Una volta tanto fui il primo ad alzarmi. Era presto, prestissimo, le strade erano ancora silenziose e il cielo era azzurro e punteggiato d'oro pallido, perfetto come in un fermo immagine cinematografico. Cassie, lassù sui tetti, senza nessuno che potesse guardare dentro attraverso la finestra, non chiudeva quasi mai le tende. Potevo aver dormito non più di un'ora o due. Da qualche parte uno stormo di gabbiani lanciò strida selvagge e lamentose.
In quella luce sobria e discreta l'appartamento aveva un'aria abbandonata e triste: piatti e bicchieri della sera prima sparsi sul tavolino basso, una lieve corrente d'aria che sfogliava le pagine dei miei appunti, il mio maglione abbandonato sul pavimento, macchia scura, e lunghe ombre oblique dappertutto. Sentii una fitta sotto lo sterno, così intensa e fisica che pensai dovesse essere sete. C'era un bicchiere d'acqua sul comodino, lo presi e bevvi, ma il dolore rimase.
Pensai che il mio movimento avesse svegliato Cassie, ma lei non si mosse. Dormiva profondamente nell'incavo del mio braccio, le labbra semiaperte, una mano abbandonata sul cuscino. Le scostai i capelli dalla fronte e la svegliai con un bacio.
Non ci alzammo fino alle tre circa. Il cielo era diventato grigio e pesante, un brivido mi trafisse uscendo dal calore delle lenzuola. «Ho una fame da lupo» disse Cassie, abbottonandosi i jeans. Era molto bella quel giorno, con quei capelli arruffati e le labbra piene, lo sguardo sognante e misterioso di bambina assorta in una sua fantasia, e quella nuova radiosità, che stonava con la tristezza del pomeriggio, in qualche modo mi metteva a disagio. «Uno spuntino veloce?»
«No, grazie» dissi. Era la nostra routine del weekend quando mi fermavo a dormire da lei: una colazione irlandese come si deve e una lunga passeggiata sulla spiaggia, ma non potevo sopportare né il pensiero angoscioso di parlare di quello che era accaduto la sera prima né la pesante complicità che implicava evitarlo. L'appartamento mi parve all'improvviso minuscolo e claustrofobico. Avevo graffi e lividi in posti strani: sullo stomaco, sul gomito, e un solco piccolo ma profondo e doloroso su una coscia. «No, è meglio che vada a recuperare la macchina.»
Cassie infilò la testa in una T-shirt e, attraverso la stoffa, disse con apparente naturalezza: «Vuoi un passaggio?». Ma avevo colto il breve lampo di sorpresa nei suoi occhi.
«Credo che prenderò l'autobus» dissi. Trovai le scarpe sotto il tavolino basso. «Cammino volentieri un po'. Ti chiamo dopo, va bene?»
«D'accordo» disse lei allegra, ma sapevo che era successo qualcosa tra noi, qualcosa di estraneo, sottile e pericoloso. Sulla porta, ci abbracciammo brevemente, ma stretti stretti.
Feci un tentativo poco convinto di aspettare l'autobus, ma ero irrequieto e smanioso e dopo dieci, quindici minuti mi dissi che era troppo impegnativo. Due autobus diversi, gli orari della domenica… Rischiavo di metterci tutto il giorno. La verità era che non avevo nessuna voglia di andare a Knocknaree senza essere certo che ci fosse un bel gruppo di archeologi rumorosi e pieni di energia. Pensare a quel posto, deserto e silenzioso sotto un cielo basso e grigio, ora mi faceva venire una leggera nausea. Presi una tazza di cattivo caffè al bar di un distributore di benzina e mi diressi a piedi verso casa. Monkstown è a sette, otto chilometri da Sandymount, ma non avevo nessuna fretta: a casa avrei trovato di sicuro Heather, con della roba verdastra e radioattiva sulla faccia e una puntata di Sex and the City a tutto volume, impaziente di raccontarmi delle sue conquiste allo speed-date e di sapere dove fossi stato e come mai i miei jeans erano tutti infangati e dove fosse finita la mia auto. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse sganciato sulla testa una serie infinita di bombe di profondità.
Ero certo di aver appena commesso uno degli errori più grandi della mia vita. Mi era già capitato di andare a letto con la persona sbagliata, ma non avevo mai fatto niente di neppure lontanamente accostabile a quel monumentale livello di stupidità. La risposta standard all'accadere di quel genere di cose, lo sapevo, era di iniziare una "relazione" o di tagliare tutti i ponti. Avevo tentato entrambe le strade, in passato, con successi alterni, ma questa volta smettere di rivolgere la parola a una collega non era fattibile, e quanto alla possibilità di impegnarsi in una relazione amorosa… Anche se non fosse stato contrario al regolamento, ero un tipo che non trovava il tempo di farsi da mangiare, di dormire o di andare a comprare la carta igienica, per non dire che intanto brancolavo nel buio per quello che riguardava un'indagine e che c'era stato bisogno che venissero a salvarmi da un sito archeologico nel pieno della notte. Il pensiero di essere il fidanzato di qualcuna, con tutte le responsabilità e le complicazioni che la cosa comportava, mi faceva solo venire voglia di rannicchiarmi in un angolo a mettermi a frignare.
Ero così stanco che non sentivo più i piedi quando toccavano il marciapiede, mi sembrava che appartenessero a qualcun altro. Il vento mi soffiava sul viso una pioggerellina sottile e intanto pensavo, con un malsano e crescente senso di catastrofe, a tutte le cose che non avrei più potuto fare: rimanere alzato tutta la notte a ubriacarmi con Cassie, a parlare con lei delle donne che avevo conosciuto, dormire sul suo divano. Non ci sarebbe più stato modo di vederla come Cassie-e-solo-Cassie, una di noi anche se di aspetto molto più gradevole, non ora che l'avevo vista come l'avevo vista. Ogni luminoso angolo del nostro paesaggio comune si era trasformato in un oscuro terreno minato, carico di sfumature e implicazioni enormi e traditrici. Me la ricordavo, ed era stato solo qualche giorno prima, che pescava l'accendino dalla tasca del mio cappotto, mentre eravamo seduti nei giardini del Castello, senza interrompere quello che stava dicendo, con un gesto che mi era piaciuto per la sicurezza e la naturalezza che ci aveva messo.
So che suonerà incredibile dal momento che tutti, dai miei genitori a quell'idiota di Quigley, sembravano aspettarselo, ma io non avrei mai creduto che sarebbe successo. Dio, quanto fummo presuntuosi, incoscienti, arroganti, sicuri della nostra certezza di rappresentare un'eccezione alla regola più vecchia del mondo. Giuro che mi coricai innocente come un bambino, che Cassie rovesciò la testa per togliersi le mollette e che fece delle smorfie quando s'impigliarono nei capelli, che misi i calzini dentro le scarpe come facevo sempre perché lei non ci inciampasse la mattina dopo. So che direte che la nostra fu ingenuità voluta, ma se vi va di credere a una sola delle cose che vi racconto, credete a questa: nessuno dei due se lo sarebbe mai immaginato.
Quando arrivai a Monkstown, l'idea di tornare a casa mi sembrava ancora peregrina. Mi incamminai verso Dun Laoghaire e mi sedetti sul muretto alla fine del molo, a guardare le coppie di signorotti che facevano la loro passeggiata salutare della domenica pomeriggio, incontravano altre coppie ed emettevano urletti di gioia, fino a quando non fece buio e il vento non cominciò a infilarsi sotto il cappotto e un poliziotto di pattuglia non mi lanciò un'occhiata sospettosa. Non ho idea del perché, ma pensai di chiamare Charlie; non avevo, però, il suo numero sul cellulare e comunque non ero certo di sapere cosa dire.
Quella notte dormii come se mi avessero dato una botta in testa. Quando andai al lavoro, la mattina seguente (treno affollato di facce grigie e stanche, un tizio in tuta con la mascella pendula che mi sgranocchiava nelle orecchie patatine al formaggio e alla cipolla, tutto intento e con un'espressione bovina, e che mi veniva addosso ogni volta che il treno ripartiva), ero ancora intontito e con gli occhi gonfi, e la sala operativa mi parve strana, diversa per qualcosa che non riuscivo a identificare con esattezza. Era come se, attraverso una qualche fessura, fossi scivolato in una realtà parallela e ostile. Cassie aveva lasciato i documenti del vecchio caso sparpagliati sulla sua parte di scrivania. Mi sedetti e cercai di mettermi al lavoro, ma non riuscivo a concentrarmi. Quando arrivavo alla fine di una frase ne avevo dimenticato l'inizio e dovevo ricominciare da capo.
Entrò Cassie, con le guance arrossate dal vento e i riccioli scompigliati sotto un cappellino scozzese rosso. «Ciao» disse. «Come va?»
Mi passò dietro e mi arruffò i capelli. Non riuscii a evitarlo: sussultai e sentii la sua mano fermarsi a mezz'aria per una frazione di secondo.
«Bene» risposi.
Appese la borsa alla spalliera della sedia. Con la coda dell'occhio vedevo che mi guardava. Tenni la testa bassa. «Le cartelle cliniche di Rosalind e Jessica stanno arrivando al fax di Bernadette. Dice di andarle a prendere tra qualche minuto, e la prossima volta di dare il numero di fax della sala operativa. E tocca a te occuparti della cena. Ma ho solo del pollo, quindi se tu e Sam volete qualcos'altro…»
Il tono era noncurante, ma sotto sotto c'era un esile abbozzo di domanda. «Veramente» dissi, «non riesco a farcela per cena stasera. Ho un impegno.»
«Ah, okay.» Cassie si tolse il berretto e si passò le dita tra i capelli. «Allora magari una birra, se non finiamo tardi?»
«Stasera non posso proprio. Mi dispiace.»
«Rob» disse lei dopo un attimo, ma non sollevai lo sguardo. Per un attimo pensai che sarebbe andata avanti lo stesso, ma poi la porta si aprì e Sam entrò di slancio, fresco e baldanzoso dopo il suo weekend in campagna, con un paio di nastri registrati in una mano e un fascio di fax nell'altra. Non ero mai stato così felice di vederlo.
«Buongiorno, ragazzi. Questi sono per voi, con tanti saluti da Bernadette. Com'è andato il weekend?»
«Bene» rispondemmo in coro. Cassie si girò e andò ad appendere il giaccone.
Presi i fax da Sam e cercai di dargli un'occhiata veloce. La mia concentrazione era andata a farsi benedire. La calligrafia del medico dei Devlin era così involuta che sicuramente lo faceva apposta. Cassie invece mostrava un'insolita pazienza nell'aspettare che finissi ogni pagina, ma mi esasperava l'attimo di forzata vicinanza di quando si chinava a prenderla. Mi ci volle uno sforzo sovrumano per estrapolare gli elementi salienti.
Sembrava che Margaret fosse stata molto apprensiva quando Rosalind era piccola: visite mediche per ogni raffreddore o mal di gola, anche se Rosalind sembrava la bambina più sana della famiglia: nessuna malattia grave, nessun incidente. Jessica era stata in incubatrice per tre giorni quando lei e Katy erano venute al mondo, a sette anni si era rotta un braccio sulla pertica, a scuola, e dall'età di nove anni era sottopeso. Tutt'e due avevano avuto la varicella. Tutt'e due avevano fatto le vaccinazioni. Rosalind era stata operata per un'unghia incarnita l'anno prima.
«Niente sembra indicare abusi in famiglia o una sindrome di Münchhausen per procura» commentò Cassie. Sam aveva acceso il registratore. In sottofondo, Andrews stava sbraitando qualcosa contro un agente immobiliare.
Se non ci fosse stato lui, probabilmente l'avrei ignorata. «Ma niente sembra escluderli» dissi, accorgendomi io stesso di quanto fosse tesa la mia voce.
«Come si fa a escludere con sicurezza un abuso? L'unica cosa che possiamo dire è che sembra non ci siano prove, e infatti non ce ne sono. E comunque mi pare che possiamo escludere una Münchhausen. Come dicevo, Margaret non rientra nel profilo. Il punto con la Münchhausen è che porta a cure mediche. No, nessuno ha avuto una Münchhausen con le due ragazze.»
«E quindi è stato tutto inutile» dissi, spingendo via le cartelle cliniche con fin troppa forza. Metà delle pagine caddero dal tavolo e finirono sul pavimento. «Sorpresa sorpresa, siamo nella merda con questo caso. Lo eravamo fin dall'inizio. Possiamo anche archiviarlo subito e passare ad altro, qualcosa che abbia una qualche possibilità di soluzione, perché così perdiamo solo il nostro tempo, tutti.»
Le telefonate di Andrews erano finite e il registratore si arrestò con un sibilo che continuò, sortile ma insistente, fino a quando Sam non spense. Cassie si chinò a raccogliere le pagine dei fax cadute a terra. Nessuno disse più nulla per un tempo molto lungo.
Mi chiesi cosa pensasse Sam. Non aveva detto niente ma doveva aver intuito che qualcosa non andava, non poteva non essersene accorto: d'un tratto, le serate cameratesche a tre erano cessate e l'atmosfera nella sala operativa sembrava uscita da un libro di Sartre. Poteva essere che Cassie a un certo punto gli avesse raccontato tutta la storia e che avesse pianto sulla sua spalla, ma ne dubito, era troppo orgogliosa, sempre. Credo che probabilmente continuava a invitarlo a cena dicendo che io reagivo male al fatto di dovermi occupare dell'omicidio di una ragazzina, cosa tutto sommato vera, e che avevo bisogno di starmene solo la sera, per scaricarmi. Forse lo diceva in modo così naturale e convincente che, se anche non le credeva, Sam capiva che non era il caso di fare domande.
Credo che anche altre persone l'avessero notato. I detective tendono a essere parecchio osservatori, e il fatto che i Gemelli Prodigio non si rivolgessero più la parola era di certo sulla bocca di tutti. Doveva essere diventato di dominio pubblico nel giro di ventiquattr'ore, con tutta una serie di squallide spiegazioni tra le quali non era escluso che qualcuna corrispondesse alla verità.
O forse no. Nonostante tutto, almeno questo rimaneva della vecchia alleanza: l'istinto animale, condiviso, di nascondere la sofferenza. In un certo senso, era la cosa più straziante di tutte: fino alla fine, il vecchio legame c'era sempre quando serviva. Riuscivamo a passare ore e ore snervanti senza rivolgerci parola a meno che non fosse inevitabile. E anche allora, voci inespressive, sguardi fugaci. Ma non appena O'Kelly minacciava di toglierci Sweeney e O'Gorman ci riprendevamo immediatamente, io elencando tutte le buone ragioni per cui avevamo ancora bisogno di agenti di supporto e Cassie sostenendo con me che il capo della polizia sapeva il fatto suo e sperando, con un'alzata di spalle, che la cosa non saltasse fuori con i giornalisti. Mi risucchiava tutta l'energia. Quando la porta si chiudeva e restavamo di nuovo soli, o con Sam, il quale non contava, quella scintilla ben nota evaporava e mi giravo impassibile dall'altra parte per non guardarla in faccia, pallida e sconcertata, voltandole le spalle con il rigido distacco di un gatto offeso.
Cercate di capire, sentivo davvero, anche se non mi è chiaro come la mia mente fosse arrivata a una conclusione del genere, di essere stato tradito in modo subdolo e imperdonabile. Se fosse stata lei a ferirmi, l'avrei perdonata senza neanche pensarci. Non le perdonavo, invece, di essersi lasciata ferire.
I risultati delle analisi ematiche – le macchie sulle mie scarpe e la goccia sulla pietra d'altare – sarebbero arrivati nel giro di poco. Nonostante la bruma stupefatta e sottomarina nella quale mi sembrava di navigare, quella era una delle poche cose che avevo chiare in mente. Ogni altro punto di riferimento era crollato, bruciato. Questo era quanto mi restava e mi ci aggrappavo con una sorta di tetra e monomaniacale disperazione. Ero certo, con una sicurezza che andava ben oltre ogni logica, che avevamo bisogno semplicemente di una corrispondenza del DNA. Che se l'avessimo trovata tutti gli altri pezzi sarebbero andati a posto con la soffice e misurata precisione dei fiocchi di neve e il caso, entrambi i casi, si sarebbero dispiegati davanti ai miei occhi, perfetti e abbaglianti.
Mi rendevo vagamente conto del fatto che, se ciò fosse avvenuto, avremmo avuto bisogno del DNA di Adam Ryan per il confronto e che il detective Rob sarebbe con ogni probabilità svanito per sempre in una nuvola di fumo olezzante di scandalo. La cosa, però, non mi sembrava poi così grave. C'erano anzi dei momenti in cui, con una specie di cupo sollievo, non vedevo l'ora che accadesse. Poiché sapevo di non avere né le palle né l'energia per cavarmi fuori da quell'incredibile casino, mi sembrava l'unica via d'uscita o, per lo meno, la più semplice.
Sophie, la quale crede nella multifunzionalità dell'essere umano, mi telefonò dall'auto. «Hanno chiamato quelli del DNA» mi disse. «Cattive notizie.»
«Come sarebbe?» esclamai, raddrizzandomi e facendo ruotare la sedia per dare le spalle agli altri. «Cosa hanno detto?» Cercavo di mantenere un tono normale, ma O'Gorman smise di fischiettare e Cassie mise giù il documento che stava esaminando.
«Quei campioni di sangue sono inutilizzabili. Tutti e due, quello sulle scarpe e quello che ha trovato Helen.» Sentii che suonava il clacson. «Imbecille, ma dove cazzo vai?… Scegli una corsia, per Dio!… In laboratorio hanno provato di tutto, ma i campioni erano troppo degradati per ricavarne il DNA. Mi dispiace, ma non dire che non ti avevo avvertito.»
«Già» risposi, dopo una pausa. «È un caso che va così. Grazie, Sophie.»
Riattaccai e rimasi a guardare il telefono. Cassie, dall'altro lato della scrivania, chiese esitante: «Cos'ha detto?», ma io non risposi.
Quella sera, tornando a casa con il treno, chiamai Rosalind. Andava contro ogni mio istinto. Avrei voluto con tutte le mie forze lasciarla in pace fino quando non se la fosse sentita di parlare, lasciarle scegliere il momento invece che metterla con le spalle al muro, ma non avevo alternativa. Mi rimaneva solo lei.
Venne il giovedì mattina e scesi a prenderla alla reception, così come avevo fatto la prima volta, svariate settimane prima. Una parte di me temeva che cambiasse idea all'ultimo momento e non si presentasse. Provai quindi un grande sollievo quando la vidi seduta con aria pensosa, una guancia appoggiata a una mano e una lunga sciarpa rosa. Era bello vedere una persona giovane e graziosa. Non mi ero reso conto, fino a quel momento, di quanto grigi ed esausti fossimo diventati tutti noi. La sua sciarpa mi sembrò la prima nota di colore che mi colpisse da giorni a quella parte.
«Rosalind» chiamai, e il suo viso si illuminò.
«Detective Ryan!»
«Mi è venuto in mente soltanto adesso» dissi, «ma tu non dovresti essere a scuola?»
Mi lanciò uno sguardo cospiratorio. «I miei insegnanti stravedono per me, non mi faranno problemi.» Sapevo che avrei dovuto farle una ramanzina, dirle che era sbagliato saltare la scuola, ma non riuscii a non mettermi a ridere.
La porta dell'atrio si aprì e comparve Cassie. Si stava infilando il pacchetto delle sigarette nella tasca dei jeans. I nostri sguardi s'incrociarono per un attimo, lei lanciò un'occhiata a Rosalind, ci sfiorò e passò oltre, verso le scale.
Rosalind si morse il labbro e mi guardò, con aria preoccupata. «Alla sua collega dà fastidio che sia venuta qui, vero?»
«Be', non sono affari suoi» risposi. «Mi dispiace per il suo comportamento.»
«Oh, non importa» Rosalind sorrise debolmente. «Non le sono mai piaciuta, vero?»
«Il detective Maddox non ha nulla contro di te.»
«Non si preoccupi, detective Ryan, davvero. Ci sono abituata. Non piaccio a molte ragazze. Mia madre dice…» Abbassò la testa, imbarazzata. «Mia madre dice che è perché sono gelose, ma io non capisco come sia possibile.»
«Io invece sì» le dissi, sorridendo. «Ma non credo sia il caso del detective Maddox. Non ha niente a che vedere con te, okay?»
«Avete litigato?» domandò timidamente, dopo un attimo.
«Più o meno» risposi. «È una lunga storia.»
Tenni la porta aperta per farla passare, poi attraversammo l'acciottolato per andare verso i giardini. Rosalind aveva la fronte aggrottata. «Vorrei non starle così antipatica. L'ammiro molto, davvero. Non dev'essere facile per una donna fare il detective.»
«Non è facile in generale» dissi. Non avevo voglia di parlare di Cassie. «Ma ce la caviamo.»
«Sì, ma per una donna è diverso» obiettò, con un leggero tono di rimprovero.
«In che senso?» Era così giovane e diretta. Sapevo che si sarebbe offesa se mi fossi messo a ridere.
«Be', per esempio… il detective Maddox avrà almeno trent'anni, no? Vorrà sposarsi, avere figli, quelle cose lì. Le donne non possono permettersi di aspettare, come gli uomini. E facendo il detective non dev'essere facile avere una relazione seria, no? Credo che senta un po' di pressione.»
Provai una fastidiosa stretta di disagio allo stomaco. «Non credo che il detective Maddox sia un tipo materno» osservai.
Rosalind parve turbata, si mordicchiò il labbro inferiore con i piccoli denti bianchi. «Forse ha ragione» disse, cauta. «Ma sa, detective Ryan… a volte, quando siamo molto vicini a qualcuno, ci sono cose che ci sfuggono. Gli altri le vedono, noi no.»
Lo stomaco mi si contorse ancora di più. Una parte di me avrebbe voluto farla continuare con quel discorso, chiederle cosa aveva visto esattamente in Cassie che io non ero riuscito a vedere. Ma la settimana appena trascorsa mi aveva fatto capire con grande chiarezza che ci sono cose nella vita che è meglio non sapere. «La vita privata del detective Maddox non mi riguarda» dissi. «Rosalind…»
Ma lei era schizzata giù per uno dei vialetti, fin troppo curati per sembrare naturali, che si inoltrano in tante curve attraverso il prato. «Oh, guardi, detective Ryan, guardi! Non è bellissimo?»
I capelli le danzavano nel sole che filtrava dalle foglie e nonostante tutto mi venne da sorridere. La seguii. Ci serviva comunque un posto appartato per la nostra conversazione. La raggiunsi presso una panchina protetta dai rami, circondata da uccelli che cinguettavano nei cespugli lì intorno. «Sì, è bellissimo. Vuoi che parliamo qui?»
Si sedette sulla panchina e sollevò lo sguardo verso gli alberi con un piccolo sospiro di gioia. «Il nostro giardino segreto.»
Era una scena idilliaca e non mi andava di rovinarla. Per un attimo mi trastullai con l'idea di lasciar perdere l'obiettivo dell'incontro e di fare semplicemente una chiacchierata su come stava e su quanto fosse bella quella giornata e rimandarla a casa. Di essere, per qualche minuto, solo un ragazzo seduto al sole a parlare con una bella ragazza.
«Rosalind» cominciai, «devo chiederti una cosa. Non sarà piacevole, e vorrei tanto che ci fosse un altro modo per renderti le cose più semplici, ma temo non ci sia. Ho bisogno del tuo aiuto. Vuoi provarci?»
Il suo volto fu per un attimo attraversato da un'intensa emozione che sparì prima che riuscissi a metterla a fuoco. Strinse con forza le mani, aggrappandosi alla panchina. «Farò quello che potrò.»
«Tuo padre e tua madre» dissi, cercando di mantenere un tono rassicurante e garbato, «hanno mai fatto del male a te, o a tua sorella?»
Rosalind rimase senza fiato. Si portò la mano alla bocca di scatto e mi guardò, con gli occhi sgranati, finché non si rese conto di quello che aveva fatto. Quindi si tolse immediatamente la mano dal viso e strinse di nuovo la panchina. «No» rispose, con una vocina compressa e agitata. «Certo che no.»
«So che hai paura, ma posso proteggerti. Te lo prometto.»
«No.» Scosse la testa e si morse un labbro. Capii che era sull'orlo delle lacrime. «No.»
Mi chinai verso di lei e misi le mani sopra le sue. Aveva un profumo floreale, muschiato, vecchio di decenni per lei. «Rosalind, se qualcosa non va, dobbiamo saperlo. Sei in pericolo.»
«Va tutto bene.»
«Ed è in pericolo anche Jessica. So che ti prendi cura di lei, ma non puoi continuare a farlo da sola per sempre. Lascia che ti aiuti.»
«Lei non capisce» mormorò. La mano le tremava sotto la mia. «Non posso, detective Ryan. Non posso e basta.»
Quasi mi spezzò il cuore. Quella fragile, indomita ragazzina, in una situazione che avrebbe schiacciato persone con il doppio dei suoi anni, si teneva in piedi con le unghie e con i denti, in bilico su una corda di tenacia, orgoglio e rifiuto. Non le restava nient'altro ed ero io, proprio io, quello che stava tentando di spingerla giù.
«Mi dispiace» dissi, vergognandomi improvvisamente di me stesso. «Forse arriverà il momento in cui sarai pronta per parlarne e quando accadrà sarò lì con te. Ma fino ad allora… non avrei dovuto cercare di forzarti, perdonami.»
«Lei è così gentile con me» mormorò. «Non riesco a credere che possa essere così gentile.»
«Vorrei solo poterti aiutare» dissi. «Vorrei tanto conoscerti.»
«Io… io non mi fido facilmente delle persone, detective Ryan. Ma se dovessi fidarmi di qualcuno, mi fiderei di lei.»
Restammo lì seduti, in silenzio. La mano di Rosalind era morbida, sotto la mia, e lei non la ritraeva. Un uccellino, forse uno scricciolo, saltellò sul sentiero a pochi passi da noi. Lo guardammo lottare a lungo, scena assurda, con uno scarabeo di gran lunga troppo grosso per il suo becco. Alla fine rinunciò e volò di nuovo via tra i cespugli.
Rosalind girò la mano, lentamente, e intrecciò le dita con le mie. Mi sorrideva, e quel sorriso aveva un che di intimo e leggero, recava in fondo in fondo una specie di sfida nascosta.
Trattenni il respiro. Fu come una scossa elettrica. Come avrei voluto chinarmi su di lei, metterle una mano sulla nuca e baciarla. Immagini si affollarono nella mia mente – lenzuola d'albergo fragranti, quei riccioli che si scioglievano, bottoni tra le mie dita, il viso teso di Cassie. Desideravo quella ragazza, diversa da ogni altra che avevo conosciuto. La desideravo non a dispetto dei suoi cambi d'umore, delle sue ferite segrete, dei suoi goffi tentativi di nasconderle, ma proprio per tutte quelle cose. Mi vedevo riflesso nei suoi occhi, piccolo e abbagliato e sempre più vicino.
Aveva diciotto anni e poteva ancora darsi che fosse il mio unico testimone. Era nel momento di maggiore vulnerabilità di tutta la sua vita e per lei ero un idolo. Non meritava di scoprire nel modo peggiore il mio talento nel mandare sempre tutto a puttane. Mi morsi con forza l'interno della guancia e districai le dita dalle sue.
«Rosalind…»
Fu come se il suo viso si chiudesse. «Adesso devo proprio andare» disse con freddezza.
«Non voglio ferirti. È l'ultima cosa di cui hai bisogno.»
«Be', invece è proprio quello che ha fatto.» Si mise la borsa sulla spalla, senza guardarmi. La bocca era diventata una linea sottile.
«Rosalind, per favore aspetta…» Cercai di prenderle la mano ma la ritrasse con foga.
«Credevo che le importasse qualcosa di me. Evidentemente mi sbagliavo. Ha lasciato che lo pensassi solo perché voleva vedere se sapevo qualcosa di Katy. Voleva prendersi quello che le serviva, come tutti gli altri.»
«Non è vero» cominciai, ma se n'era già andata a passettini svelti e rabbiosi per il sentiero. Sarebbe stato inutile andarle dietro. Gli uccelli nei cespugli volavano via al suo passaggio con un gran frullio d'ali.
Mi girava la testa. Le detti qualche minuto per calmarsi, poi la chiamai sul cellulare, ma non rispose. Le lasciai un messaggio di balbettanti scuse sulla segreteria telefonica, poi riattaccai e mi lasciai cadere di nuovo sulla panchina.
«Merda» dissi ad alta voce, ai cespugli.
Credo sia importante sottolineare di nuovo, nonostante quello che potrei aver già sostenuto, che per la maggior parte dell'Operazione Vestale non fui assolutamente in uno stato d'animo che si potesse definire normale. Non è una scusante, ma di sicuro è un dato di fatto. Quando andai in quel bosco, per esempio, ci andai senza aver dormito, avendo mangiato ancora meno e con sulle spalle molta tensione accumulata e in corpo tanta vodka, e credo di dover precisare anche che è assolutamente possibile che gli eventi successivi siano stati un sogno o una specie di strana allucinazione. Non posso saperlo, non riesco a pensare a una risposta che possa essere rassicurante in un senso o nell'altro.
I ricordi e gli effetti collaterali più bizzarri sparirono, dopo quella notte nel bosco, si spensero definitivamente come una lampadina fulminata. Potreste pensare che fosse un sollievo, e sul momento, effettivamente, lo fu: per me ogni cosa che riguarda Knocknaree è comunque foriera di eventi terribili. Sto molto meglio senza. Avrei dovuto tenerlo ben presente, immagino, e non riesco a credere di essere stato così idiota da ignorarlo e andarmene a spasso spavaldo in quel bosco. Non ce l'ho mai avuta così tanto con me stesso. Fu solo molto tempo dopo, quando il caso fu chiuso e la polvere si fu posata sulle rovine, quando mi risospinsi nuovamente ai limiti della mia memoria senza trovarci nulla, che cominciai a pensare che non fosse stata una liberazione ma una grande occasione perduta, una perdita definitiva e devastante.
Tra l'altro, riuscivo di nuovo a dormire, e raggiungevo un livello di concentrazione talmente intenso da rendermi nervoso. La sera, quando tornavo dal lavoro, ero praticamente un sonnambulo. Crollavo sul letto come attratto da una potente calamita e mi ritrovavo nella stessa posizione, ancora vestito, quando la sveglia mi riportava alla vita reale dodici o tredici ore dopo. Una volta dimenticai di puntarla e mi svegliai alle due del pomeriggio, alla settima telefonata di una furibonda Bernadette.
Sognai una sola volta, quella settimana. Ero a Cnosso, un posto che avevo visto solo nei libri e nei documentari. Cercavo una ragazza, abbronzatura dorata, sacco a pelo, treccia resa ancora più bionda dal sole e lunghe gambe nervose come quelle di un puledro. «Ci siamo distratte solo per un attimo» balbettavano le sue amiche tra le lacrime, «e l'attimo dopo era scomparsa.» Ma adesso erano altrove e il labirinto era vuoto. Il cielo era così azzurro da sembrare quasi bianco. Un rapace si librava pigro su in alto, minuscolo per la distanza. Colonne spezzate nude sotto il sole, pietre che scintillavano nella caligine del cielo cretese, cicale che frinivano, un toro che muggiva tra gli ulivi dalle foglie scure… E tutt'intorno un silenzio ineffabile.
Correvo per vasti cortili e giù per scalinate di pietra fredde e sotterranee, tra giare panciute di terracotta alte come un uomo e pareti incise con asce bifronti. Chiamavo la ragazza ad alta voce, ripetutamente. La mia voce rimbalzava nel silenzio e veniva inghiottita dalle sue profondità senza lasciare traccia. Era una ragazza americana, una di quelle sfrontate ragazzine di provincia che con un lavoretto estivo, dopo il liceo, comprano un biglietto di sola andata e baciano tutti quelli che le dicono "ciao". Avrei voluto che Cassie fosse lì ad aiutarmi e mi chiedevo se per caso non stesse arrivando, ma poi mi ricordavo: era annegata, molto tempo prima, braccio sottile che si protendeva nell'acqua fredda e verde, e quelle perle erano i suoi occhi.
Affreschi pieni di crepe: delfini e rondini, tori dipinti con maestria, colti a metà di un balzo. Ero a piedi scalzi, le piante come cuoio, tanto che sentivo appena il terreno bollente. Dall'ombra di un trono di pietra scura che il tempo aveva reso lucido, qualcuno sussurrava il mio nome.
Il venerdì mattina, Sam e io fummo i primi ad arrivare in sala operativa. Avevo preso l'abitudine di arrivare prima che potevo per esaminare le chiamate ricevute e vedere di trovare una scusa per passare la giornata altrove. Pioveva forte. Cassie era probabilmente da qualche parte a imprecare contro la Vespa che non si metteva in moto.
«Notizie fresche» disse Sam, sventolandomi davanti agli occhi un paio di nastri. «Era loquace ieri sera, otto chiamate se Dio vuole…»
Era ormai una settimana che tenevamo sotto controllo il cellulare di Andrews e anche il telefono di casa, con risultati che cominciavano a produrre sinistri brontolii di disapprovazione da parte di O'Kelly. Di giorno, Andrews usava molto il cellulare, con chiamate veloci e cariche di testosterone, ma Sam, che ormai ne sapeva abbastanza di gestione immobiliare da potersi lanciare in un redditizio secondo lavoro, diceva che era tutta roba perfettamente legale. Affari a volte vagamente sordidi ma nulla che non fosse lecito aspettarsi. Di sera, si faceva portare costosi manicaretti da buongustaio dal Restaurant Express. "Rosticceria di lusso" la definiva sprezzante Sam. A volte chiamava la sua segretaria, che aveva una voce acuta e stizzosa, con quell'orribile accento strozzato che in questo paese viene contrabbandato per elegante. La chiamava a casa a ore impossibili e la metteva in croce per qualche documento. Una sera lei aveva reagito, esasperata, e aveva sgridato Andrews come farebbe una professoressa con un alunno: lui aveva fatto marcia indietro in modo quasi ridicolo, balbettando scuse da ubriaco. Una volta aveva anche chiamato una di quelle chat line a luci rosse di cui fanno la pubblicità la sera tardi in TV. Gli piaceva essere sculacciato, a quanto sembrava, e la frase "fammelo tutto rosso, Celestina" era immediatamente diventata un tormentone che aveva fatto il giro di tutta la squadra.
Mi tolsi il cappotto e mi sedetti. «Suonala ancora, Sam» dissi. Il mio senso dell'umorismo era peggiorato nelle ultime settimane, come d'altronde tutto il resto. Sam mi lanciò un'occhiata e mise uno dei nastri nel nostro obsoleto registratore.
Alle 20.17, ora del computer, Andrews aveva ordinato lasagne con salmone affumicato, pesto e salsa di pomodorini secchi. «Mio Dio» commentai, allibito.
Sam rise. «Solo il meglio per il nostro ragazzo.»
Alle 20.23 aveva chiamato suo cognato per mettersi d'accordo per una partita di golf la domenica pomeriggio, conversazione punteggiata da diverse battute di spirito. Alle 20.41, di nuovo il ristorante per sbraitare contro chi aveva preso l'ordinazione perché la sua cena non era ancora arrivata. Aveva chiesto di parlare con il direttore e aveva minacciato di fare licenziare la dipendente per la sua incompetenza. Il tono cominciava a essere quello di un ubriaco. Poi dovevano essere arrivate le lasagne, perché seguiva un periodo di silenzio.
Alle 00.08 aveva chiamato un numero di Londra, la sua ex moglie, spiegò Sam. Aveva la sbronza triste e voleva parlare con lei di cosa era andato storto tra di loro. «Lasciarti andare, Dolores, è stato il più grande errore della mia vita» le diceva, con la voce soffocata dalle lacrime. «Però forse ho fatto la cosa giusta. Sei una donna meravigliosa, lo sai, vero? Eri troppo perfetta per uno come me, troppo perfetta. Vero, Dolores? Non credi che tutto sommato io abbia fatto la scelta giusta?»
«Non lo so, Terry» rispondeva stancamente Dolores, «dimmelo tu». Si sentiva dai rumori di sottofondo che stava facendo qualcos'altro mentre parlava, sparecchiava o svuotava una lavastoviglie. Si udiva un rumore di piatti. Alla fine, quando Andrews si era proprio messo a piangere, lei aveva riattaccato. Due minuti dopo lui l'aveva richiamata, ringhiando: «Non ti permettere mai più di sbattermi il telefono in faccia, puttana che non sei altro, hai capito? Sono io, semmai, che ti chiudo il telefono in faccia!» e aveva riattaccato lui.
«Proprio un gentiluomo» commentai.
«Un vero coglione» rincarò Sam. Sprofondò nella poltroncina rovesciando la testa all'indietro e mettendosi le mani in faccia. «Un grandissimo coglione. Mi resta solo una settimana, e che cazzo faccio se andiamo avanti così, a pizza, sushi e cuori infranti?»
Il nastro fece un altro bip. «Pronto?» disse una profonda voce maschile, con tono assonnato.
«Chi è che parla?» chiesi.
«Numero di cellulare sconosciuto» disse Sam, senza togliersi le mani dalla faccia. «Un quarto alle due.»
«Piccolo pezzo di merda» disse Andrews, sul nastro. Era molto ubriaco. Sam si raddrizzò sulla sedia.
Ci fu una breve pausa. Poi la voce profonda disse: «Sbaglio o ti avevo detto di non chiamarmi più?»
«Wow» commentai.
Sam fece un verso disarticolato. Allungò la mano come per afferrare il registratore, ma si trattenne e si limitò ad avvicinarlo a noi. Chinammo la testa, per ascoltare meglio. Sam tratteneva il respiro.
«Non me ne frega un beato cazzo di quello che mi hai detto.» La voce di Andrews si alzò di tono. «Mi hai detto un sacco di stronzate. Mi avevi detto che si sarebbe sistemato tutto, te lo ricordi questo? Invece ci sono tutte quelle cazzo di… citazioni…»
«Ti ho già detto di darti una calmata e lasciare che sia io a sistemare tutto, e te lo ripeto: è tutto sotto controllo.»
«Tutto sotto controllo un cazzo! Non ti permettere di parlarmi in questo modo, come se fossi un tuo sca… sca… scagnozzo di merda. Lo scagnozzo sei tu, cazzo. Sono io che ti pago. Migliaia e migliaia di cazzo di… "Oh ci vogliono altri cinque testoni per questo, Terry, e qualche altro testone per il nuovo assessore, Terry…" Tanto valeva che li buttassi nel cesso. Se tu fossi un mio dipendente ti avrei già dato un calcio nel culo, senza tante storie.»
«Hai avuto tutto quello che ti ho promesso, questo è solo un ritardo da niente. E andrà tutto come deve andare. Non cambia nulla. Hai capito bene quello che ti sto dicendo?»
«Andrà tutto come deve andare un cazzo, doppiogiochista di merda. Ti sei fregato i miei soldi e te la sei svignata. Adesso mi ritrovo con un mucchio di terreni che non valgono un cazzo e la polizia alle calcagna. E poi come fanno a… come cazzo fanno a sapere che sono miei quei terreni, eh? E io che mi ero fidato.»
Ci fu una breve pausa. Sam respirò nervosamente, poi trattenne di nuovo il respiro. La voce profonda chiese, improvvisamente: «Da quale telefono mi chiami?»
«Non sono cazzi tuoi» rispose Andrews, stizzito.
«Cosa ti ha chiesto la polizia?»
«Mi hanno chiesto… di quella ragazzina.» Andrews soffocò un rutto. «Quella ragazzina che è stata ammazzata. Suo padre è uno di quelli che mi hanno citato… quel gran figlio di puttana pensa che io c'entri qualcosa.»
«Adesso tu chiudi questo telefono» disse la voce profonda in tono gelido. «Parla con la polizia solo in presenza di un avvocato e non ti preoccupare per le citazioni. E guai a te se mi telefoni di nuovo.» Ci fu un clic e la conversazione finì.
«Be'» dissi dopo un momento. «Questa roba non era né pizza, né sushi e nemmeno cuori infranti.»
Sam non disse nulla. Le ultime due registrazioni si riferivano a chiamate verso lo stesso cellulare sconosciuto che adesso era spento, senza segreteria telefonica. "Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile" fu la risposta di una scialba voce femminile alla prima. "La preghiamo di riprovare più tardi." Alla seconda, si sentì il ruggito strozzato di rabbia di Andrews che sbatteva giù il telefono.
«Be'» dissi, «congratulazioni.» Non era una prova accettabile in tribunale, ma era sufficiente per mettere Andrews sotto pressione. Cercavo di essere generoso, ma il Rob autocommiserativo che era in me era già lì pronto a dire che era sempre la solita storia: mentre la mia parte di indagine naufragava in una serie senza precedenti di false piste e disastri vari, Sam continuava felicemente la serie positiva, un successo dopo l'altro. Se fossi stato io a seguire la pista Andrews, di sicuro quest'ultimo non si sarebbe messo a telefonare a nessuno, tranne che all'anziana madre. «A questo punto O'Kelly smetterà di romperti le palle.»
Sam non aveva ancora aperto bocca. Mi voltai verso di lui. Era così pallido da essere quasi verdastro.
«Cosa c'è?» gli chiesi, allarmato. «Va tutto bene?»
«Mai stato meglio» rispose. «Altroché.» Si chinò e spense il registratore. La mano gli tremava leggermente e vidi una patina lucida e malsana sul suo volto.
«Oh, Cristo» dissi. «No, non stai bene per niente.» L'improvvisa eccitazione per quella vittoria poteva avergli fatto venire un attacco di cuore, un ictus o chissà cosa. Magari aveva una qualche malformazione congenita mai diagnosticata. Nella mitologia delle squadre di polizia circolavano storie del genere, di detective che stavano alle calcagna di un sospetto, superavano difficoltà epiche e poi ci restavano secchi proprio quando scattavano le manette. «Hai bisogno di un dottore?»
«No» disse bruscamente. «No.»
«E allora che diavolo c'è?»
Un istante dopo, capii. Mi stupii, in effetti, di non esserci arrivato prima. Il timbro della voce, l'accento, l'inflessione: li avevo già sentiti, li sentivo ogni giorno, ogni sera. Un po' smussati, senza quel lato abrasivo, ma la somiglianza c'era ed era inequivocabile.
«Ma quello era…» cominciai. «Non era per caso tuo zio?»
Gli occhi di Sam saettarono dai miei alla porta, ma non c'era nessuno. «Sì» rispose, dopo un attimo. «Era lui.» Respirava in fretta, con affanno.
«Ne sei proprio sicuro?»
«Conosco la sua voce. Ne sono certo.»
Per quanto sia spiacevole dirlo, il mio primo istinto fu quello di mettermi a ridere. Era sempre stato così onesto («Quello che ho nel cuore ho sulle labbra, ragazzi»), solenne come un marine al discorso sulla bandiera in uno di quegli orrendi film di guerra americani. All'inizio mi aveva fatto tenerezza – quella fiducia assoluta è una cosa che si può perdere una volta sola, come la verginità, e non avevo mai conosciuto nessuno che fosse riuscito a tenersela oltre i trent'anni – ma adesso avevo l'impressione che Sam fosse andato avanti felice e contento nella vita per pura e semplice fortuna. Mi era difficile raggranellare il necessario senso di umana comprensione per averlo visto scivolare su una buccia di banana e finire gambe all'aria.
«E adesso che cosa farai?» chiesi.
Mosse la testa da una parte all'altra, con gli occhi chiusi, sotto le luci al neon. Doveva averci già pensato: eravamo gli unici due nella stanza, un favore e un dito premuto sul tasto "record" e sarebbero rimaste soltanto le altre telefonate, compresa quella sulla partita di golf di domenica.
«Mi lasci il weekend?» disse lui. «Lunedì porto questa roba da O'Kelly. Adesso… non me la sento. Non riesco a essere lucido. Ho bisogno di un po' di tempo.»
«Certo» risposi. «Parlerai con tuo zio?»
Sam mi guardò. «Farebbe sparire tutte le prove, non credi? Prima che inizi l'indagine.»
«Sì, mi sa di sì.»
«Ma se non gli dico niente e scopre che avrei potuto avvertirlo e non l'ho fatto…»
«Mi dispiace» dissi. Mi chiesi, fugacemente, dove diavolo fosse finita Cassie.
«Sai qual è la cosa pazzesca?» disse Sam, dopo un po'. «Che se tu mi avessi chiesto stamattina da chi sarei andato a chiedere consiglio se mi fosse capitata una storia come questa, avrei risposto Red.»
Non riuscii a pensare a nulla da replicare. Guardai il suo volto dai lineamenti marcati e gradevoli e improvvisamente mi sentii stranamente distante da lui, da tutta la scena. Fu una sensazione come di vertigine, come se, dall'alto, guardassi le cose svolgersi in una scatola, giù, cento metri più in basso. Rimanemmo seduti lì per parecchio tempo, fino a quando non entrò O'Gorman e si mise a berciare qualcosa che aveva a che fare con una partita di hurling. Sam si mise il nastro registrato in tasca, prese le sue cose e se ne andò.
Quel pomeriggio, quando andai fuori a fumarmi una sigaretta, Cassie mi seguì.
«Hai da accendere?» mi chiese.
Era dimagrita, gli zigomi erano più evidenti, e mi chiesi se era un processo già in corso, dovuto allo stress dell'Operazione Vestale, o se, e il pensiero mi procurò uno spiacevole brivido di malessere, era la conseguenza di quegli ultimi giorni. Pescai l'accendino e glielo porsi.
Era un pomeriggio freddo e nuvoloso, le foglie cadute si accumulavano contro i muri. Cassie si mise di schiena al vento per accendersi la sigaretta. Era truccata. Mascara e un'ombra di rosa sulle guance, ma il viso, chino sopra le mani a coppa, era ancora troppo pallido, quasi grigio. «Che succede, Rob?» chiese, sollevando la testa.
Sentii lo stomaco stringersi. Tutti abbiamo dovuto affrontare una qualche terribile conversazione almeno una volta nella vita, ma non conosco nessuno che pensi sia davvero utile a qualcosa, non conosco nemmeno un caso in cui sia servita, e avevo sperato contro ogni evidenza che Cassie si sarebbe rivelata una di quelle rare donne che riescono a evitarla. «Niente, non succede proprio niente» risposi.
«Perché sei strano con me?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sono uno straccio, il caso è un disastro e queste ultime settimane mi hanno distrutto. Niente di personale.»
«Andiamo, Rob, non è vero. C'è anche qualcosa di personale. Ti comporti con me come se avessi la lebbra da quando…» Sentii tutto il corpo irrigidirsi. La voce di Cassie si spense.
«No, non è vero» protestai. «Ho solo bisogno di spazio, okay?»
«No, non so nemmeno che cosa intendi dire. So solo che con me sei strano e io non posso farci niente se non ne capisco il motivo.»
Con la coda dell'occhio vidi il profilo deciso del suo mento e mi resi conto che questa volta non avrei potuto svicolare. «Non è che sono strano» dissi, orrendamente a disagio. «È solo che non voglio rendere le cose più complicate di quanto già non siano. Non sono proprio in grado di iniziare una relazione in questo momento, e non voglio dare l'impressione di essere uno che…»
«Relazione?» Le sopracciglia di Cassie si mossero verso l'alto in un'espressione di sorpresa. Quasi rise. «Cristo, era questo il problema? No Ryan, non mi aspetto che tu mi chieda di sposarti e di essere il padre dei miei figli. Cosa diavolo ti ha fatto credere che io volessi una relazione? Voglio solo che le cose tornino come prima, perché la situazione, così com'è, è ridicola.»
Non le credetti. Era una recita, anche se convincente. Lo sguardo interrogativo, la noncuranza con la quale aveva appoggiato la spalla al muro… Chiunque altro al mondo avrebbe tratto un respiro di sollievo, l'avrebbe abbracciata goffamente e si sarebbe incamminato sulla via di una qualche normalità, a braccetto con lei. Ma conoscevo Cassie come le mie tasche. La rapidità del suo respiro, i muscoli tesi della spalla, l'impercettibile sfumatura interlocutoria della voce: era terrorizzata, e la cosa terrorizzava anche me.
«Okay» dissi. «Hai ragione.»
«Lo sai, vero, Rob?» Di nuovo quell'impercettibile tremito.
«In questa situazione» dissi, «non credo che sia possibile tornare alla normalità. Quello di sabato sera è stato un grosso errore e vorrei non fosse mai accaduto, e invece è successo. E non possiamo non tenerne conto.»
Cassie scosse la cenere sui ciottoli della strada, ma avevo visto il lampo di dolore sul suo viso, un viso abbattuto e turbato come se lo avessi colpito con uno schiaffo. Dopo un attimo disse: «Be', non sono sicura che debba essere per forza considerato un errore».
«È una cosa che non sarebbe dovuta accadere» insistetti. Avevo la schiena premuta contro il muro con una tale forza che ne sentivo le protuberanze fin dentro la carne, attraverso la giacca. «E non sarebbe mai accaduta se non mi fossi fatto ritrovare in uno stato confusionale per via di altre cose. Mi dispiace, ma questa è la realtà.»
«Okay» disse lei, guardinga. «Okay, ma non è il caso di farne un affare di stato. Siamo amici, ci conosciamo bene, ed è per questo che è successo. Doveva semplicemente portarci a conoscerci meglio, fine della storia.»
Era assolutamente ragionevole e pieno di buon senso. Sapevo di essere io quello che faceva la figura dell'immaturo, del melodrammatico, e la cosa mi feriva ancora di più. Ma i suoi occhi… li avevo già visti così, guardare la siringa di un tossico in un appartamento dove non avrebbe dovuto viverci nessun essere umano, e anche allora era riuscita a sembrare calmissima. «Già.» Distolsi lo sguardo. «Forse. Magari ho solo bisogno di tempo per mettere le cose in prospettiva. Insieme al resto di ciò che è successo.»
Allargò le braccia. «Rob» disse, con quella vocina piccola, chiara, un po' perplessa che non riuscirò mai a dimenticare. «Sono sempre io.»
Ma non l'ascoltavo più. A stento riuscivo a vederla e il suo volto mi sembrava quello di un'estranea, indecifrabile e pericoloso. Avrei voluto essere altrove. «Adesso devo rientrare» dissi, gettando via la sigaretta. «Mi ridai l'accendino?»
Non so spiegare cosa mi spingesse a dare così poco credito alla possibilità che Cassie avesse detto la pura e semplice verità su quello che voleva da me. Dopotutto, non credo che avesse mai mentito, a me o a chiunque altro, e non so perché mai fossi così sicuro che avesse cominciato a farlo proprio allora. Non mi sfiorò neppure per un attimo il pensiero che la sua disperazione potesse derivare non tanto da una passione non corrisposta quanto dall'aver perso il suo migliore amico, cosa che potevo senz'altro affermare di essere.
Sembrerà arrogante che mi considerassi un irresistibile Casanova, ma davvero non credo che fosse così semplice. Dovete tenere conto del fatto che non avevo mai visto Cassie in quello stato. Non l'avevo mai vista piangere, potevo contare sulle dita di una mano le volte che l'avevo vista spaventata. Adesso aveva gli occhi gonfi e lividi, sotto il trucco goffo e aggressivo, e vi vedevo un lampo di paura e una richiesta disperata di aiuto ogni volta che li rivolgeva verso di me. Cosa dovevo pensare? Le parole di Rosalind – trent'anni… orologio biologico… non possono permettersi di aspettare - mi ossessionavano come un dente cariato. Mi veniva in mente tutto quello che avevo letto sull'argomento (le riviste stropicciate nelle sale d'aspetto, le copie di "Cosmopolitan" di Heather che sfogliavo a colazione, ancora mezzo addormentato): "Dieci modi per le donne sopra i trenta di approfittare della loro ultima occasione. Come evitare di rimandare troppo la decisione di avere un figlio". E, come se non bastasse, quello strano articolo su come fosse assolutamente da evitare di andare a letto con il proprio migliore amico perché comportava inevitabilmente "sentimenti" da parte della donna, paura di impegnarsi da parte dell'uomo e una serie infinita, inutile e noiosa di casini.
Avevo sempre pensato che Cassie fosse lontana anni luce da quei cliché da letteratura rosa (a volte, quando siamo molto vicini a qualcuno, ci sono cose che ci sfuggono), ma avevo anche pensato che fossimo un'eccezione a qualunque regola, e guarda un po' com'era andata a finire. Non volevo diventare un cliché anch'io, ma Cassie non era l'unica con una vita andata a rotoli. Sentendomi a mia volta perso e confuso, mi tenevo semplicemente aggrappato alle sole certezze che mi sembrava di avere.
E, non ultimo, avevo imparato presto a presumere che ci fosse sempre qualcosa di oscuro e letale al cuore delle cose che amavo, e quando non lo trovavo reagivo, stupito e guardingo, nell'unico modo che conoscevo: mettendocelo io stesso.
Adesso sembra ovvio, naturalmente, dire che perfino una persona forte abbia i suoi punti deboli e che avevo colpito Cassie con la massima potenza e con la precisione di un gioielliere che taglia una pietra preziosa lungo un'incrinatura. Di sicuro Cassie doveva aver pensato, a volte, a una sadica maledizione inscritta nel suo nome da un qualche dio: dire sempre la verità e non essere mai creduta.
Sam si presentò da me il lunedì sera tardi, verso le dieci. Mi ero da poco rimesso a letto, dopo un toast per cena, e mi ero quasi riaddormentato quando suonò il citofono. Ebbi un irrazionale brivido di paura immaginando che potesse essere Cassie, magari un po' sbronza, che veniva a chiedermi di parlare una volta per tutte. Feci rispondere a Heather. Quando bussò nervosa alla mia porta e annunciò: «È per te, un tale Sam», ne fui così sollevato che mi ci volle un po' prima che la sorpresa prendesse il sopravvento. Sam non era mai venuto a casa mia. Non sapevo neppure che avesse idea di dove fosse.
Andai alla porta della mia stanza, intanto che mi infilavo la camicia nei pantaloni, e lo sentii salire su per le scale. «Ciao» gli dissi, quando arrivò sul pianerottolo.
«Ciao» disse lui. Non lo vedevo dal venerdì mattina. Indossava il suo pesante cappotto di tweed, non si era fatto la barba e aveva i capelli sporchi che gli ricadevano in lunghe ciocche umide sulla fronte.
Rimasi per un momento in attesa, ma lui non offrì alcuna spiegazione per la sua presenza, così gli feci strada in soggiorno. Heather ci seguì e incominciò a chiacchierare. «Ciao, io sono Heather, sono proprio felice di conoscerti. Ma dove ti ha tenuto nascosto Rob per tutto questo tempo? Non porta mai a casa gli amici e non è una bella cosa. Sto guardando The Simple Life, tu lo guardi mai? Dio, quest'anno è da matti…» Le nostre monosillabiche risposte dovettero alla fine farle intuire qualcosa perché, con un tono ferito, concluse: «Va bene… mi sa che voi due avete voglia di starvene un po' per conto vostro» e, poiché nessuno di noi due fece nulla per smentirla, se ne andò con un sorriso radioso a Sam e uno un po' più freddo a me.
«Mi dispiace essere piombato qui così all'improvviso» disse Sam. Si guardò intorno sconcertato, cuscini dal design aggressivo e firmato, mensole piene di animaletti di porcellana.
«Non importa. Ti va qualcosa da bere?» Non avevo la più pallida idea del perché fosse venuto e non volevo neppure prendere in considerazione l'ipotesi che avesse qualcosa a che fare con Cassie. "Non è possibile" pensai. "Non è assolutamente possibile che gli abbia chiesto di venire a parlare con me."
«Un whisky andrà benissimo.»
Andai in cucina e trovai nella mia dispensa una mezza bottiglia di Jameson. Quando portai la bottiglia in soggiorno Sam era ancora nella stessa poltrona, non si era tolto il cappotto e aveva la testa china e i gomiti sulle ginocchia. Heather aveva lasciato la TV accesa senza audio e due donne identiche con un fondotinta arancione stavano litigando istericamente ma in silenzio su chissà cosa. Quel chiarore saltellava confusamente sul viso di Sam conferendogli un'aria spettrale.
Spensi la TV e gli porsi il bicchiere. Lo guardò quasi sorpreso, ma ne bevve la metà con un goffo movimento del polso. Forse, pensai, era già un po' ubriaco. Non barcollava, né aveva la voce impastata ma sia il modo di muoversi sia le sue parole avevano un che di diverso, di aspro e pesante.
«Allora» chiesi scioccamente, «che succede?»
Sam bevve un altro sorso. La lampada a stelo lì accanto lo intrappolava a metà tra luce e ombra, con una spalla al buio e il chiarore che faceva splendere i suoi capelli bronzo opaco. «Sai quella cosa di venerdì?» cominciò. «Il nastro registrato.»
Mi rilassai un po'. «Sì?»
«Non ci ho parlato, con mio zio.»
«No?»
«No. Ci ho pensato tutto il weekend. Ma non l'ho chiamato.» Si schiarì la voce. «Sono andato da O'Kelly.» Si schiarì di nuovo. «Oggi pomeriggio. Con il nastro. Gliel'ho fatto ascoltare e poi gli ho detto che la voce era quella di mio zio.»
«Caspita.» A dire la verità, non credevo che lo avrebbe fatto. Mio malgrado, ero stupito.
Sbatté le palpebre, guardò il bicchiere che aveva in mano e lo posò sul tavolino basso. «Sai cosa mi ha detto?»
«Cosa?»
«Mi ha chiesto se ero fuori di testa.» Rise in modo un po' scomposto. «Dio, era proprio deciso… Mi ha detto di cancellare il nastro, di togliere le cimici dai telefoni e di lasciare in pace Andrews. "È un ordine", così ha detto. Ha detto che non ho uno straccio di prova che Andrews abbia qualcosa a che vedere con l'omicidio e che se vado avanti così prima o poi mi ritrovo di nuovo in uniforme, e lui pure. Non subito, e magari neanche direttamente per questo motivo, ma un bel giorno ci ritroviamo di pattuglia nel buco del culo del mondo e per il resto della nostra vita. Testuale: "Questa conversazione non c'è mai stata, perché quel nastro non è mai esistito".»
La voce di Sam stava aumentando di tono. La stanza da letto di Heather confinava con il soggiorno ed ero quasi sicuro che lei se ne stesse con l'orecchio incollato alla parete. «Vuole che tu insabbi tutto?» chiesi a voce bassa, sperando che Sam capisse e mi imitasse.
«Credo che volesse arrivare lì, sì» fece lui, con una nota di pesante sarcasmo. Non gli veniva naturale, e invece di suonare duro e cinico lo faceva sembrare tremendamente giovane, come un adolescente disperato. Sprofondò nella poltrona e si passò una mano tra i capelli. «Non me lo sarei mia aspettato, sai? Di tutte le cose di cui mi preoccupavo… a questa non avevo pensato.»
Credo, onestamente, di non aver mai preso troppo sul serio la pista investigativa di Sam. Società di capitali internazionali, costruttori senza scrupoli e speculazioni su terreni edificabili: mi era sempre sembrata una faccenda lontanissima e impossibile, grossolana e quasi assurda, un filmone hollywoodiano da quattro soldi, di quelli con Tom Cruise, non una cosa di gente vera. L'espressione sul volto di Sam mi prese in contropiede. Non aveva bevuto. Quella doppia catastrofe… suo zio, O'Kelly… l'aveva colpito come due autobus. E dato che si trattava di Sam, non se lo era neppure lontanamente immaginato. Per un attimo, nonostante tutto, sentii che avrei voluto trovare le parole per consolarlo, dirgli che certe cose potevano sempre capitare, che succedeva a tutti e che, come tutti, sarebbe sopravvissuto.
«E adesso cosa faccio?» mi chiese.
«Non lo so» risposi, perplesso. Io e Sam avevamo passato un sacco di tempo insieme, ultimamente, ma questo non ci rendeva amici per la pelle e comunque non ero nelle condizioni di dare saggi consigli a nessuno. «Non vorrei sembrarti insensibile, ma perché lo stai chiedendo a me?»
«E a chi altro potrei chiederlo?» fece Sam a bassa voce. Quando sollevò lo sguardo su di me vidi che aveva gli occhi rossi. «Non posso andare a raccontarlo a nessuno della mia famiglia, no? Li ucciderebbe. E i miei amici sono fantastici, ma non sono dei poliziotti, e questa è una faccenda da poliziotti. E Cassie… non vorrei proprio coinvolgerla in questa cosa. Ha già abbastanza gatte da pelare di suo. Ha un'aria terribilmente stressata ultimamente. Tu sapevi già tutto e avevo bisogno di parlare con qualcuno, prima di decidere cosa fare.»
Ero sicuro di aver avuto un'aria piuttosto stressata anch'io, nelle ultime settimane, anche se in un certo senso mi faceva piacere pensare di essere stato più bravo a nasconderlo di quanto pensassi. «Decidere?» dissi. «Non mi pare che tu abbia molta scelta, in verità.»
«C'è Michael Kiely» disse Sam. «Potrei dare a lui il nastro.»
«Dio, perderesti il lavoro prima ancora che esca l'articolo. E potrebbe essere addirittura illegale, anche se non ne sono sicuro.»
«Lo so.» Si premette le mani sugli occhi. «Credi che dovrei farlo?»
«Non ne ho la più pallida idea» dissi. Il whisky, a stomaco quasi vuoto, stava iniziando a darmi la nausea. Avevo usato i cubetti di ghiaccio in fondo al freezer e avevano un sapore cattivo, stantio.
«Se lo facessi cosa succederebbe? Lo sai?»
«Be', perderesti il posto. Forse ti denuncerebbero.» Non disse niente. «Potrebbe esserci un processo, credo. Se decidono che tuo zio ha fatto qualcosa di sbagliato gli dicono di non farlo più, lo mettono in secondo piano per un paio d'anni e poi tutto torna come prima.»
«Ma l'autostrada.» Sam si passò le mani sul viso. «Non riesco a pensare con chiarezza… se non dico niente, l'autostrada andrà avanti, sarà costruita e distruggerà tutti i reperti archeologici. Senza motivo.»
«Succederà comunque. Anche se vai ai giornali, il governo dirà solo: "Oh, ma che peccato, ormai è troppo tardi per spostarla però" e tutto continuerà allegramente come prima.»
«Lo pensi davvero?»
«Be', sì» risposi. «Davvero.»
«E Katy» riprese. «Perché è di questo che dovremmo preoccuparci. E se Andrews avesse pagato qualcuno per ucciderla? Lasciamo che se ne vada impunito?»
«Non lo so.» Mi chiesi per quanto ancora sarebbe rimasto.
Per un po', nessuno di noi disse nulla. Nell'appartamento accanto c'era una cena o qualcosa del genere perché si sentiva un vocio allegro, Kylie dallo stereo e una ragazza che diceva, civettuola: «Ma sì che te l'avevo detto, te l'avevo detto eccome!». Heather diede un pugno alla parete, ci fu silenzio per un attimo, seguito da uno scoppio di risa soffocate.
«Lo sai qual è il mio primo ricordo?» disse Sam. I suoi occhi erano in ombra, per cui non potevo vedere che espressione avessero. «Il giorno in cui Red entrò al Dàil. Ero bambino, potevo avere tre anni o forse quattro, ma andammo tutti a Dublino ad accompagnarlo. Tutta la famiglia. Era una bellissima giornata, piena di sole. Io avevo un vestito nuovo. Non sapevo cosa stesse succedendo di preciso, ma sapevo che era una cosa importante. Erano tutti così contenti, e mio padre… scoppiava di gioia e d'orgoglio. Mi prese sulle spalle perché potessi vedere e gridò: "Quello è tuo zio, ragazzo mio!". Red era sulle scale, salutava con la mano e sorrideva, e io gridai: "Quel signore è mio zio!". Tutti risero e lui mi fece l'occhiolino… Abbiamo ancora la foto sulla parete del soggiorno.»
Ci fu un altro silenzio. Mi venne in mente che forse il padre di Sam si sarebbe stupito meno del figlio degli exploit del fratello, ma decisi che sarebbe stata una magra consolazione.
Sam si tirò di nuovo indietro i capelli. «E poi c'è la mia casa» disse. «Lo sai che è mia, no?»
Annuii, con la sensazione di sapere dove voleva andare a parare.
«Già» continuò. «È una bella casa. Quattro camere da letto e tutto il resto. In realtà cercavo solo un appartamento, ma Red mi disse… sai, per quando avrò una famiglia. Non pensavo di potermi permettere granché ma lui… be'…» Si schiarì di nuovo la voce e fu un suono stridulo, inquietante. «Mi presentò al tizio dell'immobiliare. Mi disse che erano amici da tanto tempo e che mi avrebbe procurato un'occasione.»
«Be', è andata così. Non ci puoi fare molto, ormai.»
«Potrei venderla, per il prezzo al quale l'ho pagata. A una coppia giovane che altrimenti non riuscirebbe mai a comprarsene una.»
«Perché?» chiesi. Quella conversazione era diventata frustrante. Sam era come un grosso sanbernardo disorientato che cercava di fare il suo dovere nel bel mezzo di una tempesta che rendeva inutile qualunque sforzo. «Autoimmolarsi è un bel gesto, ma di solito non porta a grandi risultati.»
«Non conosco la parola» disse Sam stancamente, prendendo il bicchiere. «Ma capisco quello che vuoi dire. Mi stai dicendo che dovrei lasciar perdere.»
«Non ho la minima idea di quello che dovresti o non dovresti fare.» Ero assalito da un'ondata di stanchezza e di nausea. "Dio", pensai, "che settimana." «Forse sono l'ultima persona alla quale chiedere consigli. Però non vedo la ragione per fare di te stesso un martire e sbarazzarti della tua casa e della tua carriera, dato che non servirebbe comunque a nessuno. Tu non hai fatto niente di male, no?»
Sam mi guardò. «No» disse a bassa voce e in tono amaro. «Non ho fatto niente di male.»
«Bel tipo il tuo amico» commentò Heather, dopo che Sam se ne fu andato. Nessuna delle sue conquiste speed-dating era mai andata a finire bene. Dopo attenta analisi, aveva sempre concluso che si erano sentiti minacciati dalla prospettiva di uscire con una donna di ben altra classe che la loro. «Sei stato cattivo a cacciarmi in quel modo, ma ti perdono. È libero?»
«Credo sia gay» dissi.
«Be', potrei fargli cambiare idea» mi assicurò. «Non hai visto come mi guardava?» concluse poi, e se ne andò a letto, con le sue ciabatte trapuntate.
Cassie non era l'unica a dimagrire. Era passata più di una settimana dal mio ultimo pasto vero e proprio, con carboidrati, proteine e tutto il resto, e mi stavo accorgendo che quando mi radevo dovevo manovrare il rasoio intorno a nuovi vuoti che si erano creati sul mio viso. Ma solo quando mi spogliai, quella sera, mi resi conto che i pantaloni mi calavano sulle anche e che la giacca mi pendeva dalle spalle. Molti detective perdono o acquistano peso nel corso delle loro inchieste più importanti. Sam e O'Gorman cominciavano a mostrare un girovita un po' appesantito, dovuto all'eccesso di schifezze ingurgitate, cosa che su di me si nota sempre poco per via dell'altezza. Ma se la cosa si fosse protratta, avrei dovuto comprarmi un abito nuovo o andare in giro come Charlie Chaplin.
Questo è un segreto che non sa nemmeno Cassie: quando avevo dodici anni, ero un bambino grasso. Non uno di quei ragazzini sferici e senza lineamenti che si vedono adesso in qualche servizio televisivo sull'inferiorità morale della nuova gioventù. Nelle foto sembro solo massiccio, magari un po' tarchiato, alto per la mia età e terribilmente a disagio, ma io mi sentivo mostruoso. Il corpo mi aveva tradito. Si era allungato e allargato fino a diventare irriconoscibile, una specie di scherzo che ero costretto a portarmi in giro tutti i giorni, in ogni momento. A peggiorare la cosa c'era che Peter e Jamie erano invece uguali a prima: avevano le gambe più lunghe, avevano perso i denti da latte, ma erano ancora snelli, leggeri e invincibili come sempre.
Quella mia fase, diciamo, tarchiata non durò molto: in ossequio a una certa tradizione, il cibo in collegio era talmente cattivo che anche un ragazzino senza molta nostalgia di casa e in crescita veloce avrebbe avuto qualche difficoltà a mangiarne a sufficienza e acquistare peso. Non mangiai quasi nulla, il primo anno. All'inizio il preside mi faceva stare a un tavolo da solo, a volte per ore, fino a quando non mandavo giù a forza qualche boccone e lui non avesse raggiunto il suo scopo, qualunque fosse. Dopo un po' diventai un esperto nel far scivolare il cibo in un sacchetto di plastica che tenevo in tasca per buttarlo poi nel gabinetto. Il digiuno è, credo, un modo di chiedere aiuto profondamente istintivo. Per quanto assurdo possa sembrare, sono sicuro che il mio pensiero fosse questo: se avessi mangiato il meno possibile per un tempo sufficientemente lungo, Peter e Jamie sarebbero tornati e tutto sarebbe rientrato nella normalità. All'inizio del secondo anno, ero alto, magro e con troppi spigoli, così come si supponeva che dovesse essere un ragazzo di tredici anni.
Non so perché proprio questo, tra tutti i segreti possibili, sia stato quello meglio custodito. Potrei pensare che sia dipeso da una società in cui essere obesi è uno dei pochi peccati imperdonabili, oppure dalla mia sensibilità estetica, che mi diceva di vergognarmi per aver rovinato la perfetta aerodinamica di quell'estate con la mia pesantezza terrena. Credo che la verità sia un'altra: mi sono sempre chiesto se fosse questa la ragione per cui rimasi indietro quel giorno, nel bosco. Perché ero grasso, perché non riuscivo a correre velocemente, perché ero pesante e goffo e perdevo l'equilibrio, perché avevo paura di saltare dal muro del castello. A volte penso alla linea sottile e ondivaga che separa il venire risparmiato dal venire rifiutato. A volte penso agli antichi dei che chiedevano il sacrificio di esseri senza macchia e senza paura e mi domando se, chiunque o qualsiasi cosa fosse quella che portò via Peter e Jamie, non avesse deciso che io, invece, non andassi bene.