QUINTO CAPITOLO

in cui serie spiacevolezze attendono il protagonista

Sulla strada, respirando l’aria fresca, Achtyrzev si riprese un poco, riusciva a star fermo sulle gambe, senza barcollare, ed Erast Petrovič" credette di non doverlo più sostenere sotto il gomito.

«Andiamo fino a via Sretenka», gli disse. «Là vi troverò un vetturino. C’è molto da qui fino a casa vostra?»

«Fino a casa?» Nella luce ineguale del fanale al cherosene il pallido viso dello studente sembrava una maschera. «No, a casa per nessuna ragione al mondo! Andiamocene insieme da qualche parte, che ne dite? Ho voglia di chiacchierare un po’. L’avete visto voi… come mi trattano quelli. Come vi chiamate? Me lo ricordo, Fandorin, buffo cognome. Io mi chiamo Achtyrzev. Nikolaj Achtyrzev.»

Erast Petrovič accennò un inchino, e intanto cercava di risolvere un complesso problema morale: se non fosse eccessivamente scorretto approfittare dello stato di debolezza di Achtyrzev per farsi dare da lui le informazioni necessarie, visto che il «gobbo», a quanto pareva, era in vena di confidenze.

Decise che non c’era nulla di male, si poteva. Non aveva certo la forza di opporsi a tanto fervore investigativo.

«Qui vicino c’è il Crimea», considerò Achtyrzev. «E non c’è bisogno di prendere una vettura, possiamo arrivarci a piedi. Certo, è un postaccio, in compenso il vino è buono. Venite con me? Offro io.»

Fandorin non si mise a fare lo smorfioso, e lentamente (lo studente comunque non si teneva bene in piedi) si trascinarono per il vicolo buio in direzione delle luci di via Sretenka che brillavano lontane.

«Voi, Fandorin, probabilmente mi considerate un vigliacco, vero?» gli chiese Achtyrzev con la lingua impastata. «Perché non ho sfidato a duello il conte, ho sopportato l’offesa e per di più mi sono finto ubriaco? Io non sono un vigliacco, potrei anche raccontarvi qualcosa da convincervene… Dopotutto lui faceva apposta a provocarmi. Magari è stata lei a incitarlo per sbarazzarsi di me e non pagare il suo debito… Oh, quella è una donna, voi non la conoscete!… E per Zurov ammazzare un uomo è lo stesso che schiacciare una mosca. Ogni mattina si esercita un’ora con la pistola. Dicono riesca a prendere una moneta da cinque copechi a venti passi di distanza. Sarebbe forse stato un duello? Lui non avrebbe rischiato nulla. Sarebbe stato un assassinio, però con un bel nome. E, soprattutto, Zurov non ne avrebbe pagato le conseguenze, se la sarebbe cavata. Se l’è già cavata più di una volta. Sì, passerà qualche mese fuori dalla Russia, farà una vacanza. E poi adesso io voglio vivere, me ne sono guadagnato il diritto.»

Svoltarono da via Sretenka in un altro vicolo, assai misero ma se non altro con i fanali a gas e non più a cherosene, e davanti a loro si disegnò un edificio a tre piani con le finestre bene illuminate. Doveva essere quello il Crimea, pensò con un tuffo al cuore Erast Petrovič che aveva sentito tanto parlare di quel nido del libertinaggio, famoso in tutta Mosca.

Nel vasto porticato brillante di lampade nessuno si fece loro incontro. Achtyrzev con gesto da habitué spinse l’alta porta intarsiata, che gli cedette facilmente, e incontro a loro alitò un tepore di cucina e di alcolici, si levò un boato di voci e uno stridere di violini.

Consegnati al guardaroba i cilindri, i giovani finirono nelle grinfie di un tipo baldanzoso in camicia rossa, il quale si rivolgeva ad Achtyrzev chiamandolo «eccellenza» e promise il tavolino migliore, tenuto apposta da parte.

Il tavolino era vicino al muro e, grazie a Dio, lontano dalla scena su cui un coro zigano vociava e scuoteva i tamburelli.

Erast Petrovič, che per la prima volta in vita sua si trovava in un vero covo di perdizione, cominciò a girare la testa da ogni parte. Il pubblico era dei più variopinti, ma gente sobria, a quanto pareva, non se ne vedeva proprio. Il tono lo davano dei giovani bottegai e operatori di borsa con la scriminatura impomatata — si sa chi ha soldi al giorno d’oggi, ma ci capitavano anche signori dall’aspetto incontrovertibilmente nobiliare, qua e là brillava perfino un monogramma in oro sulla spallina di un militare altolocato. Ma più di tutto suscitavano l’interesse del giovane le ragazze che andavano a sedersi ai tavoli al primo gesto d’invito. Avevano scollature tali da far arrossire Erast Petrovič, mentre le gonne con gli spacchi facevano intravedere impudicamente ginocchia rotonde fasciate da calze traforate.

«Che fate, guardate le ragazze?» sogghignò Achtyrzev, ordinando al cameriere del vino e due piatti del giorno. «Io invece, dopo Amalia, nemmeno le considero esseri di sesso femminile. Quanti anni avete, Fandorin?»

«Ventuno», rispose Erast Petrovič aggiungendosi un annetto.

«Io ne ho ventitré, e ne ho già viste di cose. Non statevene lì a bocca aperta davanti a quelle in vendita, non meritano né denaro né tempo. E subito dopo viene la nausea. Se proprio bisogna amare, che sia un’imperatrice! Sebbene, cosa sto a dirvi… Dopotutto non ci sarete finito per caso da Amalia? Vi ha stregato? Questo le piace molto, mettere insieme una collezione, e che i pezzi esposti si rinnovino di continuo. Come cantano all’operetta, elle ne pense qu’a excìter les hommes… Ma tutto ha un prezzo, e io il mio prezzo l’ho pagato. Volete che vi racconti una storia? Non so perché ma mi piacete, sapete tacere così bene. E a voi risulterà utile sapere che donna è quella. Magari tornate in voi prima che vi risucchi del tutto come ha fatto con me. O vi ha già risucchiato, eh, Fandorin? Cosa stavate lì a sussurrarle?»


Erast Petrovič abbassò lo sguardo.

«Allora ascoltatemi», prese a raccontare Achtyrzev. «Visto che poco fa mi avete preso per un vigliacco perché ho ceduto a Ippolit, invece di sfidarlo a duello. Ma io un duello l’ho già fatto, di quelli che il vostro Ippolit nemmeno se lo sogna. Avete sentito quando ha detto di non parlare di Kokorin? Ci mancherebbe pure quello. Il suo sangue ce l’ha lei sulla coscienza, lei. E anch’io, naturalmente. Solo che io il mio peccato l’ho riscattato con un terrore mortale. Kokorin era un mio compagno di corso, ci veniva anche lui da Amalia. Una volta eravamo stati amici, ma poi eravamo diventati nemici per via di lei. Kokorin era più disinvolto di me, e aveva una bella faccia, ma, detto entre nous, un mercante è sempre un mercante, un plebeo, non importa se ha studiato all’università. Amalia si è divertita abbastanza con noi, coccolava ora uno, ora l’altro. Un giorno mi chiama ‘Nicolas’, mi dà del tu, divento io il favorito, poi basta un niente per cadere in disgrazia: mi tiene in quarantena per una settimana, mi dà di nuovo del voi, sono di nuovo Nikolaj Stepanyč. Ecco com’è la sua politica, chi abbocca al suo amo, non si libera più.»

«E questo Ippolit chi è per lei?» chiese cautamente Fandorin.

«Il conte Zurov? Di preciso non lo so, ma fra di loro c’è qualcosa di particolare… Non si capisce se è lui ad avere potere su di lei, o lei su di lui… Ma geloso lui non lo è, e poi non è la gelosia di Zurov che conta. Amalia è di quelle che non permette a nessuno di fare il geloso. In una parola: è un’imperatrice!»

Smise di parlare perché al tavolino accanto si era messa a schiamazzare una compagnia di commercianti ubriachi — stavano per andarsene e litigavano su chi doveva pagare il conto. I camerieri in quattro e quattr’otto portarono via la tovaglia sporca, ne misero una nuova, e tempo un minuto al tavolo liberatosi stava già seduto, reduce dalle sue gozzoviglie, un funzionario dagli occhi chiarissimi, quasi incolori (probabilmente per l’ubriachezza). A quello sfaccendato si avvicinò svolazzando un’appetitosa brunetta, lo prese per la spalla e accavallò pittorescamente una gamba sopra l’altra, col risultato che Erast Petrovič non distolse più lo sguardo dall’ipnotico ginocchio fasciato di fil de Perse rosso.

Lo studente invece, vuotato il boccale pieno di vino del Reno e infilzando con la forchetta una bistecca al sangue, riprese: «Voi credete che Pierre Kokorin si sia ucciso con le sue mani per un amore infelice? Ma non è stato così! L’ho ucciso io».

«Cosa?!» esclamò Fandorin che non credeva alle sue orecchie.

«Avete sentito bene», annuì orgogliosamente Achtyrzev. «Adesso vi racconto tutto, però statevene seduto tranquillo e non interrompetemi con le vostre domande.

«Proprio così, l’ho ucciso, e non ne ho il minimo rimorso. L’ho ucciso in modo onorevole, in duello. Sì, in modo onorevole! Perché da che mondo è mondo non c’è stato un duello più onorevole del nostro. Quando due si mettono alla barriera, lì c’è quasi sempre un inganno — uno spara meglio, l’altro peggio, oppure uno è grasso e colpirlo è più facile, oppure ha passato una notte insonne e gli tremano le mani. Mentre fra me e Pierre si è svolto tutto senza inganno. Amalia ci ha detto… questo avveniva a Sokolniki, nel parco, noi tre eravamo in carrozza — e lei dice: ‘Mi sono stancata di tutti e due, siete dei ragazzini ricchi, viziati. Se almeno vi ammazzaste l’uno con l’altro, eh?’ E quella bestia di Kokorin le fa: ‘Posso anche ammazzare, se in cambio ne riceverò da voi il premio’. E io dico: ‘Per il premio posso ammazzare anch’io. Questo è un premio’, dico, ‘che non si può dividere in due. Ne consegue, a uno la strada dritto filato nell’umida terra, a meno che non ci rinunci con le buone.’ Ecco fino a che punto si erano messe le cose fra me e Kokorin. ‘Così voi mi amereste fino a quel punto?’ chiede lei. Lui: ‘Più della vita’. E anch’io confermai lo stesso. ‘D’accordo’, dice lei, ‘negli uomini c’è solo l’audacia che apprezzo, tutto il resto si può simulare. Ascoltate la mia volontà. Se uno di voi uccide davvero l’altro, avrà in cambio della sua audacia un premio, quale lo sapete da voi.’ E si mette a ridere. ‘Ma siete soltanto dei chiacchieroni, tutti e due. Non ammazzerete proprio nessuno’, dice. ‘Non avete nulla di interessante a parte i capitali dei vostri genitori.’ Io presi fuoco. ‘Per Kokorin non posso garantire’, dissi, ‘ma quanto a me dichiaro che per un premio del genere non risparmierei né la vita mia né l’altrui.’ Al che lei, arrabbiata: ‘Ma insomma, mi siete venuti a noia coi vostri chicchirichì. È deciso, vi sparerete, ma non in duello, altrimenti verrò coinvolta nello scandalo. Ed è poco sicuro, il duello. Ci mancherebbe, uno graffia il braccio all’altro, dopodiché viene da me a dichiararsi vincitore. No, meglio che uno vinca la morte, e l’altro l’amore. Come deciderà il fato. Tirate a sorte. A chi tocca, quello si spara. E scrive un biglietto in modo tale che non si abbia a pensare che è stato a causa mia. Cosa v’è preso adesso, avete paura? Se avete paura, se non altro la smetterete di venire da me per la vergogna, il che sarebbe vantaggioso’. Pierre mi guarda e dice: ‘Non so quanto ad Achtyrzev, ma io non ho certo paura…’ E così fu che decidemmo…»

Lo studente tacque e abbassò la testa. Poi si riscosse, si riempì la coppa fino all’orlo e mandò giù tutto d’un fiato. Al tavolino accanto la ragazza dalle calze rosse faceva delle risate squillanti: l’uomo dagli occhi pallidi le stava sussurrando qualcosa all’orecchio.

«Ma che c’entra il testamento?» chiese Erast Petrovič, e si morse subito la lingua, visto che non gli si addiceva sapere anche questo. Tuttavia Achtyrzev, immerso com’era nei suoi ricordi, annuì fiaccamente: «Ah già, il testamento… Quella è stata una sua trovata. ‘Volevate comprarmi coi soldi?’ dice. ‘Bene, che ci siano i soldi, ma non centomila, come aveva offerto Nikolaj Stepanyč’ (era capitato una volta che glieli offrissi, per poco non mi sbatteva fuori di casa). ‘E nemmeno duecentomila. Ma tutto quel che avete. Quello a cui toccherà la morte, che se ne vada pure nudo all’altro mondo. Solo che a me i vostri soldi non servono, li regalerò io stessa a chi voglio. Che i soldi vadano almeno per qualcosa di buono e di utile, a un santo monastero o in qualche altro posto del genere. Per la remissione del peccato mortale. Che dici’, fa lei, ‘Petrosa, ci verrà pure un cero bello grosso col tuo milione di capitale, no?’ E Kokorin era ateo, e pure militante. Così scattò. ‘Basta che non vada ai pope’, dice. ‘Meglio lasciarlo alle ragazze cadute, così che ognuna abbia di che comprarsi una macchina da cucire e cambiare mestiere. A Mosca non resterà nemmeno una donna di strada, in questo modo conserveranno il ricordo di Petr Kokorin.’ Al che Amalia ribatte: ‘Quelle che hanno preso il vizio, ormai non ci puoi fare nulla. Prima bisogna, nell’età dell’innocenza’. Kokorin fa un gesto con la mano: ‘Allora ai bambini, agli orfani, a un orfanotrofio’. Lei si illuminò tutta: ‘Per questa idea, Petrusa, ti si potrebbe perdo nare molto. Vieni che ti do un bacio’. Mi prese la bile. ‘Li ruberanno i tuoi milioni all’orfanotrofio’, dico. ‘Non l’hai letto cosa scrivono dei ricoveri di Stato sui giornali? Gliene importa tanto a loro. Meglio darli a quell’inglese, alla baronessa Esther, lei non ruba.’ Amalia baciò anche me: date un bel po’ di punti ai nostri patrioti. Questo avveniva l’undici, di sabato. Domenica ci incontrammo con Kokorin e prendemmo tutti gli accordi. Fu una conversazione curiosa. Non faceva che fare lo spaccone, lo sbarazzino, io stavo più zitto, ma non ci guardammo negli occhi. Ero come inebetito… Mandammo a chiamare l’avvocato, redigemmo due testamenti nel pieno rispetto delle forme. Pierre faceva da testimone ed esecutore testamentario a me, e io a lui. All’avvocato demmo cinquemila a testa, perché tenesse la lingua dietro ai denti. E poi nemmeno a lui conveniva chiacchierare. E con Pierre ci siamo messi d’accordo così — fu lui a proporlo. Ci saremmo incontrati alle dieci del mattino da me nel quartiere Taganka (io abito in via Gončarnaja). Ciascuno si sarebbe messo in tasca una rivoltella a sei colpi con una sola cartuccia nel tamburo. Andiamo separatamente, ma in modo da vedersi l’un l’altro. Si tira a sorte a chi tocca per primo. Kokorin aveva letto non so dove della roulette americana, gli era piaciuto. Disse: Per via di noi due, Kolja, la ribattezzeranno roulette russa, vedrai. E dice anche: Che noia spararsi in casa, organizziamoci come finale un esercizio con numero speciale. Accettai, per me era indifferente. Devo riconoscere che mi sentivo un po’ avvilito, al pensiero che avrei perso. E nel cervello mi martella: lunedì, tredici, lunedì, tredici. La notte non dormii affatto, volevo andarmene all’estero, ma al pensiero che lui sarebbe rimasto con lei e avrebbero riso insieme di me… E per via di questo pensiero restai.


«E al mattino andò così. Arriva Pierre, da vero dandy, con un gilet bianco, molto allegro. Era fortunato, si vede che sperava gli andasse bene anche quella volta. Lanciammo i dadi nel mio studio. A lui venne nove, a me tre. A questo ero già preparato. ‘Non andrò da nessuna parte’, dico. ‘Preferisco morire qui.’ Feci ruotare il tamburo, poggiai la canna al cuore. ‘Fermati!’ mi fa lui. ‘Non sparare al cuore. Se la pallottola ti attraversa di sbieco, ci metterai un bel po’ a morire. Meglio alla tempia oppure in bocca.’ ‘Grazie della sollecitudine’, gli dico io, e in quel momento lo odiai tanto, che avrei anche sparato senza duello. Ma ascoltai il suo consiglio. Non dimenticherò mai quello scatto, il primo. Mi fece un tale fracasso nell’orecchio, che…»

Achtyrzev si contorse e si versò ancora da bere. La cantante, una zingara robusta con lo scialle dorato, intonava con la sua voce bassa qualche cosa di cantilenato, che stregava l’anima.

«Sento la voce di Pierre: ‘Adesso è il mio turno. Andiamo fuori’. Solo in quel momento mi resi conto che ero ancora vivo. Andammo sulla collinetta Pulciosa, da lì si vede la città. Kokorin davanti, io una ventina di passi indietro. Si fermò un po’ sul burrone, non lo vedevo in faccia. Poi alzò la mano con la rivoltella, in modo che potessi vedere, fece girare il tamburo e velocemente alla tempia, uno scatto. E io lo sapevo, che non gli sarebbe successo nulla, e nemmeno ci speravo. Rilanciammo i dadi: di nuovo toccava a me. Scendemmo verso la Jauza, non c’era un’anima. Montai su un pilone del ponte, in modo da cadere poi in acqua… Di nuovo la scampai. Ce ne andammo in un’altra direzione, Pierre fa: ‘Comincia a diventare noioso. Perché non spaventiamo i cittadini?’ Faceva lo spavaldo, devo riconoscerlo. Sbucammo in un vicolo, lì c’era un po’ di gente, passavano le carrozze. Io mi misi dall’altra parte. Kokorin si tolse il cappello, fece inchini a destra e a manca, alzò la mano, fece girare il tamburo, niente. Be’, da lì bisognava svignarsela al più presto. Grida, chiasso, le signore che strillano.

Svoltiamo in un portone, a quel punto eravamo in via Marosejka. Lanciammo i dadi, e cosa credete? Di nuovo a me! Lui aveva fatto sei sul primo dado e sei sul secondo, e io uno su ciascuno, parola d’onore! Ecco fatto, penso, è finita, più simbolico di così. A uno tutto, all’altro niente. La terza volta mi sparai accanto a Cosma e Damiano, dove mi hanno battezzato. Mi misi sul sagrato, dove ci sono i mendicanti, diedi un rublo a ciascuno, mi tolsi il berretto… Apro gli occhi — sono ancora vivo. Intanto un folle in Cristo mi dice: ‘Nell’anima un dolore, vi perdona il Signore’. Nell’anima un dolore, vi perdona il Signore, me lo ricordo. Bene, ce ne andammo via anche da lì. Kokorin scelse un posto un po’ più elegante, proprio accanto al Passage Galofteevskij. In via Neglinnaja entrò in una pasticceria, si mise a sedere, io rimasi fuori dietro alla vetrina. Disse qualcosa a una signora al tavolino accanto, lei sorrise. Prende la rivoltella, preme il grilletto. La signora si mette a ridere ancora di più. Mise via la rivoltella, chiacchierò ancora un po’ con lei, finì di bere il caffè. Io sono già intorpidito, non provo nulla. In testa ho una cosa sola: adesso bisogna tirare di nuovo a sorte.

«Rilanciammo i dadi nel pieno centro storico, quartiere Ochotnyj, di fronte al Cremlino, vicino al Grand Hotel Loskutnyj, e qui per la prima volta toccò a lui per primo. A me venne sette, a lui sei. Sette contro sei, un punto di differenza in tutto. Arrivammo insieme fino al ristorante Da Gurov, e nel punto dove stanno costruendo il Museo Storico, ci separammo: lui entrò nei giardini di Sant’Alessandro, passando dal viale, io mi incamminai sul marciapiede, al di là della cancellata. L’ultima cosa che mi ha detto: ‘Siamo degli imbecilli noi due, Kolja. Se questa volta ho fortuna, mando tutto al diavolo’. Avrei voluto fermarlo, per Dio se volevo, ma non lo fermai. Il perché non lo so neppure io. Balle, d’accordo… Mi venne un pensieruccio meschino. Lasciamo che il tamburo giri ancora una volta, poi si vedrà. Magari smettiamo… Lo riconosco solo davanti a voi, Fandorin. Adesso vi sto parlando col cuore in mano…»

Achtyrzev bevve ancora un po’, sotto il pince-nez aveva gli occhi torbidi e arrossati. Fandorin aspettava col fiato sospeso, per quanto a grandi linee gli eventi successivi gli fossero noti. Nikolaj Stepanovič prese un sigaro dal taschino e, con la mano che gli tremava, accese un fiammifero. Era straordinario vedere come quel lungo, spesso sigaro non si addicesse alla sua faccia di brutto ragazzo. Mandando via dagli occhi la nuvola di fumo, Achtyrzev si alzò bruscamente.

«Cameriere, il conto! Non posso restare più qui. C’è un tal chiasso, si soffoca.»Si strappò dalla gola la cravatte di seta. «Andiamo da qualche altra parte. Oppure andiamocene semplicemente a spasso.»


Si fermarono sotto il porticato d’ingresso. Il vicolo era buio e deserto, le luci erano spente in tutti i palazzi a eccezione del Crimea. Nel vicino lampione baluginava e tremolava il gas.

«E se andassimo a casa mia?» propose Achtyrzev arrotando le erre col sigaro stretto fra i denti. «Lì dietro l’angolo ci saranno dei vetturini di lusso.»

Si aprì la porta, e sul pianerottolo dell’ingresso uscì il loro recente vicino, il funzionario dagli occhi pallidi col berretto sulle ventitré. Con un rumoroso singhiozzo, infilò la mano nel taschino dell’uniforme e prese un sigaro.

«Mi fareste accendere?» chiese avvicinandosi ai due giovani. Fandorin notò un leggero accento, non sapeva se baltico oppure finlandese.

Achtyrzev frugò prima in una tasca e poi nell’altra, finché schioccarono i cerini nella scatoletta. Erast Petrovič aspetta va pazientemente. D’un tratto l’aspetto dell’uomo dagli occhi pallidi subì un mutamento incomprensibile: diventò come più basso di statura e si piegò leggermente da un lato. Un attimo dopo nella sua mano sinistra crebbe come per magia una larga lama corta, e il funzionario con un movimento economico, di guttaperca, infilò la lama nel fianco destro di Achtyrzev.

Gli eventi successivi si verificarono molto rapidamente, in due o tre secondi, ma Erast Petrovič ebbe la sensazione che il tempo si fosse arrestato. Riuscì a notare diverse cose, riuscì anche a pensarne tante altre, però non c’era verso gli riuscisse di muoversi, come se l’avesse ipnotizzato il riflesso di luce sulla superficie d’acciaio.

All’inizio Erast Petrovič pensò: l’ha colpito al fegato, e chissà come nella memoria saltò fuori una frase dal manuale di biologia del liceo: «Il fegato in un corpo animale è l’organo che separa il sangue dalla bile». Poi vide che Achtyrzev moriva. Prima di allora Erast Petrovič non aveva mai visto morire nessuno, ma per un qualche motivo capì subito che Achtyrzev era proprio morto. Gli occhi gli si erano fatti come di vetro, le labbra gli si erano gonfiate in modo convulso, e ne zampillava fuori un rivolo scuro di sangue color amarena. Molto lentamente e perfino, come sembrò a Fandorin, con eleganza, il funzionario estrasse la lama, che non brillava più, e si voltò piano piano verso Erast Petrovič, che si ritrovò a un passo dal suo viso: gli occhi chiari coi punti neri delle pupille, le sottili labbra esangui. Le labbra si mossero e pronunciarono distintamente: «Azazel». E a questo punto la distorsione temporale terminò, il tempo si contrasse come una molla e, riestendendosi, diede un colpo talmente bruciante a Erast Petrovič sul fianco destro, e con tanta forza, che lui cadde supino e sentì male colpendo con la nuca il bordo della balaustra dell’ingresso. Cos’è questo? Chi è questo Azazel? pensò Fandorin. Dormo, o cosa? E poi pensò ancora: Ha centrato col coltello il Lord Byron. La stecca di balena. Fianchi stretti, spalle da guerriero!

Le porte si spalancarono con un botto e sul porticato fece irruzione ridendo una compagnia rumorosa.

«Oho, signori, ma qui abbiamo la battaglia della Moscova!» gridò allegramente la voce alticcia di un mercante. «Non hanno retto, i signorini! Non sanno bere!»

Erast Petrovič si alzò reggendosi con la mano il fianco caldo e bagnato, e fece per guardare l’uomo dagli occhi bianchi.

Ma, stranamente, non c’era nessun uomo dagli occhi bianchi. Achtyrzev giaceva lì dove era caduto, bocconi di traverso ai gradini; lontano rotolava il cilindro che gli era scivolato via, mentre il funzionario era scomparso senza lasciare traccia, si era come dissolto nell’aria. E in tutta la strada non si vedeva un’anima, solo i fanali con la loro luce smunta.

Di colpo i fanali si comportarono in un modo molto strano, presero a girare, a roteare, e all’inizio diventò tutto molto luminoso, dopodiché si fece buio totale.

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