DODICESIMO CAPITOLO

in cui il nostro eroe apprende di avere un’aureola intorno alla testa

Nonostante gli avessero sparato, Erast Petrovič non perse tuttavia la coscienza, e poi chissà perché non provava nessun dolore. Senza capirci nulla, prese a martellare con le braccia sull’acqua. Cosa mai succedeva? Era vivo o l’avevano ucciso? Se l’avevano ucciso, perché si sentiva così bagnato?

Sul bordo del lungofiume si affacciò la testa di Zurov. Fandorin non se ne stupì affatto: tanto per cominciare, in quel momento era difficile per lui stupirsi di qualcosa, e in secondo luogo, all’altro mondo (se era lì che si trovava) potevano succedere cose d’ogni genere.

«Erasm! Sei vivo? T’ho mica preso di striscio?» gridò con impeto la testa di Zurov. «Dammi la mano.»

Erast Petrovič estrasse dall’acqua la destra e con un unico potente strappo venne tirato fuori sulla terraferma. La prima cosa che vide non appena in piedi fu una figurina che giaceva rannicchiata, allungando in avanti il braccio che reggeva la pesante pistola. Attraverso la capigliatura scolorita e rada nereggiava nella nuca un buco, a terra si allargava una pozzanghera scura.

«Ti ho ferito?» chiese premuroso Zurov, rigirando e palpando Erast Petrovič che era tutto bagnato. «Non capisco come può essere avvenuto. Una vera e propria révolution dans la balistique! Ma no, non può essere.»

«Zurov, siete voi?!» sibilò Fandorin, comprendendo finalmente di trovarsi ancora in questo mondo, e non nell’altro.

«Non ‘siete’, ma ‘sei’. Abbiamo bevuto alla fratellanza, te lo sei dimenticato?»

«Ma perché?» chiese Erast Petrovič che aveva ricominciato a tremare. «Siete così deciso a finirmi voi stesso? Cosa ve ne viene, il vostro Azazel vi ha promesso in cambio un premio? Sparate, sparate, siate maledetto! Mi siete venuti a noia più del semolino!»

Questo semolino era spuntato non si capiva da dove, forse da qualche ricordo lungamente dimenticato dell’infanzia. Erast Petrovič voleva anche strapparsi la camicia dal petto: eccoti il mio petto, diceva, spara, ma Zurov lo scosse per le spalle senza tante cerimonie.

«Basta con questi deliri, Fandorin. Quale Azazel? Quale semolino? Vieni che ti faccio tornare in te», e senza indugio schioccò due sonori ceffoni allo sfinito Erast Petrovič. «Questo sono io, Ippolit Zurov. Non c’è niente di strano se dopo tutto quello che ti è capitato ti si è fuso il cervello. Appoggiati a me», continuò afferrando il giovane per le spalle. «Adesso ti porto all’albergo. Ho un cavallo attaccato lì, e questo qua» (disse dando un calcio al corpo immobile di Pyžov) «ha lasciato qui vicino la sua vettura. Arriveremo veloci come il vento. Ti scaldi un po’, mandi giù un grog, e mi spieghi che razza di circo mi state combinando.»

Fandorin respinse con forza il conte: «No, sei tu quello che mi deve delle spiegazioni! Tu da dove» (singhiozzo) «spunti? Perché mi segui? Sei in combutta con loro?»

Zurov si torceva confuso un baffo nero.

«Questo non te lo posso spiegare in due parole.»

«Fa niente, ho tempo. Non» (singhiozzo) «mi muovo!»

«D’accordo, ascolta.»

Ed ecco cosa raccontò Ippolit.


«Credi che te lo abbia dato semplicemente così, l’indirizzo di Amalia? No, fratello mio Fandorin, qui c’è tutta una psicologia. Mi eri piaciuto, perbacco se mi eri piaciuto. C’è in te qualcosa… Non so, un certo stampo, qualcosa. Ho fiuto io per i tipi come te. È come se vedessi un’aureola sulla testa di uomini simili, non so quale leggera irradiazione. Sono speciali, hanno un’aureola, la sorte li protegge, li difende da ogni pericolo. Perché siano protetti, questi uomini nemmeno lo sanno. Non puoi spararti con un uomo così, ti ucciderebbe. Non ci puoi giocare a carte, perderesti, non importa quali trucchi non tiri fuori dalla manica. Io ti ho visto l’aureola, quando mi hai ripulito allo stoss, e poi mi hai costretto a tirare a sorte per il suicidio. Si incontra di rado gente come te. Per esempio nel nostro reggimento, quando marciavamo nei deserti del Turkestan, c’era un luogotenente di nome Ulič. Poteva infilarsi in qualsiasi inferno, e non era nulla per lui, digrignava i denti e basta. Ci crederai, una volta vicino a Chiva ho visto coi miei occhi le guardie del khan che gli sparavano. Nemmeno un graffio! E poi per avere bevuto un po’ di latte fermentato inacidito, basta, seppellimmo Ulič nella sabbia. Perché mai Dio lo proteggeva in battaglia? Mistero! E così, Erasm, anche tu sei di quelli, mi puoi credere. Ti ho voluto bene, ti ho voluto bene in quello stesso istante che tu, senza la minima esitazione, ti sei puntato la pistola alla testa e hai premuto il grilletto. Sennonché il mio amore, fratello mio Fandorin, è materia complessa. Io non posso amare chi sta più in basso di me, mentre chi sta più in alto lo invidio a morte. Io ti ho invidiato. Mi sono ingelosito della tua aureola, della tua inverosimile fortuna. Vedi tu, anche oggi sei uscito asciutto dall’acqua. Ha ha, nel senso, certo che sei uscito bagnato, ma in compenso vivo, e nemmeno un graffio. Eppure a vederti così sembri un ragazzino, un cucciolotto, niente di speciale.»

Fino a quel momento Erast Petrovič aveva ascoltato con vivo interesse ed era perfino arrossito un po’ dal piacere, per un po’ aveva anche smesso di tremare, ma alla parola «cucciolotto» si accigliò e per la rabbia singhiozzò due volte di seguito.

«Ma tu non ti offendere, è un’espressione amichevole», gli disse Zurov battendogli sulla spalla. «Ecco cosa pensai quella volta: questo me lo manda la sorte. A uno così Amalia abbocca subito. Lo guarda un po’ meglio e abbocca. E basta, mi libero di quell’allucinazione satanica una volta per tutte. Mi lascerà una buona volta in pace, la smetterà di tormentarmi, di tenermi alla catena, come un orso ammaestrato al mercato. Ma vada un po’ a esasperare questo ragazzetto, coi suoi tormentoni egizi! Così ti ho dato il filo, sapendo che non ti saresti tirato indietro… Ma mettiti un po’ questo mantello, e manda giù qualcosa dalla mia borraccia. Stai tremando tutto.»


Mentre Fandorin, battendo i denti, inghiottiva il fondo di rum giamaicano che sguazzava nella grande fiasca piatta, Ippolit gli gettò sulle spalle il suo elegante mantello nero con la fodera di raso rosso, dopodiché con grande efficienza fece rotolare coi piedi il cadavere di Pyžov fino al bordo del lungofiume, lo spinse oltre e lo mandò giù in acqua con un calcio. Un tonfo sordo, e dell’empio segretario di provincia restò solo una pozza scura sulla lastra di pietra.

«Dona pace, o Signore, all’anima del tuo servo non so come lo chiamavano», disse pietosamente Zurov.

«Py-Pyžov», disse tuttora in preda al singhiozzo Erast Petrovič, che però, grazie al rum, aveva smesso di battere i denti. «Porfirij Martynovič Pyžov.»

«Non me lo ricorderei comunque», disse Ippolit alzando incurante una spalla. «Ma vada pure al diavolo. Era una porcheria di ometto, si vede da tutto. Puntare la pistola contro un uomo disarmato, pfui. Perché sai, Erasm, ti voleva uccidere. Io, fra l’altro, ti ho salvato la vita, questo l’hai capito?» «L’ho capito benissimo. Raccontami il resto.»«Ecco il resto. Ti ho dato l’indirizzo di Amalia, e subito l’indomani mi è venuta la malinconia, una malinconia, che non te la mandi il Signore. Bevevo, e andavo dalle ragazze, e giocando a carte ho sperperato quasi centomila rubli; ma quella non mi dava tregua. Non potevo dormire, non potevo mangiare. Bere, quello a dire il vero lo potevo fare. Non facevo che immaginare le tue tenerezze con Amalia, e come ridevate di me. Oppure, ancora peggio, non vi ricordavate affatto di me. Mi sono tormentato per dieci giorni, sentivo che potevo restarci tocco di cervello. Jean, il mio servo, te lo ricordi? È all’ospedale. Mi stava sempre addosso con le sue prediche, così gli ho girato il naso e gli ho spaccato due costole. Ora mi vergogno, fratello mio Fandorin. Ero come in preda a una febbre. L’undicesimo giorno crollai. Decisi, è tutto: vi ammazzo tutti e due, te e lei, e poi mi taglio la gola anch’io. Tanto peggio di così non può andare. In che modo ho viaggiato attraverso l’Europa; per Dio, non me lo ricordo. Ho bevuto come un cammello del deserto turkmeno. Quando ho attraversato la Germania, ho sbattuto due prussiani fuori dal vagone. Del resto, non me lo ricordo. Magari me lo sono immaginato. Tornai in me solo a Londra. Per prima cosa all’albergo. Non c’eravate né lei né tu. La pensione era un buco, da quando è nata Amalia in posti del genere non ha mai alloggiato. Il portiere, quella bestia, non sa una parola di francese, e io in inglese so dire solo ‘bottle whisky e ‘move your ass’: me l’ha insegnato un sottotenente di vascello. Vuol dire: prendimi una bottiglia di roba più forte, e muoviti. Io a questo portiere, gambero di un inglese, gli chiedo di miss Olsen, e lui farfuglia qualcosa nella sua lingua, scuote la zucca, e col dito indica qualcosa dietro di lui. Si vede che è partita, ma per dove non si sa. Allora chiedo di te: ‘Fandorin’, dico, ‘Fandorin, move your ass’. A questo punto lui — tu però non offenderti — ha semplicemente strabuzzato gli occhi. Si vede che in inglese il tuo cognome suona osceno. Nel complesso, con quel lacchè non siamo arrivati a nessuna comprensione reciproca. Non c’era nulla da fare, mi sono stabilito in quella topaia, ho tirato a campare. La routine è questa: al mattino dal portinaio, chiedo: ‘Fandorin?’ Lui si inchina, risponde: ‘Morning, sir’. Si vede che non è ancora arrivato, penso. Vado all’altro lato della strada, alla trattoria, quello è il mio punto di osservazione. Una noia, intorno dei musi angosciosi, l’unica cosa buona a venirmi in soccorso è ‘bottle whisky’ e ‘move your ass’. L’oste all’inizio mi fissa, poi si abitua, mi viene incontro come a un parente. Per via di me gli affari gli vanno di gran lunga meglio: la gente si raduna per vedere come inghiotto l’alcol a bicchieri interi. Ma a venirmi vicino hanno paura, mi guardano da lontano. Ho imparato delle parole nuove: ‘gin’ - che sarebbe al ginepro, ‘rhum’ - che è il rum, ‘brandy - che è una schifezza di cognac. Nel complesso, sarei rimasto a questo punto di osservazione fino a farmi venire il delirium tremens, ma il quarto giorno, Allah sia lodato, ti sei annunciato. Sei arrivato così da dandy, con la carrozza laccata, coi baffi. Fra l’altro, hai fatto male a raderteli, ti davano un’aria più ganza. Uh, penso, che galletto, sta facendo la ruota. Adesso invece di miss Olsen ti beccherai un fico secco. Ma con te il gamberetto della pensione l’ha cantata diversa, non come con me, allora ho deciso di nascondermi, di aspettare finché non mi avresti portato sulle sue tracce, e laggiù tutto sarebbe dipeso da quale carta arrivava. Ti sono venuto dietro furtivo per strada, come uno sbirro dell’investigativo. Pfui! Mi stava partendo la testa. Quando ho visto che ti accordavi col vetturino, ho preso le mie misure: ho acchiappato una cavallina alla stalla, le ho fasciato gli zoccoli con gli asciugamani dell’albergo, perché non battessero. I ceceni fanno così, quando si preparano all’attacco. Be’, non che lo facciano con gli asciugamani degli alberghi, ma in questo senso, che ci mettono qualche straccio, hai capito, no?»

Erast Petrovič si ricordò di due notti prima. Non aveva avuto mai tanta paura di perdere di vista Morbid, che non aveva nemmeno pensato a guardarsi dietro, ma veniva fuori che il pedinamento era stato duplice.

«Quando tu ti arrampicasti sulla sua finestra, dentro di me cominciò proprio a ribollire un vulcano», disse Ippolit proseguendo il suo racconto. «Mi morsi la mano a sangue. Guarda», disse mettendo sotto il naso a Fandorin una mano forte e ben curata — e proprio così, fra il pollice e l’indice si vedeva la mezzaluna perfetta del morso. «È fatta, mi dico, adesso in una volta sola volano via tre anime: una in cielo (la tua) e le altre due direttamente nelle regioni dell’Ade… Tu ti fermasti non so perché alla finestra, poi prendesti coraggio, entrasti. Avevo un’ultima speranza: che ti cacciasse via. Non le piacciono gli attacchi improvvisi, preferisce comandare lei. Aspetto, intanto mi tremano le ginocchia. Di colpo la luce si è spenta, uno sparo e il suo grido! Oh, penso, le ha sparato quella testa calda di Erasm! Ha finito di svolazzare, di prenderci in giro! E così, fratello mio Fandorin, mi venne di colpo una tale angoscia, come a trovarmi completamente solo al mondo e non avere più nessun motivo di vivere… Lo sapevo che sarebbe finita male, la volevo ammazzare io stesso, eppure… Tu mi hai visto, quando mi sei corso davanti? E io ero rimasto immobile, come in preda a una paralisi, non ti ho nemmeno chiamato. Mi trovavo come in una nebbia… Poi cominciò il prodigio, e più si andava avanti, più era tutto prodigioso. Tanto per cominciare si chiarì che Amalia era viva. Si vede che al buio l’avevi mancata. Lei urlò tanto e rimproverò tanto il servo, da far tremare le pareti. Ordina qualcosa in inglese, i suoi schiavi corrono, si danno da fare, frugano in giardino. Io ero fra i cespugli e mi nascondevo. In testa avevo la più totale confusione. Mi sento come il mediatore al whist. Gli altri sono tutti di mano, e a me tocca guardarli mentre giocano. Ma no, mi dico, non credano di avere a che fare con uno così. Zurov da che è nato non s’è mai lasciato buggerare. Là in giardino c’è un casotto chiuso con assi e chiodi, grande come due cucce di cane. Tolgo una tavola e mi metto lì appostato, non mi do pace. Tengo tutto sotto controllo, aguzzo gli occhi, ho le orecchie ben ritte. Il satiro che tende un agguato a Psiche. E fra di loro un’agitazione! Proprio come al corpo maggiore prima della rassegna dello zar. I servi ora escono di casa, ora entrano, Amalia urla, i postini portano telegrammi. Io non riesco a capire: che cosa avrà mai combinato il mio Erasm? Sembrava un ragazzino educato. Tu che cosa le hai fatto, eh? Le hai visto il giglio sulla spalla, o cosa? Non ha nessun giglio, né sulla spalla, né in nessun altro posto. Adesso raccontami, non mi tormentare.»

Erast Petrovič si limitò a fare un gesto impaziente con la mano, come a dirgli: continua, non è tempo per sciocchezze del genere.

«Insomma, avevi messo sottosopra il formicaio. Quel tuo defunto (Zurov fece un cenno in direzione del fiume, dove Porfirij Martynovič aveva trovato l’ultimo rifugio) venne due volte. La seconda volta già prima di sera…»

«Sei stato lì tutta la notte e tutto il giorno?» si meravigliò Fandorin. «Senza mangiare, senza bere?»

«Be’, senza mangiare posso restarci a lungo, sempre che ci sia da bere. Ma da bere l’avevo», disse Zurov battendo sulla fiasca. «Certo, ho dovuto razionarlo. Due sorsi all’ora.

È duro, ma durante l’assedio di Machram ho sopportato anche di peggio, te lo racconterò dopo. Per fare del moto un paio di volte sono uscito a salutare la cavalla. L’avevo legata alla cancellata di un parco lì vicino. Le strappo dell’erba, ci parlo un poco, perché non si annoi, e torno indietro, nella cabina. Da noi una cavallina indifesa l’avrebbero portata via in un attimo, ma il popolo di qui è fiacco, lento. Non ci arrivano col pensiero. Di sera la mia cavalla falba mi è anche tornata utilissima. Mentre il defunto (di nuovo Zurov accennò in direzione del fiume) veniva per la seconda volta, i tuoi avversari si sono messi in marcia. Immaginati la scena. Davanti, come un Bonaparte, Amalia in carrozza, sulla cassetta due baldi giovani. Dietro, in calesse, il defunto. Poi due servi in carrozzella. E più lontano nel buio della notte io in groppa alla mia cavalla falba, come Denis Davydov, e si vedono solo i quattro asciugamani che vanno in qua e in là nel buio.»Ippolit ridacchiò, guardò un attimo la striscia rossa dell’alba che si allungava lungo il fiume. «Arriviamo a casa del diavolo, sembrava proprio via Ligovka: casupole pidocchiose, depositi, sporco. Il defunto salì sulla carrozza di Amalia; a quanto pareva tenevano consiglio. Io legai la mia cavallina alla base di un cancello, guardo che altro succede. Il defunto entrò in una palazzina con una qualche insegna, si fermò una mezz’oretta. A questo punto le condizioni climatiche sono peggiorate. In cielo come una cannonata, la pioggia scroscia. Mi bagno fino alle ossa, ma aspetto, mi interessa. Di nuovo sbuca il defunto, corre nella carrozza di Amalia. Di nuovo, a quanto pare, tengono consiglio. E a me la pioggia cola lungo il colletto, e la borraccia comincia a vuotarsi. Volevo già fargli l’apparizione di Cristo in riva al lago Genezareth, cacciare via tutta quell’accozzaglia di gentucola, esigere una spiegazione da Amalia, ma vidi cose, che ce ne scampi il Signore.»«Un’apparizione?» chiese Fandorin. «Che luccicava?»

«Proprio così. Brrr, che brivido sulla pelle. Non ho capito subito che era Amalia. Si faceva di nuovo interessante. Ne ha fatte, di cose strambe. All’inizio è entrata in quella porta, poi è uscita per girare nel portone accanto, poi di nuovo si è cacciata nella porta. E i servi dietro. Poco dopo portano fuori non so che sacco ambulante. Questo io l’ho capito dopo, che ti avevano catturato, ma in quel momento non lo sapevo. Poi il loro esercito si è diviso così: Amalia e il defunto in carrozza, il calesse dietro a loro, mentre i servi col sacco, ovvero con te, andarono con la carrozzella nella direzione opposta. Bene, penso, il sacco non mi riguarda. Bisogna salvare Amalia, è finita in una brutta storia. Seguo con la mia cavalla la carrozza e il calesse, gli zoccoli tap tap, tap tap. Non andarono molto lontano — stop. Smontai di sella, tengo la mia cavalla falba per il muso, perché non nitrisca. Dalla carrozza scese il defunto, dice (la notte si era fatta calma, si sentiva da lontano): ‘No, anima mia, meglio che controlli. Ho un’inquietudine in cuore. È un dritto spaventoso il nostro ragazzo. E se avete bisogno di me, sapete dove cercarmi’. All’inizio mi agitai tutto: che ‘anima’ e ‘anima’ è mai lei per te, finocchio immondo. E poi ebbi un’illuminazione: non staranno mica parlando di Erasm?» disse Ippolit annuendo con la testa, chiaramente fiero della sua perspicacia. «Be’, il resto è semplice. Il cocchiere del calesse passò in serpa alla carrozza. Io seguii il defunto. Mi misi dietro quell’angolo, volevo capire tutto, come mai lo avevi fatto imbestialire. Ma voi parlavate piano, non riuscivo a sentire niente. Non ho pensato a sparare, e poi era troppo buio per sparare bene, ma lui ti avrebbe proprio ucciso, l’ho visto dalla sua schiena. Io, fratello mio, per cose del genere ho occhio. E che mira! Dimmi, non è mica per nulla che Zurov buca le monetine da cinque! Da quaranta passi esattamente alla nuca, e considera pure l’illuminazione.»

«Proprio quaranta non erano», disse Erast distratto, pensando ad altro.

«Come sarebbe a dire non erano quaranta?» si scaldò Ippolit. «E tu conta!» E stava perfino per mettersi a contare i passi (forse un po’ corti), ma Fandorin lo fermò.

«Adesso dove vai?»

Zurov si stupì: «Come dove vado? Ti riporto a un aspetto umano, poi tu mi spieghi per bene che cavolo di casino è successo fra di voi, pranziamo, e poi vado da Amalia. Le sparo, a quel serpente, che vada al diavolo. Oppure me la porto via. Dimmi solo una cosa, siamo alleati o rivali?»

«Allora facciamo così», disse Erast Petrovič aggrottando la fronte, stropicciandosi stancamente gli occhi. «Di aiutarmi non ce n’è bisogno — e uno. Spiegare non ti spiegherò nulla — e due. Far fuori Amalia, andrebbe bene, ma non vorrei che laggiù facessero fuori te — e tre. E non ti sono affatto rivale, quella lì mi disgusta dal più profondo dell’anima — e fa quattro.»

«Allora magari la cosa migliore è spararle», disse impensierito Zurov. «Addio, Erasm. Se Dio lo vorrà, ci rivedremo.»


Dopo gli sconvolgimenti notturni la giornata di Erast Petrovič, in tutta la sua intensità, risultò in certo qual modo sgangherata, come composta di frammenti separati, male connessi gli uni agli altri. Come se Fandorin avesse riflettuto, e avesse preso decisioni meditate, e avesse perfino agito, ma tutto questo fosse accaduto come da sé, al di fuori di uno scenario comune. L’ultima giornata di giugno restò impressa nella memoria del nostro eroe come una serie di quadri brillanti, fra i quali si aprivano dei vuoti.

Ecco la mattina, la riva del Tamigi nel quartiere dei docks. Un tempo calmo, c’è il sole, l’aria è fresca dopo la tempesta. Erast Petrovič è seduto sul tetto di latta del tozzo magazzino con indosso la sola biancheria. Accanto sono disposti i vestiti bagnati e gli stivali. Il gambale di uno stivale è scucito, al sole asciugano il passaporto aperto e le banconote. I pensieri dell’uomo uscito dalle acque si confondono, cambiano direzione, per tornare invariabilmente al binario principale.

Loro pensano che io sia morto, mentre invece sono vivo — e uno. Loro pensano che nessuno al mondo sappia di loro, ma io lo so — e due. La cartella è perduta — e tre. Nessuno mi crederà — e quattro. Mi chiuderanno in manicomio — e cinque…

No, ancora una volta. Loro non sanno che sono vivo — e uno. Smettono di cercarmi — e due. Prima che notino l’assenza di Pyžov, passerà del tempo — e tre. Adesso mi è possibile passare dall’ambasciata e inviare un messaggio cifrato al capo- e quattro…

No. All’ambasciata non si può. Cosa succede se laggiù fra i Giuda non c’era solo Pyžov? Amalia viene a saperlo, e ricomincia tutto daccapo. Questa storia insomma non si può confidare a nessuno. Solo al capo. Qui non va bene nemmeno un telegramma. Ne trarrebbe la conclusione che impressionato dall’Europa Fandorin è rimasto tocco di mente. Spedire una lettera a Mosca? Questo sarebbe possibile, però arriverebbe in ritardo.


Come fare? Come fare? Come fare?

Oggi secondo il calendario di qui è l’ultimo giorno di giugno. Oggi Amalia traccerà una linea sotto la sua contabilità del mese di giugno, e partirà per Pietroburgo il pacchetto indirizzato a Nicholas Croog. Per primo cadrà il consigliere effettivo di Stato, benemerito, con bambini. Lui vive là, a Pietroburgo, lo raggiungono in quattro e quattr’otto. Piuttosto stupido da parte loro, scrivere da Pietroburgo a Londra, per ricevere di nuovo la risposta a Pietroburgo. Costi di produzione della congiura. È evidente che le filiali dell’organizzazione segreta non sanno dove si trova lo Stato maggiore. A meno che lo Stato maggiore non si sposti da un paese all’altro… Adesso si trova a Pietroburgo, ma fra un mese sarà da qualche altra parte ancora. O magari non è uno Stato maggiore, ma una sola persona? Chi, Croog? Sarebbe troppo semplice, ma questo Croog bisogna arrestarlo con il pacchetto.

Come fermare il pacchetto?

Non c’è verso. È impossibile.

Alt. Fermarlo non si può, però lo si può anticipare! Quanti giorni ci mette la posta fino a Pietroburgo?


La scena successiva accade alcune ore dopo, nello studio del direttore del distretto postale centro-orientale della città di Londra. Il direttore è lusingato — Fandorin si è presentato come un principe russo — e lui lo chiama prince e Your Highness, pronunciando il titolo con soddisfazione non celata. Erast Petrovič indossa un elegante soprabito da mattino e tiene in mano un sottile bastone, senza il quale un vero principe è impensabile.

«Mi dispiace molto, prince, ma la vostra scommessa sarà perduta», spiega già per la terza volta il direttore postale al poco perspicace russo. «Il vostro paese è membro dell’Alleanza postale mondiale istituita due anni fa, che unisce 22 Stati con una popolazione di più di 350 milioni di persone. In questo spazio vigono gli stessi regolamenti e tariffe uniche. Se una lettera viene spedita da Londra oggi, 30 giugno, con la posta espressa, non c’è modo che voi possiate arrivare prima: esattamente sei giorni dopo, la mattina del 6 luglio, si troverà all’ufficio postale di Pietroburgo. Be’, non il 6, ma che giorno sarebbe secondo il vostro calendario?»

«Perché la lettera ci sarà e io no?» chiede il «principe» che non riesce a farsene una ragione. «Non volerà mica sull’aria!»

Con espressione grave il direttore gli spiega: «Vedete, vostra altezza, i pacchetti con il timbro ‘espresso’ vengono inviati senza un minuto di indugio. Supponiamo che voi saliate alla stazione di Waterloo sullo stesso treno col quale viene spedita una lettera espressa. A Dover prendete lo stesso vaporetto. A Parigi, alla Gare du Nord, anche lì arrivate insieme.»

«E allora cosa c’è che non va?»

«Questo non va», dice trionfante il direttore, «che non esiste nulla di più veloce della posta espressa! Al vostro arrivo a Parigi, a voi tocca trasferirvi sul treno per Berlino. Bisogna comprare il biglietto, che non avete prenotato in anticipo. Bisogna trovare un cocchiere e attraversare l’intero centro fino all’altra stazione. Bisogna aspettare il treno per Berlino, che parte una volta al giorno. Adesso torniamo al nostro espresso. Dalla Gare du Nord, lungo la ferrovia circolare, raggiunge su uno speciale vagone postale a mano il primo treno che parte in direzione orientale. Potrebbe anche non essere un treno passeggeri, ma un merci con vagone postale.»

«Ma io potrei fare lo stesso!» esclama eccitato Erast Petrovič.

«Magari da voi in Russia è anche permesso, ma non in Europa. Mmm, supponiamo, un francese si può anche comprare, ma quando si tratterà di cambiare a Berlino non otterrete nulla: in Germania i funzionari postali e ferroviari sono noti per la loro incorruttibilità.»

«Possibile sia tutto perduto?» esclama in russo Fandorin, finalmente giunto alla disperazione.

«Come avete detto, scusate?»

«Così ritenete che ho perso la mia scommessa?» chiede abbattuto il «principe», tornando all’inglese.

«E a che ora è partita la lettera? Del resto, non ha importanza. Se anche voi vi precipitaste da qui direttamente alla stazione, sarebbe comunque tardi.»

Le parole dell’inglese ebbero un effetto magico sull’aristocratico russo.

«A che ora? Ma certo! Oggi è ancora giugno! Morbid prenderà le lettere solo alle dieci di sera! Il tempo che lei ricopia… E dovrà pure cifrare! È chiaro che non le spedisce direttamente così, le lettere, con il testo normale. Per forza lo deve cifrare, come no! E questo vuol dire che il pacchetto partirà soltanto domani! E arriva non il sei, ma il sette! Secondo il nostro calendario, il 25 di giugno! Ho un giorno di vantaggio!»

«Non ci capisco niente, prince», disse il direttore allargando le braccia, ma ormai Fandorin non era più nel suo ufficio; la porta gli si era appena richiusa alle spalle.

Lo inseguono queste parole: «Your Highness, il vostro bastone!… Oh, questi boiari russi!»

Eccoci, finalmente, alla sera di questa giornata piena di fatiche come di una nebbia fitta, eppure tanto importante. Le acque della Manica. Sul mare gli eccessi dell’ultimo tramonto di giugno. Il vaporetto Duke of Gloucester segue la rotta per Dunkerque. Fandorin sta in prua come un vero britannico: berretto, vestito a quadretti e mantella scozzese. Guarda sempre in avanti, verso la costa francese, che si avvicina tormentosamente piano. Erast Petrovič non si è voltato nemmeno una volta a guardare le gessose scogliere di Dover.

Le sue labbra borbottano: «Se solo avesse aspettato fino a domani con la spedizione. Se solo avesse aspettato…»

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