«Si chiama Momus, la carta pazza del mazzo», spiegò Ippolit stiracchiandosi voluttuosamente. «È tardi, però. Brindate con un po’ di champagne all’audacia o subito in cortile?»
Erast Petrovič stava seduto tutto rosso. Lo soffocava la rabbia, non verso il conte, ma verso se stesso, un perfetto idiota. Di quelli che non vale la pena di tenere fra i vivi.
«Voglio farla finita subito», borbottò stizzosamente, deciso a fare una carognata finale al padrone di casa. «Così dopo quel vostro furbacchione avrà da lavare il pavimento. E dallo champagne esoneratemi: mi fa venire il mal di testa.»
Sempre altrettanto rabbiosamente, cercando di non pensare a nulla, Fandorin afferrò la pesante rivoltella, alzò il cane e poi, dopo un attimo di esitazione — dove sparare? ma, che differenza farà mai — si infilò la canna in bocca, contando mentalmente «tre, due, uno», dopodiché premette il grilletto con tanta di quella forza, che si schiacciò la lingua fino a farsi male. Non seguì tuttavia nessuno sparo — ci fu solo uno schiocco secco. Senza capirci nulla, Erast Petrovič premette ancora una volta: di nuovo uno schiocco, solo che questa volta il metallo gli stridette sgradevolmente contro i denti.
«Basta così, basta così!» disse Zurov togliendogli di mano la rivoltella e dandogli una pacca sulla spalla. «Un vero dritto! E si è sparato senza la minima ostentazione, senza isteria. Sta venendo su una bella generazione, non è vero, signori? Jean, versaci lo champagne, il signor Fandorin e io berremo alla fratellanza, passeremo al tu.»
Erast Petrovič, in preda a una strana abulia, fece l’obbediente: bevve fiaccamente fino all’ultima goccia il liquido pieno di bollicine, sempre fiaccamente si baciò col conte, che gli disse d’ora innanzi di chiamarlo semplicemente Ippolit. Tutt’intorno schiamazzavano e ridevano, ma tutte quelle voci arrivavano a Fandorin in modo indistinto. Lo champagne gli aveva provocato delle fitte al naso, e gli erano venute le lacrime agli occhi.
«E di Jean cosa ne dite?» rideva il conte. «In un attimo ha ripulito la rivoltella di tutte le pallottole. Allora, non è furbo, Fandorin, tu che ne dici?»
«Furbo», convenne con indifferenza Erast Petrovič.
«Già già. A te come ti chiamano?»
«Erast.»
«Andiamo. Erast di Rotterdam, andiamo un po’ nel mio studio, beviamo un po’ di cognac. Mi sono stufato di questi musi.»
«Erasm», lo corresse meccanicamente Fandorin.
«Come?»
«Non Erast, Erasm.»
«Scusa, non avevo sentito bene. Andiamo, Erasm.»
Fandorin si alzò obbediente e seguì il padrone di casa. Attraversarono una buia infilata di stanze per ritrovarsi in un locale tondo in cui regnava un disordine straordinario — vi si trovavano sparsi qua e là cannelli e pipe turche, bottiglie vuote, sul tavolo facevano bella mostra di sé speroni d’argento, mentre in un angolo chissà perché era stata posata un’elegante sella inglese. Fandorin non capiva per quale motivo la stanza venisse chiamata «studio»: non c’erano libri, né si osservavano da nessuna parte strumenti di scrittura.
«Una sella stupenda, vero?» si vantò Zurov. «L’ho vinta ieri con una scommessa.»
Versò nei bicchieri un vino marroncino da una bottiglia panciuta, si sedette accanto a Erast Petrovič e gli disse con tono molto serio, perfino intimo: «Vorrai perdonarmi, bestia che sono, per lo scherzo. Mi annoio tanto, Erasm. Di gente intorno ne ho tanta, di uomini nemmeno uno. Ho ventotto anni, Fandorin, ma è come se ne avessi sessanta. Specialmente al mattino, quando mi sveglio. La sera, di notte, va ancora bene, faccio casino, faccio l’imbecille. Ma è uno schifo. Prima non era niente, ma adesso non so come mai mi fa sempre più schifo. Sai, poco fa, quando abbiamo tirato a sorte, di colpo ho pensato: e se mi sparassi sul serio? E l’idea mi attirava tanto… Perché stai zitto? Dai, Fandorin, non ti arrabbiare. Vorrei tanto che non mi serbassi rancore. Ma cosa posso fare perché tu mi perdoni, Erasm?»
E qui Erast Petrovič, con una voce stridula ma perfettamente distinta, disse: «Raccontami di lei. Della Bežezkaja».
Zurov si scosse una folta ciocca dalla fronte.
«Già, me l’ero dimenticato. Sei del suo ‘strascico’.»
«Di dove?»
«Io lo chiamo così. Amalia dopotutto è una regina, le serve uno strascico fatto di uomini. Quanto più è lungo, tanto meglio. Da’ retta a un buon consiglio, levatela dalla testa, sennò sei perduto. Dimenticala.»
«Non posso», rispose onestamente Erast Petrovič.
«Sei ancora un poppante, Amalia ti risucchierà per forza nel suo gorgo, come ne ha già risucchiati tanti. Si è molto attaccata a me probabilmente perché non mi sono lasciato risucchiare nel gorgo per amor suo. Io non ne ho bisogno, di gorghi, ho già il mio. Non profondo come il suo, ma fa niente, mi basta per affogarci dentro con la testa.»
«Tu la ami?» chiese a bruciapelo Fandorin usufruendo dei suoi diritti di parte lesa.
«La temo», rispose Ippolit ridendo cupamente. «Più di quanto la ami. E non si tratta affatto di amore. Hai mai provato a fumare l’oppio?»
Fandorin scosse la testa.
«Se lo provi una volta ti terrà in suo potere per tutta la vita. Lei è così. Non mi vuole mollare! Vedo che mi disprezza, non mi valuta tre copechi, eppure ha visto qualcosa in me. Per mia disgrazia! Sai, sono contento che se ne sia andata, per Dio. Una volta ho pensato di ucciderla, quella strega. Di strangolarla con le mie mani, perché non mi tormentasse più. E lei questo lo ha avvertito molto bene. O, fratello mio, è intelligente! E io le ero caro per questo, che con me poteva giocare come col fuoco; ora mi attizza, ora mi soffoca, e tutto il tempo ha in mente che può divampare l’incendio, e allora non ne uscirà viva. A cosa le servirei, altrimenti?»
Erast Petrovič pensò con invidia che ce n’erano di motivi per amare quel bellone di Ippolit, testa spericolata, anche senza incendi. Un dritto del genere, probabilmente, di donne ne ha a bizzeffe. E com’è che certa gente ha tanta fortuna? Comunque queste considerazioni erano fuori tema. Bisognava chiedere a proposito.
«Chi è, da dove viene?»
«Non lo so. Non le piace parlare molto di sé. So soltanto che è cresciuta da qualche parte all’estero. A quanto pare in Svizzera, in un qualche collegio.»
«E dove si trova adesso?» chiese Erast Petrovič, senza del resto troppo contare sul successo.
Zurov a ogni buon conto tardava a rispondere, e Fandorin si sentì mancare.
«Ti interessa tanto?» chiese cupamente il conte, e una fugace smorfia malevola deformò il suo viso bello e capriccioso.
«Sì!»
«Già, se una falena è attratta dalla candela, non potrà che bruciare…»
Ippolit si mise a frugare sul tavolo fra mazzi di carte, fazzoletti gualciti e conti di bottega.
«Dove diavolo è finito? Ecco, adesso ricordo», disse aprendo una scatoletta giapponese laccata con una farfalla di madreperla sul coperchio. «Tieni. È arrivato con la posta cittadina.»
Con le dita che gli tremavano Erast Petrovič prese la stretta busta sulla quale con una calligrafia inclinata, veloce, era scritto: «A sua eccellenza il conte Ippolit Zurov, vicolo dell’Apostolo Giacobbe, casa propria». A giudicare dal timbro, la lettera era stata spedita il 16 maggio, lo stesso giorno che la Bežezkaja era scomparsa.
Dentro trovò un breve biglietto in francese privo della firma:
Mi sono trovata nella necessità di partire senza salutarti. Scrivimi a Londra, Gray Street, hotel Winter Queen, c/o Miss Olsen. Aspetto. E non osare dimenticarmi.
«E io invece oso», minacciò nervosamente Ippolit, per abbassare subito dopo il tiro: «A ogni modo, ci sto provando… Tieni, Erasm. Fanne quel che ti pare… Dove vai?»
«Vado», disse Fandorin, ficcandosi la busta in tasca. «Bisogna fare in fretta.»
«Oh oh», disse il conte con compassione scuotendo il capo. «Fa’ pure, vola nel fuoco. È la tua vita, mica la mia.»
Nel cortile Erast Petrovič fu raggiunto da Jean che teneva un pacchetto in mano.
«Ecco, signore, l’avete dimenticato.»
«Che cosa?» chiese seccato Fandorin che andava di fretta.
«Scherzate? La vostra vincita. Sua eccellenza mi ha ordinato di raggiungervi immediatamente e di mettervela in mano.»
Erast Petrovič fece un sogno stupefacente.
Era seduto al banco in classe, nel suo ginnasio di governatorato. Sogni del genere, solitamente ansiosi e spiacevoli, li faceva assai spesso: di essere di nuovo un ginnasiale e non sapere risolvere alla lavagna un problema di fisica oppure di algebra, ma questa volta non era solo pieno d’angoscia, era veramente atterrito. Fandorin non riusciva assolutamente a capire il motivo di questa paura. Non si trovava alla lavagna, ma al suo banco, intorno c’erano alcuni seduti come fossero i suoi compagni di scuola: Ivan Franzevič, Achtyrzev, un certo bel giovanotto con la fronte alta e pallida e arditi occhi castani (di lui Erast Petrovič sapeva che era Kokorin), due fanciulle con i grembiuli bianchi e ancora qualcun altro, voltato di spalle. Fandorin aveva paura di quello voltato di spalle e cercava di non guardare nella sua direzione, mentre non faceva che storcere il collo per vedere meglio le ragazze: brunetta una, biondina l’altra. Erano sedute a un banco, con le mani sottili poggiate diligentemente una sopra l’altra. Una era Amalia, l’altra Lizanka. La prima lanciava sguardi brucianti coi suoi occhioni neri e gli mostrava la lingua, mentre la seconda gli sorrideva timidamente e abbassava le folte ciglia. Qui Erast Petrovič vide che alla lavagna c’era lady Esther con la bacchetta in mano, e tutto diventò chiaro: si trattava dell’ultimissimo sistema di insegnamento inglese, in cui i ragazzi e le ragazze studiano insieme. E anche molto bene. Quasi avesse udito i suoi pensieri, lady Esther sorrise tristemente e disse: «Questo non è l’insegnamento in comune, questa è la mia classe di orfani. Siete tutti orfani, e io devo indirizzarvi sulla vostra strada». «Scusate, milady», disse stupito Fandorin, «però io so per certo che Lizanka non è orfana, ma figlia di un consigliere segreto effettivo.»«Ah, my sweet boy», disse milady con un sorriso ancora più triste. «Lei è una vittima innocente, e questo è lo stesso che essere un’orfanella.»L’uomo spaventoso, che gli stava seduto davanti, si voltò lentamente e, guardando fissamente coi suoi occhi bianchicci, trasparenti, sussurrò: «Anch’io, Azazel, sono un orfano». Fece l’occhiolino con aria cospiratoria e, perdendo ogni freno, disse imitando la voce di Ivan Franzevič: «E pertanto, mio giovane amico, mi tocca uccidervi, cosa di cui provo il più sincero rincrescimento… Ehi, Fandorin, cosa ve ne state lì seduto imbambolato. Fandorin!»
«Fandorin!» Qualcuno stava scuotendo per la spalla Erast Petrovič tormentato dall’incubo. «Ma svegliatevi, è già mattina!»
Fandorin si riscosse, si alzò di scatto, voltò la testa. Si accorse di essersi addormentato nell’ufficio del capo, era stato sopraffatto dal sonno direttamente alla scrivania. Dalla finestra attraverso gli scuri aperti si riversava la gioiosa luce mattutina, mentre accanto a lui c’era Ivan Franzevič, vestito chissà perché come uno del ceto borghese: aveva un berretto con la visiera di stoffa, un caffettano a pieghe e stivali a fisarmonica inzaccherati di fango.
«Allora, siete crollato, mi aspettavate con ansia?» chiese allegramente il capo. «Scusate la mascherata, ho dovuto assentarmi di notte per una questione urgente. Ma andate a lavarvi, basta sbattere gli occhi. Marsch, marsch!»
Mentre Fandorin andava a lavarsi, gli tornarono in mente gli eventi della notte appena trascorsa, gli tornò in mente di come se n’era andato a rotta di collo via da casa di Ippolit, era saltato su una carrozza leggera col vetturino addormentato e gli aveva ordinato di andare di corsa in via Mjasnizkaja. Tale era l’impazienza di raccontare al capo il suo successo, ma Brilling non era sul posto. Erast Petrovič prima aveva sbrigato una faccenda urgente, poi si era messo alla scrivania ad aspettarlo, e senza accorgersene era sprofondato nel sonno.
Quando tornò nell’ufficio, Ivan Franzevič si era già cambiato in un completo chiaro e beveva del tè al limone. Un altro bicchiere dentro il portabicchiere d’argento fumava davanti al suo, sul vassoio c’erano ciambelle e panini.
«Facciamo colazione», gli propose il capo, «e intanto parliamo. Le vostre avventure notturne mi sono perfettamente note, ma ho qualche domanda da farvi.»
«Come fate a conoscerle?» chiese dispiaciuto Erast Petrovič, che aveva pregustato il piacere del racconto e, a dire il vero, intendeva sorvolare su alcuni dettagli.
«Da Zurov c’era un mio agente. Sono già tornato da un’ora, ma mi dispiaceva svegliarvi. Mi sono seduto qui, ho letto il rapporto. Una lettura avvincente, non ho nemmeno fatto in tempo a cambiarmi.»
Sbatté la mano sui foglietti scritti con una grafia minuta.
«Un agente lucido, però scrive in un modo spaventosamente pittoresco. Si immagina di avere un talento letterario, scrive sui giornaletti sotto la pseudonimo di ‘Maximus Perspicax’, sogna una carriera di censore. Ascoltate, vi interesserà. Dov’è… Ah, ecco qui.
Descrizione dell’oggetto. Nome: Erasm von Dorn, o von Doren (stabilito a orecchio). Età: non più di venti. Ritratto verbale: altezza un metro e settantacinque; costituzione corporea scarna; capelli neri e dritti; niente barba e baffi e non ha l’aria di radersi; occhi azzurro chiaro, ravvicinati, leggermente a mandorla sugli angoli; pelle bianca, pulita; naso sottile, dritto; orecchie schiacciate, piccole, a lobo corto. Segni particolari: non gli va mai via il rossore dalle guance. Impressioni personali: tipico rappresentante di una jeunesse dorée viziata e sfrenata con capacità fuori dall’ordinario di duellista. Dopo gli eventi summenzionati si è allontanato con il Giocatore nello studio di quest’ultimo. Hanno conversato per ventidue minuti. Parlavano a voce bassa, con pause. Da dietro la porta non si sentiva quasi nulla, ma ho colto distintamente la parola «oppio» e ancora qualcosa a proposito del fuoco. Ho ritenuto necessario pedinare von Doren, sennonché questi, con tutta evidenza, mi ha scoperto, mi ha distanziato con grande abilità e se ne è andato in carrozza. Propongo…
«Be’, il resto non è interessante», concluse il capo guardando con curiosità Erast Petrovič. «E così discutevate di oppio? Non tormentatemi, brucio dall’impazienza.»
Fandorin espose brevemente il succo della sua conversazione con Ippolit e gli mostrò la lettera. Brilling lo ascoltò con la massima attenzione, gli chiese di precisare alcuni punti, quindi, messosi alla finestra, tacque. La pausa durò a lungo, un minuto buono. Erast Petrovič stava seduto in silenzio, temeva di disturbare il processo mentale, sebbene avesse anche lui le sue supposizioni.
«Sono molto contento di voi, Fandorin», disse infine il capo, ritornando in vita. «Avete dato prova di una brillantissima efficienza. Tanto per cominciare, è del tutto chiaro che Zurov non ha partecipato all’assassinio e non sospetta nulla a proposito del vostro genere di attività. Vi avrebbe dato altrimenti l’indirizzo di Amalia? Questo ci libera dalla terza ipotesi. In secondo luogo, avete fatto grandi progressi sull’ipotesi della Bežezkaja. Adesso sappiamo dove cercare questa signora. Bravo. Intendo assegnare tutti gli agenti liberatisi, fra cui anche voi, all’ipotesi quattro, che mi pare fondamentale», disse puntando il dito in direzione della lavagna, dove nel quarto cerchietto biancheggiavano le lettere di gesso ON.»
«Sarebbe a dire?» chiese agitato Fandorin. «Ma scusate, capo…»
«La notte scorsa sono riuscito a imbattermi in una traccia assai allettante, che conduce a una certa dacia nei dintorni di Mosca», gli comunicò Ivan Franzevič con visibile soddisfazione (ecco come si spiegavano gli stivali imbrattati). «Laggiù si riuniscono dei rivoluzionari, per giunta oltremodo pericolosi. A quanto pare, il filo si allunga fino ad Achtyrzev. Ci sarà da lavorare. In questo mi servono tutti gli uomini. Mentre secondo me l’ipotesi Bežezkaja è priva di prospettive. In ogni caso, per quella non c’è fretta. Manderemo un’interrogazione agli inglesi per i canali diplomatici, chiederemo di trattenere questa miss Olsen fino a chiarimento, e con questo abbiamo finito.»
«Ma è proprio quello che non bisogna assolutamente fare!» gridò Fandorin, e con tanta di quella foga, che Ivan Franzevič restò perfino di stucco.
«E perché mai?»
«Possibile che non vi rendiate conto che qui tutto si riduce alla stessa cosa!» Erast Petrovič si era messo a parlare in frettissima, per timore di venire interrotto. «Non so nulla dei nichilisti, può essere di tutto… capisco bene che sono importanti, ma anche qui c’è l’importanza, e anche qui di Stato! Guardate, Ivan Franzevič, che quadro ne viene fuori. La Bežezkaja è andata a nascondersi a Londra, e uno (Erast Petrovič nemmeno si rendeva conto di quanto avesse mutuato dal capo la maniera di esprimersi). Ha il maggiordomo inglese, e un tipo molto sospetto, da sgozzarvi senza batter ciglio. E due. L’uomo dagli occhi bianchi, che ha uc ciso Achtyrzev, parlava con un accento e sembrava anche lui un inglese: e fa tre. Adesso quattro: lady Esther, certamente, è un essere nobilissimo, ma è un’inglese anche lei, mentre dopotutto l’eredità di Kokorin, dite quel che vi pare, è toccata a lei! È evidente che la Bežezkaja ha aizzato apposta i suoi ammiratori perché facessero testamento a favore dell’inglese!»
«Calma, calma», disse Brilling accigliato. «A cosa mirate, con questo? Allo spionaggio?»
«Ma è evidente!» disse Erast Petrovič battendo le mani. «Intrighi inglesi. Lo sapete anche voi che genere di relazioni intratteniamo adesso con l’Inghilterra. Non voglio insinuare nulla del genere su lady Esther: lei, probabilmente, nemmeno sa niente, ma il suo istituto potrebbe essere usato come copertura, come cavallo di Troia, per penetrare in Russia!»
«Come no», disse il capo con un sorriso ironico. «Alla regina Vittoria e al signor Disraeli non bastano l’oro dell’Africa e i diamanti dell’India, bisogna dargli anche la fabbrica di tessuti di Petrusa Kokorin e i tremila e rotti ettari di Nikolen’ka Achtyrzev.»
A questo punto Fandorin scoprì la sua carta principale: «Non si tratta della fabbrica, e nemmeno del denaro! Vi ricordate l’inventario delle loro proprietà? Io ci ho fatto subito caso! Kokorin fra le altre imprese cantieristiche ha un cantiere navale sul Baltico, proprio dove piazzano le commesse militari: ho controllato».
«E quando avete trovato il tempo di farlo?»
«Mentre vi aspettavo. Ho mandato un’interrogazione via telegrafo al ministero della Marina militare. Anche lì c’è sempre qualcuno al turno di notte.»
«Così, bene, bene. E chi altro?»
«Questo, che oltre a tutti quegli ettari, alle case e ai capitali, Achtyrzev aveva anche un pozzo di petrolio a Baku, ricevuto in eredità dalla zia. E ho letto sui giornali che gli inglesi sognano di impadronirsi del petrolio del Caspio. E qui, prego, ci riuscirebbero addirittura nel più legittimo dei modi! Ed ecco come è stato pensato in modo imbattibile: che si tratti di una fabbrica nel Baltico, oppure del petrolio, in entrambi i casi qualcosa va agli inglesi! Voi fate come volete, Ivan Franzevič», si infervorò Fandorin, «però io questo non lo lascerei così. Eseguirò tutti i vostri incarichi, ma fuori dall’orario di servizio indagherò per conto mio. E arriverò a scoprire qualcosa!»
Il capo si mise di nuovo alla finestra, e questa volta tacque più a lungo di prima. Erast Petrovič aveva i nervi a fior di pelle, ma dimostrò carattere. Finalmente Brilling sospirò e disse, lentamente, inceppandosi, qualcosa che era ancora nel processo di pensare.
«In tutta probabilità è una sciocchezza. Edgar Allan Poe, Eugene Sue. Vuote coincidenze. Tuttavia in una cosa avete ragione: non ci rivolgeremo agli inglesi… E nemmeno possiamo farlo attraverso la nostra rappresentanza all’ambasciata di Londra. Se vi sbagliate — ed è quasi certo che vi sbagliate — ci facciamo una figura da perfetti imbecilli. Supponiamo invece che abbiate ragione, l’ambasciata non potrebbe comunque farci nulla, gli inglesi nasconderebbero la Bežezkaja oppure si inventerebbero qualcosa… E poi il personale della nostra ambasciata ha le mani legate, sono troppo esposti… Deciso!» disse Ivan Franzevič agitando energicamente il pugno. «Certo, Fandorin, voi mi servireste anche qui, ma, come dice il popolo, cavai forzato va a piè zoppo. Bisogna sbrigliarvi. Ho letto la vostra pratica, so che padroneggiate non solo il francese e il tedesco, ma anche l’inglese. Che Dio v’assista, andate a Londra dalla vostra femme fatale! Non vi imporrò istruzioni, io credo nella vostra intuizione. Vi darò un uomo all’ambasciata, di cognome Pyžov. Ha la mansione di modesto impiegato di segreteria, tipo voi, ma si occupa d’altro. Al ministero degli Affari esteri ha il rango di segretario di governatorato, ma secondo la nostra gerarchia riveste un’altra carica, di gran lunga superiore. È un signore dai molteplici talenti. Non appena sarete arrivato, recatevi subito da lui. È estremamente svelto. Del resto, sono sicuro che sarà un viaggio a vuoto. Ma, in fin dei conti, vi siete guadagnato il diritto di commettere un errore. Guardatevi l’Europa, fatevi un bel viaggetto a spese dello Stato. Anche se adesso, a quanto pare, godete di mezzi propri?» disse il capo sbirciando il pacchetto posato in bella vista sul tavolo.
Stordito per quanto aveva sentito, Erast Petrovič trasalì: «Perdonatemi, questa è la mia vincita. Novemilaseicento rubli, li ho contati. Volevo consegnarli alla cassa, ma era chiusa».
«Ma andate al diavolo!» disse Brilling scacciando l’idea. «Siete fuori di testa? Cosa pensate che dovrebbe scrivere il cassiere nel libro delle entrate? Incasso dal gioco a stoss del registratore di collegio Fandorin?… Hmm, aspettate un momento. Non convince troppo un modesto registratore di collegio che parte in missione all’estero.»
Si sedette alla sua scrivania, intinse la penna nel calamaio e si mise a scrivere, profferendo a voce alta: «Allora. ‘Telegramma urgente. Al principe Michail Aleksandrovič Korčakov, personale. Copia al generale aiutante Lavrentij Arkadevič Mizinov. Vostra luminosa eccellenza, negli interessi della pratica a voi nota, e anche in segno di riconoscimento dei servizi eccezionali, vi prego al di fuori di ogni gerarchia e senza calcolo di anzianità di servizio di promuovere il registratore di collegio Erast Petrovič Fandorin…’ Eh, chi non s’avventura non ha ventura, ‘direttamente al rango di titolare.’ Anche se, certo, non è un pesce grosso, ma fa lo stesso, ‘al rango di consigliere titolare. Chiedo anche di annoverare temporaneamente Fandorin al dipartimento del ministero degli Affari esteri con la carica di corriere diplomatico di prima categoria.’ Questo perché non vi trattengano alla frontiera», spiegò Brilling. «Ecco fatto. Data, firma. A proposito, la posta diplomatica effettivamente la consegnerete strada facendo, a Berlino, Vienna, Parigi. Per badare alle apparenze, per non suscitare sospetti eccessivi. Obiezioni?» chiese Ivan Franzevič con gli occhi che gli brillavano birichini.
«Assolutamente no», balbettò Erast Petrovič, che non riusciva più a tener dietro agli eventi col pensiero.
«E da Parigi, ormai in incognito, vi dirigerete a Londra. Com’è che si chiama l’albergo?»
«Winter Queen, Regina d’Inverno.»