Continuò a piovere forte per tutto il resto della giornata, una pioggia densa e infinita, di quelle che ti inzuppano fino alle ossa anche nei pochi metri per raggiungere l'auto. Ogni tanto un fulmine si abbatteva sulle colline scure e il rumore del tuono arrivava fino a noi. Lasciammo quelli della Scientifica a completare l'esame della scena del crimine e portammo in centrale Hunt, Mark, Damien e, per non saper né leggere né scrivere, anche uno Sean profondamente risentito («Pensavo che fossimo soci, in questa faccenda!»). Li sistemammo ciascuno in una stanza per gli interrogatori diversa e ricontrollammo i loro alibi.
Fu facile escludere Sean. Divideva un appartamento a Rathmines con altri tre ragazzi e tutti si ricordavano della notte in cui era morta Katy: avevano festeggiato il compleanno di uno dei tre e Sean vi aveva partecipato come DJ fino alle quattro del mattino. Poi aveva vomitato sugli stivaletti della ragazza di un tizio e aveva perso i sensi sul divano. C'erano almeno trenta testimoni pronti a dirci dov'era stato e che gusti musicali aveva.
Per gli altri tre fu più difficile. L'alibi di Hunt era sua moglie, quello di Mark era Mel. Damien viveva a Rathfarnham con sua madre, vedova, che era andata a letto presto ma era certa che non sarebbe potuto uscire di casa senza svegliarla. Questi sono gli alibi che i detective detestano, deboli ma inamovibili, di quelli che possono mandare a puttane un caso. Potrei raccontarvi di una decina di casi in cui sapevamo esattamente chi era stato, com'era andata e quando era successo, ma non potevamo fare nulla perché la mamma del tizio giurava che era rimasto tutto il tempo sdraiato sul divano a guardare la televisione.
«Va bene» disse O'Kelly in sala operativa, dopo che avevamo raccolto la deposizione di Sean e dopo averlo rispedito a casa. Mi aveva perdonato per il tradimento e offerto un cinque di commiato. Aveva voluto anche sapere se poteva vendere la storia ai giornali e io gli avevo risposto che in quel caso sarei andato personalmente a cercare droga a casa sua ogni sera, fino a quando non avesse compiuto trent'anni. «Carta che vince, carta che perde, fate il vostro gioco ragazzi, chi prendiamo?» Era tornato di buon umore adesso che il sospettato era in una delle stanze degli interrogatori, anche se non sapevamo con certezza chi fosse.
«Damien» rispose Cassie. «Corrisponde perfettamente al profilo.»
«Mark ha ammesso di essere stato sulla scena del crimine» obiettai io, «ed è l'unico che potrebbe avere uno straccio di movente.»
«Per quello che ne sappiamo adesso.» Sapevo cosa intendeva dire, o almeno pensavo di saperlo, ma non volevo tirare in ballo la faccenda dell'omicidio su commissione, non davanti a O'Kelly o a Sam. «E non riesco proprio a immaginarlo mentre lo fa.»
«Io invece ci riesco.»
Cassie alzò gli occhi al cielo e io trovai la cosa quasi confortante: una piccola parte di me aveva temuto un qualche diverso tipo di reazione.
«O'Neill?» chiese O'Kelly.
«Damien» disse Sam. «Ho portato a tutti una tazza di tè e lui è stato l'unico a prenderla con la sinistra».
Dopo un attimo di sorpresa, io e Cassie ci mettemmo a ridere. La battuta era per noi. Mi ero quasi completamente dimenticato della faccenda del mancino, ma ci prese una tremenda ridarella e, come dei ragazzini sul bus delle gite scolastiche, non riuscivamo a smettere. Sam sorrise e si strinse nelle spalle, contento della reazione. «Non so proprio che cosa abbiate da sghignazzare, voi due» disse burbero O'Kelly, ma si vedeva che anche a lui scappava da ridere. «Avreste dovuto accorgervene, con tutte quelle chiacchiere sui profili…» Ma continuai a ridere, rosso in viso, con gli occhi che mi lacrimavano. Dovetti mordermi il labbro per fermarmi.
«Oddio, Sam» disse Cassie, facendo un respiro profondo. «Come faremmo senza di te?»
«Basta con gli scherzi» ci redarguì O'Kelly. «Voi due occupatevi di Damien Donnelly. O'Neill, tu manda Sweeney e un altro da Hanly, e io troverò qualcuno che parli con Hunt e il testimone per l'alibi. E Ryan, Maddox e O'Neill: vogliamo una confessione. Cercate di non fare casino. Su, su, andale andale!» Si ritrasse con la sedia, con uno stridio da spaccare le orecchie, e se ne andò.
«Andale?» ripeté Cassie, pericolosamente vicina a un altro attacco di ridarella.
«Bravi, ragazzi» disse Sam. Ci tese la mano. La sua stretta era forte e calda. «Buona fortuna.»
«Se per caso è stato Andrews a ingaggiare uno di loro» dissi, quando Sam se ne andò per cercare Sweeney e Cassie e io restammo soli nella sala operativa, «sarà il casino del secolo.»
Cassie inarcò un sopracciglio ma non aggiunse altro. Finì il caffè. La giornata si preannunciava lunga e avevamo fatto tutti il pieno di caffeina.
«Come vuoi procedere adesso?» chiesi.
«Guida tu. Lui pensa alle donne unicamente come a una fonte di simpatia e approvazione. Gli darò una pacca sulla spalla di tanto in tanto. Si sente minacciato dagli uomini, quindi vacci piano. Se sei troppo duro si irrigidirà e vorrà andarsene. Prendi tempo, portalo piano piano verso la consapevolezza. L'ho visto insicuro fin dall'inizio.» Era la cosa più vicina a un "te l'avevo detto io" che avrebbe potuto dire. «E sono certa che abbia l'inferno dentro. Se facciamo appello alla sua coscienza prima o poi crollerà, è solo questione di tempo.»
«D'accordo» dissi, «faremo così.» Ci lisciammo gli abiti, ci aggiustammo i capelli e ci avviammo, spalla a spalla, lungo il corridoio delle stanze degli interrogatori.
Fu l'ultima volta che lavorammo insieme. Vorrei tanto farvi capire che un interrogatorio può avere una sua bellezza, fulgida e crudele come quella di una corrida. Può mostrarvi come possa, nonostante i delitti più atroci o il sospettato più idiota, mantenere inviolata una sua grazia irresistibile, ed eccitante un suo ritmo. Può rivelarvi il modo in cui due detective si conoscono, come l'uno segua alla perfezione il pensiero dell'altro, alla stregua di due ballerini che danzano da una vita un pas de deux. Non saprò mai se io o Cassie fossimo dei grandi detective, anche se ho il sospetto di no, ma una cosa la so: insieme eravamo una coppia epica, di quelle cantate dai bardi e che vanno a finire sui libri di storia. Quella fu la nostra ultima danza, la migliore, ballata in una piccola stanza degli interrogatori, con il buio fuori e la pioggia che cadeva dolce e instancabile sul tetto, senza altro pubblico che i condannati e i morti.
Damien se ne stava raggomitolato sulla sedia, spalle rigide, ignorando la tazza di tè ancora fumante sul tavolo. Quando gli lessi i suoi diritti mi guardò come se parlassi urdu.
Il mese che era trascorso dalla morte di Katy non era stato buono con lui. Indossava un paio di pantaloni color kaki e un vecchio maglione grigio sformato. Si vedeva che era dimagrito e la cosa lo faceva sembrare un ragazzo di strada, anche più basso di quanto non fosse in realtà. Il suo fascino da componente di una boy-band iniziava a mostrare un po' la corda: borse violacee sotto gli occhi, un solco verticale che si andava formando tra le sopracciglia. Il fiore della giovinezza, che sarebbe dovuto durare per lui ancora qualche anno, stava appassendo in fretta. Quel cambiamento non mi era parso tanto evidente allo scavo, ma adesso lo notavo e mi fece riflettere.
Cominciammo con domande facili, cose senza implicazioni alle quali poteva rispondere senza doversene preoccupare. Era di Rathfarnham, vero? Studiava al Trinity? Aveva appena finito il secondo anno? Com'erano andati gli esami? Damien rispondeva a monosillabi e intanto si attorcigliava il bordo del maglione attorno al pollice. Ovviamente, moriva dalla voglia di sapere perché glielo chiedevamo, ma aveva anche paura di scoprirlo. Cassie portò gradatamente la conversazione sull'archeologia e lui piano piano si rilassò. Smise di tormentare il maglione e bevve il suo tè, rispondendo con frasi di senso compiuto. I due intavolarono tutta una lunga e serena conversazione sui vari reperti che avevano trovato allo scavo. Li lasciai fare per almeno venti minuti prima di intervenire. Sfoderai il mio sorriso più tollerante. «Mi spiace interrompervi, ragazzi, ma sarebbe meglio tornare a parlare di quello che ci interessa, altrimenti mi sa che finiamo nei guai tutti e tre.»
«Ma dai, Ryan, un minuto» implorò Cassie. «Non ho mai visto un fermamantello. Com'è fatto?»
«Pare che lo esporranno al Museo nazionale» aggiunse Damien, arrossendo di orgoglio. «È piuttosto grande, di bronzo, e sopra c'è un disegno…» Fece dei ghirigori con un dito, forse per indicare il motivo inciso.
«Dai, me lo disegni?» chiese Cassie, facendo scivolare verso di lui il suo taccuino e la penna. Damien disegnò, obbediente, con la fronte aggrottata per la concentrazione.
«Una cosa tipo questa» disse, restituendo il taccuino a Cassie. «Non sono bravo a disegnare.»
«Wow» disse Cassie con ammirazione. «E sei stato proprio tu a trovarlo? Se avessi trovato io una cosa così mi sarebbe venuto un colpo, un attacco di cuore o che so io.»
Lanciai un'occhiata da sopra la sua spalla: era un ampio cerchio con quello che sembrava uno spillone fissato al centro, sul retro, decorato con linee curve, fluide ed equilibrate. «Bello» dissi. Damien era senza dubbio mancino, con mani che sembravano ancora troppo grandi per il suo corpo, come le zampe di un cucciolo.
«Hunt è fuori» disse O'Kelly, nel corridoio. «Nella deposizione sostiene di aver cenato e poi guardato la televisione con sua moglie tutta la sera di lunedì fino a quando non è andato a letto, alle undici. Hanno guardato quei documentari del cazzo, una roba pallosa sulle manguste e poi uno su Riccardo III. Ci ha raccontato tutti i dettagli, che lo volessimo o no. La moglie dice la stessa cosa, e la guida TV conferma. Il vicino poi ha un cane, una di quelle merdine che abbaiano tutta la notte. Ha sentito Hunt che gli gridava di smetterla, affacciato alla finestra, all'una di notte. Perché poi non abbia detto lui stesso al suo cane di smetterla… Dice che è sicuro del giorno perché è stato quando gli hanno montato il rivestimento nuovo di legno e il cane si è innervosito per via degli operai. Adesso lo mando a casa, Einstein, prima che mi rincoglionisca del tutto. È stata una gara dura, ragazzi.»
«Come se la sta cavando Sam con Mark?» chiesi.
«Niente di fatto. Hardy è indisponente come pochi. Si ostina con la storia della notte di scopate e la sua ragazza conferma. Se anche fingono, non mi pare che possano smentirsi a breve. E non è mancino. Il vostro?»
«Il nostro sì» disse Cassie.
«Quindi direi che per adesso è il favorito. Ma non credo basterà. Ho parlato con Cooper…» Il viso di O'Kelly si contorse in una smorfia di disgusto. «Posizione della vittima, posizione dell'assalitore, calcolo delle probabilità… c'è più merda che in un letamaio, ma alla fin fine pensa che il nostro uomo sia mancino, anche se non lo può confermare al cento per cento. Fa come i politici. E Donnelly, che dice?»
«È nervoso» dissi io.
O'Kelly diede uno schiaffo alla porta della stanza degli interrogatori. «Bene. E voi non lasciate che si calmi.»
Tornammo dentro e ci mettemmo d'impegno. «Va bene ragazzi» dissi, prendendo una sedia. «Adesso dobbiamo andare al sodo. Parliamo di Katy Devlin.»
Damien annuì, serio, ma lo vidi irrigidirsi. Sorseggiò il tè, anche se ormai doveva essere freddo.
«Quand'è stato che l'hai vista, la prima volta?»
«Credo che fossi a tre quarti della collina, e stavo salendo. Comunque ero più in alto del cottage e delle baracche. È stato per l'inclinazione del pendio…»
«No» disse Cassie, «non il giorno in cui hai trovato il cadavere. Prima.»
«Prima?» Damien sbatté le palpebre, prese un altro sorso di tè. «No… io non… non l'avevo mai vista. Mai incontrata prima di allora… di quel giorno.»
«Non l'avevi mai vista prima?» Il tono di Cassie non era cambiato, ma avevo immediatamente percepito in lei l'immobilità del predatore che osserva la sua prossima preda. «Ne sei certo? Pensaci bene, Damien.»
Lui scosse la testa con decisione. «No. Lo giuro. Non l'avevo mai vista prima in tutta la mia vita.»
Ci fu un attimo di silenzio. Rivolsi a Damien quella che speravo sembrasse un'occhiata di scarso interesse, ma la testa mi girava.
Avevo puntato su Mark colpevole non solo per spirito di contraddizione, come potreste pensare, né perché qualcosa in lui mi irritava, senza voler per forza spiegare cosa. Credo fosse perché tutto sommato, date le opzioni possibili, preferivo che fosse lui. Non avevo mai preso sul serio Damien né come uomo, né come testimone e certamente ancora meno come sospettato. Era solo un tremendo imbranato, tutto riccioli e balbettii e vulnerabilità, uno che si poteva spazzar via come un soffione. Soltanto pensare che tutto un mese passato come l'avevamo passato potesse aver avuto origine da uno come lui mi appariva scandaloso. Mark invece, qualunque cosa pensassi io di lui e lui di me, era un avversario e un obiettivo che valeva la pena di incastrare.
Ma Damien aveva sicuramente detto una bugia priva di senso. Le figlie dei Devlin erano state spessissimo allo scavo, quell'estate, ed era difficile non averle notate. Tutti gli altri archeologi si ricordavano di loro. Perfino Mel, che era rimasta a debita distanza dal cadavere, l'aveva riconosciuta immediatamente. E Damien, che accompagnava spesso i visitatori, era quello che probabilmente aveva avuto più occasioni di parlare con Katy, passare del tempo con lei. Si era chinato sul suo cadavere, in teoria per vedere se respirava ancora, e anche quel gesto, me ne rendevo conto solo adesso, anche quell'insolito coraggio era fuori dal personaggio. Non aveva nessuna ragione al mondo per negare di averla vista prima, a meno che non stesse goffamente cercando di evitare una trappola che non avevamo mai preparato. A meno che il pensiero di essere legato a lei in qualche modo non lo spaventasse a tal punto da impedirgli di ragionare lucidamente.
«Okay» disse Cassie. «E suo padre, Jonathan Devlin? Tu fai parte di "Spostiamo l'autostrada"?» Damien ingollò un grosso sorso di tè ormai gelato e annuì di nuovo. Abbandonammo con destrezza l'argomento prima che avesse modo di rendersi conto di quello che aveva detto.
Alle tre, Cassie, Sam e io andammo a prendere delle pizze. Mark iniziava a rompere le scatole, diceva che aveva fame, e noi volevamo che sia lui sia Damien si sentissero a loro agio. Nessuno dei due era in arresto, potevano decidere di andarsene dalla centrale in qualsiasi momento e non avremmo potuto fare niente per fermarli. Stavamo giocando, come facciamo spesso, sull'elementare desiderio umano di compiacere l'autorità, di fare i bravi. Anche se ero certo che questo sarebbe bastato a tenere Damien nella stanza degli interrogatori in eterno, non nutrivo la medesima certezza con Mark.
«Come va con Donnelly?» mi chiese Sam, in pizzeria. Cassie era al bancone, ci si era appoggiata e stava scherzando con il ragazzo che aveva preso la nostra ordinazione.
Mi strinsi nelle spalle. «Difficile dirlo. E con Mark?»
«Un incubo. Dice che ha passato sei mesi a farsi il culo per "Spostiamo l'autostrada", perché avrebbe dovuto rischiare di mandare tutto a puttane uccidendo la figlia del presidente? Sostiene che sia tutta una faccenda politica…» Sam fece una smorfia. «Ma Donnelly» riprese, non guardando me ma Cassie che ci dava la schiena. «Se è il nostro uomo, cosa avrebbe… insomma, quale sarebbe il movente?»
«Per adesso non abbiamo trovato niente» dissi. Non volevo ancora rivelare nulla.
«Se salta fuori qualcosa…» Sam si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni. «… qualcosa che pensi io possa voler sapere… mi chiami?»
«Sì» promisi. Non avevo mangiato nulla in tutto il giorno, ma era l'ultima cosa che desideravo fare in quel momento. Volevo solo tornare da Damien e sembrava ci volessero ore per quelle pizze. «Certo.»
Damien prese una lattina di 7-Up ma rifiutò la pizza. Non aveva fame. «Davvero?» chiese Cassie, cercando di raccogliere con le mani la mozzarella che filava. «Dio, quando ero studentessa non avrei mai saputo dire di no a qualcuno che mi offriva una pizza.»
«Tu non rifiuti il cibo in nessuna circostanza» le dissi. «Sei un aspirapolvere umano.» Cassie, con la bocca troppo piena per rispondere, annuì allegra e fece il gesto del pollice in alto. «Dai, avanti, Damien, prendine un pezzo. Devi mantenerti in forze, vedrai che ci toccherà stare qui ancora per un po'.»
Spalancò gli occhi. Gli porsi uno spicchio e quando lui scosse la testa feci un'alzata di spalle e lo mangiai io. «Okay, parliamo di Mark Hardy. Che tipo è?»
Damien sbatté le palpebre. «Mark? Mah, è un tipo a posto. È un po' rigido ma, insomma, è giusto così. Non abbiamo molto tempo.»
«Lo hai mai visto diventare violento? Perdere le staffe?» Agitai una mano verso Cassie e lei mi lanciò un tovagliolo di carta.
«Ah… no… Insomma, sì, a volte si arrabbia, se qualcuno fa casino, ma non l'ho mai visto alzare davvero le mani, o cose simili.»
«E pensi che sarebbe capace di farlo, se fosse molto arrabbiato?» Mi pulii le dita e sfogliai il blocco, cercando di non ungere le pagine. «Il solito sbrodolone» mi rimproverò Cassie. Le mostrai il dito medio. Damien ci guardò, disorientato.
«Cosa?» chiese poi, esitante.
«Credi che Mark possa diventare violento se provocato?»
«Forse sì, non lo so.»
«E tu? Hai mai picchiato qualcuno?»
«No! Ma… no!»
«Avremmo dovuto prendere anche il pane all'aglio» disse Cassie.
«Io non ci sto di sicuro chiuso in una stanza degli interrogatori con due persone e della roba all'aglio. Cosa pensi ti ci vorrebbe per picchiare qualcuno, Damien?»
La bocca del ragazzo si spalancò.
«Non sembri un tipo violento, ma tutti hanno un punto di rottura. Per esempio, picchieresti qualcuno che insultasse tua madre?»
«Io…»
«Oppure per denaro? O per autodifesa? Cosa potrebbe spingerti a farlo?»
«Io non…» Damien sbatteva le palpebre in continuazione. «Non lo so. Insomma io… io non ho mai… però credo che, come diceva lei, tutti hanno un punto di rottura, non lo so…»
Annuii e presi mentalmente nota. «Magari ne vuoi una diversa?» chiese Cassie, guardando la pizza. «Per me la migliore resta quella con prosciutto e ananas, però di là ce n'è una tosta… salame piccante e salsiccia.»
«Cosa? Ma… no. No, grazie. Chi c'è…?» Aspettammo, masticando. «Chi c'è di là? Posso… posso chiederlo?»
«Certo» risposi. «C'è Mark. Abbiamo già mandato a casa Sean e il dottor Hunt, ma Mark non possiamo ancora lasciarlo andare.»
A mano a mano che elaborava le informazioni e le relative implicazioni, Damien mostrava un pallore sempre più accentuato. «E perché?» chiese debolmente.
«Questo non posso dirtelo» rispose Cassie, prendendo un altro pezzo di pizza. «Mi dispiace.» Gli occhi di Damien rimbalzarono, disorientati, dalle sue mani al suo viso, poi al mio.
«Quello che posso dirti, però» dissi, muovendo verso di lui il pezzo di crosta di pizza che avevo in mano, «è che questo è un caso davvero molto serio. Ho visto molta brutta roba nella mia carriera, Damien, ma questo… Non c'è peggior crimine al mondo che uccidere un bambino, in questo caso una bambina. Una vita spezzata per sempre, l'intera comunità gettata nel terrore. I suoi amici non supereranno mai lo shock, la sua famiglia ne sarà devastata…»
«A pezzi» rincarò Cassie, con la bocca piena. Damien deglutì, abbassò lo sguardo sulla 7-Up come se l'avesse dimenticata e si mise ad armeggiare con la linguetta.
«Chiunque abbia fatto una cosa del genere…» Scossi la testa. «Non so proprio come possa andare avanti senza fare i conti con se stesso.»
«Occhio al pomodoro» mi disse Cassie, passandosi un dito sull'angolo della bocca. «Insomma, non ti posso proprio portare da nessuna parte.»
Finimmo quasi tutta la pizza. Non mi andava, persino l'odore, grasso e penetrante, era troppo per me, ma la messinscena aveva messo Damien sempre più in agitazione. Alla fine accettò uno spicchio e se ne stette lì tapino a mordicchiare i pezzetti d'ananas, voltando la testa da Cassie a me e di nuovo a lei, come se stesse seguendo una partita di tennis troppo da vicino. Rivolsi un pensiero a Sam: era improbabile che salame piccante e mozzarella doppia potessero destabilizzare allo stesso modo anche Mark.
Mi vibrò il cellulare nella tasca. Controllai il display: Sophie. Uscii nel corridoio. Dietro di me, Cassie dichiarò: «Il detective Ryan lascia la stanza dell'interrogatorio».
«Ciao, Sophie» dissi.
«Ehi… un aggiornamento: nessun segno di scasso sulla serratura. Non è stata forzata. E la cazzuola è effettivamente lo strumento dello stupro. Sembra che sia stata lavata, ma ci sono tracce di sangue nelle crepe del manico. C'è anche un bel po' di sangue su una delle incerate. Stiamo ancora controllando i guanti e i sacchetti di plastica, ma mi sa che a ottant'anni saremo ancora qui. Sotto le incerate abbiamo trovato una torcia. È piena di impronte, ma sono tutte piccole e la torcia ha dei disegni di Hello Kitty, quindi immagino che appartenesse alla vittima, e che sia lo stesso per le impronte. Da voi come va?»
«Stiamo ancora lavorando su Hanly e Donnelly. Callaghan e Hunt sono fuori.»
«E me lo dici adesso? Cristo santo, Rob, abbiamo perso un sacco di tempo a esaminare l'auto di Hunt. Niente, ovviamente. E non ci sono tracce di sangue neppure nella macchina di Hanly. Milioni di capelli, fibre… Se anche ha trasportato la vittima di certo non si è dato la pena di ripulire e quindi può anche darsi che salti fuori qualcosa. In verità dubito che abbia mai pulito la macchina in generale. Se mai dovesse trovarsi a corto di siti archeologici, potrebbe sempre dedicarsi a esplorare sotto i suoi sedili anteriori.»
Mi richiusi la porta alle spalle, dissi rivolto alla telecamera: «Il detective Ryan rientra nella stanza dell'interrogatorio» e mi misi a sgomberare gli avanzi della pizza. «Era la Scientifica» comunicai a Cassie. «Hanno confermato che le prove corrispondono esattamente a quello che ci aspettavamo. Damien, ne vuoi ancora di questa?» chiesi, rimettendo nella scatola per buttarla la fetta di pizza senza ananas prima ancora che potesse rispondere.
«Ottimo» commentò Cassie, prendendo un tovagliolo di carta e dando una rapida pulita al tavolo. «Damien, hai bisogno di qualcosa prima che ci rimettiamo al lavoro?»
Damien la fissò, come per capire, poi scosse la testa.
«Bene» dissi, spingendo in un angolo il cartone della pizza e prendendo una sedia. «Cominciamo con il metterti al corrente di alcune delle cose che abbiamo scoperto oggi. Hai idea del perché vi abbiamo portato qui, voi quattro?»
«Per quella ragazzina» rispose lui, debolmente. «Katy Devlin.»
«Be', sì, certo. Ma ti sei chiesto perché abbiamo convocato solo voi quattro? E non il resto della squadra?»
«Avete detto…» Damien fece un gesto verso Cassie con la lattina di 7-Up. La teneva con tutte e due le mani, come se temesse che potessi togliergli anche quella. «Avete chiesto delle chiavi. Chi aveva le chiavi delle baracche.»
«Tombola» disse Cassie, annuendo convinta. «Ben detto.»
«Avete…?» Inghiottì. «Avete… trovato qualcosa in una delle baracche?»
«Proprio così» dissi. «In realtà abbiamo trovato qualcosa in due baracche, ma ci sei andato vicino. Non posso entrare nel dettaglio, naturalmente, ma il succo è questo: abbiamo le prove che Katy è stata uccisa nella baracca dei reperti la notte di lunedì e che il cadavere è rimasto nascosto in quella degli attrezzi per tutta la giornata di martedì. Nessuna delle serrature è stata forzata. Cosa significa secondo te?»
«Che ne so» disse Damien, dopo una pausa.
«Significa che cerchiamo qualcuno che aveva le chiavi. Ovvero Mark, il dottor Hunt e tu. E Hunt ha un alibi.»
Damien sollevò una mano, come fosse a scuola. «Ma… anch'io. Voglio dire, ho un alibi.»
Ci guardò speranzoso, ma entrambi stavamo scuotendo la testa. «Mi dispiace» disse Cassie. «Tua madre dormiva nelle ore che ci interessano. Non può coprirti. E comunque…» Si strinse nelle spalle e sorrise. «Voglio dire, sono sicura che la tua mamma è sincera ma, di solito, una mamma direbbe qualsiasi cosa pur di tenere il suo bambino fuori dai guai. Che il Signore le benedica per questo, ma significa anche che non possiamo fidarci di loro su una questione di questa gravità.»
«Mark ha lo stesso problema» aggiunsi. «Mel dice che era con lui, ma è la sua ragazza e le fidanzate non sono molto più affidabili delle madri. Un po' di più, ma non tanto. E quindi eccoci ancora qui.»
«E se hai qualcosa da dirci» aggiunse Cassie, incoraggiante, «questo è il momento.»
Silenzio. Bevve un sorso della sua 7-Up e ci guardò, tutto occhi azzurri trasparenti e sconcerto. Scosse la testa.
«Okay» dissi. «D'accordo. Voglio farti vedere una cosa, Damien.» Sfogliai con aria seria il dossier che avevo davanti. Gli occhi di Damien seguivano la mia mano, apprensivi. Tirai fuori una serie di fotografie e gliele misi davanti, a una a una, guardandole prima di appoggiarle, facendolo aspettare un po' ogni volta.
«Katy e le sue sorelle, Natale dell'anno scorso» dissi. Albero di Natale finto addobbato con lucine rosse e verdi. Rosalind nel mezzo, con un vestito di velluto blu. Rivolgeva un sorriso sbarazzino alla macchina fotografica e circondava con le braccia le gemelle. Katy rideva e si indicava la giacca bianca di finto montone che aveva addosso; Jessica, con un sorriso più incerto, quella che aveva lei, simile ma di colore beige, riflesso di uno specchio crudele e inquietante. Inconsciamente, Damien ricambiò il sorriso della foto.
«Katy a un picnic di famiglia, due mesi fa.» Istantanea con prato verde e panini.
«Sembra felice, no?» domandò Cassie, seduta accanto a me. «Stava per partire per la scuola di ballo, stava per cominciare una nuova vita… è bello sapere che era felice prima che…»
Una delle Polaroid della scena del delitto: un'immagine a figura intera di lei rannicchiata sulla pietra cerimoniale. «Katy subito dopo il ritrovamento. Te ne ricordi?» Damien si agitò sulla sedia e, accortosi, si immobilizzò immediatamente.
Un'altra foto della scena del delitto, un primo piano: sangue rappreso sul naso e sulla bocca, un occhio semiaperto. «Ancora Katy, dove l'aveva messa il suo assassino.»
Una foto del cadavere. «Katy, il giorno dopo». Damien smise di respirare. Avevamo scelto la foto più crudele che avevamo: la faccia era ripiegata su se stessa perché fosse visibile il teschio. Una mano guantata teneva un righello di metallo vicino alla frattura sopra l'orecchio. Ciocche di capelli e frammenti di osso.
«Non è facile da guardare, vero?» disse Cassie, quasi parlando tra sé. Passò le dita sulle foto, sul primo piano della scena del delitto, accarezzando la curva della guancia di Katy. Sollevò lo sguardo su Damien.
«Già» mormorò lui.
«Vedi» dissi, appoggiandomi allo schienale della sedia e tamburellando sulla foto del cadavere, «per me solo un pazzo criminale poteva fare una cosa simile a una ragazzina. Un animale senza coscienza che si eccita all'idea di fare del male alla persona più indifesa che riesce a trovare. Ma io sono solo un detective. La mia collega Maddox, invece, è un detective che ha studiato psicologia. Sai cos'è un profiler, Damien?»
Scosse impercettibilmente la testa. Aveva gli occhi ancora inchiodati alle fotografie, ma non dava l'impressione di vederle.
«È una persona che studia quale tipo di individuo può commettere quale crimine e dice alla polizia chi cercare. Il detective Maddox è il nostro profiler e ha una sua teoria sulla persona che ha commesso questo omicidio.»
«Damien» intervenne Cassie, «voglio rivelarti una cosa. L'ho detto subito, fin dal primo giorno, che questa cosa era stata commessa da qualcuno che non aveva intenzione di commetterla. Una persona che non è violenta, non è un assassino, non si è divertito a farle del male. Qualcuno che l'ha fatto perché doveva farlo. Non aveva altra scelta. L'ho detto fin dal primo momento e lo confermo.»
«È vero, è così» dissi. «Tutti le dicevamo che era fuori di testa, ma lei non ha mai mollato: per lei non era un pazzo, né un serial killer e nemmeno un violentatore di bambini.» Damien trasalì, un rapido guizzo del mento. «Tu cosa pensi, Damien? Bisogna essere un bastardo malato per fare una cosa del genere, o pensi che possa succedere anche a una persona normale che non vorrebbe fare del male a nessuno?»
Tentò una scrollata di spalle, ma era troppo teso e il risultato fu uno spasmo grottesco. Mi alzai e girai intorno al tavolo, lentamente, per appoggiarmi alla parete dietro di lui. «Be', non potremo mai essere sicuri che sia l'una o l'altra cosa, a meno che non sia lui a dircelo. Ma immaginiamo per un momento che il detective Maddox abbia visto giusto. Dopotutto, ha studiato psicologia. Ammettiamo che abbia ragione. Diciamo che il colpevole non è un tipo violento, che non è un assassino per temperamento. Ma è successo.»
Damien, che aveva trattenuto il respiro, lo fece uscire e respirò di nuovo, con un lieve spasmo.
«Ne ho incontrata di gente così. Sai cosa gli succede, poi? Schiantano di botto, Damien. Non riescono a convivere con se stessi. L'abbiamo visto succedere un mare di volte.»
«E non è un bello spettacolo» aggiunse Cassie. «Sappiamo quello che è successo, e anche lui sa che lo sappiamo, ma ha paura di confessare. Crede che andare in galera sia la cosa peggiore che gli può capitare. Dio, come si sbaglia. Ogni giorno, per il resto della vita, si sveglierà la mattina e questa cosa gli precipiterà addosso come se fosse successa il giorno prima. La notte avrà paura di addormentarsi per gli incubi. Continuerà a pensare che andrà meglio, ma non succederà.»
«E prima o poi» dissi, da dietro, «crolla e passa gli ultimi anni in una cella imbottita, in pigiama e pieno di calmanti fino agli occhi. Oppure una sera lega una corda a una ringhiera e s'impicca. Accade più spesso di quanto tu creda, Damien, di non riuscire ad affrontare neanche un altro giorno.»
Tutte balle, ovviamente. Delle decine di assassini mai condannati che potrei nominarvi soltanto uno si è ucciso, e aveva un passato di malattia mentale mai curata, tanto per cominciare. Gli altri vivono più o meno esattamente come prima, vanno al lavoro e poi al pub, portano i figli allo zoo, e se di tanto in tanto hanno un ripensamento lo tengono per sé. Gli esseri umani, come so bene io più di altri, si abituano a tutto. Con il tempo, anche l'impensabile si ricava un piccolo spazio nella mente e diventa semplicemente un fatto accaduto. Ma Katy era morta soltanto da un mese e Damien questa cosa non aveva ancora avuto il tempo di capirla. Era rigido sulla sedia, con lo sguardo abbassato sulla lattina di 7-Up e il respiro faticoso.
«Sai chi sopravvive, Damien?» chiese Cassie. Si chinò sul tavolo e posò la punta delle dita sul suo braccio. «Quelli che confessano. Quelli che scontano la pena. Sette anni dopo, o quello che è, è finita. Escono di galera e possono ricominciare. Non sono più costretti a rivedere il viso della loro vittima ogni giorno, anche quando hanno gli occhi chiusi. Non passano ogni attimo della loro vita nel terrore che possa essere quello il giorno in cui verranno presi. Non devono sobbalzare dalla paura ogni volta che vedono un agente o sentono bussare alla porta. Credimi, alla lunga sono loro quelli che se la cavano.»
Damien stringeva la lattina così forte che questa, con un crac, alla fine cedette. Sobbalzammo tutti.
«Damien» chiesi, a voce molto bassa, «ti sembra di riconoscere le sensazioni di cui parlo?»
Ed eccolo, quello sciogliersi alla base del collo, quell'ondeggiare della testa quando la spina dorsale si piega. Dopo un tempo che parve infinito, Damien annuì, quasi impercettibilmente.
«Vuoi vivere così per il resto della tua vita?»
Mosse la testa, a scatti irregolari, da un lato all'altro.
Cassie gli dette un'ultima piccola pacca sul braccio e tolse la mano. Non doveva esserci nulla che potesse somigliare a coercizione. «Non volevi uccidere Katy, vero?» gli domandò. Dolce, dolcissima, la voce che cadeva nella stanza soffice come neve. «È successo.»
«Sì» sussurrò. Fu quasi solo un sospiro, ma lo sentii. Ero così concentrato che avrei sentito battere il suo cuore. «È successo.»
Per un attimo, la stanza parve piegarsi su se stessa, come se un'esplosione troppo grande per essere sentita avesse risucchiato tutta l'aria. Nessuno riusciva a muoversi. Le mani di Damien diventarono molli e abbandonarono la presa sulla lattina che cadde sul tavolo con un rumore sordo, traballò brevemente e giacque immobile. La luce della lampadina striava i suoi riccioli dandogli una sfumatura bronzo pallido. La stanza respirò di nuovo. Un respiro lento, profondo, pieno.
«Damien James Donnelly» dissi. Non feci il giro del tavolo per mettermi di fronte a lui. Non ero sicuro che le gambe mi avrebbero retto. «Ti dichiaro in arresto con il sospetto di aver, il giorno 17 agosto di quest'anno, a Knocknaree, nella Contea di Dublino, ucciso Katharine Siobhan Devlin, in violazione della legge.»
Damien non smetteva più di tremare. Portammo via le foto e gli porgemmo una tazza di tè caldo, offrendoci di trovargli un altro maglione e di riscaldargli la pizza avanzata, ma lui scosse la testa senza guardarci. Tutta la scena mi sembrava incredibilmente irreale. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Avevo scandagliato spietatamente la mia memoria alla ricerca di ogni ricordo, ero entrato nel bosco di Knocknaree, avevo messo a repentaglio la mia carriera e adesso rischiavo di perdere la mia collega preferita, tutto a causa di quel ragazzino. Avrei voluto toccarlo per essere sicuro che fosse reale.
Cassie compilò insieme a lui i moduli sui diritti, con calma e dolcezza, come se si trattasse della vittima di un brutto incidente. Io me ne stavo in disparte e trattenevo il respiro. Ma non chiese un avvocato. «A che serve? Sono stato io, voi lo sapevate già e adesso lo sapranno tutti. Cosa potrà fare un avvocato… vado in galera, no? Ci vado in galera, no?» Gli battevano i denti. Aveva bisogno di qualcosa di molto più forte di un tè.
«Adesso non preoccuparti di questo, va bene?» disse Cassie con tono tranquillizzante. Mi sembrò un suggerimento piuttosto paradossale, in quella situazione, ma parve calmare un po' Damien. Annuì, perfino. «Tu adesso continua a darci una mano e noi faremo tutto il possibile per aiutare te.»
«Io non… come hai detto tu, non volevo fare del male a nessuno, lo giuro su Dio.» Aveva gli occhi fissi in quelli di Cassie, come se la sua vita dipendesse da lei, dal fatto che lei gli credesse. «Lo dirai? Lo dirai al giudice? Non… non sono un pazzo o un serial killer o… non sono uno così. Non volevo farle del male, lo giuro, lo giuro su… su…»
«Shhh… Lo so.» Cassie aveva di nuovo messo la mano su quella del ragazzo e con il pollice gli strofinava il polso, per calmarlo. «Shhh, Damien. Andrà tutto bene. Il peggio è passato. Adesso ci devi solo dire cosa è successo, con parole tue. Riesci a farlo per me?»
Dopo un paio di respiri profondi, Damien annuì coraggiosamente. «Bravo» disse Cassie e sembrò quasi che volesse accarezzarlo sulla testa, dargli il biscotto premio.
«Abbiamo bisogno di sapere esattamente com'è andata, Damien» dissi, avvicinandomi con la sedia, «passo passo. Com'è cominciata?»
«Come?» chiese lui dopo un momento. Sembrava stordito. «Io… cosa?»
«Hai detto che non volevi farle del male. E allora com'è successo?»
«Io non… voglio dire che non lo so. Non mi ricordo. Posso raccontarvi solo… di quella notte?»
Io e Cassie ci scambiammo un'occhiata. «Okay» concessi. «Inizia da quando hai finito di lavorare, lunedì sera. Cosa hai fatto?» C'era qualcosa di strano. Non era possibile che la memoria lo tradisse così a comando. Ma se lo forzavamo adesso poteva anche chiudersi nel mutismo o cambiare idea circa la presenza di un avvocato.
«Sì.» Damien inspirò di nuovo a fondo e si mise a sedere dritto, con le mani strette tra le ginocchia, come uno studente agli esami. «Ho preso l'autobus per andare a casa. Ho cenato con mia madre e poi abbiamo giocato un po' a Scarabeo. Le piace molto giocare a Scarabeo. Mia madre… non sta bene, ha problemi di cuore. È andata a letto alle dieci, come sempre. Io… mah, sono andato in camera mia e ci sono rimasto fino a quando non si è addormentata. Russa, quindi… ho cercato di leggere e cose così ma non ci riuscivo, non riuscivo a concentrarmi, ero un po'…» Batteva di nuovo i denti.
«Calmo, calmo» disse dolcemente Cassie. «Adesso è tutto finito. Stai facendo la cosa giusta.»
Lui fece un breve respiro sincopato e annuì.
«A che ora sei uscito di casa?» chiesi.
«Mah, saranno state le undici. Sono andato a piedi allo scavo. Non è molto distante da casa mia, solo qualche chilometro. Con l'autobus ci si mette una vita perché va in città e poi torna indietro. Io ci sono andato tagliando parecchio, così non dovevo passare davanti alla zona residenziale. Ma non potevo non passare davanti al cottage, e il cane mi conosce. Quando si è alzato gli ho detto: "Buono, Laddie, bel cagnone" e lui ha smesso di abbaiare. Era buio ma avevo una torcia. Sono andato nella baracca degli attrezzi e ho preso un paio di… di guanti, e me li sono messi. Poi ho preso una…» Deglutì faticosamente la saliva. «… una grossa pietra. Da terra, dal bordo dello scavo. E sono andato nella baracca dei reperti.»
«Che ore erano?» chiesi.
«Più o meno mezzanotte.»
«Quando è arrivata Katy?»
«Doveva arrivare…» Sbatté le palpebre, ebbe uno scatto con la testa. «Doveva arrivare all'una, ma era in anticipo. L'una meno un quarto? Quando ha bussato alla porta mi è quasi venuto un colpo.»
Lei, lo aveva spaventato lei. Gli avrei dato un pugno. «E l'hai fatta entrare.»
«Sì. Aveva in mano due biscotti al cioccolato, credo li avesse presi uscendo da casa. Me ne ha offerto uno ma non potevo… insomma, non sono riuscito a mangiarlo. L'ho messo in tasca. Lei ha mangiato il suo e si è messa a raccontarmi della scuola di ballo e cose così, per un paio di minuti. E poi le ho detto… le ho detto… le ho detto: "Guarda lì sulla mensola" e lei si è voltata. Allora l'ho… l'ho colpita. Con la pietra, sulla nuca. L'ho colpita.»
Nella sua voce c'era una nota stridula d'incredulità. Aveva le pupille talmente dilatate che gli occhi gli erano diventati neri.
«Quante volte?» chiesi.
«Io non… io… Oh, Dio… devo fare anche questo? Voglio dire, vi ho detto che l'ho fatto, non potete solo… insomma…» Si aggrappava con le unghie al bordo del tavolo.
«Damien» disse Cassie, con dolcezza ma anche con grande decisione, «è necessario che tu ci dia tutti i dettagli.»
«Okay, okay.» Si passò goffamente la mano sulla bocca. «L'ho colpita solo una volta, ma credo non abbastanza forte, perché è come inciampata ed è caduta in avanti, ma era ancora… si è girata e ha aperto la bocca come per gridare, allora io… l'ho afferrata. Insomma, avevo paura, ero terrorizzato e se avesse urlato…» Stava praticamente farfugliando. «Le ho messo una mano sulla bocca e ho cercato di colpirla di nuovo, ma lei metteva in mezzo le mani e mi graffiava e mi dava dei calci… Eravamo per terra e non riuscivo nemmeno a vedere bene cosa stava succedendo perché la torcia era rimasta sul tavolo, non avevo acceso la luce. Cercavo di tenerla giù ma lei tentava di raggiungere la porta, continuava ad agitarsi, era molto forte… non immaginavo fosse tanto forte a vederla così…»
La voce gli si spense e rimase a fissare il tavolo. Respirava con il naso, respiri veloci, brevi, aspri.
«Così piccola» completai, inespressivo.
Damien spalancò la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Era diventato di un terribile bianco verdastro, con le lentiggini che spiccavano come in un altorilievo.
«Possiamo fare una pausa, se ne hai bisogno» disse Cassie. «Ma prima o poi dovrai dirci il resto della storia.»
Scosse la testa con violenza. «No. Non voglio una pausa. Voglio solo… sto bene.»
«Bene, allora continuiamo» feci io. «Le avevi messo una mano davanti alla bocca e lei si divincolava.» Cassie ebbe un piccolo scatto che riuscì a controllare solo in parte.
«Sì, okay.» Damien si strinse la braccia intorno al corpo, le mani sepolte nelle maniche del maglione. «Poi lei si è girata sulla pancia e si è messa a strisciare verso la porta e io… l'ho colpita di nuovo. Con la pietra. Sulla testa, di lato. Questa volta più forte, credo… forse per l'adrenalina o qualcosa del genere. A quel punto è crollata. Ha perso i sensi. Però respirava, respirava molto forte, sembravano gemiti. Sapevo che avrei dovuto colpirla di nuovo, ma non ci sono riuscito. Non ho…» Adesso sembrava vicino all'iperventilazione. «Io non volevo… farle… del male.»
«E allora cos'hai fatto?»
«C'erano dei… dei sacchetti di plastica, sulle mensole. Per i reperti. Allora ne ho preso uno e… e gliel'ho messo sulla testa e l'ho tenuto chiuso fino a quando…»
«Fino a quando, cosa?» chiesi.
«Fino a quando non ha smesso di respirare» disse Damien alla fine, pianissimo.
Ci fu un lungo silenzio, rotto solo dal vento che fischiava nel condotto dell'aerazione e dal rumore della pioggia.
«E poi?»
«Poi…» La testa di Damien vacillò leggermente. Lo sguardo era quello di un cieco. «Poi l'ho presa in braccio. Non la potevo lasciare nel capanno degli attrezzi, altrimenti gli altri se ne sarebbero accorti. Volevo portarla fuori, nel sito. Era… c'era sangue dappertutto, credo per via dei colpi che le avevo dato. Le ho lasciato in testa il sacchetto di plastica perché non perdesse altro sangue. Ma quando sono andato verso il sito c'era una luce. Tipo un fuoco, o qualcosa del genere. C'era qualcuno. Mi sono spaventato. Ero così spaventato che non riuscivo quasi a stare in piedi. Ho pensato di mollarla lì… e se qualcuno mi vedeva?» Sollevò i palmi delle mani verso di noi, come a chiedere aiuto, la voce spezzata. «Non sapevo cosa farci, con lei.»
Non aveva ancora parlato della cazzuola. «E allora cosa hai fatto?» chiesi.
«L'ho riportata verso le baracche. In quella degli attrezzi ci sono delle incerate che dovremmo usare per coprire le parti delicate del sito quando piove, ma non ne abbiamo bisogno quasi mai. L'ho avvolta in una di quelle, così… insomma non volevo che… gli insetti…» Deglutì. «E poi l'ho messa sotto le altre incerate. Forse avrei potuto lasciarla semplicemente in uno dei campi di scavo ma… ci sono le volpi… e i topi… e potevano passare giorni prima che qualcuno la trovasse, e non volevo… gettarla via… non riuscivo a ragionare bene. Ho pensato che magari il giorno dopo, la sera dopo, avrei saputo cosa fare…»
«E poi sei tornato a casa?»
«No, io… prima ho pulito la baracca degli attrezzi. Il sangue. Era dappertutto, sul pavimento, sui gradini, e mi sporcava i guanti, i piedi e… ho riempito un secchio d'acqua con il tubo di gomma e ho cercato di lavare. Era… si sentiva l'odore… ogni tanto mi dovevo fermare perché mi veniva da vomitare.»
Aveva l'aria, lo giuro, di uno che si aspettasse solidarietà. «Dev'essere stato orribile» disse Cassie, comprensiva.
«Già. Mio Dio, sì.» Damien rivolse lo sguardo verso di lei, pieno di gratitudine. «Mi sembrava di essere lì da un'eternità, continuavo a pensare che era quasi giorno e che i ragazzi sarebbero potuti arrivare da un momento all'altro. Dovevo sbrigarmi, fare presto. A tratti mi sembrava che fosse tutto un incubo e che mi sarei svegliato. Mi girava la testa… non riuscivo a vedere quello che stavo facendo. Avevo la torcia, ma la tenevo quasi sempre spenta per paura che mi vedessero… pensavo che quelli nel bosco potevano venire a vedere… era tutto buio e c'era quel sangue, dappertutto, e tutte le volte che sentivo un rumore pensavo che sarei morto, che sarei morto stecchito… E fuori c'erano di continuo quei… quei rumori, come di qualcosa che raspava sulle pareti della baracca. A un certo punto mi è sembrato quasi di sentire il rumore di qualcuno che annusava, dietro la porta… per un attimo ho pensato che poteva essere Laddie, ma lo tengono alla catena, di notte, e… Oh, Dio, è stato…» Scosse la testa, frastornato.
«Ma alla fine sei riuscito a pulire tutto» dissi.
«Sì, credo di sì. Tutto quello che ho potuto. Più di così non… non ci riuscivo, capite? Ho messo la pietra sotto le incerate, insieme alla torcia piccola, quella che si era portata dietro lei. Per un attimo… quando ho sollevato le incerate, le ombre hanno fatto un gioco strano e l'ho guardata, e sembrava… sembrava che si muovesse. Dio…»
Aveva di nuovo un colorito verdastro. «Quindi hai lasciato la pietra e la sua torcia nella baracca degli attrezzi» dissi. Anche questa volta non aveva fatto parola della cazzuola. La cosa non mi dava fastidio, contrariamente a quello che potreste pensare: in quella fase, qualsiasi sua omissione poteva poi diventare un'arma che potevamo usare noi a tempo debito.
«Già. Ho lavato i guanti e li ho rimessi nella sacca. Poi ho chiuso le baracche e… me ne sono tornato a casa a piedi.»
Silenziosamente e senza freni, come se aspettasse di farlo da molto tempo, Damien si mise a piangere.
Pianse a lungo e con troppa violenza per riuscire a rispondere ad altre domande. Cassie rimase seduta accanto a lui, accarezzandogli il braccio, mormorando parole consolatorie e passandogli fazzolettini di carta. Dopo un po' incrociai il suo sguardo, sopra la testa del ragazzo. Annuì. Li lasciai e andai a cercare O'Kelly.
«Quel ragazzino cocco di mamma?» si stupì e le sopracciglia gli si sollevarono di scatto. «Be', ma pensa tu, cazzo, proprio non me l'aspettavo. Non credevo che potesse avere le palle per farlo. Avevo scommesso su Hanly. È andato via proprio adesso. Ha detto a O'Neill di mettersi le sue domande su per il buco del culo ed è uscito dalla stanza infuriato. Per fortuna Donnelly non ha fatto la stessa cosa. Preparo il dossier per il procuratore.»
«Ci servirà il dettaglio delle sue telefonate e dei movimenti di denaro» dissi, «e dovremo interrogare gli altri archeologi per conferma, i colleghi d'università, i compagni di scuola, chiunque lo conoscesse bene. Il movente non è chiaro.»
«E chi se ne frega del movente?» sbottò O'Kelly, ma la sua irritazione non corrispondeva esattamente al suo stato d'animo: in realtà era felicissimo. Avrei dovuto esserlo anch'io, ma, non so perché, non era così. Quando avevo sognato di risolvere il caso, la mia immagine mentale non era mai stata quella. La scena nella stanza degli interrogatori, che avrebbe dovuto rappresentare il più grande trionfo della mia carriera, mi era sembrata misera e tardiva.
«In questo caso» obiettai, «me ne frega.» O'Kelly aveva tecnicamente ragione. Se si riusciva a provare che il ragazzo aveva commesso il crimine, non era necessario spiegare anche il perché. Ma le giurie, a furia di guardare la televisione, pretendono anche un movente. E questa volta lo pretendevo anch'io. «Un crimine brutale come questo, per mano di un ragazzino che non ha per niente l'aria dell'assassino… la difesa chiederà sicuramente l'infermità mentale. Se troviamo un movente, sarà fuori discussione.»
O'Kelly sbuffò. «D'accordo. Dirò ai ragazzi di lavorarci. Adesso torna là dentro e vedi di blindare il caso. E, Ryan…» aggiunse riluttante, mentre mi voltavo per andare, «avete fatto un gran bel lavoro. Tutti e due.»
Cassie era riuscita a calmare Damien. Tremava ancora leggermente e continuava a soffiarsi il naso, ma non singhiozzava più. «Ti va se continuiamo?» gli chiese, stringendogli la mano tra le sue. «Ci siamo quasi, okay? Sei bravissimo.» Per un attimo sul viso di Damien apparve qualcosa di simile a un patetico sorriso.
«Sì» rispose. «Mi dispiace se… mi dispiace. Adesso va meglio.»
«Non ti preoccupare. Quando hai bisogno di un'altra pausa basta che me lo dici.»
«Bene» dissi. «Siamo arrivati al punto in cui sei tornato a casa. Parliamo adesso del giorno seguente.»
«Ah… sì. Il giorno seguente.» Damien fece un lungo respiro, rassegnato e tremante. «Quel giorno è stato un vero e proprio incubo. Ero così stanco che non riuscivo nemmeno a vedere dove mettevo i piedi. Tutte le volte che qualcuno entrava nella baracca degli attrezzi avevo paura di svenire. E dovevo anche comportarmi normalmente, ridere alle battute e far finta che non fosse accaduto nulla mentre invece continuavo a pensare… a pensare a lei… E poi anche quella sera ho dovuto fare la stessa cosa, aspettare che mia madre si addormentasse, sgattaiolare fuori e tornare a piedi allo scavo. Se ci fosse stata ancora quella luce nel bosco, non so dire che cosa avrei fatto. Ma non c'era.»
«Quindi sei tornato nella baracca degli attrezzi» dissi.
«Sì. Mi sono rimesso i guanti e l'ho… l'ho tirata fuori. Era… pensavo che sarebbe stata rigida, credevo che i cadaveri diventassero rigidi, ma lei…» Si morse il labbro. «Lei non lo era. Però era fredda. Era… non riuscivo a toccarla…» Rabbrividì.
«Però hai dovuto farlo.»
Damien annuì e si soffiò di nuovo il naso. «L'ho portata fuori dalla baracca, fino al sito, e l'ho messa sull'altare di pietra. Lì sarebbe stata al riparo, dai ratti e roba così. E lì qualcuno l'avrebbe trovata prima che… Ho cercato di metterla in una posizione che la facesse sembrare addormentata. Non so perché. Ho buttato via la pietra, ho lavato il sacchetto di plastica e l'ho rimesso dov'era, ma non sono riuscito a trovare la sua torcia, doveva essere da qualche parte tra le incerate e io… io volevo solo tornarmene a casa…»
«Perché non l'hai sepolta?» chiesi. «Lì sul sito?» Sarebbe stata la cosa più intelligente da fare, non che a quel punto avesse molta importanza.
Damien mi guardò con la bocca leggermente aperta. «Non mi è mai venuto in mente» rispose. «Volevo solo andarmene al più presto possibile. E poi… seppellirla, così? Come un sacco della spazzatura?»
E c'era voluto un mese intero per incastrare un tipo così. «Il giorno seguente» dissi, «hai fatto in modo di essere fra quelli che avrebbero potuto scoprire il corpo. Perché?»
«Ah, sì…» Fece un piccolo movimento compulsivo, qualcosa che assomigliava allo stringersi nelle spalle. «Avevo sentito dire… insomma, mi ero messo i guanti e quindi niente impronte, ma avevo sentito da qualche parte che se mi era caduto un capello su di lei, o un pelo del maglione o roba così, voi della polizia avreste potuto capire che ero stato io. Quindi dovevo essere io a trovarla… non volevo, Gesù, non volevo vederla ancora ma… Ho cercato tutto il giorno una scusa per portare lì tutto il gruppo ma avevo paura che la cosa potesse destare dei sospetti. Ero… non riuscivo a pensare con chiarezza. Volevo solo che fosse tutto finito. Ma poi Mark disse a Mel di andare a lavorare alla pietra.»
Sospirò stancamente. «E dopo… è stato più facile, in un certo senso, sapete? Almeno non dovevo fingere che andasse tutto bene.»
Ecco perché era stato così loquace quando lo avevamo interrogato la prima volta. Non abbastanza da metterci in allarme, però. Per essere la prima volta, se l'era cavata molto bene. «E quando abbiamo parlato con te…» cominciai, ma mi fermai immediatamente.
Cassie e io non ci guardammo, non muovemmo un muscolo, ma la consapevolezza ci colpì come la scarica di una recinzione elettrificata. Uno dei motivi per cui avevamo preso sul serio la storia di Jessica sull'Ombra in Tuta Sportiva era stato che Damien aveva messo la stessa persona praticamente sulla scena del crimine.
«Quando abbiamo parlato con te» dissi, dopo una piccola pausa, «ti sei inventato un tizio grande e grosso con la tuta per depistarci.»
«Sì.» Damien spostò con ansia lo sguardo dall'uno all'altro di noi. «Mi dispiace. Pensavo che…»
«L'interrogatorio è sospeso» disse Cassie e uscì. La seguii con una sensazione di disfatta nello stomaco, lasciandomi dietro come scia il flebile e apprensivo: «Aspettate… ma cosa…?» di Damien.
Per un qualche istinto comune non restammo nel corridoio e non tornammo nella sala operativa. Andammo nella stanza accanto, quella dove Sam aveva interrogato Mark. C'erano ancora dei resti sul tavolo: fazzolettini di carta usati, tazze di plastica, una macchia di liquido scuro dove qualcuno doveva aver dato un pugno o si era tirato indietro con la sedia.
«Avanti, dai!» disse Cassie, o qualcosa del genere, ansimando e ridendo. «Ce l'abbiamo fatta, Rob!» Lanciò il taccuino sul tavolo e mi gettò un braccio intorno alle spalle con un gesto veloce, allegro e spontaneo, ma che mi fece venire la pelle d'oca. Avevamo lavorato insieme con l'intesa perfetta di un tempo, lanciandoci la palla come se non fosse successo niente, ma era stato solo per Damien e perché il caso lo richiedeva. E non credevo fosse necessario spiegarlo a Cassie.
«Sì, sembra di sì» dissi.
«Quando finalmente l'ha detto… Dio, credo che la mascella mi sia caduta per terra! Stasera champagne, a qualsiasi ora finiamo, e anche parecchio!» Fece un respiro profondo, si appoggiò al tavolo e si passò le dita tra i capelli. «Forse dovresti andare a prendere Rosalind.»
Sentii le spalle irrigidirsi. «Perché?» chiesi con distacco.
«Io non le piaccio.»
«Sì, questo lo so. Ma perché dovremmo andare a prenderla?»
Cassie si fermò a metà di un gesto e mi guardò. «Rob, lei e Damien ci hanno dato esattamente la stessa falsa pista. Deve esserci un collegamento.»
«Veramente sono stati Jessica e Damien…»
«Pensi davvero che siano stati Damien e Jessica a tramare la cosa? Avanti, dai…»
«Penso che nessuno abbia tramato niente. Penso che Rosalind ne abbia passate più che abbastanza per una vita sola e che non c'è nessuna possibilità, neppure remota, che possa essere complice della morte della sorella, quindi non vedo il motivo di trascinarla qui e traumatizzarla ancora.»
Cassie si sedette sul tavolo e mi guardò. Aveva un'espressione negli occhi che non riuscivo a decifrare. «Credi davvero» chiese poi, «che il piccolo idiota abbia fatto tutto da solo?»
«Non lo so e non mi interessa» dissi, sentendo nella mia voce l'eco di quella di O'Kelly ma non potendoci fare nulla. «Forse Andrews o uno dei suoi amici l'ha pagato per farlo. Questo spiegherebbe perché schiva la faccenda del movente. Ha paura che possano prendersela con lui se li tradisce.»
«Sì, se non fosse che non abbiamo il minimo legame tra lui e Andrews.»
«Non ancora.»
«… mentre ne abbiamo uno tra lui e Rosalind.»
«Mi hai sentito? Ho detto non ancora. O'Kelly sta facendo esaminare le telefonate e i movimenti bancari. Quando ci darà i risultati vedremo cosa c'è e ripartiremo da lì.»
«Quando arriveranno i risultati Damien si sarà calmato e avrà trovato un avvocato, e Rosalind avrà letto dell'arresto sui giornali e sarà sulla difensiva. Andiamo a prenderla adesso e li mettiamo a confronto fino a quando non scopriamo cosa è successo.»
Pensai alla voce di Kiernan, o di McCabe, alla sensazione di vertigine che avrei provato quando le pastoie del mio cervello si fossero allentate, a me che galleggiavo in un cielo azzurro e infinitamente accogliente. «No» mi opposi, «non lo faremo. Quella ragazza è molto fragile, Maddox. È sensibile e provata, ha appena perso sua sorella e non sa neppure perché. E tu per tutta risposta vuoi metterla a confronto con l'assassino? Cristo, Cassie, abbiamo una responsabilità nei confronti di quella ragazza, dobbiamo proteggerla.»
«No, non è così Rob» disse freddamente Cassie. «Non è così. Quello è compito dell'unità di sostegno psicologico. Noi siamo responsabili per Katy, abbiamo la responsabilità di cercare e trovare la verità su quel che è successo, e basta. Qualsiasi altra cosa è secondaria.»
«E se Rosalind entra in depressione o ha un crollo nervoso per l'eccessiva tensione alla quale la sottoponiamo? Mi dirai che anche quello è un problema del servizio psicologico? Potremmo danneggiarla per tutta la vita, lo capisci? Fino a quando non avremo molto di più di una banale coincidenza, quella ragazza la lasceremo stare.»
«Banale coincidenza, dici?» Cassie si mise le mani in tasca con rabbia. «Rob, se si trattasse di chiunque altro che non fosse Rosalind Devlin, cosa faresti adesso?»
Sentii montare un'ondata di rabbia, una furia cieca, malvagia. «No, Maddox, no. Non ci provare nemmeno. Semmai è il contrario. Rosalind non ti è mai piaciuta, vero? Non hai fatto altro che cercare un motivo per andarle contro sin dal primo giorno e adesso che Damien ti ha fornito questo pallido fantasma di pretesto non vedi l'ora di gettartici sopra come un cane affamato su un osso. Mio Dio, quella povera ragazza me l'ha detto, che molte donne sono gelose di lei, ma non l'avrei mai pensato di te. Evidentemente mi sbagliavo.»
«Gelosa di… Gesù Cristo, Rob! Hai davvero una bella faccia tosta! Io non l'avrei mai pensato di te, che avresti lasciato andare un sospetto solo perché ti dispiace per lei, perché ti piace e perché ce l'hai con me per qualche strana ragione che non riesco a capire…»
Stava perdendo le staffe la cosa mi procurava un piacere perverso. La mia rabbia è fredda, controllata, articolata. Può mandare in pezzi un'esplosione a corta gittata come quella di Cassie in qualsiasi momento. «Sarebbe meglio che moderassi il tono della voce» dissi, «ti stai rendendo ridicola.»
«Ah, davvero? Sei tu che sei ridicolo e stai mettendo in imbarazzo tutta questa squadra del cazzo.» Si mise il taccuino in tasca con rabbia, sgualcendo le pagine. «Vado a prendere Rosalind Devlin…»
«No, tu non vai da nessuna parte. Cristo santo, comportati da detective, cazzo, e non da ragazzina isterica che si vuole vendicare.»
«Infatti, Rob, è quello che sto facendo. E tu e Damien potete fare quello che vi pare, potete anche mettervelo su per il culo a vicenda fino a crepare, per quello che me ne frega.»
«Be', questa sì che è una risposta. Molto professionale.»
«Ma che cazzo hai nella testa?» urlò Cassie. Si chiuse la porta alle spalle con un calcio e sentii l'eco propagarsi, profondo e sinistro, lungo il corridoio.
Le diedi tutto il tempo di andarsene e uscii a fumarmi una sigaretta. Damien poteva badare a se stesso ancora per un po', da bravo bambino. Iniziava a imbrunire e pioveva ancora, una pioggia spessa e apocalittica. Alzai il bavero della giacca e mi misi sulla soglia, stringendomi in una posizione scomoda per non bagnarmi. Le mani mi tremavano. Io e Cassie avevamo litigato molte volte, è ovvio. Due detective che lavorano insieme litigano anche ferocemente, come due fidanzati. Una volta, per una questione simile, cioè cosa fare con un sospetto, non ricordo bene, l'avevo fatta infuriare a tal punto che aveva dato una manata sul tavolo e si era slogata il polso. Non ci eravamo parlati per quasi due giorni. Ma questa volta era diverso, completamente diverso.
Buttai via la sigaretta, umidiccia e fumata solo per metà, e tornai dentro. Una parte di me avrebbe voluto abbandonare Damien al suo destino, tornarsene a casa, e lasciare che fosse Cassie a gestire la situazione al suo ritorno, quando non mi avrebbe trovato. Ma sapevo che non potevo permettermi quel lusso: dovevo trovare il movente, e dovevo riuscirci in tempo per evitare che Cassie facesse il terzo grado a Rosalind.
Damien aveva cominciato a rendersi conto di quello che era successo. Era in preda all'ansia, si mangiava le unghie e si tormentava le ginocchia, e continuava a farmi domande. E adesso cosa sarebbe successo? Sarebbe andato in prigione, no? Per quanto tempo? A sua madre sarebbe venuto un infarto, soffriva di cuore… La prigione è davvero pericolosa, come dicono in TV? Speravo, per il suo bene, che non guardasse i telefilm sulla vita nelle carceri.
Quando mi avvicinavo troppo al tema del movente, però, si chiudeva in se stesso. Si raggomitolava come un riccio, evitava il mio sguardo e sosteneva di aver perso la memoria. La litigata con Cassie mi aveva fatto perdere un po' il ritmo. Mi sembrava tutto strano, fuori fase e irritante, e per quanto ci provassi Damien non faceva altro che starsene seduto a fissare il tavolo e scuotere tristemente la testa.
«Va bene» dissi alla fine. «Allora vediamo di precisare qualcosa del tuo passato. Tuo padre è morto nove anni fa, vero?»
«Sì.» Damien sollevò lo sguardo, esitante. «Quasi dieci. Alla fine di ottobre sarà il decimo anniversario. Posso… quando finiamo qui, posso… uscire su cauzione?»
«La cauzione la decide solo il giudice. Tua madre lavora?»
«No. Soffre di… ve l'ho detto…» Fece un vago gesto indicandosi il petto. «Ha una pensione d'invalidità. E mio padre ci ha lasciato… Oh, Dio santo, mia madre!» Si alzò in piedi di scatto. «Sicuramente sarà fuori di sé… che ore sono?»
«Rilassati. Abbiamo già parlato con lei, sa che ci stai aiutando con le indagini. Anche se c'è il denaro che ha lasciato tuo padre, non dev'essere facile arrivare alla fine del mese.»
«Cosa?… Mah, ce la caviamo bene.»
«E comunque» aggiunsi, «se qualcuno ti offrisse un sacco di soldi per fare un certo lavoretto, saresti tentato di accettare, no?» Vaffanculo Sam e vaffanculo anche O'Kelly: se lo zio Redmond aveva pagato Damien, io dovevo saperlo adesso.
Le sopracciglia di Damien si congiunsero in un'espressione che sembrava di vera confusione. «Cosa?»
«Potrei nominarti parecchie persone che avrebbero un milione di ragioni per prendersela con la famiglia Devlin. Il punto è, Damien, che si tratta di gente che non sbriga da sola gli affari sporchi. È gente che paga altri.»
Feci una pausa per dare a Damien il tempo di dire qualcosa. Sembrava semplicemente stupefatto.
«Se hai paura di qualcuno» gli dissi, con il tono più gentile che mi riuscì, «possiamo proteggerti. E se qualcuno ti ha pagato per farlo, non sei tu il vero assassino, giusto? È lui.»
«Cosa… io non… cosa? Pensate che qualcuno mi abbia pagato per… per… Gesù! No!»
La bocca gli si spalancò in un espressione di sconvolta e genuina indignazione. «Ma allora, se non è stato per i soldi, perché?»
«Io non… ve l'ho detto, non lo so! Non me lo ricordo!»
Per un attimo molto spiacevole mi sfiorò il pensiero che potesse effettivamente aver perso un pezzo di memoria. E mi chiesi perché e come. Allontanai il pensiero. È una storia che sentiamo spesso, e avevo visto la sua espressione quando aveva omesso di parlare della cazzuola: l'aveva fatto deliberatamente. «Guarda, io sto facendo quello che posso per aiutarti» continuai, «ma non potrò continuare se non sarai completamente sincero con me.»
«Vi ho detto tutto! Non mi sento bene…»
«No, Damien, non è vero» lo contraddissi. «E adesso ti dico come lo so. Ti ricordi le foto che ti ho mostrato? Ti ricordi quella di Katy con la faccia staccata? È stata fatta dopo l'autopsia, Damien. E l'autopsia ci ha rivelato esattamente quello che hai fatto a quella ragazzina.»
«Ve l'ho già detto…»
Mi chinai sul tavolo, di scatto, avvicinandomi alla sua faccia. «E poi, Damien, stamattina abbiamo trovato la cazzuola, nella baracca degli attrezzi. Pensi davvero che siamo dei deficienti? Ecco quello che non ci hai detto: dopo aver ucciso Katy, le hai abbassato i pantaloni e la biancheria e l'hai penetrata con il manico della cazzuola.»
Damien si portò le mani ai lati della testa. «No… io non…»
«E vorresti dirmi che "è successo e basta"? Violentare una bambina con un attrezzo non è una cosa che "succede e basta", c'è sempre una ragione, una buona ragione, e adesso piantala di fare lo stronzo e dimmi qual è. A meno che tu non sia solo un maniaco da quattro soldi. È questo, Damien? Sei solo un maniaco?»
Ero stato troppo duro. Inevitabilmente, Damien, che tutto sommato aveva dovuto affrontare una giornata difficile, scoppiò a piangere di nuovo.
Restammo così a lungo, Damien con il volto tra le mani, che singhiozzava disperatamente e in modo convulso, io appoggiato alla parete che mi chiedevo che fare con lui. Di tanto in tanto, quando si fermava a prendere fiato, facevo un tentativo poco convinto di indagare sul movente. Non rispondeva mai. Non sono nemmeno sicuro che mi sentisse. Faceva troppo caldo nella stanza e si sentiva ancora l'odore della pizza, intenso e nauseante. Non riuscivo a concentrarmi. Continuavo a pensare a Cassie, a Cassie e a Rosalind. Aveva accettato di venire? Come stava? Cassie poteva bussare alla porta da un momento all'altro e metterla a confronto con Damien.
Alla fine rinunciai. Erano le otto e mezzo e non aveva senso: Damien ne aveva avuto più che abbastanza, nemmeno il miglior detective del mondo sarebbe riuscito a quel punto a tirargli fuori qualcosa di coerente, e sapevo che avrei dovuto accorgermene già da un po'. «Dai» gli dissi. «Adesso mangia qualcosa e riposati. Riprenderemo domani.»
Sollevò lo sguardo su di me. Aveva il naso rosso e gli occhi gonfi e mezzo chiusi. «Posso… posso andare a casa?»
"Ti hanno appena arrestato per omicidio, intelligentone, ma ti pare?" avrei voluto dirgli, ma non avevo abbastanza energia per essere sarcastico. «Dobbiamo trattenerti per stanotte» gli dissi. «Adesso chiamo qualcuno per accompagnarti.» Quando tirai fuori le manette, le guardò con genuino orrore, come fossero uno strumento medievale di tortura.
La porta della stanza d'osservazione era aperta. Passando, vidi O'Kelly in piedi davanti allo specchio, mani in tasca, che si dondolava avanti e indietro sui tacchi. Sentii un tuffo al cuore. Nella stanza degli interrogatori principale dovevano esserci Cassie e Rosalind. Per un attimo pensai di entrare, ma allontanai subito l'idea. Non volevo che Rosalind mi associasse in alcun modo a quel disastro. Consegnai agli agenti un Damien ancora stravolto e pallido come un cencio che faceva respiri lunghi come un bambino che avesse pianto troppo e me ne andai a casa.