SESTO CAPITOLO

in cui compare l’uomo del futuro

«Statevene sdraiato, colombello mio, statevene sdraiato», disse dalla soglia Ksaverij Feofilaktovič quando tutto confuso Fandorin buttò giù le gambe dal ruvido divano. «Cosa vi ha detto il dottore? So tutto, mi sono informato. Dopo le dimissioni dall’ospedale, due settimane di regime a letto, così la ferita si rimargina come si deve e il cervello scosso torna a posto, ma voi non sono nemmeno dieci giorni che siete a letto.»

Si mise a sedere e si nettò col fazzoletto a quadretti la paonazza calvizie.

«Uff, se scotta, il sole, eccome se scotta! Vi ho portato del marzapane e delle ciliegie, se volete favorire. Dove ve le metto?»

Il commissario diede un’occhiata alla cameretta, stretta come una trincea, in cui dimorava il registratore di collegio. Non c’era dove appoggiare l’involto con i doni: sul divano stava sdraiato il padrone di casa, sulla sedia si era seduto lui stesso, sul tavolo troneggiavano pile di libri. Nella camera non c’erano altri mobili, nemmeno un armadio, e i numerosi articoli del guardaroba erano appesi a dei chiodi sulle pareti.

«Allora, vi fa male?»

«Per niente», mentì un tantino Erast Petrovič. «Per me i punti li possono togliere pure domani. Mi ha preso solo di striscio alle costole, per il resto nulla. E la testa è completamente a posto.»

«Ma no, riguardatevi un po’, tanto lo stipendio arriva lo stesso», disse Ksaverij Feofilaktovič aggrottando la fronte con aria colpevole. «Non prendetevela, mio caro, se non sono venuto a trovarvi per così tanto tempo. Chissà che brutte cose avrete pensato di questo vecchio, vi sarete detto, quando c’è da stendere il rapporto, corre subito all’ospedale, ma dopo, appena non gli servo più, nemmeno mostra il naso. Ho mandato a informarsi dal medico, ma non mi è assolutamente riuscito di venire a trovarvi. Da noi in direzione succedono tante di quelle cose, siamo indaffarati notte e giorno, parola d’onore.»Il commissario scosse il capo e abbassò confidenzialmente la voce. «Quel vostro Achtyrzev mica era uno qualsiasi, era nientemeno che il nipote prediletto di sua eccellenza il cancelliere Korčakov.»

«Cosa mi dite mai!» esclamò Fandorin.

«Suo padre è ambasciatore in Olanda, dove ha contratto seconde nozze, e a Mosca il vostro conoscente abitava dalla zia, la principessa Korčakova, nel palazzo di sua proprietà in via Goncarova. L’anno scorso la principessa ha reso l’anima, e gli ha lasciato in eredità ogni suo bene, mentre lui già dalla sua defunta madre aveva ereditato moltissimo. Oh, e sapeste che trambusto è cominciato da noi, adesso ve lo racconto. Tanto per cominciare hanno chiesto di mettere la pratica sotto il controllo personale del governatore generale, del principe Dolgorukij in persona. Ma non c’è nessuna pratica, e non si sa dove andare a parare. L’assassino a parte voi non l’ha visto nessuno. Della Bežezkaja si è persa ogni traccia, come vi avevo già detto l’altra volta. La casa è vuota. Non ci sono né servi né carte. Come cercare un ago nel pagliaio. Non si capisce chi è, non si sa da dove è arrivata. Dai documenti risulta una nobildonna di Wilna. Sono state richieste informazioni a Wilna, ma sotto quel nome non risulta nessuno. D’accordo. Mi convoca una settimana fa sua eminenza. ‘Non te la prendere, Ksaverij’, mi dice, ‘ti conosco da tanto tempo e rispetto la tua coscienziosità, ma questa faccenda non è alla tua portata. Verrà un investigatore specializzato da Pietroburgo, un funzionario con mandato particolare presso il capo dei gendarmi e il responsabile della Terza sezione di sua eccellenza illustrissima aiutante generale Mizinov Lavrentij Arkadevič.’ Capisci di che pesce si tratta? Uno dei nuovi, di quelli che non sono di estrazione nobile, un uomo del futuro. Fa tutto in modo scientifico. Un maestro per le questioni complesse, niente a che vedere con noi due», spiegò Ksaverij Feofilaktovič con un risentito colpo di tosse. «Quindi lui sarebbe un uomo del futuro, mentre io, Grušin, sono un uomo del passato. Benissimo. È arrivato di mattina, tre giorni fa. Sarebbe a dire mercoledì, il ventidue. Si chiama Ivan Franzevič Brilling, ha il rango di consigliere di Stato. A soli trent’anni! E così si comincia anche da noi. Oggi è sabato, e quello ci fa venire tutti in ufficio alle nove di mattina. E ieri fino alle undici di sera non abbiamo fatto che conferire, tracciare schemi. Vi ricordate il buffet, dove si beveva il tè? Adesso lì al posto del samovar c’è un’attrezzatura per il telegrafo e un telegrafista di servizio giorno e notte. Si può mandare un dispaccio fino a Vladivostok, anche fino a Berlino, e la risposta arriva subito. Ha liquidato metà degli agenti, si è portato dietro da Pietroburgo metà dei suoi, obbediscono solo a lui. Mi ha interrogato meticolosamente su ogni cosa e mi ha ascoltato con attenzione. Ho pensato: adesso mi manda in congedo, ma no, gli faceva ancora comodo il commissario Grušin. Io, colombello mio, ma ecco per cosa sono venuto da voi», si ricordò Ksaverij Feofilaktovič. «Vi voglio mettere sull’avviso. Aveva intenzione di venire oggi a trovarvi, intende interrogarvi di persona. Voi non confondetevi, non c’è nessuna accusa contro di voi. Siete perfino rimasto ferito nell’adempimento del dovere. E non fate sfigurare il vostro vecchio. Chi l’avrebbe mai detto, che la faccenda avrebbe preso una piega del genere?»

Erast Petrovič guardò con rammarico il suo misero abitacolo. Bella impressione avrebbe fatto al grand’uomo di Pietroburgo!

«Non sarebbe meglio se venissi io stesso in direzione? Ormai, parola d’onore, sono del tutto guarito.»

«Non ci pensate nemmeno!» rispose il commissario con un gesto del braccio. «Così capisce che vi sono venuto ad avvertire. Statevene lì buono sdraiato. Si è annotato il vostro indirizzo, verrà sicuramente oggi.»


L’uomo del futuro arrivò la sera, alle sette, ed Erast Petrovič ebbe tutto il tempo di prepararsi come si deve. Disse ad Agrafena Kondratevna che sarebbe venuto un generale, e che quindi Malaska lavasse almeno il pavimento vicino all’ingresso, levasse di torno quel baule marcio e soprattutto non le saltasse in mente di preparare la minestra di cavoli. In camera sua il ferito fece pulizia completa: appese i vestiti ai chiodi nel miglior modo possibile, spostò i libri sotto al letto, sul tavolo lasciò soltanto un romanzo francese, i Saggi filosofia di David Hume in inglese e il Diario di un investigatore parigino di Jean Debré. Poi tolse il Debré e al suo posto mise Istruzione sul corretto modo di respirare del vero bramino indiano signor Chandra Johnson, di cui si serviva ogni mattina per l’esecuzione di esercizi ginnici e per temprare lo spirito. Venga pure quel maestro di questioni complicate, venga a vedere come qui abita un uomo che, per quanto povero, non si è lasciato andare. Per sottolineare la gravità della sua ferita, Erast Petrovič mise sulla sedia accanto al divano una boccetta contenente chissà quale mistura (se la fece prestare da Agrafena Kondratevna), si sdraiò e si avvolse la testa in una sciarpa bianca. Gli sembrò di avere ottenuto quel che ci voleva: un insieme di dolore e coraggio.

Finalmente, quando ormai stare sdraiato gli era venuto spaventosamente a noia, bussarono piano piano alla porta, e subito, senza aspettare una risposta, entrò un signore energico, con una comoda giacca leggera, dei pantaloni chiari e il capo scoperto. I capelli biondicci pettinati con cura lasciavano libera la fronte alta, gli angoli della bocca volitiva erano segnati da due piccole rughe beffarde, e anche dal mento rasato, con la fossetta, spirava spigliatezza. I penetranti occhi grigi esaminarono in un attimo la camera e si fermarono su Fandorin.

«Vedo che non ho bisogno di presentarmi», disse l’ospite con allegria. «L’essenziale su di me già lo sapete, sia pure in una luce sfavorevole. Grušin si è già lamentato del telegrafo?»

Erast Petrovič sbatté gli occhi e non disse nulla in risposta.

«Questo è il metodo deduttivo, carissimo Fandorin. La ricostruzione del quadro generale in base ad alcuni piccoli dettagli. In questo la cosa principale è non esagerare, non arrivare a una conclusione inesatta, qualora i dati a disposizione ne consentano più d’una. Ma di questo parleremo più avanti, ne avremo tutto il tempo. Quanto a Grušin, è semplicissimo. La vostra padrona di casa mi si è inchinata quasi fino a terra e mi ha chiamato ‘eccellenza illustrissima’ — e uno. Io, come potete vedere, non ho affatto l’aria di un’eccellenza illustrissima, e nemmeno lo sono per il momento, perché il mio rango rientra soltanto nella categoria delle ‘vostre signorie’ — e due. Non ho parlato a nessuno salvo a Grušin della mia intenzione di venire a trovarvi — e tre. È chiaro che a proposito della mia attività il signor commissario investigativo poteva esprimersi soltanto in un modo poco lusinghiero — e quattro. Quanto al telegrafo, di cui, nelle indagini contemporanee, ne converrete, non si può assolutamente fare a meno, ha fatto in tutto il vostro dipartimento un’impressione davvero indelebile, e il nostro sonnolento Ksaverij Feofilaktovič non poteva proprio passarlo sotto silenzio — e cinque. Non è forse così?»

«Proprio così», riconobbe uno stupefatto Fandorin tradendo vergognosamente il buon Ksaverij Feofilaktovič.

«E voi ancora così giovane già soffrite di emorroidi?» chiese senza tanti complimenti l’ospite, trasferendo la miscela sul tavolo per mettersi a sedere.

«No!» esclamò Erast Petrovič avvampando e rinnegando a un tempo anche Agrafena Kondratevna. «È la mia padrona di casa che ha fatto confusione. Quella lì, vostra signoria, confonde sempre tutto. È una donna senza il benché minimo discernimento…»

«Capito. Chiamatemi Ivan Franzevič, o meglio ancora, semplicemente ‘capo’, visto che lavoreremo insieme. Ho letto il vostro rapporto», continuò Brilling senza la minima transizione. «Una cosa intelligente. Buona capacità di osservazione. Si vedono i risultati. Sono piacevolmente sorpreso del vostro intuito: nel nostro lavoro questa è la cosa più preziosa di tutte. Ancora prima di sapere come si svilupperà la situazione, è il fiuto che ci suggerisce quali misure prendere. Come avete fatto a indovinare che la visita dalla Bežezkaja avrebbe potuto rivelarsi pericolosa? Come mai avete ritenuto necessario indossare un giubbotto di sicurezza? Bravo!»

Erast Petrovič avvampò ancora più di prima.

«Sì, pensato proprio bene. Da una pallottola, certo, non protegge, ma con un’arma da taglio non è niente male. Darò ordine che acquistino una partita di quei busti per gli agenti inviati in missioni pericolose. Che marca è?»

Fandorin rispose timidamente: «Lord Byron».

«Lord Byron», ripetè Brilling, prendendo nota su un libretto rilegato in cuoio. «E adesso ditemi, quando potreste tornare al lavoro? Ho mire particolari su di voi.»

«Oddio, anche domani!» esclamò con foga Fandorin, guardando con amore il suo nuovo superiore, o per meglio dire capo. «Domani faccio una corsa dal dottore, mi tolgo i punti, e potrete contare su di me.»

«Magnifico. La vostra descrizione della Bežezkaja?»

Erast Petrovič, con un certo imbarazzo, prese a dire in modo piuttosto sconclusionato e aiutandosi con ampi gesti: «Quella è… è una donna rarissima. Una Cleopatra. Una Carmen… Una bellezza indescrivibile, ma non è nemmeno una questione di bellezza… Ha uno sguardo magnetico. No, non è nemmeno lo sguardo… Ecco la cosa principale: in lei si avverte una forza immensa. Una forza tale, che è come giocasse con tutti. È un gioco con certe sue regole incomprensibili, però crudele. Secondo me è una donna molto corrotta e al tempo stesso… del tutto innocente. Come se non l’avessero educata nell’infanzia. Non so come spiegarmi…»Fandorin arrossì, comprendendo che avrebbe detto una sciocchezza, ma concluse lo stesso: «Ho l’impressione che non sia così malvagia come vorrebbe far credere».

Il consigliere di Stato scrutò il giovane e fischiò con fare sbarazzino: «Ecco cos’è… Proprio come avevo pensato. Adesso vedo che Amalia Bežezkaja è una persona davvero pericolosa… In particolare per giovani romantici nel periodo della maturazione sessuale».

Soddisfatto dell’effetto che questo scherzo aveva prodotto sul suo interlocutore, Ivan Franzevič si alzò in piedi e si guardò intorno ancora una volta.

«Per questo buco pagate dieci rubli?»

«Dodici», rispose con sussiego Erast Petrovič.

«Una scenografia nota. Anch’io vivevo così un tempo. Quando andavo al liceo nella gloriosa città di Charkov. Io, vedete, proprio come voi, ho perso i genitori in tenera età. Ma, per la formazione della personalità questo è addirittura utile. E di stipendio avete trentacinque rubli d’argento, in base al rango?» chiese, ancora una volta senza la minima transizione, il consigliere di Stato.

«Ricevo anche un supplemento trimestrale per gli straordinari.»

«Darò ordine che vi diano cinquecento rubli premio dal fondo speciale. Per lo zelo e il pericolo corso. Allora, a domani. Passate da me, lavoreremo sulle ipotesi.»

Al che la porta si richiuse dietro lo stupefacente visitatore.


In effetti la direzione dell’investigativo era irriconoscibile. Per i corridoi trottavano con aria affaccendata signori sconosciuti con certe cartelle sottobraccio, e perfino i precedenti collaboratori camminavano non più ciondoloni, ma con un’aria sicura, tesa. Nella stanza da fumo — meraviglia delle meraviglie — non c’era un’anima. Erast Petrovič diede per curiosità un’occhiata all’ex buffet, e proprio così, al posto del samovar e delle tazze sul tavolo c’era l’apparecchiatura Bodeau, mentre un telegrafista col giubbotto dell’uniforme guardò l’intruso con aria severa e interrogativa.

Lo Stato maggiore investigativo aveva preso posto nel gabinetto del capo della direzione, questo perché a partire dal giorno prima il signor colonnello era stato destituito. Erast Petrovič, ancora piuttosto pallido dopo la dolorosa procedura dell’estrazione dei punti, bussò e si affacciò al l’interno. Anche il gabinetto era cambiato: le comode poltrone in cuoio erano scomparse, e al loro posto si vedevano tre file di semplici sedie, mentre al muro erano attaccate due lavagne scolastiche completamente ricoperte di schemi. A quanto pareva si era appena conclusa una riunione: Brilling si stava ripulendo con uno straccio le mani impolverate di gesso, mentre i funzionari e gli agenti, scambiandosi le loro opinioni con aria preoccupata, si dirigevano verso l’uscita.

«Entrate, Fandorin, entrate, non state a gingillarvi sulla soglia», disse il nuovo padrone del gabinetto facendo fretta all’intimidito Erast Petrovič. «Vi siete fatti rammendare? Benissimo. Lavorerete direttamente con me. Non vi assegno nessun tavolo, tanto avrete ben poco da star seduto. Peccato che siete arrivato tardi, abbiamo avuto una discussione molto interessante a proposito dello ‘Azazel’ del vostro rapporto.»

«Allora esiste davvero? Non ho sentito male?» chiese Erast Petrovič aguzzando le orecchie. «E dire che stavo già cominciando a temere di essermi sognato tutto.»

«Non ve lo siete sognato. Azazel è l’angelo caduto. Che voto vi hanno dato in catechismo? Ve lo ricordate il capro espiatorio? Allora, se ben ricordate, ce n’erano due. Uno veniva destinato a Dio per la remissione dei peccati, l’altro ad Azazel perché non si adirasse. Nel libro di Enoch degli ebrei Azazel insegna agli uomini stupidaggini di ogni genere: ai maschi a guerreggiare e a fabbricare le armi, alle femmine a truccarsi il viso e a liberarsi di un feto. Per dirla in breve, un demonio sedizioso, lo spirito della cacciata.»

«Ma cosa può voler dire tutto questo?»

«Un assessore di collegio dei vostri di Mosca ha elaborato un’intera ipotesi. A proposito di un’organizzazione segreta giudaica. Ha parlato del Sinedrio ebraico, e del sangue dei fanciulli cristiani. A dar retta a lui la Bežezkaja diventa una figlia di Israele, e Achtyrzev l’agnello offerto sull’altare sacrificale del dio ebraico. Tutto sommato, una fesseria. Questi deliri giudeofobi li conosco fin troppo bene da Pietroburgo. Se capita una disgrazia, e il motivo non è chiaro, subito chiamano in causa il Sinedrio.»

«E quale sarebbe la vostra supposizione… capo?» chiese Fandorin pronunciando non senza un fremito interiore l’insolito appellativo.

«Guardate qui», disse Brilling avvicinandosi a una delle lavagne. «Questi quattro cerchietti in alto rappresentano quattro ipotesi. Il primo cerchietto, come vedete, ha un punto interrogativo. È l’ipotesi meno verosimile: l’assassino ha agito per conto suo, e lei e Achtyrzev siete stati le sue vittime casuali. Magari un maniaco con la fissazione del demonismo. Qui ci troviamo in un vicolo cieco, fintanto che non si verificheranno nuovi crimini analoghi. Ho spedito interrogazioni con il telegrafo in tutti i governatorati, per sapere se ci sono stati assassini analoghi. Dubito del successo — se un maniaco di questo genere avesse già fatto parlare di sé, lo saprei. Il secondo cerchietto con le lettere AB — è Amalia Bežezkaja. Una donna indubbiamente sospetta. Da casa sua avrebbero potuto facilmente pedinare lei e Achtyrzev fino al Crimea. E poi c’è la fuga. Però non si capisce il motivo dell’assassinio.»

«Se è scappata, vuol dire che è coinvolta», disse con fervore Fandorin. «E vien fuori che l’uomo dagli occhi bianchi non ha agito da solo.»

«Questo non è un fatto, è lungi dall’essere un fatto. Sappiamo che Bežezkaja era uno pseudonimo e che viveva sotto un passaporto falso. Probabilmente un’avventuriera. Probabilmente viveva a spese di ricchi protettori. Ma assassinare, e per mano di un signore così svelto? A giudicare dal vostro rapporto, non era un dilettante, ma un assassino professionista di tutto rispetto. Quel colpo al fegato è un lavo retto da gioielliere. Sono stato all’obitorio, ho visionato Achtyrzev. Non fosse stato per il busto, adesso lì ci sareste anche voi, e la polizia l’avrebbe considerata una rapina oppure una rissa fra ubriachi. Ma torniamo alla Bežezkaja. Potrebbe avere appreso dell’accaduto da qualcuno della servitù. Il Crimea è a pochi minuti di cammino da casa sua. C’è stato molto chiasso: la polizia, il trambusto fra i passanti. Qualcuno della servitù oppure, mettiamo, il portinaio ha riconosciuto nell’ucciso l’ospite della Bežezkaja e glielo ha detto. Lei, nel ragionevole timore di un’istruttoria di polizia e dell’inevitabile smascheramento, si è immediatamente nascosta. A questo fine, di tempo ne aveva più che a sufficienza: il vostro Ksaverij Feofilaktovič è arrivato col suo ordine di perquisizione solo l’indomani dopo mezzogiorno. So tutto: voi eravate sotto choc, non siete tornato subito in voi. Ora che dettavate il rapporto, ora che alla direzione si grattavano la nuca… Comunque ho ordinato un’inchiesta sulla Bežezkaja. La cosa più probabile è che lei non sia più a Mosca. Penso che non sia nemmeno in Russia — scherziamo, sono passati dieci giorni. Facciamo una lista di quelli che andavano da lei, ma questo per lo più sono persone molto solide, ci vuole la mano delicata. Solo uno mi ispira sospetti seri.»

Ivan Franzevič batté con la bacchetta il terzo cerchietto, dove stava scritto CZ.

«Conte Zurov, Ippolit Aleksandrovič. Con ogni probabilità l’amante della Bežezkaja. Un uomo senza la benché minima base morale, un giocatore, un duellista, uno strampalato. Tipo Tolstoj l’americano. Disponiamo di indizi indiretti. È uscito in uno stato di forte agitazione dopo il litigio con l’ucciso — e uno. Aveva la possibilità sia di appostarsi, sia di pedinare, sia di mandare l’assassino — e due. Il portinaio ha testimoniato che a casa Zurov c’è tornato solo verso il mattino — e tre. Ci sarebbe anche il movente, sia pure fragilino: la gelosia oppure una vendicatività patologica. Magari c’era anche dell’altro. Il dubbio principale: Zurov non è tipo da uccidere per mano altrui. Del resto, secondo informazioni raccolte dagli agenti, gli girano sempre intorno tipi loschi d’ogni genere, così che questa ipotesi non è priva di prospettive. Voi, Fandorin, vi occuperete proprio di questa. C’è un intero gruppo di agenti che lavora su Zurov, ma voi agirete in proprio, a voi riesce bene. I particolari del vostro compito li discuteremo dopo, adesso passiamo all’ultimo cerchietto. Di questo mi occupo io stesso personalmente.»

Erast Petrovič aggrottò la fronte, nel tentativo di capire cosa significassero le lettere ON.

«Organizzazione nichilista», spiegò il capo. «Qui ci sono alcuni elementi di un complotto, però non ebraico, ma qualcosa di più serio. Ed è appunto per questo che sono stato inviato io. Naturalmente me lo ha chiesto anche il principe Korčakov. Come sapete, Nikolaj Achtyrzev era figlio di sua figlia defunta. Eppure qui potrebbe rivelarsi tutto assai complicato. I nostri rivoluzionari russi sono al limite della scissione. Ai più decisi e impazienti di questi Robespierre è venuto a noia illuminare i contadini; è una cosa lunga, laboriosa, una sola vita non basta. La bomba, il pugnale e la rivoltella sono di gran lunga più interessanti. Mi aspetto da un momento all’altro un grande spargimento di sangue. Tutto quanto è avvenuto finora sono solo rose e fiori. Il terrore contro la classe dirigente potrebbe assumere proporzioni di massa. Da un po’ di tempo a questa parte mi occupo alla Terza sezione delle pratiche riguardanti i gruppi terroristici più sfrenati e cospiratori. Il mio patrono, Lavrentij Arkadevič Mizinov, che è a capo del corpo dei gendarmi della Terza sezione, mi ha incaricato di chiarire cosa mai si nasconda a Mosca sotto il nome di Azazel. Il demonio è un simbolo oltremodo rivoluzionario. Dopotutto qui, Fandorin, la sorte della Russia è appesa a un filo.»Della consueta aria beffarda di Brilling non era rimasta traccia, nella voce gli risuonava l’esasperazione. «Se non operiamo il tumore sul nascere, questi romantici tempo trent’anni, e magari anche prima, ci fanno scoppiare una rivoluzione tale, che al confronto la ghigliottina francese non parrà altro che un gioco di ragazzi. Non ci lasceranno invecchiare in pace a noi due, ricordatevi le mie parole. Avete letto il romanzo I demoni del signor Dostoevskij? Peccato. Lì viene data una prognosi molto eloquente.»

«Quindi ci sarebbero quattro ipotesi?» chiese incerto Erast Petrovič.

«Vi sembrano poche? C’è forse qualcosa di cui non abbiamo tenuto conto? Parlate, parlate, sul lavoro io non bado ai ranghi», lo incoraggiò il capo. «E non abbiate paura di apparire ridicolo, questo è perché siete giovane. Meglio dire una stupidaggine che perdere di vista qualcosa di importante.»

Fandorin, all’inizio confuso, e poi con fervore vieppiù crescente cominciò a dire: «A me pare, vostra sign… volevo dire, capo, che sbagliate a non prendere in considerazione lady Esther. Certo, è una persona molto rispettabile e ragguardevole, ma… ma dopotutto si tratta di un testamento da nababbi! La Bežezkaja non ne aveva nessun vantaggio, il conte Zurov nemmeno, i nichilisti, a meno di vederla dal punto di vista del bene sociale… Io non so cosa c’entri qui lady Esther, magari non c’entra per niente, ma nell’ordine delle cose bisognerebbe… Dopotutto è anche un principio investigativo: cui prodest, ‘cerca a chi conviene’».

«Grazie della traduzione», disse Ivan Franzevič con un inchino, suscitando l’imbarazzo di Fandorin. «Un’osservazione giustissima, però nel racconto di Achtyrzev così come lo riportate nel vostro rapporto, viene tutto spiegato nel più esauriente dei modi. Il nome della baronessa Esther è stato fatto per caso. Non l’ho inclusa nell’elenco dei sospetti, in primo luogo perché il tempo costa, e in secondo luogo, anche per questo, che questa signora io un po’ la conosco, ho avuto il piacere di incontrarla», disse Brilling con un bel sorriso. «Del resto, Fandorin, avete perfettamente ragione. Non voglio imporvi le mie conclusioni. Pensate con la vostra testa, non credete a nessuno sulla parola. Andate a trovare la baronessa, chiedetele quanto riterrete necessario. Sono convinto che questa conoscenza, a parte tutto, sarà per voi anche un piacere. All’ufficio della guardia di turno vi sarà comunicato l’indirizzo moscovita di lady Esther. E fate anche questo: prima di uscire passate in sartoria, fatevi prendere le misure. Non fatevi più vedere al lavoro in uniforme. Un inchino alla baronessa da parte mia, e dopo che sarete tornato rinsavito, ci metteremo al lavoro, ovverosia ci occuperemo del conte Zurov.»

Загрузка...