane avevano piuttosto messo a tacere i ricordi di colei che Erast Petrovič chiamava fra sé esclusivamente «Lizanka», e a volte, in momenti particolarmente sognanti, perfino «tenero angelo». Tuttavia di fronte a questo caro essere il fuocherello, che aveva già scottato a suo tempo il cuore del povero registratore di collegio, riprese a vampeggiare in un attimo facendogli ardere i polmoni di scintille di fuoco.

«Io, a dire il vero, non sono della polizia», borbottò arrossendo Fandorin. «Fandorin, funzionario incaricato speciale presso…»

«So tutto, Je vous le dis tout cru», disse il baffuto con aria cospiratoria, col brillante che gli scintillava sulla cravatta. «Faccenda di Stato, potete non entrare in merito. Entre nous soit dit, io stesso ho avuto a che farci ripetutamente per la natura della mia attività, così che capisco tutto benissimo», disse sollevando il cilindro. «Permettetemi tuttavia di presentarmi. Consigliere segreto effettivo Aleksandr Apollodorovič Evert-Kolokolzev, presidente della Camera di giustizia del governatorato di Mosca. Mia figlia, Liza.»

«Chiamatemi semplicemente ‘Lizzi’, ‘Liza’ ha un suono che non mi piace», gli chiese la signorina, e si dichiarò ingenuamente. «Ho pensato spesso a voi. Siete piaciuto a Emma. Mi ricordo anche come vi chiamate — Erast Petrovič. Bel nome, Erast.»

Fandorin credette di essersi addormentato e di star facendo un sogno meraviglioso. Qui la cosa più importante era non muoversi, altrimenti, Dio non lo volesse, si sarebbe destato.


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