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Nessuno di noi aveva voglia di una pinta. Cassie chiamò Sophie al cellulare e le disse della molletta per capelli, che l'aveva riconosciuta grazie al suo enciclopedico archivio mentale dei casi irrisolti (ebbi però l'impressione che Sophie non se la bevesse e che, oltretutto, le importasse poco), poi lei tornò a casa sua a scrivere il rapporto per O'Kelly e io a casa mia con il vecchio fascicolo.

Condivido un appartamento a Monkstown con una donna inqualificabile di nome Heather. Heather è una dipendente statale con una vocetta da bambina che la fa sembrare sempre sull'orlo delle lacrime. Inizialmente mi era piaciuta; adesso mi innervosisce. Ho scelto quella casa perché mi attirava l'idea di vivere vicino al mare, l'affitto era, incredibile per Dublino, affrontabile e lei mi piaceva (bassina, costituzione minuta, grandi occhi azzurri, capelli lunghi fino al sedere) tanto che nutrivo fantasie hollywoodiane di una meravigliosa relazione che sarebbe nata con nostro reciproco stupore. Resto lì per inerzia e perché, una volta scoperta l'intera gamma delle sue nevrosi, avevo cominciato a risparmiare per un appartamento mio: il suo, anche dopo esserci resi conto che Harry e Sally non si sarebbero mai materializzati e anche dopo avermi aumentato l'affitto, era l'unico nella zona metropolitana di Dublino che mi avrebbe permesso di continuare a mettere da parte un po' di soldi.

Aprii la porta, gridai "ciao" e mi tuffai in camera mia. Heather mi batté sul tempo: apparve sulla soglia della cucina a una velocità pazzesca e gorgheggiò: «Ciao, Rob, com'è andata la giornata?». A volte ho l'immagine mentale di lei seduta in cucina, ora dopo ora, che ripiega con cura meticolosa l'orlo della tovaglia, pronta a schizzare dalla sedia e a saltarmi addosso non appena sente la chiave nella serratura, ma è un'immagine troppo inquietante da sopportare.

«Bene» risposi, tenendo il linguaggio corporeo puntato verso la mia stanza e aprendo la serratura (l'avevo installata qualche mese dopo essermi trasferito, teoricamente per impedire che qualche ipotetico ladro d'appartamento avesse accesso a documenti della polizia). «Come stai?»

«Oh, tutto bene» disse Heather, stringendosi nella vestaglia grigia di varie misure più grande, cimelio di un ex fidanzato. Pensava che se ne fosse andato perché aveva delle questioni irrisolte, che fosse un immaturo e che sarebbe tornato non appena si fosse reso conto che non avrebbe mai più trovato una donna come lei. Lui invece riteneva che Heather fosse "fuori come un balcone". Il tono da martire apriva la strada a due opzioni: avrei potuto dire "fantastico" e andarmene in camera mia e chiudere la porta, nel qual caso Heather avrebbe messo il broncio e avrebbe sbattuto pentole e mi avrebbe ignorato per giorni per manifestare il suo disappunto per la mia mancanza di considerazione, oppure avrei potuto dire "stai bene?" nel qual caso avrei dovuto sorbirmi, per tutta l'ora seguente, il resoconto particolareggiato degli oltraggi perpetrati dal suo capo o della sinusite o di qualsiasi altra cosa che in quel momento la facesse sentire abbattuta.

Fortunatamente ho un Piano C, anche se lo tengo in caldo per le situazioni di emergenza. «Sei sicura?» dissi. «C'è un'influenza orribile che gira al lavoro e penso di essermela beccata. Spero di non passartela.»

«Oh, mio Dio» guaì Heather, con la voce che le era salita di un'altra ottava e gli occhi che le erano diventati ancora più grandi. «Rob, piccolo, non voglio essere scortese, ma forse è meglio se ti sto lontano. Me le prendo così facilmente, queste raffreddature.»

«Capisco» risposi, rassicurante, e Heather sparì nuovamente in cucina, presumibilmente per aggiungere una dose da cavallo di vitamina C ed echinacea alla sua dieta bilanciata in maniera certosina. Entrai in camera mia e richiusi la porta.

Mi versai da bere – ho una bottiglia di vodka e una di tonic dietro alcuni libri per evitare intime "bevutine" conviviali con Heather – e aprii il vecchio fascicolo sulla scrivania. La stanza che occupo non aiuta la concentrazione. L'intero palazzo è stato costruito con l'economia di così tante nuove costruzioni di Dublino, soffitti di trenta centimetri più bassi, facciata piatta color fango, un obbrobrio assolutamente poco originale. Le stanze da letto sono così piccole da essere un insulto, progettate apposta per sbatterti in faccia che non ti puoi permettere di fare lo schizzinoso. Questo pidocchioso disprezzo per gli inquilini ha implicazioni pratiche ed estetiche: la società immobiliare non ha intravisto la necessità di sprecare materiale isolante, quindi ogni singolo passo al piano di sopra o qualsiasi selezione musicale a quello di sotto riecheggiano in tutto l'appartamento. So molto più di quanto non desideri dei gusti sessuali della coppia della porta a fianco. Quattro anni sono bastati a farmici abituare, più o meno, ma continuo a trovare offensivo questo luogo.

L'inchiostro delle varie dichiarazioni era stinto e a chiazze, quasi illeggibile in alcuni punti, e sentii della polvere sottile che mi si posava sulle labbra. I due detective che avevano condotto le indagini erano ormai già in pensione, ma mi annotai i loro nomi, Kiernan e McCabe, nel caso in cui qualcuno di noi, più facilmente Cassie, avesse avuto bisogno di parlare con loro.

Una delle cose più sorprendenti del caso, osservandolo oggi, fu la lentezza con la quale le nostre famiglie si preoccuparono. Oggi i genitori, perseguitati da filmati che ricostruiscono vicende con sinistri camioncini bianchi e bambini che sgusciano via in stradine di campagna, si attaccano al telefono non appena il cellulare della creatura suona a vuoto; la sezione Persone scomparse è sommersa da segnalazioni per bambini che poi risultano trattenuti a scuola o assorti in un videogame. Sembra una banalità dire che gli anni Ottanta erano tempi più innocenti, visto ciò che sappiamo sulle cosiddette scuole-carceri per il recupero dei più sfortunati, su preti riveriti e su padri in qualche angolo sperduto del Paese; ma quelle erano solo voci impensabili di quanto accadeva da qualche altra parte, gli adulti si attaccavano alla loro innocenza e a quella dei loro figli con una tenacia semplice e appassionata, che forse non era meno vera per il semplice fatto di essere stata scelta e perché portava con sé il peso della propria colpa. Per non dire della madre di Peter, che ci chiamò dal limitare del bosco, pulendosi le mani sul grembiule, per poi lasciarci al gioco che ci prendeva tanto e tornare a casa a preparare la cena.

Trovai Jonathan Devlin ai margini della dichiarazione di un testimone secondario, a metà della pila di fogli. La signora Pamela Fitzgerald, abitante al numero 27 di Knocknaree Drive, forse avanti con gli anni a giudicare dalla calligrafia illeggibile e piena di ghirigori, aveva detto ai detective che un gruppo di adolescenti dall'aspetto poco rassicurante stazionava ai bordi del bosco, a bere, a fumare, a flirtare e, a volte, a gridare parole irripetibili ai malcapitati passanti, e che non si poteva stare più tranquilli per strada di quei tempi e che ci sarebbe voluto un bello scappellotto sulla testa. Kiernan, o McCabe, aveva appuntato i nomi lungo il lato della pagina usando una stilografica blu che perdeva: Cathal Mills, Shane Waters, Jonathan Devlin.

Sfogliai le carte per vedere se fossero stati interrogati. Dall'altra parte della porta sentivo i rumori sempre uguali di Heather impegnata nella sua routine serale: pulizia, fortificazione, idratazione eseguite con cura meticolosa, lavaggio dei denti per i tre minuti prescritti dal dentista, soffiate di naso per un numero inspiegabile di volte, finché il cestino del bagno non fosse stato pieno di carta igienica. Puntualissima, alle undici meno cinque, picchiettò alla mia porta e tubò un civettuolo «'Notte Rob» come fosse stata su un palcoscenico. «'Notte» le rimandai, aggiungendoci un colpo di tosse.

Le tre dichiarazioni erano brevi e quasi identiche, tranne che per delle note scritte a margine con la stessa penna che sbavava: Waters veniva descritto come "m. nervoso", Mills come "non collaborativo", Devlin non si era guadagnato alcun commento. Il pomeriggio del 14 agosto avevano ritirato il sussidio di disoccupazione e poi erano andati in autobus a Stillorgan, al cinema; erano tornati a Knocknaree intorno alle sette, quando noi eravamo già in ritardo per la cena, ed erano andati a ubriacarsi come spugne vicino al bosco fin verso mezzanotte. Sì, avevano visto il gruppo di persone che erano venute a cercarci ma si erano limitati a mettersi dietro una siepe per non essere notati. No, non avevano visto nulla di strano. E, no, non avevano visto nessuno in giro che potesse confermare i loro spostamenti quel giorno, ma Mills si era offerto (presumibilmente con spirito sarcastico, ma loro avevano accettato lo stesso) di condurre i detective al campo e mostrare loro le lattine di sidro vuote, che in effetti erano state trovate nel punto da lui indicato. Il ragazzo di turno alla biglietteria del cinema di Stillorgan era sembrato sotto l'effetto di sostanze proibite e non era stato in grado di ricordare i tre, anche quando i detective lo avevano perquisito e gli avevano fatto una ramanzina sui mali delle droghe.

Non ebbi l'impressione che i "giovani" – odio la parola – fossero stati presi seriamente in considerazione come sospetti. Non erano esattamente dei criminali incalliti: la polizia locale li aveva diffidati per essersi ubriacati in pubblico con una certa regolarità e Shane Waters si era beccato sei mesi di libertà vigilata per un furto in un negozio a quattordici anni, ma era tutto. E poi perché avrebbero voluto far sparire due dodicenni? Si erano trovati semplicemente lì e, tutto sommato, si poteva dire di loro che erano soltanto un po' molesti; così se l'erano cavata Kiernan e McCabe.

I biker, così li chiamavamo, anche se non sono certo che avessero delle moto, forse no, però si vestivano come se le avessero. Giacche di pelle nera, con borchie metalliche e chiusure lampo aperte ai polsi, barba incolta e capelli lunghi… Dio, gli anni Ottanta; sono sicuro che fosse il massimo dell'essere "figo". Anfibi alti. Magliette con loghi vari stampati: Megadeth, Anthrax. Pensavo che fossero i loro nomi, finché Peter non mi disse che erano band musicali.

Non ho idea di quale di loro fosse stato Jonathan Devlin. Non riuscivo a collegare l'uomo dallo sguardo triste con la pancetta e la schiena piegata a forza di stare alla scrivania con nessuno di quegli adolescenti, asciutti e sfocati dal sole, che incombevano nella mia memoria. Mi ero completamente dimenticato di loro. Non credo che negli ultimi vent'anni i biker avessero mai fatto capolino nella mia mente e odiai intensamente il pensiero che, nonostante tutto, fossero rimasti fino allora in attesa dell'imbeccata che li avesse fatti saltar fuori come pupazzi ghignanti da scatole a molla. Provai un senso di precarietà, di insicurezza. Pensai di chiamare Cassie per dirle che avevo trovato un altro legame; era appena mezzanotte e lei è un gufo, ma mi dissi che forse stava già dormendo.

Uno di loro portava occhiali da sole tutto l'anno, anche quando pioveva. Alle volte ci offriva delle gomme da masticare Juicy Fruit, che noi prendevamo, allungando il braccio, pur sapendo che le avevano rubate al negozio di Lowry. «State alla larga da loro» diceva mia madre, «non rispondete se vi rivolgono la parola» e non mi spiegava perché. Peter chiese a Megadeth se potevamo dare un tiro alla sua sigaretta, lui ci mostrò come tenerla e rise quando tossimmo. Stavamo al sole, a debita distanza, allungandoci per vedere le pagine interne dei loro giornali; Jamie disse che in uno c'era una donna nuda. Megadeth e Occhiali da Sole facevano scattare gli accendini di plastica e gareggiavano su chi riusciva a resistere più a lungo con il dito sulla fiamma. Quando se ne andavano, la sera, andavamo a occupare il loro spazio e annusavamo le lattine schiacciate che avevano abbandonato nell'erba polverosa e aspiravamo quell'odore acido, stantio, adulto.


Mi svegliai perché qualcuno stava gridando sotto la mia finestra. Mi drizzai a sedere con il cuore che mi batteva forte nella cassa toracica. Avevo sognato, qualcosa di aggrovigliato e febbrile. Cassie e io eravamo in un bar affollato e un tipo con un berretto di tweed stava urlando contro di lei. Per un istante pensai che fosse stata la voce della mia collega, quella che avevo sentito. Ero disorientato. Era buio, c'era il tipico silenzio da notte fonda e qualcuno, una ragazza o un bambino, continuava a gridare.

Scesi dal letto, andai alla finestra e con cautela scostai la tenda di pochi centimetri. Il complesso dove abito è composto da quattro condomini identici intorno a una piazzetta erbosa con un paio di panchine di ferro, definita dagli agenti immobiliari "area ricreativa comune", anche se nessuno la usa mai. La coppia che occupa l'appartamento al pianterreno ha organizzato un paio di pigri cocktail serali al fresco, ma la gente, e, sospetto, anche Heather, si è lamentata del rumore e l'amministratore ha esposto uno stizzito avviso nell'androne. Le luci di sicurezza bianche davano al giardino un innaturale chiarore notturno. Non c'era nessuno. Le macchie d'ombra negli angoli erano troppo basse per nascondere qualcuno. L'urlo si udì nuovamente, alto, agghiacciante e molto vicino, là fuori. Un'antica, atavica reazione mi serpeggiò lungo la spina dorsale.

Attesi, tremando leggermente per l'aria fredda che batteva contro il vetro. Dopo alcuni minuti, qualcosa si mosse tra le ombre, più nero del nero, e avanzò sull'erba: un grosso maschio di volpe, vigile e scheletrico nella rada pelliccia estiva. Sollevò il muso e ululò di nuovo e per un istante immaginai di coglierne l'odore selvatico. Poi, a passo sostenuto, attraversò il prato e sparì oltre il cancello principale, scivolando tra le sbarre, sinuoso come un gatto. Continuai a udire le sue urla mentre si allontanava nell'oscurità.

Ero intontito, mezzo addormentato e teso per ciò che restava dell'adrenalina. Per togliermi il saporaccio che avevo in bocca, pensai di bere qualcosa di freddo e dolce. Uscii per andare in cucina, in cerca di succo. Heather, come me, a volte ha difficoltà a prendere sonno perciò quasi speravo che fosse sveglia e avesse ancora voglia di lamentarsi di qualcosa, ma non filtrava nessuna luce da sotto la sua porta. Mi versai del succo d'arancia e rimasi a lungo in piedi davanti al frigorifero aperto, con il bicchiere contro la tempia, alla tremolante luce del neon.


La mattina dopo pioveva a dirotto. Mandai un SMS a Cassie per informarla che sarei passato a prenderla. Il Macinino da Golf tende allo stato catatonico quando il clima è umido. Quando suonai il clacson fuori dal suo appartamento, lei corse giù con indosso un montgomery da orsetto Paddington e un thermos di caffè.

«Grazie a Dio non veniva giù così, ieri» esordì. «Addio prove sennò.»

«Guarda qui» le dissi passandole il materiale su Jonathan Devlin.

Si sedette a gambe incrociate dal lato del passeggero e si mise a leggere. Ogni tanto mi passava il thermos. «Te li ricordi, questi ragazzi?» mi chiese quando ebbe finito.

«Vagamente. Ma l'abitato era piccolo, di conseguenza era difficile non notarli. Erano la cosa più vicina alla delinquenza minorile che avessimo a disposizione.»

«Ti davano l'impressione di essere pericolosi?»

Ci pensai per un po', mentre avanzavamo a passo di lumaca lungo Northumberland Road. «Dipende da quello che intendi» risposi. «Eravamo diffidenti con loro, ma credo dipendesse soprattutto dalla loro immagine, non perché ci avessero mai fatto qualcosa. Ricordo che, anzi, erano abbastanza tolleranti nei nostri confronti. Non me li vedo a far sparire Peter e Jamie.»

«E le ragazze? Sono state interrogate?»

«Quali ragazze?»

Cassie sfogliò fino alla dichiarazione della Fitzgerald. «Ha dichiarato che "flirtavano". Direi, con un discreto livello di certezza, che parlasse di ragazze.»

Aveva ragione, naturalmente. La definizione di "flirtare" non mi era chiarissima, ma ero abbastanza certo che ci sarebbero stati un bel po' di commenti se Jonathan Devlin e i suoi compagni se la fossero fatta l'uno con l'altro. «Nel fascicolo non ci sono» dissi.

«E tu, te le ricordi?»

Eravamo ancora in Northumberland Road. La pioggia si abbatteva sul parabrezza a tal punto che sembravamo sott'acqua. Dublino è stata costruita per i pedoni e le carrozze, non per le auto; è piena di tortuose stradine medievali con nomi tipo Copper Alley e Lad Lane, l'ora di punta va dalle sette del mattino alle otto di sera e al primo accenno di brutto tempo il risultato è una paralisi immediata e totale. Avremmo dovuto lasciare un appunto per Sam.

«Credo di sì» risposi alla fine. Era più una sensazione che un ricordo: caramelle al limone farinose, fossette, profumo di fiori. Megadeth e Sandra sotto un albero… «Una, forse, si chiamava Sandra.» A quel nome, qualcosa dentro di me sussultò. Percepii un sapore aspro come di paura in fondo alla lingua, ma non riuscii a capire perché.

Sandra: faccia tonda e formosa, risatine e gonne a tubo che le salivano su quando si appollaiava sul muro. A noi sembrava molto adulta e raffinata, doveva avere diciassette o diciotto anni. Ci dava delle caramelle che prendeva da un sacchetto di carta. A volte c'era anche un'altra ragazza, alta, con i dentoni e molti orecchini. Claire, forse? Clara? Sandra mostrava a Jamie come mettersi il mascara, in uno specchietto a forma di cuore, e Jamie, dopo, continuava a sbattere le ciglia, come se gli occhi le sembrassero strani, pesanti. «Sei carina» le diceva Peter. Ma Jamie decideva che le faceva schifo: se lo lavava via usando l'acqua del fiume e si toglieva i cerchi nerastri da panda con il bordo della maglietta.

«Verde» annunciò Cassie, piano. Avanzai di qualche altro metro.


Ci fermammo a un'edicola e Cassie scese a comprare i giornali, così da sapere con che cosa avremmo avuto a che fare. Katy Devlin occupava la prima pagina dei quotidiani che si erano buttati, tutti, sul legame con la faccenda dell'autostrada: "Assassinata la figlia del leader della protesta di Knocknaree", quel genere di cose. La giornalista grassa del tabloid, la cui storia portava il titolo Mattanza sulla figlia del pezzo grosso dello scavo, a un pelo così dalla diffamazione, aveva inserito qualche riferimento appena accennato alle cerimonie druidiche ma si era tenuta alla larga dall'isteria del satanismo; aspettava ovviamente di vedere da che parte avrebbe preso a soffiare il vento. Speravo solo che O'Kelly facesse bene la sua parte. Nessuno, grazie al cielo, aveva citato Peter e Jamie, ma sapevo che era solo una questione di tempo.

Quigley e il suo nuovo collega McCann si beccarono il caso McLoughlin, quello al quale stavamo lavorando noi prima di ricevere la richiesta su Knocknaree: due ragazzi ricchi da far schifo che ne avevano ucciso un altro a calci perché una sera aveva saltato la fila per il taxi. Avrei dato qualsiasi cosa per esserci quando Quigley avesse interrogato i due signorini. Andammo alla ricerca di una sala operativa per noi. Le sale operative, piccole e richiestissime, sono realizzate con prefabbricati. Non avemmo problemi a trovarne una: i casi in cui sono coinvolti dei bambini hanno la priorità. Anche Sam era stato trattenuto dal traffico: aveva una casa da qualche parte a Westmeath, a un paio d'ore dalla città, che è la distanza minima che la nostra generazione deve mettere in conto se pensa di potersi permettere una casa. Quando arrivò, lo bloccammo al volo e lo aggiornammo su tutta la pappardella e sulla storia ufficiale della molletta per capelli, mentre allestivamo la nostra sala operativa.

«Ah, Cristo» commentò, alla fine. «Ditemi che non sono stati i genitori.»

Ogni detective ha una certa tipologia di casi che trova di non poter affrontare e contro i quali il solido scudo del distacco professionale, sviluppato in anni di esperienza, diventa fragile e inaffidabile. Cassie, anche se nessun altro lo sa, ha gli incubi quando lavora sugli omicidi con stupro; io, mostrando una singolare mancanza di originalità, ho serie difficoltà con i bambini assassinati e, a quanto pareva, i delitti in famiglia facevano venire le gambe molli a Sam. Quel caso poteva rivelarsi perfetto per tutti e tre.

«Non abbiamo uno straccio di indizio» cominciò Cassie, mentre mordicchiava il cappuccio di un pennarello nero; stava buttando giù qualche appunto sulla lavagna bianca riguardo alla tempistica dell'ultima giornata di Katy. «Avremo le idee più chiare quando Cooper ci fornirà i risultati dell'autopsia, ma per ora è tabula rasa.»

«Però, non è necessario che sia tu a occuparti dei genitori» lo rassicurai. Stavo attaccando con la plastilina azzurra alcune fotografie della scena del crimine all'altro lato della lavagna. «Vogliamo che ti concentri sul filone dell'autostrada, che rintracci le telefonate fatte a Devlin, che scopri chi è il proprietario del terreno attorno al sito, chi ha investito soldi sul futuro dell'autostrada.»

«È per mio zio?» chiese Sam. Ha una tendenza a essere diretto che ho sempre trovato sorprendente in un detective.

Cassie sputò il cappuccio del pennarello e si voltò verso di lui. «Esatto» rispose. «È un problema?»

Sapevamo tutti cosa stava chiedendo. La politica irlandese è tribale, incestuosa, intricata e segreta, incomprensibile anche a molti di quelli che ne sono coinvolti in prima persona. Per chi vede la cosa dal di fuori, non ci sono differenze tra i due partiti principali, che occupano posizioni identiche all'estrema destra dell'arco parlamentare, ma molta gente sostiene l'uno o l'altro in base alla scelta operata dai bisnonni durante la Guerra civile, oppure perché paparino è in affari con il candidato locale e dice che è un bravo ragazzo. La corruzione viene data per scontata, quasi persino ammirata, anche se a denti stretti: l'astuzia da guerriglia dei colonizzati è ancora radicata in noi e l'evasione fiscale e gli affari loschi vengono visti come forme dello stesso spirito di ribellione che ci spingeva a nascondere agli inglesi cavalli e patate da semina.

E gran parte di quella corruzione si incentra sulla terra, una delle passioni originarie degli irlandesi, quasi un cliché. Operatori immobiliari e politici sono tradizionalmente amici del cuore e praticamente tutti i grandi affari immobiliari implicano buste marroni, inspiegabili variazioni dei piani regolatori e complicate transazioni su conti offshore; sarebbe stato un piccolo miracolo se non fossero saltati fuori favori concessi ad amici nella faccenda dell'autostrada di Knocknaree. E in quel caso sarebbe stato improbabile che Redmond O'Neill non ne fosse a conoscenza, essendo stato viceministro dell'Ambiente per un sacco di tempo, negli anni precedenti. Ma sarebbe stato anche improbabile che avesse voluto farli venire alla luce.

«No» rispose prontamente Sam. «Nessun problema.» Dovette accorgersi della nostra espressione dubbiosa perché spostò lo sguardo da me a Cassie e viceversa e poi scoppiò a ridere. «Sentite, ragazzi, lo conosco da sempre. Ho anche vissuto con loro per un paio d'anni, quando sono arrivato a Dublino. Lo saprei se fosse coinvolto in qualcosa di poco chiaro. Mio zio è retto e onesto. Ci aiuterà in tutti i modi possibili.»

«Perfetto» commentò Cassie e tornò alla lista dei movimenti di Katy. «Ceniamo a casa mia; vieni intorno alle otto e ci scambiamo gli aggiornamenti.» Trovò un angolo pulito della lavagna e disegnò per Sam una piccola mappa per arrivarci.


Il tempo di organizzare la sala operativa (qualcuno aveva portato via gran parte delle sedie, per cui dovemmo rintracciarle e riprendercele) e gli agenti di supporto cominciarono a rientrare. O'Kelly ce ne aveva procurati almeno una trentina, ed erano di prima scelta: emergenti, svegli, sbarbati di fresco e vestiti con decenza, consapevoli del fatto che non appena si fossero aperte delle buone posizioni nelle sezioni più importanti, il posto per loro ci sarebbe stato. Prendevano le sedie e tiravano fuori i blocchi degli appunti, si davano pacche sulle spalle, riesumavano vecchie battute comprensibili solo agli iniziati e sceglievano i posti come i bambini il primo giorno di scuola. Cassie, Sam e io sorridemmo, stringemmo mani e ringraziammo per essersi uniti a noi. Ne riconobbi un paio, un tipo scuro per niente comunicativo di Mayo di nome Sweeney e uno di Cork, ben nutrito e senza collo, O'Connor o O'Gorman o qualcos'altro, che compensava il dover prendere ordini da due che non erano di Cork con commenti incomprensibili ma chiaramente trionfalistici sulla finale del campionato di football gaelico. Molti degli altri avevano visi noti, ma i nomi mi entravano da un orecchio e uscivano dall'altro nel momento in cui le loro mani lasciavano la mia, e le facce andavano a collocarsi nel grande insieme confuso ed entusiasta delle altre.

Mi è sempre piaciuta questa fase delle indagini, prima che inizi il briefing preliminare. Mi ricorda il brusio del momento che precede l'alzata del sipario: l'orchestra che accorda gli strumenti, i ballerini che nel backstage fanno gli ultimi esercizi di stretching, con le orecchie pronte a cogliere il segnale dell'istante in cui bisogna togliersi gli abiti in più e gli scaldamuscoli e lanciarsi nell'azione. Ma non ero mai stato a capo di un'indagine di tale rilevanza prima di allora e l'attesa mi rendeva nervoso. La sala operativa sembrava troppo piena, con tutta quell'energia accumulata, tutti quegli sguardi curiosi appuntati su di noi. Ricordavo com'ero abituato a guardare i detective della Omicidi quando ero ancora un agente che non vedeva l'ora di essere assegnato a un caso come quello: il timore reverenziale, la partecipazione esplosiva, l'aspirazione quasi insopportabile. Quei ragazzi, e molti di loro erano più grandi di me, sembravano avere un che di diverso, una più aperta e fredda capacità di valutazione. Non mi è mai piaciuto essere al centro dell'attenzione.

O'Kelly sbatté la porta dietro di sé, azzerando così all'istante qualsiasi altro rumore. «Bene, ragazzi» cominciò, nel silenzio. «Benvenuti all'Operazione Vestale. Cos'è una vestale, tanto che ci siamo?»

È la Centrale che sceglie i nomi delle operazioni. Variano dall'ovvio, al criptico, allo strano. A quanto pareva, l'immagine della ragazzina morta sull'antico altare aveva stimolato le tendenze culturali di qualcuno. «Una vergine sacrificale» risposi.

«Una persona legata a un voto religioso» aggiunse Cassie.

«Eccheccazzo» esplose O'Kelly. «Stanno cercando di fare in modo che tutti pensino che è una cosa legata a un qualche culto? Che cazzo leggono lassù?»


Cassie fece un riassunto del caso, sorvolando con nonchalance sul legame con i fatti del 1984: si trattava solo di una vaga possibilità, ci avrebbe messo le mani lei nel tempo libero. Poi passammo a suddividere e assegnare i lavori: attivare il porta-a-porta a Knocknaree, installare una linea telefonica per fornire informazioni alla polizia e stilare un ruolino dei turni di servizio per presidiarla, recuperare un elenco di tutti i colpevoli di crimini sessuali che vivevano nella zona di Knocknaree, controllare con la polizia britannica e con porti e aeroporti per vedere se qualcuno di sospetto era giunto in Irlanda negli ultimi giorni, ottenere le cartelle cliniche di Katy e le pagelle scolastiche, eseguire un controllo completo sulla famiglia Devlin. Gli agenti si misero in azione e Sam, Cassie e io li lasciammo alle loro attività per andare a vedere come stava progredendo Cooper.

Di norma non assistiamo alle autopsie, ma qualcuno di quelli presenti sulla scena del crimine deve andare per confermare che si tratta dello stesso corpo, perché è successo che venissero scambiati i cartellini degli alluci e il medico legale chiamava lo stupefatto detective per informarlo di avere scoperto che la causa della morte era un tumore al fegato. Altrettanto di norma, però, ci mandiamo un agente in divisa o lasciamo la cosa agli addetti di laboratorio e ci limitiamo ad analizzare poi appunti e foto insieme a Cooper. Per tradizione della squadra, si partecipa all'autopsia del primo caso di omicidio che ti assegnano: sebbene in teoria lo scopo sia quello di colpirti con tutta la solennità del tuo nuovo lavoro, nessuno ci crede, e la cosa finisce per diventare una specie di rito di iniziazione, giudicato alla stregua di quello di una qualsiasi tribù primitiva. Conosco un ottimo collega il quale, dopo quindici anni alla Omicidi, viene ancora chiamato Furia per la velocità con la quale se l'era filata dall'obitorio quando il medico aveva estratto il cervello della vittima.

La mia prima volta la superai senza battere ciglio: era una prostituta adolescente, con le braccia sottili coperte di lividi e segni di pneumatici, ma mi è rimasto il desiderio di non ripetere l'esperienza. Vado solo per quei pochissimi casi, per ironia della sorte quelli più strazianti, che sembrano richiedere questo piccolo atto di devozione sacrificale. Non credo che qualcuno riesca mai a dimenticare la propria prima volta, la violenta rivolta della mente quando il medico legale affetta lo scalpo e la faccia della vittima si ripiega rispetto al cranio, molle e insignificante come una maschera di Halloween.

Arrivammo leggermente in ritardo. Cooper stava uscendo proprio in quel momento dalla sala delle autopsie con il camice verde ancora addosso e il grembiulone impermeabile tenuto a distanza tra pollice e indice. «Detective» esordì, inarcando le sopracciglia. «Che sorpresa. Se mi aveste detto che stavate arrivando, avrei naturalmente aspettato, così da farvi assistere.»

Faceva il petulante perché non eravamo arrivati in tempo per l'autopsia. A dire il vero, non erano nemmeno le undici, ma Cooper arriva al lavoro tra le sei e le sette, se ne va tra le tre e le quattro e gli fa piacere che gli altri se lo ricordino. Tutti i suoi assistenti dell'obitorio lo odiano per questo, il che non lo smuove di una virgola, dal momento che lui ricambia il sentimento. Cooper si vanta di avere antipatie istantanee e imprevedibili; per quello che siamo riusciti a capire fino a ora, gli stanno antipatici le donne bionde, gli uomini bassi, chiunque porti più di due orecchini e la gente che dice "cioè" troppo spesso, più tutta una serie casuale di persone che non rientrano in nessuna delle suddette categorie. Fortunatamente, aveva deciso che io e Cassie gli piacevamo, altrimenti ci avrebbe rispedito in ufficio ad aspettare i risultati dell'autopsia, naturalmente scritti a mano. Cooper infatti scrive tutti i referti con grafia filiforme e usando una stilografica, idea che non mi dispiace affatto (di nuovo l'ispettore Abberline) ma che non ho il coraggio di mettere in pratica in ufficio. Ci sono giorni in cui, in segreto, temo che tra un decennio o due potrei svegliarmi e scoprire di essermi trasformato in Cooper.

«Wow» disse Sam, esasperato. «Già finito?» Cooper lo gelò con lo sguardo.

«Dottor Cooper, siamo dispiaciuti di piombarle tra capo e collo a quest'ora» si intromise Cassie. «Il sovrintendente O'Kelly desiderava analizzare alcuni dettagli, quindi non ce l'abbiamo fatta a venire via prima.» Annuii stancamente e alzai gli occhi al soffitto.

«Ah, be'… sì» disse Cooper, con un tono che univa l'assoluzione a un leggero disprezzo, a significare che trovava un po' fuori luogo che menzionassimo O'Kelly.

«Se avesse qualche istante» dissi, «le dispiacerebbe illustrarci i risultati?»

«Ma certo» rispose Cooper, con un infinitesimale sospiro di lunga sofferenza. In realtà, come qualsiasi altro mastro artigiano, adora mettere in mostra il proprio lavoro. Ci tenne aperta la porta della sala autopsie e l'odore mi colpì subito, quella combinazione unica di morte, freddo e alcol per pulizie che mi fa provare un'istintiva ripugnanza animale ogni volta che la sento.

A Dublino, i corpi vanno all'obitorio cittadino, ma Knocknaree si trova al di fuori dei confini urbani e le vittime delle aree rurali vengono semplicemente portate all'ospedale più vicino, dove viene eseguita l'autopsia. E le condizioni variano. Quella stanza era senza finestre, con strati di sporcizia sulle piastrelle verdi del pavimento e macchie di origine non ben definita nei vecchi lavandini di porcellana. I due tavoli da autopsia erano gli unici oggetti nella stanza ad avere un aspetto post anni Cinquanta; erano di acciaio inossidabile con l'illuminazione sistemata lungo i bordi e quelle scanalature che giravano tutt'attorno per raccogliere acqua e sangue.

Katy Devlin era nuda sotto le inesorabili luci al neon, troppo piccola per il tavolo. In un certo qual modo appariva più morta di quanto non fosse sembrata il giorno prima; pensai alla vecchia superstizione secondo la quale l'anima rimane accanto al corpo per alcuni giorni, sconcertata e incerta. Era di un bianco grigiastro, come gli UFO della serie TV Roswell, con delle grosse chiazze scure e livide lungo il lato sinistro. L'assistente di Cooper, un uomo appesantito, con grandi borse sotto gli occhi, aveva già ricucito lo scalpo, grazie a Dio, e stava lavorando all'incisione a Y del torso. Applicava grandi punti approssimativi con un ago delle dimensioni di quelli usati per cucire le vele. Provai una fitta momentanea di senso di colpa per essere arrivato in ritardo, per averla lasciata sola, lei così piccola, in quella violazione finale: saremmo dovuti essere lì perché avesse qualcuno a tenerle la mano mentre quelle guantate e distaccate di Cooper la tastavano e la facevano a pezzi. Senza farsi notare troppo, Sam, con mia sorpresa, si fece il segno della croce.

«Femmina bianca in età pubere» iniziò Cooper, superandoci e posizionandosi vicino al tavolo, non senza prima aver spostato l'assistente, «anni dodici, o così mi dicono. Altezza e peso entrambi ridotti, ma nel range di normalità. Cicatrici che indicano un intervento chirurgico addominale, forse una laparotomia esplorativa, di qualche tempo fa. Nessuna patologia evidente. Per quello che posso vedere, è morta in salute, se mi passate l'ossimoro.»

Ci stringemmo attorno al tavolo come studenti ubbidienti; il rumore dei nostri passi rimbalzò sulle pareti piastrellate. L'assistente si appoggiò a uno dei lavandini e incrociò le braccia, continuando imperturbabile a masticare una gomma. Un lembo dell'incisione a Y restava ancora aperto, scuro e impensabile, l'ago infilato a caso in un lembo di pelle perché non pungesse qualcuno.

«Qualche chance col DNA?» chiesi.

«Un passo alla volta, se permette» rimarcò puntigliosamente Cooper. «Allora, abbiamo due colpi al capo, entrambi ante mortem… precedenti la morte» aggiunse sussiegoso per Sam, il quale annuì solennemente. «Entrambi sono stati inferti con un oggetto duro e ruvido che ha protrusioni ma non bordi distinti, coerente con il sasso che la signora Miller mi ha presentato per ispezionarlo. Uno, leggero, sulla parte posteriore della testa, vicino alla volta cranica. Ha causato una piccola area di abrasione e sanguinamento, ma nessuna fessurazione del cranio.» Voltò la testa di Katy da un lato, per mostrarci il piccolo rigonfiamento. Le avevano lavato via il sangue dal volto per controllare che non vi fossero ferite sottostanti, ma c'erano ancora delle tracce leggere.

«Quindi forse lo ha schivato oppure stava correndo via mentre lui colpiva» azzardò Cassie.

Non abbiamo specialisti in profili di assassini, quando ci servono davvero li chiamiamo dall'Inghilterra, ma essenzialmente molti dei ragazzi della Omicidi ricorrono a Cassie sulla base del fatto che ha studiato psicologia al Trinity per tre anni e mezzo. A O'Kelly questo non lo diciamo perché lui considera i profiler poco più che dei sensitivi e di malavoglia ci lascia anche solo ascoltare gli esperti inglesi; comunque penso che Cassie sia abbastanza brava perché di solito fornisce suggerimenti nuovi e utili e alla fine salta fuori che è andata abbastanza vicino a centrare l'obiettivo.

Cooper ci mise un po' di tempo a rispondere, forse per punirla dell'interruzione. Alla fine scosse la testa. «Lo considero improbabile. Se fosse stata in movimento al momento in cui il colpo veniva inferto, ci sarebbero graffi periferici e non ci sono. Al contrario, l'altro colpo…» Voltò la testa di Katy dall'altro lato e con un dito uncinò i capelli per tenerli indietro: sulla tempia sinistra, una parte di pelle era stata rasata per mettere in evidenza una lacerazione ampia e frastagliata, con schegge d'osso che fuoriuscivano. Qualcuno, Sam o Cassie, deglutì.

«Come potete osservare» continuò Cooper, «l'altro colpo è stato molto più potente. È arrivato proprio dietro e sopra l'orecchio sinistro, determinando una frattura depressa del cranio e un ragguardevole ematoma subdurale. Qui e qui» fece guizzare le dita, «potete osservare i graffi periferici ai quali facevo riferimento prima, sul bordo prossimale del punto di impatto primario. Mentre il colpo veniva inferto, lei deve avere spostato la testa, così che l'arma ha strisciato lungo il cranio prima dell'impatto finale. Sono stato sufficientemente chiaro?»

Annuimmo tutti. Diedi un'occhiata di sottecchi a Sam e mi rincuorò vedere che anche lui non sembrava passarsela troppo bene.

«Questo colpo sarebbe stato sufficiente a causare la morte nel giro di qualche ora. L'ematoma però è progredito molto poco, quindi possiamo affermare con tranquillità che è morta per altre cause poco tempo dopo che le è stata inferta questa ferita.»

«Sa dirci se guardava il suo aggressore o se era voltata?» chiese Cassie.

«Tutto lascia supporre che fosse supina quando il colpo più forte le è stato inferto: c'è stata una notevole perdita di sangue e il flusso era diretto verso l'interno a partire dal lato sinistro del volto, con un'evidente stagnazione intorno alla linea centrale di naso e bocca.» Quella era una buona notizia, se si può usare quest'espressione in un tale contesto: doveva esserci del sangue sul luogo del delitto, bisognava solo trovarlo. Inoltre voleva dire che forse dovevamo cercare una persona mancina e anche se qui non eravamo in un'ambientazione all'Agatha Christie e i casi veri raramente si basano unicamente su un dettaglio del genere, a quel punto qualsiasi pista, anche minima, era un passo avanti.

«C'è stata lotta… prima di questo colpo, posso aggiungere, perché le avrebbe fatto perdere i sensi subito. Ci sono ferite da difesa alle mani e agli avambracci, lividi, abrasioni, tre unghie rotte della mano destra, probabilmente causati dalla stessa arma da cui cercava di difendersi.» Cooper sollevò uno dei polsi di Katy tra pollice e indice e ruotò il braccio per mostrarci i graffi. Le unghie erano state tagliate cortissime e portate ad analizzare; disegnato con un pennarello, sul dorso della mano c'era un fiore stilizzato sbiadito con una faccina sorridente nel mezzo. «Ho trovato anche delle contusioni attorno alla bocca e i segni dei denti all'interno delle labbra, coerenti con il fatto che l'aggressore le ha premuto una mano sulla bocca.»

Fuori, nel corridoio, una donna si stava lamentando di qualcosa a voce alta; una porta sbatté. L'aria nella stanza delle autopsie era pesante e ferma, difficile da respirare. Cooper ci guardò, ma nessuno proferì parola. Sapeva che non era ciò che avremmo voluto sentire. In un caso come quello, c'era solo da sperare che la vittima non si fosse accorta di cosa le stava accadendo.

«Mentre era priva di sensi» proseguì freddamente Cooper, «del materiale, probabilmente plastica, le è stato messo attorno al collo e ritorto in cima alla colonna vertebrale.» Le tirò il mento all'indietro: c'era un debole segno attorno al collo, striato dove la plastica aveva formato delle pieghe. «Come potete osservare, il segno della legatura è ben definito, da qui la mia conclusione che sia stata applicata dopo che la vittima era stata immobilizzata. Non ci sono segni di strangolamento e ritengo improbabile che la legatura fosse così stretta da impedire il passaggio dell'aria, tuttavia l'emorragia petecchiale negli occhi e sulla superficie dei polmoni indica che effettivamente è morta per anossia. L'ipotesi che sosterrei è che qualcosa come un sacchetto di plastica le sia stato posto sulla testa, legato dietro il collo e tenuto così per molti minuti. È morta per soffocamento, con la complicazione di un trauma per un colpo ricevuto alla testa e inferto con un oggetto contundente.»

«Aspetti un attimo» intervenne di botto Cassie. «Quindi non è stata violentata?»

«Ah» fece Cooper. «Pazienza, detective Maddox, ci stiamo arrivando. Lo stupro è avvenuto post mortem ed è stato eseguito con un arnese di un qualche tipo.» Fece una pausa, godendosi l'effetto con malcelata soddisfazione.

«Post mortem?» ripetei. «Ne è certo?» Chiaramente la notizia era un sollievo in un certo qual senso, eliminava alcune delle immagini mentali più strazianti; ma, al tempo stesso, significava che avevamo a che fare con uno che non ci stava con la testa. La faccia di Sam si contorse in una smorfia involontaria.

«Ci sono delle abrasioni fresche nella parte esterna della vagina e nei primi sette centimetri della parte interna, oltre a una rottura recente dell'imene, ma non vi è stato sanguinamento, nessuna infiammazione. Post mortem, è fuori di dubbio.» Sentii la fitta collettiva di panico che ci prese (nessuno di noi voleva confrontarsi con quella cosa, il solo pensiero era osceno), ma Cooper ci rivolse uno sguardo divertito e rimase dove si trovava, alla testa del tavolo.

«Che tipo di arnese?» chiese Cassie. Continuava a fissare il segno sulla gola di Katy, senza espressione.

«All'interno della vagina abbiamo trovato dei granelli di terra e due minuscole schegge di legno, una notevolmente annerita, l'altra con quello che sembra un sottile strato di vernice trasparente. Direi qualcosa di almeno dieci centimetri di lunghezza e fra i tre e i cinque di diametro, di legno verniciato e notevolmente usurato. Presenterebbe anche tracce di bruciato e bordi non appuntiti, tipo il manico di una scopa. Le abrasioni erano distinte e ben definite, il che implica un inserimento unico. Non ho riscontrato nulla che suggerisca anche penetrazione di un pene. Retto e bocca non mostrano segni di violenza sessuale.»

«Quindi niente fluidi corporei» commentai, torvo.

«E pare non esserci sangue o pelle sotto le unghie» aggiunse Cooper, con un pizzico di pessimistica soddisfazione. «I test non sono completi, naturalmente, ma l'impressione che ho è che non dovreste riporre troppe speranze nella possibilità di recuperare dei campioni di DNA.»

«Ha controllato il resto del corpo per eventuali presenze di sperma, giusto?» disse Cassie.

Cooper le riservò uno sguardo austero e non si premurò nemmeno di rispondere. «Dopo la morte» continuò, «è stata messa più o meno nella stessa posizione in cui l'abbiamo trovata, adagiata sul fianco sinistro. Non ci sono lividità secondarie, a dimostrazione del fatto che è rimasta in quella posa per almeno dodici ore. La relativa mancanza di attività degli insetti mi porta a credere che sia stata tenuta in uno spazio chiuso, o forse avvolta in un materiale di qualche tipo, per un considerevole lasso di tempo prima della scoperta del corpo. Scriverò tutto nella mia relazione, naturalmente, ma per il momento… avete qualche domanda?»

Il commiato, anche se appena accennato, era chiaro. «Qualcosa di nuovo sull'ora del decesso?» chiesi.

«I contenuti gastrointestinali mi permettono di essere un po' più preciso di quanto non sia stato sulla scena, sempre che possiate determinare l'orario del suo ultimo pasto. Aveva mangiato biscotti al cioccolato meno di mezz'ora prima della morte e consumato un pasto completo… il processo digestivo era abbastanza avanzato, ma c'erano dei fagioli… più o meno tra le quattro e le sei ore prima.»

Fagioli in salsa di pomodoro con pane tostato, intorno alle otto. Quindi, con una buona approssimazione, era morta tra mezzanotte e le due del mattino. Il biscotto doveva provenire dalla cucina dei Devlin, preso al volo mentre usciva di casa, oppure era stato il killer a darglielo.

«Il mio team finirà di ripulirla tra qualche minuto» concluse Cooper. Raddrizzò la testa di Katy con un manierismo preciso e soddisfatto. «Se volete avvisare la famiglia.»


Una volta fuori dall'ospedale ci guardammo. Una giovane donna molto magra, con una coda di cavallo alta e stretta, camminava avanti e indietro nel parcheggio, beveva da una lattina di 7-Up, trafficava nella borsa e, al tempo stesso, parlava velocemente al cellulare. «Pensavo che mi stesse prendendo per il culo, capito, no? Così gli ho detto: "Vaffanculo, Dermot, sto cercando di dormire". Ma lui ha detto: "No, fa male, sul serio…".»

«È da un po' che non vengo in un posto così» disse Sam, in tono sommesso.

«E adesso ti ricordi perché» chiarii.

«Post mortem…» Cassie aggrottò l'espressione in direzione della ragazza con la coda («Non lo lasciano uscire nemmeno per una paglia, cinque maledettissime ore, sta andando fuori di testa, cazzo…»). «Che accidenti voleva fare quel tipo?»

Sam se ne andò a scoprire qualcosa di più sull'autostrada e io chiamai la sala operativa e dissi a due degli agenti di supporto di accompagnare i Devlin all'ospedale. Cassie e io avevamo già visto la loro prima reazione alla notizia, quella cruciale, e non desideravamo né avevamo bisogno di rivederla. E poi dovevamo assolutamente parlare con Mark Hardy.

«Vuoi che ce lo portiamo con noi?» chiesi, una volta in auto. Non c'era motivo per non interrogare Mark nella baracca dei reperti, ma lo volevo lontano dal suo territorio e sul nostro, in parte come forma di vendetta per le mie scarpe rovinate.

«Oh, sì» rispose Cassie. «Dice che hanno solo poche settimane di tempo, no? Se ho capito come funziona con lui, il modo più rapido perché gli si sciolga la lingua è fargli sprecare un giorno di lavoro.»

Approfittammo del tragitto in auto per redigere una bella lista di motivi da dare a O'Kelly in base ai quali non ritenevamo che "Knocknaree ama Satana" fosse responsabile della morte di Katy Devlin. «Non dimenticare "assenza di posizionamento rituale"» dissi. Mi misi di nuovo al volante. Ero ancora molto teso e se non avessi avuto qualcosa da fare avrei fumato senza interruzione fino a Knocknaree.

«E niente… animali… squartati» scrisse Cassie.

«Cosa dirà alla conferenza stampa? "Non abbiamo trovato un pollo morto"?»

«Puoi scommetterci che lo farà. Non perderà una battuta.»

La giornata era cambiata mentre eravamo da Cooper: la pioggia era cessata e un bel sole caldo stava già asciugando le strade. Gli alberi lungo la carreggiata scintillavano di gocce d'acqua e quando scendemmo dall'auto l'aria profumava di nuovo, come se avessero fatto il bucato, e c'era un'atmosfera vitale, con foglie e terra umide. Cassie si tolse la felpa e se la legò in vita.

Gli archeologi erano sparsi nella sezione inferiore del sito, impegnati in attività con piccozze, badili e carriole. Si erano tolti le giacche, che avevano buttato sulle rocce, e alcuni perfino le magliette. Erano tutti inclini alla frivolezza, presumibilmente per reazione allo shock e all'inattività del giorno prima. Da un grosso stereo portatile uscivano le note basse e pompanti, a volume altissimo, degli Scissor Sisters e cantavano tutti in coro, tra un colpo di piccozza e l'altro; una delle ragazze stava usando il badile come microfono. In tre si facevano guerra con bottiglie d'acqua e manichetta, gridando e schivandosi.

Mel stava spingendo una carriola piena su per una montagnola di terra. Arrivata in cima, la svuotò con movimenti esperti e ridiscese beccandosi proprio allora una spruzzata d'acqua sulla faccia. «Stronzi!» gridò e, lasciata andare la carriola, si mise a rincorrere una ragazzetta dai capelli rossi che, con la manichetta, l'aveva inondata. La rossa strillò e fece per mettersi in salvo ma inciampò nelle spire della manichetta. Mel l'agguantò con una presa tra collo e testa e lottò con lei per toglierle la manichetta mentre grandi getti d'acqua volavano per tutto il sito tra le risate generali.

«Mitico» gridò uno dei ragazzi. «Lesbiche in azione.»

«Dov'è la macchina fotografica?»

«È un succhiotto quello che hai sul collo?» gridò la rossa. «Ragazzi, Mel ha un succhiotto!» Seguì un boato di grida e risate di congratulazioni.

«Vaffanculo» berciò Mel, rossa come un peperone anche se rideva di gusto.

Mark richiamò tutti all'ordine in modo brusco e loro gli gridarono qualcosa tutti insieme per prenderlo in giro, ma si rimisero al lavoro, cercando di scrollarsi di dosso l'acqua che s'erano presi. Provai un improvviso moto d'invidia per la libertà priva di impacci delle loro grida, delle loro zuffe, per l'energia muscolare che mettevano nelle loro piccozze, per i loro vestiti infangati lasciati ad asciugare al sole mentre lavoravano, per la rilassata ed efficiente sicurezza che mostravano nel loro lavoro. «Mica male come modo per guadagnarsi da vivere» commentò Cassie, rovesciando leggermente la testa all'indietro e rivolgendo al cielo un suo piccolo e privato sorriso felice.

Gli archeologi ci avevano notato; uno dopo l'altro abbassarono gli attrezzi e ci guardarono, schermandosi gli occhi dal riflesso del sole con le braccia nude. Ci dirigemmo verso Mark sotto uno stupito sguardo collettivo. Mel si raddrizzò dall'interno di una trincea, perplessa, togliendosi i capelli dalla faccia e lasciandovi sopra una striscia di fango; Damien, inginocchiato tra la sua falange di ragazze, aveva ancora l'aspetto afflitto e un po' desolato, ma Sean, lo Scultore, si rianimò quando ci vide e ci salutò col suo badile. Mark si appoggiò alla sua piccozza come un vecchio e taciturno montanaro e ci rivolse un'occhiata furtiva e impenetrabile.

«Sì?»

«Vorremmo scambiare due chiacchiere con te» dissi.

«Stiamo lavorando. Non potete aspettare almeno fino all'ora di pranzo?»

«No. Prendi le tue cose, andiamo alla stazione di polizia.»

Tese ferocemente la mascella e per un istante pensai che si sarebbe opposto, ma poi scaraventò a terra l'attrezzo, si pulì la faccia con la maglietta e si incamminò per risalire la collina. «Ciao» salutai gli archeologi, mentre lo seguivamo. Neppure Sean rispose.

In auto, Mark estrasse il suo pacchetto di tabacco. «Non si fuma» lo avvisai.

«Cazzo!» esplose. «Voi due fumate, vi ho visti ieri.»

«Le auto del dipartimento sono equiparate ai luoghi di lavoro. È vietato fumarci dentro.» Non me lo stavo neppure inventando; ci vuole una commissione per formulare una regola così ridicola.

«Dai, e che cavolo, Ryan, lascia che si fumi questa sigaretta» disse Cassie. Poi, con un bisbiglio dal volume ben calcolato, aggiunse: «Ci risparmieremo di doverlo portare fuori per una pausa fumo, tra qualche ora.» Colsi lo sguardo sbigottito di Mark nello specchietto retrovisore. «Posso averla anch'io una sigarettina delle tue?» proseguì Cassie, voltandosi per infilarsi tra i sedili.

«Quanto ci vorrà?» chiese l'archeologo.

«Dipende» gli risposi.

«Da cosa? Non so neppure di che si tratta.»

«Ci arriveremo. Mettiti comodo e fatti la tua paglia prima che cambi idea.»

«Come sta andando lo scavo?» domandò Cassie con fare amichevole.

Un angolo della bocca di Mark si torse amaramente. «Tu che dici? Abbiamo quattro settimane per fare il lavoro di un anno. Abbiamo usato i bulldozer.»

«E non va bene?» chiesi.

Mi guardò, torvo. «Ti sembriamo per caso il fottutissimo "Time Team"?»

Non ebbi la risposta pronta, visto che per quello che mi riguardava lui e i suoi compari sembravano proprio il fottutissimo "Time Team", quelli che spiegano alla TV l'archeologia a noi uomini della strada. Cassie accese la radio e Mark la sigaretta. Soffiò fuori dal finestrino una boccata di fumo, rumorosa e disgustata. Sarebbe stata una lunga giornata, non c'era dubbio.


Non dissi granché durante il tragitto di ritorno. Mi rendevo conto che poteva essere proprio l'assassino di Katy Devlin quello che se ne stava con il broncio sul sedile posteriore della mia auto, e non sapevo cosa provavo al riguardo. Naturalmente, per vari motivi, mi sarebbe piaciuto parecchio che fosse lui il nostro uomo: mi aveva fatto girare le scatole sul serio e a quel punto avremmo potuto liberarci di un caso sinistro e imprevedibile quasi prima che iniziasse. Avremmo avuto la possibilità di chiuderlo quel pomeriggio stesso e io avrei potuto rimettere a posto il vecchio fascicolo, in cantina. Mark infatti, che nel 1984 aveva circa cinque anni e viveva ben lontano da Dublino, non poteva essere un sospetto credibile per quel fatto. Se così fosse andata sarei stato costretto ad accontentarmi della pacca sulle spalle da O'Kelly, riprendermi i segaioli da taxi da Quigley e dimenticarmi di Knocknaree.

Ma, in qualche modo, avevo l'impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato. In parte dipendeva dal modo imbarazzante in cui quella cosa minacciava di sgonfiarsi: avevo trascorso gran parte delle ultime ventiquattr'ore a prepararmi ai luoghi in cui avrebbe potuto portarmi quel caso e avevo immaginato qualcosa di molto più drammatico di un interrogatorio e un arresto. Non era solo quello, però. Non sono superstizioso, ma, insomma, se la chiamata fosse arrivata qualche minuto prima o dopo, o se Cassie e io non avessimo appena scoperto Worms, o se fossimo andati a fumarci una sigaretta, quel caso sarebbe finito a Costello o a chissà chi, comunque non a noi, e sembrava impossibile che una cosa così potesse essere solo una coincidenza. Avevo la sensazione che rotelline invisibili si fossero messe in moto, che le cose si stessero muovendo, risistemandosi in maniera impercettibile. Credo che, per ironia della sorte, una piccola parte di me, nel profondo, non ce la facesse più ad aspettare di vedere cosa sarebbe successo.


Quando tornammo al lavoro, Cassie non solo era riuscita a ottenere l'informazione che i bulldozer venivano usati esclusivamente nelle emergenze perché distruggono prove archeologiche di valore e che quelli di "Time Team" erano una massa di prezzolati poco professionali, ma si era procurata anche il mozzicone di una delle sigarette arrotolate da Mark per lei, il che significava che se fosse stato necessario avremmo potuto comparare il suo DNA con quello dei mozziconi trovati nella radura del bosco, senza dover ottenere un mandato. Era chiaro come il sole chi avrebbe interpretato i ruoli di poliziotto buono e poliziotto cattivo quel giorno. Perquisii Mark, che teneva la mascella serrata e scuoteva la testa, e lo misi in una delle stanze per gli interrogatori, mentre Cassie portava sulla scrivania di O'Kelly la nostra lista Knocknaree desatanizzata.

Lasciammo Mark a cuocere per qualche altro minuto prima di entrare. Lui era stravaccato sulla sedia e tamburellava con gli indici un motivetto ripetitivo e sempre più irritante sul tavolo. «Ciao di nuovo» disse Cassie allegramente. «Vuoi un tè o un caffè?»

«No. Voglio tornare al lavoro.»

«Detective Maddox e Ryan, a colloquio con Mark Conor Hardy» dichiarò Cassie rivolta alla telecamera posta in alto, in un angolo. Mark si girò velocissimo, sbigottito; poi fece una smorfia e si risistemò comodamente.

Presi una sedia, gettai sul tavolo un fascio di fotografie scattate sulla scena del crimine e le ignorai. «Non sei obbligato a dire nulla a meno che non lo desideri, ma qualsiasi cosa dirai verrà messa per iscritto e potrebbe essere usata come prova. Capito?»

«Ma che cazzo… sono in arresto?»

«No. Bevi vino rosso?»

Mi lanciò una breve occhiata sarcastica. «Cos'è, un'offerta?»

«Perché non vuoi rispondere alla domanda?»

«È questa la mia risposta. Bevo quello che c'è, perché?»

Annuii pensieroso e trascrissi.

«A che serve il nastro?» chiese Cassie con curiosità, sporgendosi sul tavolo per indicare il nastro adesivo che Mark si era avvolto attorno alle mani.

«Per le vesciche. I cerotti non stanno attaccati quando si usa la piccozza sotto la pioggia.»

«Non potresti metterti i guanti?»

«Alcuni lo fanno» rispose Mark. Il tono conteneva l'insinuazione che quelle persone avevano un basso livello di testosterone, in un modo o nell'altro.

«Ti spiace mostrarci cosa c'è sotto?» domandai.

Mi lanciò un'occhiata sospetta, ma srotolò il nastro, mettendoci tutto il tempo necessario, e lo lasciò cadere sul tavolo. Mostrò le mani nude con uno svolazzo sardonico. «Visto qualcosa che vi piace?»

Cassie si sporse, appoggiandosi sulle braccia, osservò con attenzione, gli fece cenno di girarle. Non vide graffi o tracce di unghie, e c'erano effettivamente i segni di grosse vesciche, in via di guarigione, alla base di ciascun dito. «Ahi» fece Cassie. «Come te le sei procurate?»

Mark scrollò le spalle, disinteressato. «Di solito ho i calli, ma mi sono dovuto fermare qualche settimana perché mi faceva male la schiena e così mi sono messo a catalogare reperti. Le mani mi si sono ammorbidite e quando sono tornato a lavorare in trincea ecco cosa mi sono beccato.»

«L'inattività deve averti mandato fuori di testa» commentò Cassie.

«Certo» rispose seccamente Mark. «Un periodo di merda.»

Presi il nastro tra pollice e indice e lo lasciai cadere nel cestino. «Dove ti trovavi lunedì sera?» chiesi, appoggiandomi al muro dietro di lui.

«Alla Team House, la casa del gruppo. Come vi ho detto ieri.»

«Fai parte di Spostiamo l'autostrada?» intervenne Cassie.

«Sì, come molti altri di noi. Quel tipo, Devlin, è venuto un po' di tempo fa, ci ha chiesto se volevamo aderire. Non è ancora illegale, per quel che ne so.»

«Quindi conosci Jonathan Devlin?» chiesi.

«È quello che ho appena detto. Non siamo amici del cuore, ma sì, lo conosco.»

Mi sporsi sopra la sua spalla e sfogliai le varie foto della scena del crimine, lasciandogli intravedere qualche scorcio ma senza che potesse guardare bene. Trovai uno degli scatti più inquietanti e glielo misi davanti. «Ma ci hai detto di non conoscerla.»

Mark prese la foto con la punta delle dita e la osservò a lungo, senza espressione. «Vi ho detto che l'avevo vista qualche volta in giro per lo scavo, ma non sapevo il suo nome e non la conosco. Dovrei?»

«Sì, credo di sì» risposi. «È la figlia di Devlin.»

Si girò per fissarmi, con le sopracciglia che andavano aggrottandosi; poi guardò nuovamente la foto. Dopo un momento scosse la testa. «Macché, ho conosciuto una figlia di Devlin a una protesta, in primavera, ma era più grande. Rosemary, Rosaleen… qualcosa del genere.»

«Che opinione ti sei fatto di lei?» chiese Cassie.

Mark si strinse nelle spalle. «Ragazza carina. Parlava molto. Stava al tavolo delle adesioni, faceva firmare la gente, ma non credo fosse particolarmente coinvolta nella campagna, le interessava di più fare la smorfiosa con i ragazzi. Infatti, dopo non si è più vista.»

«L'hai trovata attraente» dissi, avvicinandomi allo specchio unidirezionale per controllarmi la rasatura.

«Molto carina, ma non il mio tipo.»

«Ma hai notato che alle proteste successive non c'era. Perché, la cercavi?»

Riuscivo a vederlo, nel vetro, che fissava sospettoso la mia nuca; alla fine spinse via la foto e si risistemò sulla sedia, imbronciato. «No, non la cercavo.»

«Hai tentato di contattarla di nuovo?»

«No.»

«Come facevi a sapere che era la figlia di Devlin?»

«Non me lo ricordo.»

Stavo cominciando ad avere una brutta sensazione. Mark era impaziente e incazzato e la doccia di domande scollegate le une dalle altre lo stava rendendo guardingo, ma non appariva nemmeno lontanamente nervoso o spaventato o nulla del genere. Ciò che sembrava provare era essenzialmente irritazione. Insomma, non si stava comportando da colpevole.

«Ascolta» disse Cassie, ripiegando un piede sotto di sé, «cosa sta succedendo realmente per quello che riguarda lo scavo e l'autostrada?»

Mark rise, un piccolo sbuffo malinconico. «È proprio una bella favola della buonanotte. Il governo ha annunciato i progetti nel 2000. Tutti sapevano che c'erano una marea di reperti intorno a Knocknaree, così hanno chiamato un gruppo per condurre un'indagine. Questi sono tornati e hanno detto che il sito era ben più importante di quanto si fosse mai pensato e solo un idiota ci avrebbe potuto costruire sopra. Bisognava deviare l'autostrada. Il governo rispose che era tutto molto interessante, grazie mille e, no, non intendevano spostarsi di un centimetro. Ci sono volute discussioni mostruose prima che ammettessero anche solo la possibilità di realizzare "uno scavo". Alla fine sono stati così clementi da dire okay, potevamo condurre una campagna di scavi di due anni… anche se ce ne vorrebbero almeno cinque per rendere giustizia al sito. Da allora, migliaia di persone hanno cercato di opporsi in tutti i modi possibili: petizioni, dimostrazioni, azioni legali. Al governo non frega un cazzo.»

«Ma perché?» chiese Cassie. «Perché non si limitano a spostarla?»

Mark scrollò le spalle e storse la bocca in una smorfia furibonda. «Non chiedetelo a me. Lo scopriremo in un tribunale, quando ormai saranno passati dieci o quindici anni e sarà troppo tardi.»

«E martedì sera?» domandai. «Dove ti trovavi?»

«Alla Team House. Posso andare adesso?»

«Tra un po'» risposi. «Quando è stata l'ultima volta che hai trascorso la notte al sito?»

Irrigidì le spalle, quasi impercettibilmente. «Non ho mai trascorso la notte al sito» affermò, dopo un istante.

«Non sottilizziamo, nel bosco di fianco al sito.»

«Chi lo dice che ci ho dormito?»

«Senti, Mark» intervenne Cassie, improvvisamente e senza preamboli, «tu eri nel bosco lunedì o martedì sera. Possiamo dimostrarlo con prove della Scientifica se dovremo farlo, ma la cosa ci farà perdere un sacco di tempo e, credimi, ci impegneremo per farne perdere un bel po' anche a te. Non credo che tu abbia ucciso quella ragazzina, ma dobbiamo sapere quando sei stato nel bosco, cosa ci facevi e se hai visto o sentito qualcosa di utile. Quindi, potremmo trascorrere il resto della giornata per tirartelo fuori a forza, oppure potresti farla breve e tornartene al lavoro. La scelta è tua.»

«Quali prove della Scientifica?» chiese Mark con scetticismo.

Cassie gli rivolse un sorrisetto furbo ed estrasse da una tasca la sigaretta arrotolata, ordinatamente chiusa in un sacchetto di plastica. Gliela sventolò davanti. «DNA. Hai lasciato i mozziconi nel luogo dove hai bivaccato.»

«Cristo» disse Mark, fissando il sacchetto. Sembrava che stesse decidendo se infuriarsi oppure no.

«Faccio solo il mio lavoro» disse allegramente Cassie, rimettendosi il sacchetto in tasca.

«Cristo» ripeté lui. Si mordicchiava le labbra, ma non riusciva a nascondere del tutto il sorrisetto che gli deformava appena un angolo della bocca. «E ci sono cascato in pieno. Sei una tipa incredibile, porco cane, lo sei sul serio.»

«Allora, avanti, raccontami, hai dormito nel bosco…»

Silenzio. Alla fine Mark si mosse, lanciò un'occhiata all'orologio appeso al muro e sospirò. «Va bene, ci ho passato qualche notte.»

Feci il giro del tavolo, mi sedetti e aprii il blocco degli appunti. «Lunedì o martedì? O entrambi?»

«Solo lunedì.»

«A che ora sei arrivato?»

«Intorno alle dieci e mezzo. Ho acceso un falò e quando si è spento mi sono messo a dormire, verso le due.»

«Lo fai in tutti i siti?» chiese Cassie. «O solo a Knocknaree?»

«Solo a Knocknaree.»

«Perché?»

Mark si guardò le dita, le tamburellò lentamente sul tavolo. Cassie e io aspettavamo.

«Sapete cosa significa Knocknaree?» disse alla fine. «Collina del re. Non siamo certi di quando il nome abbia avuto origine, ma siamo abbastanza sicuri che si tratti di un riferimento precristiano, non politico. Non vi sono evidenze di sepolture reali o di insediamenti abitativi, ma abbiamo trovato dappertutto manufatti religiosi dell'Età del Bronzo: la pietra d'altare, figurine votive, una coppa d'oro per offerte, resti di sacrifici animali e forse anche umani. Quella collina è stata un sito religioso importantissimo.»

«Chi adoravano?»

Si strinse nelle spalle e aumentò il ritmo del tamburellamento. Avrei voluto sbattere la mano sulla sua e tenergliela ferma.

«Quindi facevi la guardia» disse tranquillamente Cassie. Se ne stava rilassata sulla sua sedia, ma i lineamenti del suo volto erano attenti e in allerta, puntati su di lui.

Mark spostò la testa, pareva a disagio. «Più o meno.»

«Il vino che hai versato» proseguì Cassie. Lui sollevò bruscamente lo sguardo, poi lo distolse. «Una libagione?»

«Se la vogliamo definire così.»

«Vediamo se ho capito bene» dissi. «Hai deciso di dormire a pochi metri da dove è stata assassinata la ragazza e noi dovremmo credere che eri lì per motivi religiosi.»

D'un tratto si infiammò, si lanciò in avanti e puntò un dito contro di me, rapido e selvatico come un gatto della giungla. Ebbi un sussulto prima che potessi controllarmi. «Senti, detective, adesso tu mi ascolti. Io non credo alla Chiesa, mi segui? A nessuna Chiesa. La religione esiste per tenere la gente al proprio posto e per versare l'obolo. Quando sono diventato maggiorenne ho fatto cancellare il mio nome dal registro ecclesiastico. E non credo neanche ad alcun governo. Sono come la Chiesa, tutti quanti. Parole diverse, stesso obiettivo: tenere il piede sul collo dei poveri e sostenere i ricchi. Le uniche cose in cui credo sono là fuori, allo scavo.» Aveva gli occhi ridotti a una fessura, incandescenti, adatti a stare dietro un fucile in cima a una barricata senza più speranze. «C'è più da adorare in quel sito che in qualsiasi fottutissima chiesa del mondo. È un sacrilegio che stiano per costruirci un'autostrada. Se stessero per abbattere l'Abbazia di Westminster per costruirci un parcheggio, criticheresti la gente che vi montasse la guardia? Allora non rifilarmi la lezioncina se faccio la stessa cosa.» Mi fissò finché non sbattei le palpebre, poi si schiacciò contro lo schienale e incrociò le braccia.

«Immagino di poter interpretare la cosa come una negazione da parte tua di alcun coinvolgimento nell'omicidio» dissi freddamente, una volta certo di avere ripreso il controllo della voce. Per un qualche motivo, quella tirata mi aveva colpito più di quanto non volessi ammettere. Mark sollevò gli occhi al soffitto.

«Mark» intervenne Cassie. «So esattamente cosa intendi. Io provo la stessa cosa per il mio lavoro.» Verde in volto, lui le rivolse un'occhiata lunga e dura, senza muovere un muscolo. Alla fine però annuì. «Ma devi capire anche il punto di vista del detective Ryan: un sacco di gente non capirà quello che provi. Per loro sembrerà solo una cosa molto, molto sospetta. Dobbiamo poterti escludere dall'indagine.»

«Se volete che mi sottoponga alla macchina della verità, lo farò. Ma martedì sera non ero là. Ci sono andato lunedì. Ma che c'entra con tutto il resto?» Provai nuovamente quella sensazione di sprofondare. A meno che non fosse molto più bravo di quanto fossi disposto a concedergli, dava per scontato che Katy fosse morta martedì sera, la sera prima del ritrovamento del corpo.

«Okay, puoi provare allora dove ti trovavi? E sii preciso… diciamo dall'ora in cui hai finito il lavoro, martedì, fino a quando sei tornato al sito, mercoledì mattina?»

Mark respirò a denti stretti, si torturò una vescica e d'un tratto mi resi conto che sembrava imbarazzato; lo faceva apparire molto più giovane. «Sì, posso provarlo. Sono tornato alla casa, mi sono fatto una doccia, ho cenato con i ragazzi, abbiamo giocato a carte e ci siamo bevuti qualche lattina in giardino. Potete chiederlo a loro.»

«E poi?» dissi. «A che ora siete andati a dormire?»

«La maggior parte sono rientrati intorno all'una.»

«E c'è qualcuno che può confermare i tuoi movimenti dopo quell'ora? Condividi la stanza con qualcuno?»

«No. Ho una stanza tutta per me, sono l'assistente del direttore del sito. Sono rimasto alzato un altro po', in giardino, a parlare con Mel. Sono rimasto con lei fino all'ora di colazione.» Stava facendo del suo meglio per apparire indifferente, ma tutta quell'arrogante padronanza di sé era svanita; ora sembrava suscettibile e impacciato come un ragazzino di quindici anni. Mi sarei messo a ridere. Non osavo guardare Cassie.

«Tutta la notte?» domandai con malizia.

«S…s…sì.»

«In giardino? Non era un po'… freschetto?»

«Siamo rientrati verso le tre e siamo rimasti nella mia stanza fino alle otto. Quando ci siamo alzati.»

«Bene, bene, bene» commentai soavemente. «La maggior parte degli alibi non sono neanche lontanamente così piacevoli.» Mi lanciò un'occhiata velenosa.

«Torniamo a lunedì notte» disse Cassie. «Mentre eri nel bosco, hai visto o sentito nulla di strano?»

«No. Ma è molto buio, buio come può esserlo in campagna, non come in città. Non c'è illuminazione pubblica o nulla del genere. E potrei non averli sentiti, ci sono un sacco di rumori.» Buio e rumori del bosco: ebbi nuovamente un brivido che mi scese lungo la schiena.

«Non necessariamente nel bosco» sottolineò Cassie. «Allo scavo, o magari lungo la strada… C'era qualcuno, diciamo intorno alle undici e mezzo?»

«Un momento» fece d'un tratto Mark, quasi con riluttanza. «Al sito… c'era qualcuno.»

Né Cassie né io ci muovemmo. Tra noi era scoccata una scintilla d'allarme. Eravamo stati quasi pronti a mollare Mark, controllarne l'alibi, inserirlo in una lista con un punto interrogativo e lasciarlo tornare alla sua piccozza, almeno per il momento – nei primi, febbrili giorni di un'indagine non c'è tempo da perdere su ciò che è anche solo poco meno che cruciale – e ora aveva di nuovo tutta la nostra attenzione.

«Potresti fornirci una descrizione?» chiesi.

Mi squadrò con disgusto. «Certo, somigliava tanto a una torcia. Ho detto che era buio.»

«Mark» lo rimproverò Cassie. «E se cominciassi dall'inizio?»

«C'era qualcuno con una torcia che attraversava il sito, dall'abitato verso la strada. È tutto. Ho visto solo il raggio di luce.»

«A che ora?»

«Non ho guardato l'orologio. L'una? Forse un po' prima…»

«Pensa bene. Potresti dirci qualcosa… qualsiasi cosa, magari l'altezza, in base all'angolazione del fascio di luce?»

Mark rifletté. «No. Sembrava abbastanza bassa, vicino al terreno, ma il buio altera il senso delle prospettive. Si muoveva lentamente, ma come avrebbe fatto chiunque; l'avete visto il sito, è tutto pieno di buche e pezzi di muro.»

«Una torcia grande o piccola?»

«Il fascio era piccolo, non molto intenso. Non era uno di quei torrioni col manico. Una torcia piccola.»

«Quando l'hai vista la prima volta» chiese Cassie, «era su, verso il muro della zona residenziale, dalla parte opposta della strada?»

«Sì, più o meno. Ho pensato che venisse dal cancello posteriore, o che forse avesse scavalcato il muro.» Il cancello posteriore della zona residenziale era in fondo alla strada dei Devlin, a solo tre case di distanza. Poteva aver visto Jonathan o Margaret, rallentati da un corpo e alla ricerca di un luogo dove lasciarlo; oppure Katy che scivolava furtiva nell'oscurità per incontrare qualcuno, armata solo di una piccola torcia e di una chiave di casa che non avrebbero potuto riportarla indietro, al sicuro.

«Ed è andato alla strada.»

Mark si strinse nelle spalle. «Ha tagliato di là, percorrendo il sito in diagonale, ma non ho visto dov'è arrivato. Gli alberi mi impedivano di vedere.»

«Credi che, chiunque fosse, abbia notato il fuoco che avevi acceso?»

«E come faccio a saperlo?»

«D'accordo, Mark» disse Cassie, «questo è importante. Hai visto un'auto passare intorno a quell'ora? O magari ce n'era una ferma sulla strada?»

Mark si prese un po' di tempo. «No» rispose alla fine e con sicurezza. «È passata una coppia appena sono arrivato, ma nulla dopo le undici. Vanno a letto presto da quelle parti. Tutte le luci si spengono prima di mezzanotte.»

Se stava dicendo la verità, allora ci aveva appena fatto un grosso favore. Sia il luogo dell'uccisione sia la scena secondaria, ovunque il corpo di Katy fosse stato nascosto nella giornata di martedì, si trovavano quasi certamente a una distanza raggiungibile a piedi dalla zona residenziale, molto probabilmente proprio lì, e la nostra cerchia dei sospetti non includeva più la gran parte della popolazione irlandese. «Sei certo che te ne saresti accorto se fosse passata un'auto?» domandai.

«La torcia l'ho notata, no?»

«Ma te la sei ricordata solo ora» ribattei.

Arricciò le labbra. «La mia memoria funziona alla perfezione, grazie mille. Non pensavo fosse importante. È stato lunedì sera, no? Non ci ho prestato molta attenzione. Ho pensato fosse qualcuno che tornava da casa di amici, o magari un ragazzino che andava a incontrarsi con un compagno. A volte ci vanno, di sera, al sito. Non era un mio problema, comunque. Non mi ha dato fastidio.»

A quel punto Bernadette, l'impiegata amministrativa della squadra, bussò alla porta della stanza. Quando aprii, disse con disapprovazione: «Detective Ryan, c'è una telefonata per lei. Ho detto alla persona che non potevo disturbarla, ma ha detto che era importante». Bernadette è alla Omicidi da qualcosa come ventiquattro anni, tutta la sua vita lavorativa. Ha una faccia da marsupiale petulante, cinque completi da ufficio, uno per ogni giorno della settimana (il che è utile se sei troppo stanco per ricordare che giorno è), e tutti pensiamo che sia segretamente e senza speranza innamorata di O'Kelly. Gira una gigantesca scommessa per tutta la squadra su quando si metteranno finalmente insieme.

«Vai pure» disse Cassie. «Posso finire io, qui… Mark, abbiamo solo bisogno di raccogliere la tua testimonianza. Poi ti diamo un passaggio per riportarti al lavoro.»

«Prendo l'autobus.»

«No che non lo prendi» mi intromisi. «Dobbiamo verificare il tuo alibi con Mel e non sarebbe una gran verifica se tu avessi la possibilità di parlarle prima.»

«Ma porca puttana» scattò Mark, rimettendosi rumorosamente a sedere. «Non mi sto inventando niente. Chiedete a chi volete. Lo sapevano tutti nel gruppo, prima ancora che ci alzassimo.»

«Non preoccuparti, lo faremo» dissi allegramente, lasciandolo nelle mani di Cassie.


Tornai alla sala operativa e attesi che Bernadette mi passasse la telefonata, cosa che fece mettendoci tutto il suo tempo per farmi capire che non era compito suo venire a cercarmi. «Ryan» risposi.

«Detective Ryan?» Sembrava senza fiato, senza fiato e titubante, ma riconobbi la voce all'istante. «Sono Rosalind. Rosalind Devlin.»

«Rosalind» ripetei, aprendo di scatto il bloc-notes e pescando una penna. «Come stai?»

«Oh, io sto bene.» Risatina fragile. «A dire il vero, non proprio. Non sto bene, sono sconvolta. Ma credo che siamo ancora sotto shock, che la cosa non l'abbiamo ancora colta fino in fondo. Non si pensa mai che un evento del genere possa accadere a noi, vero?»

«No» concordai, comprensivo. «So come devi sentirti. Cosa posso fare per aiutarti?»

«Mi chiedevo… pensa che potrei fare un salto da lei per parlarle, un giorno? Solo se non è troppo disturbo. C'è una cosa che devo chiederle.» In sottofondo udii il rumore di un'auto che passava. Rosalind era fuori, da qualche parte, al cellulare o in una cabina.

«Ma certo. Oggi pomeriggio?»

«No» si affrettò a rispondere. «No… non oggi. Vede, torneranno a minuti, sono andati solo a… a vedere…» La voce le si spense. «Che ne dice di domani? Nel pomeriggio?»

«Quando vuoi» dissi. «Ti lascio il numero del mio cellulare, va bene? Così puoi chiamarmi ogni volta che ne hai bisogno. Fammi uno squillo domani e ci vediamo.»

Rosalind se lo scrisse, ripetendo i numeri a bassa voce. «Ora devo andare» disse in tutta fretta. «Grazie, detective Ryan. Grazie di cuore» e prima che potessi salutarla riattaccò.


Andai a dare un'occhiata alla saletta degli interrogatori: Mark stava scrivendo e Cassie era riuscita a farlo ridere. Battei le dita sul vetro. La testa di Mark scattò, Cassie mi lanciò un sorrisino e annuì impercettibilmente: a quanto pareva se la stavano cavando bene senza di me. Come potete immaginare, la cosa non mi dispiaceva affatto. Sophie era in attesa del campione di sangue che le avevamo promesso; lasciai a Cassie un messaggio su un post-it, "Torno alle 5", lo attaccai alla porta della saletta e scesi nell'interrato.

Le procedure per la catalogazione delle prove nei primi anni Ottanta, soprattutto quelle dei casi insoluti, non erano precisissime. La scatola di Peter e Jamie era su uno scaffale in alto e non l'avevo mai tirata giù prima di allora, ma quando feci per estrarre il fascicolo principale che si trovava in cima percepii del movimento all'interno e capii che la scatola doveva contenere altre cose, sicuramente le prove che Kiernan, McCabe e il loro team avevano raccolto. Il caso comprendeva altre quattro scatole che recavano etichette scritte con una calligrafia da bambino: 2) Questionnari, 3) Questionnari, 4) Dichiarazioni, 5) Piste. L'ortografia non era il lato forte di Kiernan o McCabe. Tirai giù la prima scatola e atomi di pulviscolo scesero a cascata, rilucendo al riflesso dell'unica, spoglia lampadina.

Conteneva diversi sacchetti di plastica con le prove. Erano incrostati di polvere e gli oggetti all'interno avevano un aspetto irreale, seppiato, di macerie da disastro naturale, o di manufatti misteriosi ritrovati in una sala sigillata da secoli. Li estrassi con cura, uno per uno, soffiai via la polvere e li misi in fila sui lastroni del pavimento.

C'era poco per essere stato un caso così rilevante. L'orologio di un bambino, un bicchiere di vetro da bibita, un gioco Donkey Kong di un arancio spento, tutti ricoperti di quella che sembrava polvere per rilevare le impronte. Foglie secche, pezzetti di corteccia… Un paio di calzini da ginnastica bianchi macchiati di una sostanza marrone scuro, con riquadri dove il rasoio aveva ritagliato campioni per sottoporli ai test; una maglietta bianca sudicia; dei calzoncini di tela blu sbiaditi, con gli orli che cominciavano a sfilacciarsi e, infine, le scarpe da ginnastica con i classici segni dell'usura e l'interno rigido, nero e deformato. Erano del tipo imbottito, ma il sangue era riuscito a passare all'interno: le tomaie presentavano minuscole macchie scure che partivano dalle cuciture e sulla parte superiore c'erano schizzi di colore marroncino più sbiadito dove il sangue era penetrato meno.

Mi ero preparato bene alla cosa. Avevo in parte previsto che vedere le prove avrebbe potuto scatenare una drammatica ondata di ricordi. Non mi ero aspettato di finire in posizione fetale sul pavimento dell'interrato, ma c'era un motivo per cui avevo scelto un momento in cui era improbabile che scendesse qualcuno a cercarmi. Nella realtà delle cose, però, mi rendevo conto, con un acuto senso di delusione, che nulla di quel materiale aveva il benché minimo aspetto familiare, tranne, è vero, il Donkey Kong di Peter, che forse era lì solo per rilevarvi le impronte e confrontarle con altre e che diede vita a una fiammata di ricordi, breve quanto inutile: io e Peter seduti sulla moquette illuminata dal sole, con un pulsante ciascuno, concentrati e sgomitanti, Jamie in piedi alle nostre spalle che gridava istruzioni eccitate. Si trattò però di un'esperienza così intensa che mi parve quasi di sentire le acute segnalazioni acustiche del gioco. I vestiti, anche se li sapevo miei, non fecero trillare alcun campanello; sembrava inconcepibile che mi fossi effettivamente alzato una mattina e li avessi indossati. Riuscivo a coglierne solo le emozioni collegate: quanto era piccola la maglietta, il Topolino disegnato con la biro sulla punta di una delle scarpe. Dodici anni, all'epoca, erano sembrati incredibilmente tanti.

Presi il sacchetto con la maglietta e lo girai tra pollice e indice. Avevo letto degli squarci sulla schiena ma non li avevo mai visti e in qualche modo li trovai ancora più scioccanti di quelle terribili scarpe. Avevano un che di innaturale, quelle linee parallele perfette, quegli archi precisi e poco profondi; un'impossibilità aspra e implacabile. "Rami?" pensai, scrutandoli come se stessi fissando il vuoto. Ero saltato da un albero o mi ero accovacciato in un cespuglio e la maglietta era rimasta impigliata in quattro rami contemporaneamente? Sentii un pizzicore alla schiena, tra le scapole.

D'un tratto e senza che potessi oppormici desiderai essere da qualche altra parte. Il soffitto basso premeva in maniera claustrofobica e l'aria polverosa era diventata irrespirabile, il silenzio oppressivo. L'unica cosa che di tanto in tanto percepivo erano le inquietanti vibrazioni che il passaggio degli autobus produceva sulle pareti. Praticamente ributtai tutta la roba nella scatola, la issai sullo scaffale (i contenitori a destra e a sinistra si erano allargati e per un istante ebbi paura che la scatola non entrasse più) e afferrai le scarpe, che avevo lasciato sul pavimento, per consegnarle a Sophie.

Fu solo in quel momento che mi colpì, lì nel freddo interrato, tra quei casi semidimenticati e gli impercettibili scricchiolii delle buste di plastica che riprendevano la loro forma nelle scatole, l'immensità di ciò che avevo messo in moto. A causa di tutto quello che avevo in mente, non ero riuscito a pensare alla faccenda in maniera completa. Il vecchio caso sembrava una cosa talmente privata da farmi dimenticare che avrebbe potuto avere implicazioni anche nel mondo esterno. Ma stavo portando quelle scarpe nella sala operativa (cosa diavolo andavo pensando?), le avrei messe in una busta imbottita e avrei detto a uno degli agenti di portarle a Sophie.

Sarebbe successo comunque, prima o poi, perché i casi dei bambini scomparsi non sono mai chiusi. Questione di tempo e qualcuno avrebbe deciso di sottoporre le vecchie prove alle nuove tecnologie. Ma se il laboratorio fosse riuscito a ricavare il DNA dalle scarpe e, in particolare, se fossero riusciti a compararlo col sangue trovato sulla pietra sacrificale, allora non si sarebbe più trattato di una pista secondaria nel caso Devlin, di un'ipotesi campata per aria tra noi e Sophie: il vecchio caso sarebbe esploso nuovamente, sarebbe stato di nuovo un caso aperto. Tutti, da O'Kelly in su, avrebbero fatto il diavolo a quattro perché fossero applicate le nuove tecnologie a quelle prove: la Garda non molla mai, nessun caso irrisolto viene archiviato, l'opinione pubblica può stare certa che dietro le quinte ci muoviamo, silenziosi ma implacabili. I media sarebbero piombati come falchi sulla possibilità che ci fosse un serial killer di bambini tra noi. E avremmo dovuto fare quello che era necessario: prelevare campioni di DNA dei genitori di Peter e della madre di Jamie e… oh, mio Dio… di Adam Ryan. Osservai le scarpe ed ebbi l'improvvisa immagine mentale di un'auto: i freni non reggono e lo scivolamento giù per una collina ha inizio, dapprima piano, senza danni, quasi comico, poi sempre più veloce, finché non trasforma l'auto in una palla da demolizione, impietosa e incurante.

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