La settimana seguente, passai praticamente ogni momento da sveglio alla ricerca del misterioso personaggio in tuta. Sette uomini dei dintorni di Knocknaree corrispondevano alla descrizione che avevamo: alto, grosso, sulla trentina, pelato o skinhead. Uno di loro aveva un piccolo precedente che risaliva a un'adolescenza un po' movimentata: possesso di hashish e atti osceni. Mi si fermò il cuore per un attimo quando lessi "atti osceni", ma risultò che avesse semplicemente orinato in una stradina laterale proprio mentre passava un giovane e zelante poliziotto. Altri due dichiararono che forse erano passati dalla zona residenziale di ritorno dal lavoro all'ora indicata da Damien, ma non ne erano certi.
Nessuno ammise di aver parlato con Katy. Tutti, chi più chi meno, avevano un alibi per la notte della sua morte. Nessuno aveva una figlia che danzava e che aveva una gamba rotta e nessuno aveva un movente, per quanto mi riuscì di scoprire. Recuperai delle foto e le mostrai a Damien e Jessica, ma entrambi le guardarono con la stessa espressione interrogativa e confusa, e solo Damien, alla fine, disse che secondo lui nessuno di loro era quello che aveva visto, mentre Jessica indicava titubante una foto diversa ogni volta che glielo chiedevo, per poi ricadere in uno stato catatonico. Mandai anche un paio di agenti per un porta-a-porta, a chiedere a tutti se avessero avuto un ospite che somigliasse alla descrizione: nulla.
Un paio di alibi erano inconsistenti. Un tipo diceva di essere stato online fin quasi alle tre di notte, in un forum di motociclisti, a discutere della manutenzione delle Kawasaki classiche. L'altro di essere stato a un appuntamento in centro, di aver perso il treno di mezzanotte e mezzo e di aver aspettato quello delle due da Supermac. Attaccai le loro foto alla lavagna ma più le guardavo più si faceva strada in me una sensazione, una percezione che mi turbava e che stavo cominciando ad associare a quel caso: che ci fosse un'altra volontà che si scontrava con la mia a ogni svolta, qualcosa di scaltro e ostinato, dotato di ragione propria.
Sam era l'unico che stava ottenendo qualche risultato. Era spesso fuori, a interrogare gente: componenti del Consiglio di Contea, disse, periti, agricoltori, membri di "Spostiamo l'autostrada". Durante le nostre cene si manteneva sul vago sulla direzione che stava prendendo il suo lato dell'indagine. «Ve lo mostrerò fra qualche giorno» diceva, «quando comincerà ad assumere un senso.» Una volta, di nascosto, sbirciai i suoi appunti, mentre era in bagno. Li aveva lasciati sulla scrivania: si trattava di diagrammi e appunti stenografati con piccoli schizzi ai margini, meticolosi quanto indecifrabili.
Poi, un mattino afoso, imbronciato, piovigginoso, mentre Cassie e io stavamo nuovamente ripassando i rapporti del porta-a-porta stilati dagli agenti nel caso in cui ci fossimo persi qualcosa, lui entrò con un rotolo di cartoncino, di quello pesante che i bambini usano a scuola per fare le decorazioni di San Valentino e di Natale. «Bene» esclamò. Estrasse dalla tasca il nastro adesivo e cominciò ad attaccare il cartoncino al muro, nel nostro angolo della sala operativa. «Ecco quello che ho fatto in tutto questo tempo.»
Era una grande mappa di Knocknaree magnificamente dettagliata con case, colline, il fiume, il bosco, il torrione, tutto disegnato a penna fine e inchiostro con la precisione fluente e delicata di un illustratore di libri per bambini. Doveva averci messo ore. Cassie lanciò un fischio.
«Grazie, grazie di cuore, signore e signori» attaccò Sam con una voce profonda alla Elvis e un sorrisone stampato in volto. Lasciammo i nostri rapporti e ci avvicinammo per dare un'occhiata. Gran parte della mappa era stata divisa in blocchi irregolari, ombreggiati con pastelli dai colori diversi: verde, blu, rosso, alcuni in giallo. Ogni blocco conteneva un insieme di misteriose abbreviazioni: Sd J. Downey-GII 11/97; dom. riq. ag-ind 8/98. Lanciai a Sam un'occhiata interrogativa.
«Ora vi spiego.» Strappò con i denti un altro pezzo di nastro adesivo per attaccare l'ultimo angolo del cartoncino al muro. Cassie e io ci sedemmo sul bordo del tavolo, da dove eravamo abbastanza vicini per vedere i dettagli.
«Okay. Vedete qui?» Sam indicò due linee tratteggiate parallele che correvano, curve, attraverso la mappa passando per il bosco e gli scavi archeologici. «È dove passerà l'autostrada. Il governo ha annunciato il progetto nel marzo del 2000 e l'anno seguente ha acquistato il terreno dagli agricoltori locali, con apposito ordine di esproprio. Fin qui nulla di strano.»
«Be'» commentò Cassie, «dipende dal punto di vista.»
«Sst» la zittii. «Guarda le figure e taci.»
«Su, dai, lo sapete cosa voglio dire» disse Sam. «Niente che non ci si potrebbe aspettare. Diventa interessante quando si passa al terreno attorno all'autostrada. Anche quello era tutto terreno agricolo fino alla fine del 1995. Poi, non di colpo ma un po' alla volta, nei quattro anni successivi cominciarono a comprarlo e a riqualificarlo, facendolo cioè passare da terreno agricolo a terreno industriale e, quindi, edificabile.»
«Sono stati chiaroveggenti quelli che sapevano dove sarebbe passata l'autostrada cinque anni prima che ne fosse annunciata la costruzione» commentai.
«In realtà neanche questo è strano» obiettò Sam. «C'erano voci su un'autostrada che sarebbe arrivata a Dublino da sudovest – ho trovato articoli di giornale – con inizio dei lavori nel 1994, al momento dell'avvio della Tigre Celtica. Ho parlato con un paio di geometri e hanno detto che quello era il percorso più ovvio, a causa della topografia, degli insediamenti umani e di molte altre cose. Non ho capito tutto, ma è quanto mi hanno riferito. Non c'è ragione per cui gli operatori immobiliari non avrebbero potuto fare la stessa considerazione: magari hanno sentito le voci sull'autostrada e hanno assunto dei periti per spiegargli dove sarebbe stato meglio farla passare.»
Nessuno aprì bocca. Sam guardò prima me, poi Cassie e arrossì un po'. «Non sono un ingenuo. Sì, potrebbe sembrare strano, forse avevano ricevuto una soffiata da qualcuno del governo, ma magari no. A ogni modo, non possiamo dimostrarlo, e non penso che abbia molta importanza per il nostro caso.» Tentai di non sorridere. Sam è uno dei detective più efficienti della squadra, ma in un certo senso faceva tenerezza il modo in cui appariva soddisfatto di quello che ci aveva appena detto. «Chi ha comprato la terra?» domandò Cassie. Sam sembrò sollevato. «Diverse società. La maggior parte non esistono, non nella realtà, almeno; sono solo delle holding, di proprietà di società che sono di proprietà di altre società. È per questo che ci ho messo così tanto tempo. Volevo scoprire chi è il vero proprietario di questo dannato terreno. Finora ho rintracciato tutte le compravendite fino a ognuna di queste tre società: la Global Irish Industries, la Futura Property Consultants e la Dynamo Development. Le parti in blu sono della Global, quelle verdi della Futura e quelle rosse della Dynamo. Però è veramente difficile scoprire chi ci sia alle loro spalle. Due hanno la sede legale nella Repubblica Ceca e la Futura in Ungheria.»
«Questo sì che sembra strano» osservò Cassie. «In tutti i sensi.» «Certo» confermò Sam, «ma più probabilmente si tratta di evasione fiscale. Possiamo passare tutto al fisco, ma non vedo come ciò possa avere a che fare con il nostro caso.»
«A meno che Devlin non lo avesse scoperto e non lo stesse usando per fare pressioni su qualcuno» ipotizzai.
Cassie sembrava scettica. «Scoperto come? Ce lo avrebbe detto.»
«Non si sa mai. È un tipo strano.» «Tu pensi che siano tutti strani. Prima Mark…» «Ma sto arrivando alla parte interessante» ci interruppe Sam. Feci una boccaccia a Cassie e mi girai verso la mappa prima che potesse ricambiare. «Quindi, a marzo del 2000, quando l'autostrada viene annunciata, queste tre società possiedono tutta la terra attorno a questa sezione tranne quella di quattro agricoltori: sono le parti in giallo. Li ho rintracciati. Stanno a Louth, ora. Avevano visto come stavano andando le cose e sapevano che quegli acquirenti stavano offrendo prezzi molto buoni, molto al di sopra del prezzo corrente per il terreno agricolo. Ed era il motivo per cui tutti gli altri avevano accettato l'offerta. Ne parlarono, sono tutti amici, e decisero di tenersi la terra per scoprire cosa c'era dietro. Quando il progetto dell'autostrada fu annunciato, ovviamente capirono perché quella gente volesse il loro terreno: per adibirlo a zona industriale e residenziale, ora che la nuova arteria avrebbe reso Knocknaree più facilmente raggiungibile. Così pensarono di ottenere da soli la riqualificazione del terreno per vederne raddoppiato o triplicato il valore in un batter d'occhio. Fecero domanda al Consiglio di Contea – uno di loro ci provò per ben quattro volte – ma ricevettero sempre dei rifiuti.»
Indicò una delle zone in giallo con tante piccole note scritte a mano. Io e Cassie ci sporgemmo in avanti per leggerle: dom. riq. ag-ind M. Cleary: 5/2000 rif, 11/2000 rif, 6/2001 rif 1/2002 rif; sd M. Cleary-FPC 8/2002; dom riq ag-ind 10/2002.
Cassie ne prese atto con un piccolo cenno della testa e si rimise a sedere, con gli occhi ancora fissi sulla cartina. «Così l'hanno venduta» disse piano.
«Sì. Più o meno allo stesso prezzo che avevano ottenuto gli altri: buono per un terreno agricolo, ma molto meno di quanto avrebbero ricavato per un terreno industriale o residenziale. Il nostro uomo, Maurice Cleary, fu irremovibile, più che altro per testardaggine, e disse che nessun idiota in giacca e cravatta sarebbe riuscito a mandarlo via dalla sua terra, ma ricevette la visita di un tizio di una delle holding. Avrebbero costruito un'industria farmaceutica attaccata alla sua fattoria, gli spiegò, e non potevano garantire che gli scarti chimici non si sarebbero infiltrati nell'acqua e non avrebbero avvelenato il suo bestiame. La prese come una minaccia e, non so se a ragione o a torto, vendette. Non appena le Tre Grandi comprarono il terreno, ovviamente sotto vari nomi, ma tutto ci riporta a loro, fecero domanda per la riqualificazione del terreno e la ottennero.»
Cassie rise, ma la sua risata aveva un suono rabbioso.
«Le tue Tre Grandi esercitavano fin dall'inizio un certo controllo sul Consiglio di Contea» dissi.
«Così pare.»
«Hai parlato con i componenti del Consiglio?»
«Certo, per quello che è servito. Sono stati molto educati e così via, ma senza dire nulla, in realtà. Avrebbero potuto continuare ad andare avanti per ore senza darmi una sola risposta chiara.» Guardai di lato e notai lo sguardo vagamente divertito di Cassie: Sam, che aveva vissuto con un politico, avrebbe dovuto esserci abituato. «Hanno detto che le decisioni sulla riqualificazione erano… attese…» Girò le pagine del taccuino. «"Le nostre decisioni sono state in ogni circostanza mirate a favorire gli interessi della comunità intera in base alle informazioni di cui disponevamo in quel momento, e non sono state influenzate da alcun tipo di favoritismo." Non è parte di una lettera o roba del genere. Il tizio con cui ho parlato mi ha veramente detto queste cose. Proprio mentre era con me.» Cassie fece il gesto di infilarsi un dito in gola.
«Quanti soldi servono per comprarsi i favori del Consiglio di Contea?» domandai.
Sam si strinse nelle spalle. «Per tutte quelle delibere, in un lasso di tempo così lungo, deve essere stata una bella montagna di soldi. Le Tre Grandi ne avevano investiti parecchi su quel terreno, in un modo o nell'altro. L'idea di spostare l'autostrada non poteva essergli gradita.»
«Quanto danno procurerebbe loro?»
Indicò due righe tratteggiate che tagliavano l'angolo a nordovest della mappa. «Secondo i periti che ho consultato, questo è il percorso alternativo più logico. È quello richiesto da "Spostiamo l'autostrada". Sono oltre tre chilometri di distanza, tra i sei e i sette in alcuni punti. Il terreno a nord del tracciato originale non ne sarebbe troppo colpito, e sarebbe ancora abbastanza accessibile, ma questi tipi hanno anche molto terreno a sud, e qui il valore scenderebbe in picchiata. Ho parlato con un paio di agenti immobiliari fingendo di essere interessato all'acquisto. Hanno confermato tutti che il terreno industriale accanto all'autostrada valeva il doppio di quello industriale, lontano appena cinque chilometri. Non ho fatto i conti al centesimo, ma la differenza potrebbe ammontare a diversi milioni.»
«Questo potrebbe certamente spingere qualcuno a fare qualche telefonata minatoria» disse piano Cassie.
«Potrebbe spingere perfino qualcuno» aggiunsi, «a spendere qualche soldo in più per assoldare un killer.»
Restammo in silenzio per un po'. Fuori la pioggerellina stava iniziando a diradarsi. Un timido raggio di sole illuminava la mappa e raggiungeva un tratto di fiume, disegnato con piccoli segni a penna e ombreggiato di rosso. Dall'altra parte della stanza, l'agente addetto al telefono delle informazioni alla polizia stava cercando di liberarsi di una persona che non lo lasciava letteralmente parlare. Alla fine Cassie domandò: «Ma perché Katy? Perché non colpire Jonathan?»
«Forse sarebbe stato troppo ovvio» ipotizzai. «Se avessero ucciso Jonathan, avremmo cercato subito tra i nemici che si era fatto per la campagna. Con Katy, potevano farlo sembrare un crimine a sfondo sessuale, così la nostra attenzione sarebbe stata sviata dalla faccenda dell'autostrada e Jonathan avrebbe ricevuto comunque il messaggio.»
«Ma se non riesco a trovare chi c'è dietro a queste tre società» intervenne Sam, «sono a un punto morto. Gli agricoltori non conoscono nessuno, il Consiglio di Contea sostiene di non sapere i nomi. Ho visto un paio di atti di compravendita e di domande ma erano firmati da avvocati, e questi sostengono di non potermi rivelare i nomi dei loro assistiti senza il permesso degli stessi.»
«Cristo.»
«E i giornalisti?» chiese Cassie all'improvviso.
Sam scosse la testa. «I giornalisti, cosa?»
«Hai detto che c'erano articoli sull'autostrada già nel 1994. Devono esserci dei giornalisti che hanno seguito la storia e dovrebbero avere un'idea di chi ha comprato il terreno, anche se non possono pubblicarlo. Siamo in Irlanda, non c'è niente di segreto. Ci sono solo cose di cui la gente non parla.»
«Cassie» disse Sam, illuminato in volto, «sei fantastica. Ti sei guadagnata una birra.»
«Invece di offrirmi una birra, non è che leggeresti i rapporti porta-a-porta al posto mio? O'Gorman struttura le frasi come George Bush. Il più delle volte non capisco di cosa parli.»
«Senti, Sam» dissi io, «se viene fuori qualcosa, saremo noi due a offrirti birra per un bel po'.» Sam si spostò verso la sua parte del tavolo e mentre passava assestò una pacca sulla spalla di Cassie. Si mise a esaminare una cartella di ritagli di giornale come un segugio alle prese con un odore nuovo, mentre io e Cassie tornavamo ai nostri rapporti.
Lasciammo la mappa attaccata al muro. Mi dava sui nervi, per motivi che neanche io riuscivo a comprendere. Penso che fosse per la sua perfezione, per i dettagli accuratamente rappresentati: foglioline arricciate nel bosco, piccole pietre bitorzolute sul muro del torrione. Forse nel mio subconscio pensavo che un giorno l'avrei guardata e vi avrei visto due faccine che ridevano e che si nascondevano fra gli alberi tratteggiati a china. In una delle macchie gialle, Cassie aggiunse la figura di un operatore immobiliare elegantemente vestito, con corna e piccole zanne acuminate. Disegna come un bambino di otto anni, ma mi spaventavo ogni volta che vedevo con la coda dell'occhio quella dannata cosa che mi guardava.
Per la prima volta cominciai a fare un tentativo serio di ricordare veramente cos'era successo in quel bosco. Mi affacciavo esitante sul limitare dei miei ricordi, a malapena ammettendo con me stesso quello che stavo facendo, come un bambino che si stacca una crosta ma ha paura di guardare. Facevo lunghe passeggiate – soprattutto nelle prime ore del mattino, quando non stavo da Cassie e non mi riusciva di dormire – vagabondando per ore in città come in trance, ascoltando i rumori della mia mente e ritrovandomi a fissare, stordito e sbattendo le palpebre, la trasandata insegna al neon di uno sconosciuto centro commerciale, o gli eleganti frontoni di qualche casa georgiana nella parte più chic di Dun Laoghaire, senza avere idea di come ci fossi arrivato.
Però funzionò, almeno fino a un certo punto. Libera, la mente rilasciava fiumi di immagini come diapositive che scorrevano a velocità doppia, e gradatamente imparai il trucco di allungarmi, mentre mi volavano accanto, per trattenerle e osservarle dispiegarsi tra le mie mani. I nostri genitori che ci portavano in città per comprare i vestiti per la prima comunione; Peter e io, eleganti nei nostri abiti scuri, piegati a metà da crudeli risate quando Jamie, dopo una lunga battaglia a bassa voce con sua madre, era uscita dal camerino delle donne con una bomboniera addosso e uno sguardo di ribrezzo sul viso; Mick il Matto, lo svitato locale, che indossava cappotti e guanti senza dita tutto l'anno e sussurrava fra sé e sé interminabili sequele di amare imprecazioni; Peter che ci diceva che Mick era pazzo perché da giovane aveva fatto delle cose sporche con una ragazza e lei stava per avere un bambino, così si era impiccata nel bosco e le era diventata la faccia nera. Un giorno Mick aveva iniziato a urlare fuori dal negozio di Lowry. I poliziotti lo avevano portato via con la loro auto e noi non lo avevamo più visto. Il mio banco a scuola, un vecchio e nodoso pezzo di legno con un obsoleto buco in alto per l'inchiostro, lucido per l'usura e coperto da anni di disegnini: una mazza da hurling, un cuore con delle iniziali scarabocchiate sopra, "Des Pearse è stato qui, 12/10/67". Niente di speciale, lo so, niente che ci aiutasse con il caso. Si trattava di immagini a malapena degne di essere menzionate. Ma ero abituato a dare per scontato che i primi dodici anni della mia vita fossero svaniti per sempre e il minimo ricordo aveva quindi un che di magico e potente, era un frammento della stele di Rosetta con un unico, intrigante carattere.
A volte riuscivo a ricordare qualcosa che, se non era utile, poteva essere considerato rilevante. Megadeth e Sandra, seduti sotto un albero… Avevamo capito, piano piano, un po' con la sensazione di ricevere un insulto, che non eravamo gli unici a reclamare il bosco come territorio che ci apparteneva per gestirci le nostre faccende. C'era una radura, in mezzo al bosco, non lontano dal vecchio castello: le prime campanule primaverili, spade di rami flessibili che lasciavano lunghe scie rosse sulle braccia, un folto cespuglio che a fine estate era pieno di more. A volte, quando non avevamo nient'altro da fare, andavamo a spiare i motociclisti. Ricordai un episodio, ma con l'impressione che facesse parte di qualcosa di abituale, di qualcosa che avevamo già fatto.
Una calda giornata d'estate, il sole sul collo e un sapore di Fanta ancora in bocca. La ragazza di nome Sandra era sdraiata nella radura dove l'erba era appiattita, Megadeth era quasi sopra di lei. Aveva la camicetta giù dalle spalle così che si vedevano le bretelle del reggiseno nero di pizzo. Aveva le mani fra i capelli di Megadeth e si baciavano con le bocche aperte. «Bleah, ti prendi i germi così» mi sussurrò all'orecchio Jamie.
Mi schiacciai ancora di più a terra, con l'erba che mi lasciava i segni sulla pancia dove la maglietta si era arrotolata. Respiravamo con la bocca per fare meno rumore.
Peter imitò il suono di un lungo bacio, ma piano, perché loro non sentissero. Per soffocare le nostre risate a crepapelle, ci mettemmo la mano sulla bocca, intimandoci l'un l'altro di stare zitti. Occhiali da Sole e la ragazza alta con i cinque orecchini erano dall'altra parte della radura. Anthrax restava quasi sempre al limitare del bosco, a scalciare il muro, a fumare e a lanciare sassi contro le lattine di birra. Peter prese un sassolino e, ridendo, lo fece rotolare nell'erba fino a pochi centimetri dalla spalla di Sandra. Megadeth, che respirava rumorosamente, non sollevò nemmeno lo sguardo. Rimanemmo con i visi schiacciati nell'erba fino a quando non ci passò la crisi di ridarella.
Poi Sandra girò la testa e guardò diritto verso di me, tra gli steli d'erba lunga e la cicoria. Megadeth la stava baciando sul collo e lei non si muoveva. Da qualche parte, accanto alla mia mano, una cavalletta saltellava nell'erba. Sostenni quello sguardo, con il cuore che batteva lento e pesante contro il terreno.
«Andiamo» mi sussurrò Peter con un tono d'urgenza nella voce. «Andiamo, Adam.» Mi sentii tirare per le caviglie e, dopo qualche contorsione, graffiandomi le gambe contro gli arbusti, ritornai sotto l'ombra degli alberi. Sandra mi stava ancora guardando.
Mi balzarono alla mente altri ricordi, alcuni tuttora difficili da affrontare. Ricordai, ad esempio, che scendevo le scale della nostra casa senza toccarle. Ricordo anche ora, in ogni dettaglio: la trama piena di nervature della carta da parati con i suoi bouquet di rose sbiadite, il modo in cui la luce del sole entrava dalla porta del bagno, scendeva giù per le scale, faceva brillare il pulviscolo e risaltare il marrone scuro della vernice della ringhiera; ricordo i movimenti abili e abituali della mia mano con cui mi spingevo sulla balaustra per librarmi serenamente al piano di sotto, i piedi che nuotavano a qualche centimetro dalla moquette.
Ricordai noi tre che trovavamo un giardino segreto, da qualche parte nel cuore del bosco, dietro un muro nascosto o una via d'accesso. Alberi da frutta inselvatichiti, meli, ciliegi, peri. Fontane di marmo in rovina, rivoli d'acqua che scorrevano ancora in percorsi nella pietra ricoperti di muschio. Grandi statue a ogni angolo, in alto coperte di edera, in basso soffocate dalle erbacce, braccia e teste mozzate sparse nell'erba lunga e nel cerfoglio selvatico. La luce grigia dell'alba, il rumore dei nostri passi, la rugiada sulle gambe nude, la mano di Jamie, piccola e rosea, sulle pieghe di un abito di pietra, il suo viso rivolto verso l'alto per guardare in quegli occhi vuoti. Il silenzio infinito. Ero consapevole del fatto che se quel giardino fosse esistito sarebbe stato trovato dagli archeologi che avevano condotto le prime esplorazioni, le statue ora sarebbero al Museo nazionale e Mark avrebbe fatto del suo meglio per descrivercele. Ma il problema era che io, quel giardino, me lo ricordavo ugualmente.
I ragazzi della sezione Reati informatici mi chiamarono una mattina presto: avevano finito di setacciare il computer del nostro ultimo candidato per la parte dell'Ombra con la Tuta Sportiva e confermarono che in effetti era on-line quando Katy era morta. Aggiunsero, con una certa dose di soddisfazione professionale che, anche se il povero bastardo divideva casa e computer con i genitori e la moglie, e-mail e post ai forum di discussione mostravano che i membri della famiglia cadevano in errori di spelling e di punteggiatura che erano caratteristici di ognuno; i post scritti mentre Katy stava morendo corrispondevano perfettamente a quelli del sospettato.
«Porco cane» imprecai riattaccando e prendendomi il viso fra le mani. Avevamo già il video della security del tipo del treno notturno che, al Supermac, intingeva le patatine nella salsa barbecue con la concentrazione glaciale dell'ubriaco che più ubriaco non si può. In fondo, una parte di me se lo aspettava, ma mi sentivo sfasato: niente sonno, poco caffè, un fastidioso mal di testa, ed era decisamente ancora troppo mattina per scoprire che la mia unica pista era svanita.
«Cosa c'è?» chiese Cassie sollevando lo sguardo dalle carte sparpagliate sulla sua scrivania.
«L'alibi del tipo con la Kawasaki è stato confermato. Se quello che Jessica ha visto è il nostro uomo, non è uno di Knocknaree, e non ho idea di dove andare a cercarlo. Sono di nuovo al punto di partenza.»
Cassie appoggiò le sue carte e si sfregò gli occhi. «Rob, quello che cerchiamo noi è uno del posto. Tutto ci porta in quella direzione.»
«E allora chi cazzo è Ombra con la Tuta? Se ha un alibi per l'omicidio e ha parlato con Katy anche solo una volta, perché non ce lo viene a dire?»
«Ipotizzando che esista veramente» disse Cassie, guardandomi di traverso.
Fui attraversato da uno scatto d'ira spropositato, quasi incontrollabile. «Scusa, Maddox, ma di cosa cazzo stai parlando? Stai dicendo che Jessica si è inventata tutto, così, solo per farci una risata? Le hai a malapena viste, quelle ragazze. Hai una minima idea di come siano distrutte?»
«Sto solo dicendo» rispose freddamente Cassie, con le sopracciglia inarcate, «che ci sono le circostanze per cui le ragazze potrebbero ritenere di avere un buon motivo per inventarsi una storia simile.»
Mezzo secondo prima di perdere completamente il controllo, afferrai il concetto. «Merda» sbottai. «I genitori.»
«Alleluia. Segni di vita intelligente.»
«Scusa» dissi. «Scusami per averti aggredito, Cass. I genitori… merda. Se Jessica pensa che sia stato uno dei suoi genitori e si è inventata tutta questa cosa…»
«Jessica? Pensi che potrebbe inventarsi una storia come questa? Parla a malapena.»
«Okay, allora Rosalind. Si inventa l'Ombra con la Tuta Sportiva per spostare l'attenzione dai genitori e insegna la storiella a Jessica. Quello che ci ha detto Damien è solo una coincidenza. Ma se lo ha fatto veramente, Cass… se ha davvero inventato tutta questa storia, deve sapere qualcosa di decisivo, cazzo. Lei o Jessica devono aver visto o sentito qualcosa.»
«Quel martedì…» Cassie si bloccò, ma il pensiero passò comunque fra di noi, troppo gotico e orribile per dargli voce. Quel martedì, il corpo di Katy doveva essere rimasto da qualche parte.
«Devo parlare con Rosalind» dissi e mi lanciai sul telefono.
«Rob, non rincorrerla. La farai allontanare. Lascia che sia lei a venire da te.»
Aveva ragione. Puoi picchiarli, i bambini, stuprarli, abusarne in migliaia di modi: non tradiranno mai i genitori chiedendo aiuto. Se Rosalind stava coprendo Jonathan o Margaret, o entrambi, le sarebbe crollato il mondo addosso se avesse detto la verità. Quel momento doveva arrivare con i suoi tempi. Se avessi provato a forzarla, l'avrei persa. Riagganciai la cornetta.
Ma Rosalind non chiamò. Dopo un giorno o due non riuscii più a dominarmi e la chiamai io sul cellulare: per diverse ragioni, alcune più articolate e problematiche di altre, non volli farlo sulla linea fissa. Non mi rispose. Lasciai dei messaggi, ma non richiamò.
Un grigio e squallido pomeriggio, io e Cassie andammo a Knocknaree per vedere se i Savage o Alicia Rowan avevano qualcosa di nuovo da dirci. Era il giorno dopo che avevamo parlato con Carl dei pazzi che popolavano Internet e pativamo tutti e due i postumi di una brutta sbornia. Non ci dicemmo granché in macchina. Cassie guidava, io guardavo fuori dal finestrino le foglie mosse da un vento traditore che arrivava a folate. Spruzzi di una pioggerella sottile bagnavano il parabrezza. Nessuno di noi era certo del fatto che io dovessi andare dove stavamo andando.
All'ultimo momento, quando avevamo già svoltato nella mia vecchia via e Cassie stava parcheggiando l'auto, decisi di rinunciare. Non volevo più andare a casa di Peter, e non perché la strada mi avesse all'improvviso sommerso di ricordi o roba del genere. Anzi, era esattamente il contrario. Vedevo quella strada come qualsiasi altra del quartiere, e proprio questo mi faceva sentire sbilanciato e in una posizione di svantaggio, come se Knocknaree mi avesse di nuovo battuto uno a zero. Avevo trascorso una quantità di tempo incredibile a casa di Peter e per un qualche oscuro motivo sentivo che la sua famiglia avrebbe potuto riconoscermi più facilmente se non fossi stato io a riconoscere loro per primo.
Dall'auto, osservai Cassie avvicinarsi alla porta di Peter e suonare il campanello. Una figura spettrale la fece accomodare. Poi scesi e mi avviai lungo la strada verso la mia vecchia casa. L'indirizzo, 11 di Knocknaree Way, Knocknaree, Contea di Dublino, mi tornò in mente nel modo automatico in cui si recita una cosa imparata a memoria.
Era più piccola di quanto ricordassi, più stretta. Il giardino era un quadrato minuscolo, non era più quello immenso e pieno di verde che avevo in mente. Era stata riverniciata non molto tempo prima di un allegro giallo con rifiniture bianche. Vicino al muro, alti cespugli di rose rosse e bianche stavano perdendo gli ultimi petali. Mi chiesi se fosse stato mio padre a piantarle. Rivolsi lo sguardo verso la finestra della mia camera e in quel momento il meccanismo si sbloccò: ora la sentivo casa mia, ci ero vissuto. Nelle mattine di scuola, ero corso fuori da quella porta con la cartella piena di libri, mi ero affacciato da quella finestra per chiamare Peter e Jamie, avevo imparato a camminare in quel giardino, ero andato in bicicletta su e giù proprio in quella strada, fino al momento in cui avevamo scavalcato il muro ed eravamo corsi nel bosco.
Nel vialetto, c'era una piccola Polo color argento, pulitissima, e un bambino biondo, di tre o quattro anni, stava pedalando attorno alla macchina seduto in un camion dei pompieri di plastica, imitando il suono della sirena. Quando arrivai al cancello, si fermò e mi rivolse una lunga occhiata solenne.
«Ciao» dissi.
«Va' via» mi apostrofò lui, dopo un po', in tono deciso.
Non seppi cosa rispondergli, ma per fortuna non ce ne fu bisogno: la porta d'ingresso si aprì e la madre del bambino, una donna sulla trentina, anche lei bionda, di un carino standard, accorse nel vialetto e posò una mano protettiva sulla sua testa. «Desidera?» mi chiese.
«Detective Robert Ryan» mi presentai, cercando il distintivo nella tasca. «Stiamo indagando sulla morte di Katharine Devlin.»
Prese il documento e lo osservò attentamente. «Non so come potrei aiutarla» rispose, restituendomelo. «Abbiamo già parlato con gli altri detective. Non abbiamo visto niente. I Devlin li conosciamo appena.»
I suoi occhi erano ancora diffidenti. Il bambino cominciava a dare segni d'inquietudine, imitava il rumore del motore e muoveva il volante, ma lei lo teneva fermo con la mano sulla spalla. Della musica, credo Vivaldi, proveniva debolmente dalla porta aperta, e per un momento arrivai davvero molto vicino a chiederle: "Ci sono alcune cose che desidererei controllare. Le dispiace se entro un momento?". Però mi dissi che Cassie si sarebbe preoccupata se fosse uscita dalla casa dei Savage e non mi avesse visto. «Stiamo semplicemente riverificando tutto» conclusi. «Grazie per il suo tempo.»
La donna rimase a guardarmi mentre mi allontanavo. Quando risalii in auto, la vidi raccogliere il camion dei pompieri, metterselo sotto un braccio e, con il bambino sotto l'altro, riportarli entrambi in casa.
Rimasi seduto a lungo in auto, a osservare la strada e a pensare che sarei riuscito ad affrontare molto meglio il tutto se i postumi della sbornia non fossero più stati tali. Alla fine, la porta della casa di Peter si aprì e sentii delle voci: qualcuno stava accompagnando Cassie lungo il vialetto. Girai di scatto la testa facendo finta di guardare dall'altra parte, perso nei miei pensieri, fino a che non sentii la porta richiudersi.
«Niente di nuovo» disse Cassie, affacciandosi nel riquadro del finestrino della macchina. «Peter non aveva mai detto di aver paura di qualcuno, o che qualcuno l'avesse infastidito. Era un bambino intelligente, sapeva che non doveva seguire gli sconosciuti, forse era solo un po' troppo sicuro di sé e questo avrebbe potuto metterlo nei guai. Non hanno sospetti su nessuno ma si sono domandati se non si sia trattato allora della stessa persona che ha ucciso Katy adesso. Ci sono rimasti piuttosto male.»
«Come tutti noi» dissi.
«Ma sembra che se la cavino.» Non ero riuscito a chiederlo io stesso, ma era quello che volevo sapere. «Il padre non è stato contento di dover tirare fuori tutto di nuovo, ma la madre è stata gentilissima. Tara, la sorella di Peter, vive ancora in casa. Mi ha chiesto di te.»
«Di me?» chiesi, con un piccolo e irrazionale guizzo di panico allo stomaco.
«Voleva sapere se avevo idea di come stavi. Le ho detto che i poliziotti avevano perso le tue tracce, ma che per quanto ne sapevamo stavi bene.» Sorrise maliziosamente. «Penso che tu le piacessi, all'epoca.»
Tara: un anno o due meno di noi, tutta gomiti e occhi, il tipo di bambina che cercava sempre qualcosa da andare a spifferare alla madre. Grazie al cielo, non ero entrato. «Forse dovrei andare a parlarle, dopotutto» scherzai. «È carina?»
«Proprio il tuo tipo: una bella ragazza ben piantata, con i fianchi che sembrano fatti apposta per avere tanti bambini. Fa il vigile urbano.»
«E che altro poteva fare?» dissi. Cominciavo a sentirmi meglio. «Le chiederò di mettersi l'uniforme al nostro primo appuntamento.»
«Un modo per avere tante informazioni. Okay, passiamo ad Alicia Rowan.» Cassie si raddrizzò e controllò il taccuino per il numero civico. «Vuoi venire?»
Mi ci volle poco per decidere. Non avevamo trascorso molto tempo da Jamie, per quanto mi riusciva di ricordare. Quando eravamo in casa, era quasi sempre da Peter: da lui c'era baccano e allegria, c'erano fratelli, sorelle e animali, c'era sua madre che preparava biscotti allo zenzero e c'era il televisore comprato a rate per guardare i cartoni animati. «Certo» acconsentii. «Perché no?»
Fu Alicia Rowan ad aprirci la porta. Era ancora bella, anche se in un modo sbiadito e nostalgico – ossatura delicata, guance scavate, tanti capelli biondi e grandi occhi blu tormentati – da star del cinema dimenticata alla quale lo scorrere del tempo ha donato fascino. Vidi la piccola scintilla esausta della speranza e della paura ravvivarsi nei suoi occhi quando Cassie ci presentò e svanire nel sentire pronunciare il nome di Katy Devlin.
«Sì» disse, «sì, certo, quella povera bambina… Pensano… pensate che abbia qualcosa a che fare con…? Entrate, prego, venite pure.»
Non appena mettemmo piede in casa capii che era stata una cattiva idea. Fu l'odore stesso, di sandalo e camomilla, che arrivò direttamente al mio subconscio a far riemergere moltissimi ricordi. Il pane a merenda. Il dipinto di una donna nuda, sul pianerottolo, davanti al quale ci lasciavamo andare a gomitate e risatine. Nascondersi in un armadio, con le braccia attorno alle ginocchia e gonne di cotone trasparente che mi solleticavano la faccia come fumo, "quarantanove, cinquanta!" da qualche parte nell'ingresso.
Ci portò in salotto (un copridivano fatto a mano, un Buddha sorridente di giada color fumo sul tavolino; mi venne in mente il meticoloso arredamento classe medio-bassa dei Devlin e mi chiesi che cosa ne avesse fatto la Knocknaree degli anni Ottanta di Alicia Rowan) e Cassie partì con la tiritera di rito. Sul caminetto c'era (ovvio che ci fosse, strano che non ci avessi pensato) un'enorme fotografia incorniciata di Jamie seduta sul muretto che strizzava gli occhi per il sole e rideva, il bosco nero e verde alle sue spalle. Ai lati, altre piccole fotografie, anch'esse in cornice, e una era di tre ragazzini che si tenevano vicini, l'uno col braccio al collo dell'altro, delle coroncine di carta in testa, forse per un Natale o un compleanno… "Avrei dovuto farmi crescere la barba" pensai, in preda al panico, guardando da un'altra parte. "Cassie avrebbe dovuto darmi il tempo di…"
«Nel nostro fascicolo» disse Cassie, «il rapporto iniziale dice che lei chiamò la polizia dicendo che sua figlia e i suoi amici erano scappati. C'era un motivo che le avesse fatto pensare che fossero fuggiti, piuttosto che, diciamo, si fossero persi o avessero avuto un incidente?»
«Be', sì. Vede… Oh, Dio,…» Alicia Rowan si passò le mani fra i capelli. Erano mani lunghe, che parevano prive di ossa. «Volevo mandare Jamie in collegio e lei non ci voleva andare. Mi fa sembrare incredibilmente egoista… e forse lo ero. Ma avevo davvero i miei motivi.»
«Signora Rowan» disse Cassie, in tono gentile, «non siamo qui per giudicarla.»
«Oh, no, lo so, lo so. Ma ognuno giudica se stesso, no? E voi dovreste… Oh, dovrei raccontarvi tutta la storia perché poteste capire.»
«Ci farebbe piacere sentirla. Qualunque cosa potrebbe esserci d'aiuto.»
Alicia annuì, senza molta speranza. Doveva aver sentito quelle parole così tante volte, negli anni. «Sì, sì, certo, capisco.»
Inspirò profondamente ed espirò, con gli occhi chiusi, forse contava fino a dieci. «Bene…» cominciò. «Avevo solo diciassette anni quando ebbi Jamie, sapete. Suo padre era un amico dei miei genitori, era molto molto sposato, e io molto molto innamorata di lui. Una relazione sembrava una cosa così sofisticata e audace… stanze di motel, storie inventate… e poi non credevo nel matrimonio. La trovavo una forma di oppressione fuori moda.»
Il padre di Jamie, George O'Donovan, avvocato di Dublino, era nel fascicolo, ma trenta e passa anni dopo Alicia lo stava ancora coprendo. «Poi però scoprì di essere incinta» la spronò Cassie.
«Sì. Lui ne fu sconvolto. I miei genitori vennero a sapere tutta la storia, e naturalmente anche loro ne furono sconvolti. Dicevano tutti che dovevo dare il bambino in adozione, ma io non volevo. Mi impuntai. Dissi che avrei tenuto la bambina e che l'avrei cresciuta da sola. Immagino che lo ritenessi un punto a favore per i diritti delle donne, una ribellione contro il patriarcato. Ero molto giovane.»
Era stata fortunata. Per molto meno, nell'Irlanda del 1972 le donne venivano rinchiuse a vita nei manicomi o nelle famigerate lavanderie di Santa Magdalen. «Fu una scelta molto coraggiosa» disse Cassie.
«Oh, grazie, detective. Sa, pensavo di essere una persona molto forte, allora. Ma mi chiedo se sia stata la decisione giusta. Sapete, se avessi dato Jamie in adozione…» Le si affievolì la voce.
«Si sono riavvicinati, alla fine?» chiese Cassie. «La sua famiglia e il padre di Jamie?»
Alicia sospirò. «Be', no. In realtà, no. Alla fine dissero che avrei potuto tenere la bambina se fossimo rimaste entrambe fuori dalle loro vite. Avevo screditato la nostra famiglia e, ovviamente, il padre di Jamie non voleva che sua moglie lo scoprisse.» Non c'era rabbia nella sua voce, solo sconcerto, un triste sconcerto. «I miei genitori mi comprarono questa casa, carina e lontana. Io sono originaria di Dublino, di Howth, e mi davano un po' di soldi ogni tanto. E ogni tanto mandavo una lettera al padre di Jamie per dirgli come stava e anche delle fotografie. Ero sicura che prima o poi sarebbe venuto e avrebbe voluto cominciare a vederla. E, chissà, forse sarebbe anche successo. Non lo so.»
«E quando ha deciso che doveva andare in collegio?»
Alicia si affondò le dita fra i capelli. «Io…oh, mamma mia. Mi fa stare così male pensarci.»
Aspettammo.
«Avevo appena compiuto trent'anni» riprese. «E avevo capito che non mi piaceva come ero diventata. Facevo la cameriera in un caffè in città mentre Jamie era a scuola, ma non ne valeva la pena, non ci stavo nemmeno con la spesa per i biglietti dell'autobus, e non avevo nessun titolo di studio per potermi trovare un altro lavoro. Non volevo trascorrere il resto della mia vita così. Volevo qualcosa di meglio, per me e per Jamie. Io… oh, in un certo senso ero ancora una bambina anch'io. Non avevo mai avuto la possibilità di crescere. E lo volevo.»
«E per crescere» le suggerì Cassie, «aveva bisogno di un po' di tempo per sé?»
«Sì, proprio così. Ha capito perfettamente.» Alicia strinse il braccio di Cassie con gratitudine. «Volevo trovarmi un lavoro vero, così che non fossi più costretta ad appoggiarmi ai miei genitori, ma non sapevo quale. Avevo bisogno di poterlo scoprire. E una volta che lo avessi individuato, sapevo che avrei dovuto probabilmente fare un corso, e non potevo lasciare Jamie sola tutto il tempo: sarebbe stato diverso se avessi avuto un marito, o una famiglia. Avevo qualche amica, ma non potevo pretendere che…»
Si stava attorcigliando i capelli sempre più stretti intorno alle dita. «Ma certo» disse Cassie, pratica. «Così aveva appena comunicato a Jamie la sua decisione…»
«Be', glielo avevo detto la prima volta a maggio, quando finalmente mi ero decisa. Ma aveva reagito malissimo. Avevo provato a spiegarglielo, l'avevo portata a Dublino per farle vedere la scuola, ma era servito solo a peggiorare le cose. La odiava. Diceva che le ragazze là erano tutte stupide e parlavano solo di ragazzi e di vestiti. Jamie era un po' un maschiaccio, sapete, le piaceva stare fuori nel bosco tutto il giorno. Odiava il pensiero di stare rinchiusa in una scuola di città e di dover fare esattamente quello che facevano tutti gli altri. E non voleva lasciare i suoi amici. Era molto unita ad Adam e Peter, il bambino che è sparito con lei.» Lottai contro l'impulso di nascondere il viso dietro il taccuino.
«Così avete litigato.»
«Cielo, sì. Be', in realtà fu più un assedio che una battaglia. Jamie, Peter e Adam misero in atto un vero e proprio ammutinamento. Bandirono tutti gli adulti per settimane: non parlavano con noi genitori, non ci guardavano neanche, non parlavano in classe, ogni compito di Jamie recava in alto la scritta: NON MANDATEMI VIA…»
Aveva ragione: era stato un ammutinamento. FATE RIMANERE JAMIE, scritto a lettere maiuscole in rosso e di traverso su un foglio a quadretti. Mia madre che cercava inutilmente di farmi ragionare, io che sedevo sul divano, a gambe incrociate, muto, intento a mangiucchiarmi la pelle intorno alle unghie, lo stomaco in subbuglio per l'eccitazione e la paura per l'audacia che mostravo. "Ma vincemmo noi" pensai confusamente. "Di certo vincemmo noi." Urrà e dammi-un-cinque sul muro del castello, lattine di Coca alzate in un brindisi di festa. «Ma lei rimase ferma sulla sua decisione» disse Cassie.
«Insomma… non precisamente. Mi avevano esaurita. Era così difficile… Sa, tutta la gente che ne parlava, Jamie che l'aveva messa come se la stessi mandando in un orfanotrofio, come in Annie o roba del genere, io che non sapevo cosa fare… Alla fine mi lasciai sfuggire un: "Va bene, ci penserò". Dissi loro di non preoccuparsi, che avremmo trovato una soluzione, e interruppero la protesta. Pensai davvero di aspettare un altro anno. Ma i miei genitori si erano offerti di pagare le tasse scolastiche di Jamie e non ero certa che avrebbero fatto la stessa cosa l'anno dopo. So che dicendo questo potrò sembrare una madre terribile, ma pensavo veramente…»
«Per niente» la rassicurò Cassie. Scossi la testa anch'io, automaticamente. «Così quando disse a Jamie che alla fine ci sarebbe andata…»
«Oh, accidenti…» Alicia si torceva le mani. «Era distrutta. Disse che le avevo mentito. Cosa che non avevo fatto, sa, io… e poi scappò fuori a cercare gli altri, e io pensai: "Oh, Signore, ora ricominceranno a non parlare, ma per lo meno sarà solo per una settimana o due…". Avevo aspettato fino all'ultimo momento per dirglielo, capite, perché potesse godersi l'estate… e così, quando non tornò a casa, immaginai che…»
«Immaginò che fosse scappata» finì per lei Cassie. Alicia annuì. «Pensa ancora che possa essere stata un'eventualità?»
«No. Non lo so. Oh, detective, un giorno penso una cosa, il giorno dopo ne penso un'altra… Ma c'era il suo salvadanaio. Lo avrebbe preso con sé, no? E Adam era ancora nel bosco. Se fossero scappati, di certo ora sarebbe… sarebbe…»
Voltò bruscamente la testa, portandosi una mano al viso. «Quando capì che forse poteva non essere fuggita» domandò Cassie, «quale fu il suo primo pensiero?»
Di nuovo, Alicia inspirò ed espirò a fondo, le mani strette in grembo. «Pensai… avevo torto, ma sperai che magari suo padre… sperai che l'avesse presa lui. Lui e sua moglie non potevano avere figli, sapete, così pensai che magari… ma la polizia controllò e mi assicurarono che non era andata così.»
«In altre parole» disse Cassie, «non c'era niente che le facesse pensare che qualcuno potesse averle fatto del male. Nessuno che le avesse fatto paura, o nulla che l'avesse turbata, nelle settimane precedenti.»
«No, a dire il vero, no. C'era stato un giorno… un paio di settimane prima, che era rientrata prima del solito da giocare. Era sembrata un po' sconvolta ed era rimasta stranamente silenziosa per tutta la serata. Quando le avevo chiesto se era successo qualcosa, se qualcuno le aveva dato fastidio, mi aveva risposto di no.»
Qualcosa di oscuro guizzò nella mia mente – a casa presto, "no, mamma, tutto a posto" – ma era troppo lontano da raggiungere. «Lo dissi ai detective» proseguì Alicia, «ma non era un granché su cui lavorare, giusto? E potrebbe non essere stato nulla, dopotutto. Magari aveva bisticciato con gli amici. Forse avrei dovuto capire se si trattava di qualcosa di serio o meno… ma Jamie era una bambina piuttosto riservata, chiusa. Difficile da capire.»
Cassie annuì. «Dodici anni sono un'età complicata.»
«Sì, infatti, è proprio così. Era quello il problema. Penso che non avessi capito che era grande abbastanza per… be', per provare delle emozioni così forti rispetto agli eventi. Ma lei, Peter e Adam… avevano fatto tutto insieme fin da piccolissimi. Penso che non potessero immaginare la vita senza gli altri due.»
Fui quasi accecato da un'ondata di pura indignazione. "Non dovrei essere qui" pensai. "È una vera stronzata." Avrei dovuto essere seduto in un giardino in fondo alla strada, a piedi nudi e con qualcosa da bere in mano, a scambiarci le storie della giornata di lavoro con Peter e Jamie. Non ci avevo mai riflettuto prima e il pensiero quasi mi mise fuori combattimento: tutte le cose che avremmo potuto avere. Avremmo potuto restare svegli tutta la notte a studiare e a stressarci prima degli esami di maturità; io e Peter avremmo potuto litigare su chi doveva accompagnare Jamie al ballo delle debuttanti per prenderla poi in giro su come le stava il vestito; saremmo potuti tornare a casa insieme, cantando e ballando come matti, dopo notti di ubriacature al college; avremmo potuto prenderci un appartamento, andare in giro per l'Europa, passando a braccetto per incerte fasi modaiole, lavoretti sottopagati e storie d'amore ad alto tasso di drammaticità. Un paio di noi avrebbero potuto essersi sposati e aver dato al terzo un figlioccio. Mi avevano derubato. Mi piegai sul taccuino perché Alicia Rowan e Cassie non potessero vedermi il volto.
«La sua camera da letto è ancora come l'aveva lasciata» disse Alicia. «Nel caso… so che è una cosa sciocca, è ovvio, ma se tornasse non vorrei che pensasse… Volete vederla? Potrebbe esserci… gli altri detective potrebbero non aver notato qualcosa…»
La camera da letto fu come uno schiaffo in pieno viso: pareti bianche con poster di cavalli, tendine gialle che si muovevano al vento, un acchiappasogni sopra al letto. Ne avevo avuto abbastanza. «Io vado ad aspettarti in macchina» dissi, e Cassie mi lanciò una rapida occhiata. «Grazie per il suo tempo, signora Rowan.»
In macchina, appoggiai la testa sul volante fino a quando l'offuscamento non si dileguò. Rialzai lo sguardo, vidi un fluttuare di giallo ed ebbi una scarica di adrenalina quando una testa biondo platino si mosse fra le tende. Ma si trattava semplicemente di Alicia Rowan che orientava il piccolo vaso di fiori sul davanzale verso l'ultima luce grigia del pomeriggio.
«La camera da letto è un po' spettrale» commentò Cassie quando ci fummo lasciati l'abitato alle spalle e ci inoltrammo per stradine secondarie piene di curve. «Il pigiama sul letto e un vecchio libro aperto sul pavimento. Niente che mi abbia dato alcuna idea. Eri tu quello nella foto sul caminetto?»
«Immagino di sì» risposi. Continuavo a sentire l'inferno dentro e non avevo alcuna voglia di mettermi ad analizzare i soprammobili di Alicia Rowan.
«Quello che ci ha detto su Jamie, che un giorno era arrivata a casa molto turbata… Ricordi di cosa si trattava?»
«Cassie» le dissi, «ne abbiamo già parlato. E te lo ripeto: non ricordo un beneamato cazzo. Per quello che mi riguarda, la mia vita è iniziata a dodici anni e mezzo, su un traghetto in viaggio per l'Inghilterra, okay?»
«Cristo, Ryan. Era solo una domanda.»
«E ora sai la risposta» ribattei, scalando una marcia. Cassie fece un gesto con le mani che voleva dire "lasciamo perdere", accese la radio a tutto volume e mi lasciò stare.
Dopo qualche chilometro, staccai una mano dal volante e le arruffai i capelli.
«Vaffanculo, stronzo» disse lei, senza rancore.
Feci un gran sorriso, sollevato, e le tirai un ricciolo. Mi diede una pacca sulla mano. «Senti, Cass» cominciai, «devo chiederti una cosa.»
Mi guardò con sospetto.
«Secondo te, i due casi sono collegati o no? Se proprio dovessi tirare a indovinare.»
Cassie ci pensò per un bel po', guardando fuori dal finestrino i cespugli, il cielo grigio e le nuvole che si muovevano velocemente. «Non lo so, Rob» rispose alla fine. «Ci sono cose che non combaciano. Katy è stata lasciata dove poteva essere trovata subito, mentre… questa è la differenza più grande, dal punto di vista psicologico. Ma potrebbe esserci una spiegazione, magari il nostro uomo si sentiva perseguitato dal senso di colpa da allora e ha pensato che questa volta lo avrebbe sentito meno se avesse fatto in modo che la famiglia riavesse il corpo. E Sam ha ragione: quante sono le probabilità che ci siano due diversi assassini di bambini nello stesso posto? Se dovessi scommetterci dei soldi… davvero non lo so.»
Frenai di botto, e credo anche che urlammo tutti e due. Qualcosa aveva attraversato la strada sfrecciando davanti a noi – qualcosa di basso e scuro, con l'andatura sinuosa di una donnola o di un ermellino, troppo grande però per essere uno di quegli animali – ed era scomparso tra i folti cespugli dall'altra parte della strada.
Fummo proiettati in avanti; se devo essere sincero, stavo guidando troppo velocemente per una stradina secondaria a doppio senso e a carreggiata singola. Cassie però è una fanatica delle cinture di sicurezza, quelle cinture che avrebbero potuto salvare la vita ai suoi genitori, e anch'io le avevo allacciate. La macchina si fermò di traverso, in mezzo alla strada, con una ruota a pochi centimetri dal fosso. Cassie e io non ci muovemmo, ancora storditi. Alla radio una band di ragazze continuava a ululare con una gioia insensata.
«Rob?» mormorò Cassie, dopo un po', col fiato mozzo. «Stai bene?»
Non riuscivo a staccare le mani dal volante. «Che cazzo era?»
«Cosa?» Cassie aveva gli occhi spaventati.
«Quell'animale» dissi. «Che cos'era?»
Cassie mi stava guardando con qualcosa di nuovo negli occhi, qualcosa che mi spaventò quasi quanto la creatura. «Non ho visto nessun animale.»
«Ci ha attraversato la strada. Devi essertelo perso perché stavi guardando fuori dal finestrino.»
«Sì» fece lei, dopo quello che sembrò un tempo lunghissimo. «Sì, immagino di sì. Magari una volpe…»
Sam aveva trovato il suo giornalista in poche ore: Michael Kiely, sessantadue anni, quasi in pensione dopo una carriera di moderato successo. Aveva raggiunto l'apice alla fine degli anni Ottanta, quando aveva scoperto che un ministro del governo aveva nove membri della sua famiglia sul libro paga come "consulenti", ma poi non era mai più riuscito a eguagliarsi. Nel 2000, quando ne erano stati annunciati i progetti, Kiely aveva scritto un articolo pieno di sarcasmo nel quale sosteneva che l'autostrada aveva già raggiunto un primo obiettivo: quella mattina, in Irlanda c'erano molti operatori immobiliari felici come pasque. A parte una lettera piena di retorica e lunga due colonne del ministro per l'Ambiente, che spiegava come l'autostrada avrebbe reso tutto perfetto per sempre, non c'era stato alcun seguito.
Ma c'erano voluti alcuni giorni prima che Sam riuscisse a persuadere Kiely a incontrarlo. Non appena aveva menzionato Knocknaree, Kiely aveva urlato: «Pensi che sia uno stupido, ragazzo?» e aveva riattaccato. Alla fine, Sam era riuscito a tenerlo al telefono abbastanza a lungo per spiegargli cosa stava cercando e perché. Kiely si era fatto mandare via fax il suo documento di riconoscimento e poi aveva richiamato una scocciatissima Bernadette per avere conferma che il detective Samuel O'Neill esistesse davvero e per chiederle che aspetto avesse. E anche allora si era rifiutato di farsi vedere con Sam in città. Si era fatto raggiungere in un pub di infimo ordine dalle parti di Phoenix Park. «Qui è più sicuro, ragazzo, molto più sicuro.» Era così paranoico che Sam non era riuscito neanche a capire di cosa o di chi avesse paura. «Sembra una storia alla Elmore Leonard» commentai quando Sam ce lo raccontò a cena.
«Già» fece Cassie, passando a Sam il pane all'aglio. «E come te la sei cavata?»
Kiely aveva un naso a becco d'uccello e una folta zazzera di capelli bianchi («Ha l'aria di un poeta»). Sam gli aveva offerto un Bailey e brandy («Buon Dio» esclamai; «Oho» fu il commento di Cassie mentre lanciava un'occhiata meditabonda al suo ripiano degli alcolici) e aveva tentato di portarlo sull'argomento autostrada, ma Kiely si era rinchiuso in sé e aveva sollevato una mano con occhi visibilmente sofferenti. «La voce, ragazzo, abbassa la voce… Oh, c'è qualcosa sotto, non c'è dubbio. Qualcuno – niente nomi – mi ordinò fin dall'inizio di tenermi fuori dalla storia. Ragioni legali, dissero, niente prove… assurdo. Baggianate. Era solo velenoso interesse personale. Questa città, ragazzo… questa vecchia città ha la memoria molto lunga.»
E aveva cominciato a parlare del libro che aveva tentato di far pubblicare senza successo da diversi editori. «Be', qualcuno doveva averli messi sul chi vive, ovviamente. Non è difficile indovinare chi. Non credo di esagerare quando dico che trasformerà il panorama della politica irlandese… è un'immagine ironica, quando si considera il contesto, no? "Fiuto per la verità" lo chiamerò.»
Sam si era mostrato interessato alle tribolazioni del volume e al secondo giro Kiely si era un po' rilassato ed era diventato di umore più malleabile. «Si potrebbe sostenere» aveva detto a Sam, sporgendosi in avanti sulla sedia e facendo ampi gesti, «si potrebbe sostenere che quel posto ha portato male fin da subito. Tanta retorica iniziale sul nuovo centro urbano che sarebbe sorto e poi, dopo alcuni anni, dopo che avevano venduto fino all'ultima casa della zona residenziale, andò tutto a monte. Dissero che il budget non avrebbe permesso nessun altro tipo di ampliamento. Si potrebbe sostenere, ragazzo, che l'unico scopo di quella retorica fosse quello di assicurarsi la vendita delle case a un prezzo di parecchio superiore a quello che ci si potrebbe aspettare per un insediamento che si trova in mezzo al nulla. Non lo sostengo, ovviamente, perché non ho prove.»
Aveva finito il suo drink e aveva guardato il bicchiere vuoto con bramosia. «Quello che posso dirti è che c'è stato qualcosa di strano in quel posto fin dall'inizio. Ma sai i feriti e i morti che ci sono stati durante la costruzione? Quasi tre volte la media nazionale. Ci credi, ragazzo, che un posto possa avere una volontà propria, che possa ribellarsi, diciamo, a un'errata gestione umana?»
«Qualunque cosa si dica di Knocknaree» intervenni, «di certo non ha messo quel cazzo di sacchetto di plastica sulla testa di Katy Devlin.» Ero lieto che Kiely fosse un problema di Sam e non mio. Di solito trovo divertente quel tipo di assurdità, ma visto come mi sentivo quella settimana, probabilmente lo avrei preso a calci negli stinchi.
«Cosa gli hai risposto?» chiese Cassie.
«Gli ho risposto di sì» rispose Sam, serenamente, cercando di arrotolare le fettuccine sulla forchetta. «Avrei risposto di sì anche se mi avesse chiesto se credevo che piccoli omini verdi stessero governando il Paese.»
Nonostante questo, però, quando Sam aveva provato a portare Kiely su dettagli più concreti del recente passato di Knocknaree, il giornalista gli aveva lanciato uno sguardo di avvertimento e aveva agitato un lungo dito verso gli altri tavoli. Si era scolato il terzo bicchiere, in silenzio, con il mento affondato nel petto (chissà come si sarebbe divertito Sam quando avrebbe tentato di farlo rientrare nelle spese), poi si era infilato il cappotto, gli aveva stretto la mano con una presa lunga e calorosa, aveva mormorato un: «Non guardarlo finché non sarai in un posto sicuro» ed era uscito dal pub, lasciandogli nella mano un foglietto tutto spiegazzato.
«Che tipo!» esclamò, cercando nel portafogli. «Penso che gli abbia fatto piacere avere qualcuno che lo ascoltasse, per una volta. Per come è fatto, potrebbe mettersi a gridare un segreto da un tetto e nessuno gli crederebbe.» Estrasse dalla tasca qualcosa di apparentemente metallico, stringendolo fra pollice e indice, e lo passò a Cassie. Appoggiai la forchetta e mi sporsi da sopra la sua spalla.
Era un pezzo di carta argentata, di quelli che si estraggono dai pacchetti di sigarette nuovi, arrotolato molto stretto. Cassie lo dispiegò. Sul retro c'era scritto, a pennarello nero, sbavato e quasi illeggibile: "Dynamo – Kenneth McClintock. Futura – Terence Andrews. Global – Jeffrey Barnes e Conor Roche".
«Sei sicuro che sia affidabile?» chiesi.
«Completamente pazzo» rispose Sam, «ma è un buon giornalista, o almeno lo era. Direi che non mi avrebbe dato questi nomi se non ne fosse stato certo.»
Cassie passò un dito sul pezzo di carta. «Se c'è riscontro» disse, «è la pista migliore che abbiamo al momento. Ben fatto, Sam.»
«È salito su un'auto, ragazzi» fece Sam, un po' preoccupato. «Non sapevo se lasciarlo guidare, dopo tutto quello che aveva bevuto, ma… potrei aver bisogno di parlargli di nuovo. Devo tenermelo buono. Cosa dite… gli telefono per sentire se è arrivato a casa sano e salvo?»
Il giorno dopo era un venerdì, erano passate due settimane e mezzo dall'inizio delle indagini, e sul finire della giornata O'Kelly ci chiamò nel suo ufficio. Fuori il freddo era pungente, ma il sole che entrava dalle grandi finestre riscaldava la sala operativa, così che da dentro potevi quasi credere che fosse ancora estate. Sam era nel suo angolo e, fra una telefonata bisbigliata e l'altra, scribacchiava qualcosa; Cassie era al computer, a passare qualcuno al setaccio del sistema Pulse, che contiene tutte le informazioni aggiornate che possono essere utili alle indagini; io e un paio di agenti di supporto avevamo appena fatto un giro di caffè e ci stavamo passando le tazze. Nella stanza si udiva il mormorio impegnato e intento di una classe di studenti al lavoro. O'Kelly mise la testa dentro, si cacciò pollice e indice in bocca e fischiò. Quando il mormorio si spense, sbraitò: «Ryan, Maddox, O'Neill», fece segno con il pollice dietro di sé e richiuse la porta, sbattendola.
Noi tre ci guardammo. Con la coda dell'occhio vidi gli altri agenti scambiarsi di sottecchi occhiate perplesse. Ce lo aspettavamo già da un paio di giorni, o per lo meno, io me lo aspettavo. Avevo ripassato la scena mentalmente mentre guidavo per andare al lavoro, sotto la doccia e perfino mentre dormivo, al punto che m'ero svegliato farfugliando. «Cravatta» feci segno a Sam, indicandogliela. Il nodo gli si spostava sempre verso un orecchio quando era molto concentrato.
Cassie bevve un ultimo sorso di caffè e sospirò. «Okay» disse, «andiamo». Gli agenti di supporto tornarono a fare quello che stavano facendo, ma sentii i loro sguardi che ci seguivano, fuori dalla stanza e lungo tutto il corridoio.
«Allora» cominciò O'Kelly non appena fummo entrati nel suo ufficio. Era seduto dietro la scrivania e stava cincischiando con un orribile giochetto cromato da manager, rimasuglio degli anni Ottanta. «Come procede l'Operazione come cavolo la chiamate?»
Non ci sedemmo e ci lanciammo in un'elaborata descrizione di quello che avevamo fatto per trovare l'assassino di Katy Devlin e del perché non aveva funzionato. Stavamo parlando troppo in fretta e troppo a lungo, ci stavamo ripetendo con dettagli che conosceva già: sapevamo cosa stava per arrivare e nessuno voleva sentirlo.
«Sembra che abbiate controllato tutto per bene» disse O'Kelly quando finalmente tacemmo. Stava ancora manipolando il suo orribile giochetto, clic clic clic… «Avete un sospettato principale?»
«Stiamo pensando ai genitori» dissi. «L'uno o l'altro.»
«Il che significa che non avete niente di concreto su nessuno dei due.»
«Stiamo ancora indagando, signore» disse Cassie.
«E io ho quattro sospetti per le telefonate minatorie» aggiunse Sam.
O'Kelly sollevò lo sguardo. «Ho letto i vostri rapporti. Attenti a dove mettete i piedi.»
«Sì, signore.»
«Bene.» O'Kelly depose il giochetto cromato. «Continuate. Non avete bisogno di trentacinque agenti di supporto per farlo.»
Anche se me l'aspettavo, la botta fu ugualmente molto forte. Quegli agenti non avevano mai smesso di inquietarmi, ma toglierceli sembrava una mossa piena di significato, un primo, irrevocabile passo verso la ritirata. Voleva dire che, dopo qualche settimana, O'Kelly ci avrebbe reinseriti nei turni, ci avrebbe assegnato nuovi casi, e l'Operazione Vestale sarebbe diventata qualcosa su cui lavorare nei ritagli di tempo. Qualche altro mese e Katy sarebbe stata relegata alla cantina, alla polvere e alle scatole di cartone, riesumata una volta all'anno o ogni due anni se avessimo avuto una buona pista. RTÉ avrebbe fatto uno squallido documentario su di lei, con una voce fuori campo fortemente caratterizzata dal respiro e una raccapricciante musica di sottofondo a sottolineare che il caso era ancora irrisolto. Mi chiesi se Kiernan e McCabe avessero sentito quelle stesse parole in quella stessa stanza. Magari da qualcuno che giocherellava con lo stesso inutile aggeggio.
O'Kelly dovette avvertire l'ammutinamento nel nostro silenzio perché domandò: «Che c'è?».
Tirammo fuori il meglio di noi stessi, i discorsi preparati in anticipo, i più sinceri ed eloquenti, ma anche mentre parlavo sapevo che non sarebbe servito a niente. Preferisco non ricordare la maggior parte di ciò che dissi, sono certo che verso la fine stessi blaterando parole senza senso. «Signore, abbiamo sempre saputo che non sarebbe stato un caso che si sarebbe risolto in un soffio» conclusi. «Ma ci stiamo arrivando, passo dopo passo. Penso davvero che sarebbe un errore mollare ora.»
«Mollare?» chiese O'Kelly, indignato. «Quando mi avete sentito parlare di mollare? Non stiamo mollando un bel niente. Stiamo ridimensionando e basta.»
Nessuno disse niente. O'Kelly si sporse in avanti e tamburellò con le dita sulla scrivania. «Ragazzi» riprese in tono più tranquillo, «questa è una semplice analisi costi-benefici. Avete già ottenuto tutto il possibile dagli agenti di supporto. Quante persone vi sono rimaste da interrogare?»
Silenzio.
«E quante telefonate sono arrivate oggi sulla linea delle informazioni alla polizia?»
«Cinque» rispose Cassie dopo un momento. «Finora.»
«Qualcuna utile?»
«Forse no.»
«Precisamente.» O'Kelly allargò le mani. «Ryan, lo hai detto anche tu che non è un caso che si risolve in un soffio. È proprio questo che vi sto dicendo: ci sono casi veloci e casi lenti, e questo richiederà del tempo. Nel frattempo però, ci sono stati altri tre omicidi, c'è una specie di guerra della droga su a nord, e ci sono persone che mi chiamano da ogni parte per sapere cosa sto facendo con tutti gli agenti di supporto di Dublino. Capite cosa voglio dire?»
Lo capivo fin troppo bene. Di O'Kelly si sarebbe potuto dire tutto, ma bisognava dargli credito di questo: un numero spaventosamente grande di sovrintendenti ci avrebbero tolto il caso, a me e a Cassie, fin dall'inizio. Fondamentalmente, l'Irlanda è ancora una piccola città, di solito si ha un'idea del colpevole quasi fin dall'inizio e la maggior parte del tempo e dello sforzo non viene dedicata alla sua identificazione, ma a costruire un caso che non faccia acqua. Nei primi giorni, quando era stato chiaro che l'Operazione Vestale avrebbe rappresentato un'eccezione di alto profilo, O'Kelly doveva aver provato la tentazione di rispedirci ai nostri delinquentelli delle code ai taxi e di passare il caso a Costello o a uno dei colleghi con più di trent'anni di esperienza. Non mi ritengo un ingenuo, ma quando non lo aveva fatto, avevo attribuito la cosa a una qualche forma di lealtà, di riluttanza a mollare… non verso di noi personalmente, ovviamente no, ma verso di noi come membri della sua squadra. Mi era piaciuto come pensiero. Così adesso mi chiedevo se non ci fosse stato dell'altro: se un suo sesto senso segnato dalle cicatrici di numerose battaglie non avesse saputo fin dall'inizio che quel caso era destinato al fallimento.
«Tenetene uno o due» concesse, magnanimo. «Per le telefonate dei cittadini, le scarpinate e roba del genere. Chi volete?»
«Sweeney e O'Gorman» dissi subito. Avevo imparato bene i nomi, ma in quel momento erano gli unici due che ricordavo.
«Andate a casa» ci salutò O'Kelly. «Riposatevi questo weekend. Bevetevi una birra o due, dormite un po'… Tu, Ryan, hai gli occhi che sembrano buchi nella neve fatti col piscio. Passate un po' di tempo con le vostre ragazze o con chi volete e tornate lunedì freschi e pimpanti.»
In corridoio non ci guardammo. Nessuno fece per tornare alla sala operativa. Cassie si appoggiò al muro e strisciò la punta della scarpa sulla moquette.
«Ha ragione, in un certo senso» disse infine Sam. «Ce la faremo anche da soli.»
«No, Sam» dissi. «Proprio no.»
«Cosa?» chiese Sam, confuso. «No cosa?» Distolsi lo sguardo.
«È l'idea in sé» spiegò Cassie. «Non dovremmo essere ostacolati in questo caso. Abbiamo il corpo, l'arma, abbiamo… dovremmo avere qualcuno, a questo punto.»
«Be'» intervenni, «io so cosa farò. Troverò il pub meno indecente qui vicino e mi sbronzerò di brutto. Venite con me?»
Andammo da Doyle: musica anni Ottanta troppo alta e pochissimi tavoli, impiegati e studenti ammassati al bancone del bar. Nessuno di noi aveva voglia di andare in un luogo frequentato da colleghi dove, inevitabilmente, tutti avrebbero voluto sapere come stava andando l'Operazione Vestale. Al terzo giro, mentre tornavo dal cesso, mi scontrai con una ragazza e il suo bicchiere si ribaltò, bagnando entrambi. Era colpa sua perché mi veniva incontro girata di spalle e intanto rideva per qualcosa che aveva detto un suo amico. Era davvero molto carina, il tipo minuto ed etereo che mi piace. Mi lanciò un'occhiata d'apprezzamento mentre ci scusavamo reciprocamente e controllavamo i danni, così le offrii un altro drink e cominciammo a chiacchierare.
Si chiamava Anna e frequentava un master di storia dell'arte. Aveva una cascata di capelli chiari che mi faceva pensare a spiagge calde, indossava una di quelle gonne bianche di cotone fluttuanti e aveva un virino che avrei potuto stringere tra le mani. Le dissi che ero un professore di letteratura di un'università in Inghilterra, non ricordo quale, venuto per fare ricerche su Bram Stoker. Lei succhiava dal bordo del bicchiere e rideva alle mie battute, mostrando piccoli denti bianchi e un'affascinante malocclusione dentale superiore.
Dietro di lei, Sam rideva a sopracciglia inarcate e Cassie faceva la mia imitazione del cucciolo con gli occhioni e la lingua penzoloni, ma non mi interessava. Era passato molto tempo dall'ultima volta che ero stato con una donna e desideravo ardentemente andare a casa con quella ragazza, ridere con lei magari in un appartamento di studenti con poster d'arte alle pareti, arrotolarmi quei capelli così appariscenti attorno alle dita e lasciare che la mente si perdesse nel nulla, giacere nel suo letto tutta la notte e il giorno seguente, tranquillo e al sicuro, senza pensare a nessuna delle nostre beghe investigative. Misi una mano sulla spalla di Anna per spostarla dalla traiettoria di un tipo che girava con quattro pinte piuttosto sbilanciate e contemporaneamente mostrai il dito medio a quei due invidiosi.
La gente ci spingeva sempre più vicini. Avevamo esaurito l'argomento dei nostri rispettivi studi – confesso che avrei voluto saperne un po' di più su Bram Stoker – e ci eravamo messi a parlare delle isole Aran (di lei e di alcune amiche, l'estate precedente; delle bellezze della natura; della gioia di poter scappare dalla vita urbana con tutta la sua superficialità; che, una volta, all'alba, era certa di aver visto il Tír na nÓg, il più popolare "altromondo" irlandese, all'orizzonte) e aveva cominciato a toccarmi il polso per enfatizzare i suoi punti di vista, quando uno dei suoi amici si staccò dal suo chiassoso gruppo e venne a piazzarsi dietro di lei.
«Tutto bene, Anna?» chiese, minaccioso, mettendole un braccio intorno alla vita e lanciandomi lo sguardo infuriato del toro.
Fuori dal campo visivo dell'animale, Anna rovesciò gli occhi al cielo con un sorrisino cospiratorio. «Va tutto bene, Cillian» rispose. Non penso fosse il suo ragazzo e, a ogni modo, non si comportava come una già impegnata, ma, evidentemente, lui non era dello stesso avviso. Era un tipo robusto, belloccio, e sicuramente stava bevendo da parecchio perché non vedeva l'ora di regolare la faccenda fuori.
Per un momento ci pensai davvero. "Hai sentito cosa ha detto la signorina, amico, tornatene dai tuoi compari…" Guardai verso Sam e Cassie: avevano smesso di osservarmi e stavano conversando fitto fitto, le teste vicine per sentire meglio in quel bailamme, e Sam stava illustrando qualcosa sul tavolo con il dito. All'improvviso, mi sentii mortalmente stanco di me stesso, del mio alter ego professionale e, di conseguenza, di Anna e di qualunque gioco stesse giocando con me e con quel Cillian. «Devo tornare dalla mia ragazza» le dissi, «scusami ancora per averti rovesciato il bicchiere» e mi allontanai dalla O di sorpresa che si era formata sulla sua bocca e dalla bellicosa espressione di Cillian.
Passai brevemente il braccio attorno alle spalle di Cassie mentre mi sedevo e lei mi lanciò uno sguardo sospettoso. «Ti è andata male?» chiese Sam.
«No» rispose Cassie al posto mio. «Scommetto che ha cambiato idea e le ha detto che ha la ragazza. Ed ecco il motivo per cui adesso è così sdolcinato. La prossima volta che lo fai, Ryan, baciò Sam così a lungo da stenderlo e lascio che i compari della tua amichetta te le suonino per averla presa in giro così.»
«Fantastico» fu l'allegro commento di Sam. «Mi piace questo gioco.»
All'ora di chiusura, Cassie e io tornammo al suo appartamento. Sam era andato a casa, era venerdì e non dovevamo alzarci presto il mattino dopo. Non sembrava esserci ragione per non restare ancora alzati a bere, a cambiare musica di tanto in tanto e lasciare che il fuoco lentamente si riducesse a un invisibile bagliore.
«Sai» disse pigramente Cassie mentre pescava dal suo bicchiere un pezzo di ghiaccio da masticare, «quello che abbiamo dimenticato è che i bambini pensano in modo diverso.»
«A cosa ti stai riferendo?» Stavamo parlando di Shakespeare, di qualcosa che aveva a che fare con le fate in Sogno di una notte di mezza estate, e la mia mente era rimasta lì. Immaginando che stesse per tirare fuori una qualche analogia da tarda notte fra il modo di pensare dei bambini e quella della gente adulta nel XVI secolo, mi stavo già apprestando alla risposta.
«Ci stiamo chiedendo come ha fatto a portarla sul luogo del delitto… no, smettila e ascolta.» Le stavo spingendo la gamba con il piede, lamentandomi: «Zitta, sono fuori servizio, non ti sento…». Ero confuso per la vodka, l'ora tarda e avevo deciso che quel caso frustrante, ingarbugliato e intrattabile mi aveva stancato. Volevo parlare ancora un po' di Shakespeare o magari giocare a carte. «Quando avevo undici anni un tipo provò a molestarmi.»
Smisi di scalciare e sollevai la testa per guardarla. «Cosa?» chiesi, forse con troppa sollecitudine. Eccola, finalmente, pensai, la stanza segreta di Cassie, e stavo per esserci invitato.
Mi guardò, divertita. «No, non mi fece nulla. Non fu niente di che.»
«Ah» dissi, scioccamente e appena un po' seccato. «Allora cosa accadde?»
«A scuola da me c'era la mania delle biglie: tutti giocavano a biglie, sempre, durante il pranzo, dopo la scuola. Si portavano in giro in un sacchetto di plastica e più ne avevi meglio era. Così un giorno che ero rimasta in punizione dopo la scuola…»
«Tu? Sono strabiliato» dissi. Mi girai su un fianco e recuperai il bicchiere. Non ero certo di dove sarebbe andata a parare con quella storia.
«Vaffanculo, solo perché tu eri il Signorino Perfettino. Comunque, stavo andando via, e uno del personale, non un insegnante… un custode o forse un bidello o roba del genere, uscì da un piccolo capanno e mi chiese: "Vuoi delle biglie? Io ne ho alcune bellissime, se vieni qui te ne regalo un po'". Era un vecchio, avrà avuto sessant'anni, con i capelli bianchi e dei baffi enormi. Così mi affacciai alla porta del capanno e dopo un po' entrai.»
«Dio, Cass. Che scemetta» la sgridai benevolmente. Bevvi un altro sorso, appoggiai il bicchiere e le presi i piedi sulle mie gambe per massaggiarglieli.
«No, te l'ho detto, non accadde niente. Mi venne dietro e mi mise le mani sotto le braccia, come se volesse sollevarmi, solo che poi cominciò a trafficare con i bottoni della mia camicetta. Gli chiesi: "Cosa sta facendo?" e lui: "Le biglie le tengo sullo scaffale là in alto. Ti tiro su così riesci a prenderle". Sapevo che c'era qualcosa di sbagliato, anche se non avevo idea di cosa fosse. Mi liberai e dissi: "Non le voglio, le biglie" e filai a casa di corsa.»
«Sei stata fortunata» commentai. Aveva i piedi magri e arcuati, riuscivo a sentirne i tendini anche attraverso i calzettoni morbidi che portava in casa, le piccole ossa che si muovevano sotto le mie dita. Me la immaginai a undici anni, tutta ginocchia e unghie mangiucchiate e occhi marroni seri seri.
«Sì, è vero. Dio solo sa cosa sarebbe potuto accadere.»
«Lo dicesti a qualcuno?» chiesi, ma solo perché volevo sapere di più di quella storia, essere il depositario di una qualche rivelazione, di un qualche terribile e vergognoso segreto.
«No. Mi sembrava troppo sgradevole, e comunque non sapevo neanche cosa raccontare. È questo il punto: non avevo proprio pensato che potesse avere a che fare col sesso. Sapevo del sesso, le mie amiche e io ne parlavamo in continuazione, sapevo che c'era qualcosa di sbagliato, sapevo che lui aveva cercato di sbottonarmi la camicetta, ma non feci mai due più due. Anni dopo, sui diciott'anni, qualcosa me lo ricordò perché vidi dei bambini giocare a biglie, o roba del genere. E all'improvviso capii: quell'uomo aveva cercato di molestarmi!»
«So esattamente cosa intendi» dissi. Era vero: avevo avuto la stessa sensazione archimedea a posteriori, non molto tempo prima, ma non ricordavo quando o forse era troppo difficile filtrare la cosa attraverso la vodka.
«I bambini non collegano le cose come fanno gli adulti» riprese Cassie. «Dammi i piedi che te li massaggio io.»
«Io non lo farei. Non senti le ondate di puzza dai calzini?»
«Dio, sei disgustoso. Non li cambi mai?»
«Solo quando rimangono attaccati al muro. Secondo la migliore tradizione degli scapoloni.»
«Non è una tradizione. È un'evoluzione al contrario.»
«Accomodati allora» le dissi, scoprendomi i piedi e allungandoli verso di lei.
«No. Trovati una ragazza.»
«Cosa? Cosa stai blaterando adesso?»
«Alle fidanzate non frega se hai le calze che puzzano di gorgonzola. Alle amiche sì.» Ciononostante, si diede una scrollatine alle mani in modo veloce e professionale e mi prese il piede. «Inoltre, romperesti anche un po' meno le palle se avessi una vita un po' più movimentata.»
«Senti chi parla» dissi, rendendomi conto mentre lo dicevo che non avevo idea di quanto movimento ci fosse nella vita di Cassie. Sapevo che c'era stato un quasi fidanzato prima che la conoscessi, un avvocato di nome Aidan, ma era scomparso dalla scena più o meno quando lei era entrata alla Narcotici. È difficile che i rapporti sopravvivano ai lavori sotto copertura. Ovviamente, se avesse avuto un ragazzo da allora lo avrei saputo, e mi piace pensare che avrei saputo anche se fosse uscita con qualcuno, con tutto quello che la cosa implica, ma a parte questo non avevo nessun'altra idea. Avevo sempre pensato che fosse perché non c'era niente da sapere, ma all'improvviso non ne ero più così certo. Lanciai uno sguardo incoraggiante a Cassie, ma lei, con il più enigmatico dei suoi sorrisi, continuò a massaggiarmi il tallone.
«L'altra cosa» riprese, «è il motivo per cui entrai là dentro.» Cassie ha una mente che sembra uno svincolo stradale a quadrifoglio: gira in varie direzioni e poi, per un qualche escheriano tipo di rifiuto della dimensione, ripiomba vertiginosamente al punto centrale. «Non fu solo per le biglie. Col suo accento così stretto, delle Midland, penso, mi sembrò che avesse detto: "Vuoi delle meraviglie?". Insomma, sapevo che non era così, sapevo che aveva detto "biglie", ma una parte di me pensava che fosse uno di quei misteriosi vecchietti delle storie e che nel capanno avrei trovato scaffali e scaffali pieni di sfere magiche e pozioni e antiche pergamene e piccoli draghi chiusi in gabbie. Sapevo che era solo una baracca e che lui era solo un custode, ma nello stesso tempo pensavo anche che quella potesse essere la mia occasione per diventare uno di quei bambini che entrano nell'armadio e si ritrovano in un altro mondo, e non sopportavo l'idea di dover trascorrere il resto della vita con il dubbio di essermelo perso.»
Come faccio a spiegarvi com'era il rapporto fra me e Cassie? Dovrei portarvici, accompagnarvi per ogni sentiero della nostra segreta geografia condivisa. Il truismo ritiene impossibile una vera amicizia tra un uomo e una donna eterosessuali, impossibile che siano amici platonici. Noi invece sfidavamo l'impossibile, mettevamo giù i nostri cinque assi e scappavamo via facendoci beffe degli altri. Lei era la cugina con la quale trascorrevi l'estate, come nei libri, alla quale insegnavi a nuotare in un lago pieno di moscerini e le infilavi i girini nel costume, con la quale facevi le prove dei primi baci su una collina ricoperta di erica e con la quale ne ridevi anni dopo, con uno spinello clandestino in mano, nel solaio strapieno della nonna. Mi dipingeva le unghie color oro e mi sfidava a lasciarle così per andare al lavoro. Dicevo a Quigley che, secondo lei, lo stadio di Croke Park sarebbe diventato un centro commerciale, e la guardavo mentre cercava di decifrare i suoi farfuglii indignati. Tagliò la confezione del tappetino nuovo per il mouse e mi attaccò alla schiena la parte che diceva TOCCAMI – SENTI LA DIFFERENZA: me la tenni lì mezza giornata prima di accorgermene. Uscivamo dalla sua finestra e scendevamo per la scala antincendio fino al tetto aggettante del piano di sotto per starcene lì a bere cocktail improvvisati, a cantare canzoni di Tom Waits e a guardare le stelle che ruotavano sulle nostre teste.
No. Queste sono storie alle quali mi piace pensare, sono piccole monete brillanti e non senza valore. Ma, soprattutto, ogni giorno e qualunque cosa facessimo, era la mia collega. Non so spiegarvi cosa questa parola, perfino ora, mi faccia sentire, cosa significhi. Potrei raccontarvi di quando andavamo di stanza in stanza, con la pistola spianata davanti a noi, tenuta con entrambe le mani, in case silenziose dove ci era stato segnalato un sospetto armato, di quando aspettavamo dietro a ogni porta, o delle lunghe notti di sorveglianza, seduti in macchine scure a bere caffè nero da un thermos o a tentare di giocare a carte alla luce dei lampioni. Una volta inseguimmo a cento all'ora due ladri d'auto nel loro territorio, una zona abbandonata piena di graffiti e con aree adibite a discariche. Spingevo sull'acceleratore senza guardare il tachimetro. L'auto che inseguivamo andò a schiantarsi contro un muro e l'autista, un quindicenne, ci morì tra le braccia mentre cercavamo di tranquillizzarlo promettendogli la mamma e l'ambulanza. In un condominio che avrebbe stravolto la vostra immagine di umanità se l'aveste visto, un tossicomane mi minacciò con una siringa. Non era nemmeno lui che stavamo cercando ma suo fratello, e il nostro diverbio stava incanalandosi lungo le linee di una conversazione normale quando lui mosse la mano troppo in fretta e all'improvviso mi ritrovai con un ago puntato alla gola. Mentre me ne stavo lì immobile e sudato, pregando che a nessuno di noi venisse da starnutire, Cassie si sedette a gambe incrociate sulla moquette maleodorante, offrì una sigaretta al tizio e gli parlò per un'ora e venti minuti, durante i quali il nostro interlocutore ci richiese, nell'ordine, i portafogli, un'auto, una dose, una Sprite e di essere lasciato solo. Cassie gli parlò in modo così concreto e con un interesse così sincero che alla fine lui lasciò cadere la siringa e scivolò lungo il muro per sedersi accanto a lei. Stava per cominciare a raccontarle la storia della sua vita quando, recuperato il controllo, riuscii a mettergli le manette.
Le ragazze che sogno sono quelle gentili, quelle che guardano dalla finestra con un'aria un po' malinconica o che cantano vecchie e dolci canzoni al piano, con i lunghi capelli che ondeggiano, tenere come un melo in fiore. Una ragazza che scende in guerra con te e che ti copre le spalle è una cosa diversa, una cosa che ti fa tremare. Pensate alla prima volta in cui siete stati a letto con qualcuno, o alla prima volta che vi siete innamorati: a quell'esplosione accecante che vi ha lasciati elettrici fino alla punta delle dita, iniziati e trasformati. Ebbene, vi dico che non è nulla, assolutamente nulla, in confronto a ciò che si instaura quando, ogni giorno, l'uno mette semplicemente la propria vita nelle mani dell'altro.